I batteri che salvano il pianeta

Nell’immaginario collettivo i batteri sono indissolubilmente legati alle infezioni e quindi al concetto di malattia. In pochi sanno che in realtà solo una minima parte dei microrganismi appartenenti a questo regno sono dannosi per l’uomo.

Ma cosa c’entrano i batteri con la salvaguardia dell’ambiente?

Da diversi anni sono ormai note le grandi potenzialità di questi microrganismi, che si sono rivelati un ausilio fondamentale in diverse branche della scienza: dalla medicina alla biologia, dalla ricerca fino alle applicazioni pratiche innumerevoli.

Recentemente due diversi studi hanno dimostrato come alcune specie di batteri siano in grado di aiutarci nella risoluzione di due problematiche che da anni affliggono l’ecosistema terrestre: l’inquinamento causato dalla plastica e il riscaldamento globale.

Il problema ambientale inerente alla plastica è ormai noto a tutti: gli oggetti in plastica impiegano un tempo più o meno lungo a degradarsi nell’ambiente, causando danni consistenti a tutti gli ecosistemi.

Risale al 2016 la scoperta da parte di Shosuke Yoshida del Kyoto Institute of Technology del batterio Ideonella sakaiensis 201-F6, pubblicata sulla rivista Nature. Questo microrganismo produce due enzimi in particolare: PETase e MHETase, in grado di digerire il PET (polietilene tereftalato).

Questa molecola fa parte della categoria dei materiali plastici ed è usato in particolare per la produzione di bottiglie; si stima che una bottiglia di dimensioni medie impieghi circa 450 anni a degradarsi grazie a fenomeni naturali spontanei. Provate a moltiplicare questo tempo per la quantità enorme di bottiglie di plastica che produciamo ogni giorno: soltanto una parte di esse sarà riciclata, senza contare tutte quelle che sono state inadeguatamente smaltite in passato.

Tuttavia, servirebbe una quantità notevolmente elevata di batteri per degradare anche una sola bottiglia in PET. Far proliferare una mole così grande di batteri sarebbe un approccio svantaggioso in quanto troppo dispendioso.

Come possono dunque aiutarci questi microrganismi?

A questa domanda hanno provato a dare una risposta i ricercatori dell’Università di Greifswald e del Centro Helmholtz di Berlino; il loro studio si inserisce in un quadro più ampio di lavori britannici e statunitensi volti a identificare la struttura tridimensionale degli enzimi PETase e MHETase (figura in basso).

Conoscere la struttura 3D di queste due proteine è fondamentale, in quanto permette di capire esattamente come esse svolgano la loro funzione e di riprodurle in laboratorio con tecniche di biologia molecolare in quantità virtualmente illimitate.

Come se non bastasse, la conoscenza dettagliata delle reazioni biochimiche, che permettono la degradazione del PET, renderà possibile modificare la struttura degli enzimi per renderli ancora più efficienti.

Le implicazioni per il futuro sono estremamente interessanti: una volta “migliorati” in laboratorio, PETase e MHETase potranno essere impiegati per smaltire grandi quantità di PET nei suoi costituenti elementari (glicole etilenico e acido tereftalico). Questi, a loro volta, potranno essere riutilizzati per la sintesi di nuove molecole di PET in un ciclo virtualmente chiuso, senza danni per l’ambiente e più efficiente degli attuali sistemi di riciclaggio.

Il secondo argomento che affronteremo richiede un breve ripasso dei meccanismi alla base del riscaldamento globale.

L’effetto serra è un fenomeno naturale essenziale per lo sviluppo della vita sulla terra: i cosiddetti gas serra non sono altro che sostanze presenti nell’atmosfera che intrappolano parte delle radiazioni solari mantenendole all’interno dell’atmosfera stessa. In poche parole, questi gas permettono alle radiazioni di entrare nell’atmosfera, ma non di uscirne. Questo non è altro che un meccanismo di regolazione della temperatura della superficie terrestre.

Infatti, le radiazioni solari trasportano energia (dunque calore) attraversando i vari strati atmosferici per essere poi riflessi sulla superficie terrestre, come una pallina lanciata contro il muro che torna indietro.

Se non fossero presenti i gas serra, i raggi solari e la loro energia tornerebbero nuovamente nello spazio dopo aver “colpito” la superficie terrestre: la temperatura del globo sarebbe così bassa da non permettere lo sviluppo della vita.

Tuttavia, se la concentrazione di gas serra aumenta eccessivamente si osserva il fenomeno inverso: la temperatura della superficie terrestre si innalza, con tutte le conseguenze dannose che ne derivano. Esempi di gas serra sono il vapore acqueo (H2O), l’anidride carbonica (CO2), il protossido di azoto (N2O) e il metano (CH4). Questi gas sono sia di origine naturale, sia antropica, termine che indica la loro produzione in una serie di processi dei quali è responsabile l’uomo.

Ma come fa un organismo piccolo come un batterio a ridurre l’effetto serra?

Semplicemente metabolizzando i gas sopracitati, ovvero sottraendoli dall’ambiente per trasformarli in sostanze innocue.

Lo studio pubblicato da Boran Kartal e colleghi del Max-Planck Institut su Nature si focalizza sul batterio Kuenenia stuttgartiensis. Questo microrganismo è in grado di fare reagire il monossido di azoto (NO) con l’ammoniaca producendo azoto (N2), normale costituente dell’atmosfera.

Il NO ha un potenziale dannoso: viene convertito a protossido di azoto (N2O), annoverato tra i gas serra.

Le principali fonti di NO di origine umana sono vari processi di combustione, come quelli dovuti al funzionamento di motori dei mezzi di trasporto (sia diesel che benzina e GPL) e alla produzione di calore ed elettricità.

Un’idea interessante potrebbe essere l’impiego di questi batteri negli impianti di trattamento delle acque reflue, che permetterebbe di sottrarre gran parte del NO prodotto da processi industriali.

Se degli organismi così piccoli possono fare così tanto per il pianeta, possiamo noi umani essere da meno?

A giudicare dagli ultimi dati sul riscaldamento globale e sulla plastica negli oceani, sembrerebbe di sì.

Emanuele Chiara

 

Bibliografia:

Structure of the plastic-degrading Ideonella sakaiensis MHETase bound to a substrate, Uwe T. Bornscheuer et al.

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09326-3)

Nitric oxide-dependent anaerobic ammonium oxidation, Boran Kartal et al. 

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09268-w)

La Terra chiede aiuto

Uno studio dell’autorevole “Lancet” dice che per impedire il collasso del pianeta dovremo cambiare radicalmente dieta e sistemi di produzione alimentari, riducendo drasticamente i consumi di carne.

Salvare il pianeta si può.

Il consumo globale di frutta, verdura, noci e legumi dovrà raddoppiare, mentre il consumo di prodotti alimentari come la carne rossa e lo zucchero dovrà essere ridotto di oltre il 50 per cento.

Ad affermarlo è uno dei più corposi studi scientifici mai realizzati e pubblicato dalla commissione Eat-Lancet su cibo, pianeta e salute.

La commissione, che riunisce 37 esperti provenienti da 16 paesi con competenze in materia di salute, nutrizione e sostenibilità ambientale, ha pubblicato la “Planetary Health Diet”, ovvero una dieta che, se applicata, porterebbe a ridurre le emissioni di gas serra a livelli compatibili con l’accordo di Parigi e a migliorare la salute dei 10 miliardi di persone che popoleranno il pianeta nel 2050.

Il rapporto per la prima volta fornisce i target scientifici da perseguire per giungere ad un sistema di produzione alimentare sostenibile e ad una dieta sana per noi e per il nostro pianeta.

In questo senso lo studio fornisce quello che dovrebbe essere il regime alimentare giornaliero: il 35 per cento delle calorie dovrebbe provenire da cereali e tuberi; per quanto riguarda le fonti proteiche, queste dovrebbero essere principalmente vegetali, riscoprendo per esempio il consumo dei legumi.

“Questo rapporto non fa altro che confermare ciò che avevamo già indicato con l’Oms.

Questa commissione ha rianalizzato i dati disponibili sul rapporto tra dieta e salute e conferma che una dieta a base di carboidrati, legumi, grassi insaturi è associata ad una minore mortalità, causata da malattie cardiovascolari e tumori”, afferma il dottor Francesco Branca, direttore del dipartimento della nutrizione per la salute e lo sviluppo dell’Oms.

“Anzi si conferma che, se questa dieta venisse adottata a livello globale, si potrebbero salvare oltre 10 milioni di vite l’anno”.

Una dieta equilibrata, molto simile a quella dei nostri nonni e genitori e praticata oggi in paesi come India, Indonesia o Centro America.

“La novità di questo rapporto è indubbiamente il legame tra questo schema alimentare e l’impatto sull’ambiente. Le attuali tendenze di consumo non sono più sostenibili. Bisogna cambiarle”, continua Branca.

“Solo con un cambiamento dei nostri stili di vita potremmo affrontare il cambiamento climatico e le sfide ad esso legate”.

Lo studio non evoca un vegetarianesimo estremo.

Piuttosto “richiama all’importanza di un riequilibrio dei consumi animali.

Lo scopo di questo rapporto è proprio di aprire un dibattito pubblico su questioni fondamentali”, conclude Branca.

L’uomo ha oggi il dovere di ascoltare le grida della “Terra”.

Se così non facciamo correremo il rischio di rimanere senza casa.

La natura, madre della vita, merita rispetto.

Antonio Mulone