Palazzo Calapaj d’Alcontres: come viveva un nobile del 700?

Nel cuore del centro storico di Messina, appena alle spalle del Duomo, esattamente in Strada San Giacomo, sorge il Palazzo Calapaj-D’Alcontres: unico edificio della classe aristocratica sopravvissuto al terremoto del 1908.

Nella sua complessità, il palazzo a tre ordini, si presenta importante, massiccio, imponente: indicativo di chi lo abitava all’epoca della sua costruzione, sul finire del XVIII secolo; l’edificio infatti era stato pensato come residenza cittadina dei membri di una delle più antiche e influenti famiglie nobili cittadine, quella dei principi d’Alcontres.

Di nobiltà antichissima e origini che si perdono nel tempo, fino all’epoca normanna, il titolo di principi d’Alcontres nei Bruzi, assieme a quello di marchesi di Roccalumera e di conti di Quintana, originariamente appartenente alla famiglia La Rocca, era stato trasmesso alla casata messinese degli Stagno, a seguito di un matrimonio. La data di costruzione del palazzo è ignota, ma si ipotizza che sia stato costruito nella seconda metà del XVIII sec., intorno al 1770, e che sia appartenuto ai membri del ramo apparentato con la altrettanto nobile famiglia dei Calapaj. Senza perderci nei meandri delle genealogie, a noi basta sapere che chi risiedeva in questo palazzo apparteneva senz’altro a una delle più potenti e influenti famiglie di Messina, come testimonia la posizione privilegiata nel contesto urbano, a due passi dal Duomo, nel cuore pulsante della città.

Dei fasti e delle ricchezze di questa nobile famiglia, ma anche della loro quotidianità e della loro vita di tutti i giorni, il palazzo ci offre un interessante spaccato. Di architetto anonimo, il nostro palazzo, su due piani escluso il seminterrato, presenta il suo ingresso con un cancello in ferro battuto che, una volta varcato, dà libero accesso al cortile interno. Questo, in somma alle scalinate, dà la sensazione di una piazza privata; a sostegno della quale troviamo anche gli alloggi per le carrozze ed i cavalli e le dimore per la servitù, elementi presenti data la destinazione sociale del palazzo.

All’esterno, ammiriamo invece motivi ottocenteschi quali festoni e acroteri sopra le finestre, cantonali agli angoli, cornicione poco aggettante che, in connubio al rettilineo leggermente incurvato, rappresentano elementi decorativi di rilievo.

Data la sua importanza storica e documentaria, il palazzo non è stato lasciato all’abbandono; oggi è abitato da privati. Posto in uno dei luoghi più suggestivi del centro storico, quasi sospeso fra il Duomo e l’Annunziata dei Catalani, il palazzo Calapaj d’Alcontres permette ancora a chi ne ammira l’elegante profilo di calarsi, con l’immaginazione, nei panni di un aristocratico del ‘700. 

Erika Santoddì

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Tra cielo e mare, un tuffo con la Storia: Santa Maria della Grotta a Pace.

La primavera è ormai arrivata, l’estate si avvicina, ed anche noi di Messina da Scoprire ogni tanto ci spostiamo dall’afa e dal traffico del centro cittadino verso le note zone balneari della riviera nord della città, in quella che una volta era denominata “Lingua Phari”, la Lingua del Faro di Messina, cioè dello Stretto. Non dimentichiamo, però, la passione dei nostri lettori per la storia e la cultura messinese, ed è per questo che ai celebri laghetti di Ganzirri, al villaggio Sant’Agata o al gettonatissimo “Piluni” preferiamo una spiaggia speciale, diversa dalle solite mete: un luogo in cui l’arte e la bellezza del paesaggio si incontrano e si fondono dando vita ad un connubio unico e suggestivo. Stiamo parlando della spiaggia del Villaggio Pace, su cui da secoli veglia, sospesa tra il cielo e le acque dello Stretto, l’elegante cupola del tempio di Santa Maria della Grotta.

 

Per scoprire le origini di questo monumentale edificio, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo di diversi secoli, fino a quando Pace era poco più che una piccola comunità di pescatori e gente di mare, distante circa tre miglia dalle mura della città di Messina. In questa piccola comunità è documentata fin dal Cinquecento la presenza di un piccolo oratorio, gestito dai Padri Predicatori, nei quali si venerava una icona di origine probabilmente greco-bizantina. Secondo una leggenda, che ci tramanda lo storico gesuita Placido Samperi in un testo devozionale del 1644, l’icona proveniva da una nave levantina che l’aveva lasciata in quel luogo, all’interno di una grotta naturale, dopo essere rimasta bloccata per diverso tempo dalle correnti, che i marinai avrebbero interpretato come un segno della volontà dell’icona di rimanere lì. Da notare che il tema dell’immagine sacra dotata di volontà propria che “sceglie” il luogo in cui restare è tipico delle leggende sacre messinesi e siciliane in generale: trae forse il suo prototipo dalla leggenda della Madonna di Trapani, il cui culto è presente anche a Messina, ed una storia simile riguarda l’origine di una altra nota chiesa messinese, quella di Santa Maria della Valle, oggi nota come la Badiazza

 

 

Molto più probabilmente, invece, il nome della chiesa deriva dalla grande pala seicentesca che tutt’oggi è custodita al suo interno, opera del pittore messinese Domenico Marolì, raffigurante la Natività (da cui il nome di Madonna della Grotta); essa fu probabilmente dipinta nella metà del XVII secolo, ad ornamento del nuovo tempio che proprio in quel periodo, nel 1622, era stato fatto ricostruire per ordine del Vicerè di Sicilia Emanuele Filiberto di Savoia.

Il progetto venne affidato a un importante esponente del barocco seicentesco messinese: l’architetto Simone Gullì, che proprio in quegli anni si era occupato del monumentale progetto della Palazzata, il Teatro del Mare, monumentale cortina di palazzi destinata ad ornare, con un unico respiro stilistico, la banchina del porto della Città. Per questa piccola ma monumentale chiesa, Gullì ideò un tempietto a pianta circolare con la caratteristica cupola circondata dall’ampio porticato, che, per la sua pittoresca posizione lungo la spiaggia, diventerà nei secoli successivi un soggetto d’elezione per stampe, dipinti e in seguito fotografie d’epoca.

La chiesa seicentesca, purtroppo, già danneggiata dal terremoto del 1783, a seguito del quale fu restaurata, non resse al drammatico sisma del dicembre 1908 che la rase al suolo. Nel 1928, su interessamento dell’arcivescovo Angelo Pajno, di cui si ricorda la fervente attività di costruttore e ricostruttore di chiese sul territorio messinese, fu progettato il suo recupero. La nuova chiesa, ricostruita dagli architetti Viola, Basile e Fichera, è il frutto di un compromesso storico fra la volontà della Sovrintendenza, che intendeva ricostruire la chiesa nella maniera più fedele possibile all’originale barocco , e quella dell’allora parroco Gentile, che desiderava una chiesa più grande in linea con le esigenze della comunità parrocchiale, decisamente aumentata di numero rispetto ai tempi passati. Oggi quindi ciò che vediamo sono in realtà due chiese in una: il tempietto circolare fedelmente ricostruito a partire dal progetto del Gullì, benchè con tecniche moderne, e la nuova chiesa, a pianta rettangolare, che comunica con esso. Perduti sono, purtroppo, i sontuosi interni seicenteschi e settecenteschi in stile barocco, mentre resta, come già accennato, la pregevole pala del Marolì, sotto la grande cupola.

Con la sua silhouette da cartolina, la chiesa della Madonna della Grotta domina ancora, come 400 anni fa, il lungomare nord di Messina, e guarda la Calabria dalla bella spiaggia di Pace: che aspettate quindi a farvi anche voi un bel tuffo, nelle acque dello Stretto, assieme alla Storia e alla bellezza?  

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

La La L’Ateneo messinese

Alzi la mano chi ha guardato appiccicato alla televisione la tanto attesa e famosa “Notte degli Oscar”, durante la quale non sono mancati Epic Fail; il più clamoroso?! La consegna della busta sbagliata che vede come protagonisti i film “La La Land” e “Moonlight”. Ma, arriviamo al dunque: nonostante la regia di Damien Chazelle non è riuscita ad accaparrarsi l’Oscar per “Miglior Film”, La La Land si è comunque classificato in moltissime delle categorie per i premi più ambiti. Ho citato quest’esempio perché, forse in modo un po’ azzardato, il Premio Oscar si avvicina un pochino alla “Scelta dell’Università”.

Come sappiamo esistono diverse Università sparse in tutt’Italia, ognuna con diversi Dipartimenti e peculiarità. Tuttavia, ognuna di esse, pubbliche o private che siano, eccellono e/o  toppano in qualcosa. Di conseguenza, la scelta dell’Università non deve limitarsi soltanto alla valutazione del suo prestigio, ma deve guardare anche e soprattutto altri aspetti, quali i bisogni, le aspettative e le esigenze di ogni studente.

Ma in Sicilia, terra del Sole e del Mare, le Università: quali e quante sono?

Nel 1434 sorse la prima Università siciliana: il Siciliae Studium Generale, oggi Università di Catania che, classificata tra i mega atenei, conta oltre 40.000 iscritti. Fu invece il complesso rapporto creatosi tra Compagnia di Gesù e classe politica locale a sostenere la fondazione sulle rive dello Stretto, il 16 Novembre del 1548, attraverso l’aiuto dei giurati messinesi, del viceré Juan de Vega, l’intervento di Ignacio de Loyola e del Pontefice Paolo III S.Ignacio de Loyola, di quella che si può definire la prima Università collegiata gesuitica in Europa, l’unica in Sicilia a fornire una istruzione completa nelle arti liberali.

Lo Studium veniva ad essere governato, per la maggiore, dalla Societas Iesu, mentre alla città spettava soltanto l’onere di finanziare l’istituzione. La città rispondeva proponendo un modello universitario bipartito in: Diritto e Medicina, gestito dalla Giurazia messinese; Teologia, retto dalla Societas Iesu. Successivamente, nel 1565, si ha la completa adesione al modello universitario “bolognese”, che poco aveva a che fare con l’iniziale bolla pontificia: la Compagnia di Gesù viene, infatti, definitivamente esclusa dal controllo dello Studium.

Nel 1597, l’Ateneo peloritano si vede pronto a funzionare regolarmente, grazie anche alla “Nuova Fondacione delli Studii”: nuovi Statuti secondo i quali, lo Studium doveva essere gestito dalle élites cittadine nei momenti fondamentali, quali la scelta dei docenti, del rettore, dei riformatori, ecc.

L’Università di Messina, fino al 1679, anno della sua prima chiusura, riusciva a proporsi come tappa centrale per il percorso formativo delle élites culturali e cittadine; inoltre, la sua posizione strategica, faceva si che allo Studium messinese, arrivassero giovani studenti anche dalle terre della vicina Calabria, di Malta e dalla Grecia.

Come già anticipato, ad un secolo dalla sua apertura, a causa della  rivolta antispagnola, l’Ateneo si vede chiuso, per poi essere rifondato nel 1838 dal Re Ferdinando II, il quale, elevava la locale Accademia Carolina, al rango di Università, potendo stimare, fino ai primi del Novecento grandi intellettuali come Pietro Bonfante, Vittorio Emanuele Orlando, Giovanni Pascoli, Gaetano Salvemini. A dieci anni dalla sua riapertura, l’Ateneo si rivede soppresso per poi essere riaperto due anni dopo, subendo un calo d’utenza dovuto ad alcune leggi che vietavano l’immatricolazione di studenti provenienti da altre provincie siciliane e dalla Calabria.
Nel 1908, il terremoto che ha devastato Messina, ha contribuito alla distruzione di gran parte delle attrezzature e strutture dell’Ateneo tra le quali il Collegio dei Gesuiti che, sorgente sui resti di un antico tempio dedicato ad Apollo, è stato sin dall’inizio sede dell’Università. L’edificio fu edificato dal gesuita Natale Masuccio nel 1608,
progettato e collaudato secondo un modello che la Compagnia definiva “modo nostro” e che mirava a rendere collegate tutte e tre le aree dell’edificio: quella destinata alle scuole, quella per i religiosi e quella per la chiesa. Di quest’opera, tutto è andato distrutto, tranne il portale principale del collegio, che oggi si trova murato in una struttura secondaria, alla sede del rettorato, passando da via Venezian; su di esso la dicitura latina di “Primus ac prototypum collegium“, ci dice che questa scuola era la prima ad essere stata fondata dalla compagnia di Gesù e doveva servire da modello per tutte le altre.

Nel 1909 e negli anni a seguire, l’Ateneo riacquistava vitalità riuscendo a superare, grazie a rettori come Gaetano Martino e Salvatore Pugliatti, momenti storici e civili particolarmente difficili.

Tra gli alunni celebri, l’Università di Messina vanta: Santo Versace, Antonio Martino, Nicola Calipari, Paolo Fulci.

Dopo l’ateneo messinese, nel 1805 viene istituita l’Università degli Studi di Palermo e, di più recente istituzione è l’Università semiprivata Enna-Kore.

 

Oggi l’Ateneo messinese, propone un’ampia offerta formativa e si articola in diversi poli situati al centro e nelle periferie della città, tra questi: il Polo Papardo, il Polo Annunziata, ospitante anche la Cittadella Sportiva Universitaria; il Policlinico Universitario, ed il Centro Cittadino; conta circa 39.600 iscritti e viene quindi classificata tra gli Atenei medi, al 2° posto tra le Università Meridionali ed al 35° posto  tra le Università Statali.

Insomma, La La Land non potrà di certo vantare l’Oscar a “Miglior Film” come L’Università di Messina non potrà vantare di essere nella classifica tra le Università maggiormente prestigiose d’Italia, ma entrambi hanno e continueranno ad avere qualcosa che, forse è il caso di dire, non va bene a tutti ma, va bene a molti. Ed a noi, comuni studenti universitari messinesi, va bene così!

Erika Santoddì

Foto: Giulia Greco

La chiesa di Sant’Elia: una perla barocca celata nel cuore di Messina

img_2595Chi, come noi di Messina da Scoprire, ama avventurarsi per le vie della città alla ricerca di tracce e tesori dal suo passato perduto, sa bene che Messina non è una città adatta a visitatori superficiali: nel contesto della città moderna, sono i dettagli anche più piccoli e apparentemente più nascosti a indicarci la strada verso le meraviglie del passato. Capita così che, girando nel pieno del centro cittadino, in una strada che affluisce alla via Garibaldi, a poca distanza da Piazza Cairoli e letteralmente a due passi da Santa Maria degli Alemanni e da Santa Caterina in Valverde, un occhio attento possa appena notare la facciata austera di una piccola chiesa col suo altrettanto piccolo campanile. Sembra una chiesetta quasi insignificante, se non fosse per l’unico indizio costituito da un elegante portale a timpano spezzato, dall’aspetto tardo seicentesco.

 

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Dietro il portale si trova un piccolo vestibolo all’interno del quale ci danno il benvenuto i resti di una acquasantiera barocca in marmo. Vi si accede scendendo alcuni scalini; anche questo, per il visitatore più preparato, potrebbe costituire un indizio, dato che il fatto che il pavimento della chiesa sia più basso rispetto al piano di calpestio delle strade cittadine, così come per la chiesa dell’Annunziata dei Catalani e per la vicina Santa Maria degli Alemanni, ci dice inequivocabilmente che quello che troveremo, al di la del vestibolo, è in parte sopravvissuto al terribile sisma del 1908, a seguito del quale le strade furono ricostruite su un livello più alto rispetto a quello originario.

Si entra così nella chiesa di Sant’Elia, una delle pochissime chiese di Messina a conservare gran parte della struttura e degli interni originari. Struttura molto antica, la cui presenza è documentata fin dal 1462, era una volta annessa ad un monastero; vide il suo massimo sviluppo nel corso del XVIII sec., quando, a seguito della peste del 1743, dopo una serie di presunti accadimenti miracolosi il santo fu eletto compatrono della cittimg_2594à, il cui Senato per voto offriva annualmente alla chiesa due cerei e vi si recava a sentir messa; la struttura attuale per come la vediamo oggi può esser fatta risalire al periodo di tempo che va dal 1694 al 1706, nel quale, probabilmente a seguito di danni subiti in un terremoto, la chiesa fu ampliata e abbellita; nonostante questa struttura di base sia rimasta pressochè invariata, molte sono le cicatrici lasciate dal tempo, dalle calamità naturali, delle guerre (subì infatti gravi danni sia a seguito dei moti del 1848 che dei bombardamenti della seconda guerra mondiale) e dell’incuria (fu per molti anni tramutata in un magazzino a seguito degli espropri del periodo postunitario).

Se l’esterno, frutto prevalentemente delle ricostruzioni novecentesche, poteva esserci apparso spoglio e freddo, gli interni si rivelano in tutta la loro opulenza barocca; anzi, la sontuosa coltre di stucchi che adorna le pareti dell’unica navata è solo una minima parte dell’originale apparato decorativo (per come ce lo mostrano alcune foto d’epoca), e il tempo ha in buona parte sbiadito o cancellato le dorature che originariamente li ricoprivano parzialmente. Poco resta anche degli affreschi che ornano i grandi riquadri fra gli altari laterali, dipinti dai fratelli Filocamo nel 1706, e rimaneimg_2587ggiati, a seguito dei danni subiti nell’insurrezione del 1848, da Giacomo Grasso nel 1859. Perduto interamente è invece il soffitto, che recava un grande affresco, sempre dei Filocamo rimaneggiato da Grasso, rappresentante l’ascesa al cielo del profeta Elia, santo dedicatario della chiesa.
Sulle colonne in stile corinzio dell’abside semicircolare, che una volta ospitava diverse tele oggi al Museo regionale, svolazzano leggiadri angioletti in stucco, che reggono dei festoni dorati; al centro troneggia infine un bell’altare settecentesco a tarsie marmoree.
Perla rara e dimenticata dell’arte e dell’architettura barocca messinese antecedente il Terremoto, la piccola chiesa di Sant’Elia continua a dimostrarci come, a Messina, le apparenze spesso ingannino: chi direbbe mai che dietro quella facciata anonima si cela un piccolo gioiello di storia e arte locale?

Gianpaolo Basile 

Ph: Erika Santoddì

Messina Medievale: attraverso la Storia e la “Badiazza”

img_9617Paesaggio mozzafiato: da un lato i monti Peloritani, dall’altro il letto della fiumara San Michele.

Ci troviamo poco fuori Messina, precisamente al monastero di Santa Maria della Valle, conosciuto più comunemente come “La Badiazza”.
La sua fondazione, collocata intorno all’ XI secolo, ad opera di monache Benedettine, è legata ad un fatto leggendario a cui si ispirava un quadro raffigurante una Madonna con accanto una scala. Secondo la leggenda, approdava nella città peloritana una nave di mercanti provenienti dall’oriente che, dopo aver scaricato della merce, avrebbe dovuto proseguire per la rotta. Tuttavia, al momento della partenza, la nave non si staccò da terra; l’accaduto fu subito interpretato dai marinai come una punizione, dovuta al furto, per mano loro, di un’icona raffigurante una Madonna e tenuto nascosto nella nave. Confessato il furto, i marinai riuscirono “miracolosamente” a riprendere il mare, e l’icona fu trainata da un carro di buoi che pose fine alla sua corsa precisamente ai piedi dei colli S. Rizzo, dove fu eretta la chiesa.

img_9601Il monastero e la Chiesa furono intitolati a nome di Santa Maria della Scala. Purtroppo, numerosi documenti ci portano a conoscenza dello sfortunato destino dell’Abbazia.
Quest’ultima, infatti, è stata vittima di molteplici vicissitudini, tra le quali: l’assedio per mano delle truppe di Carlo D’Angiò, le quali la saccheggiarono e incendiarono; la peste del 1347, durante la quale l’icona fu portata in processione per la città al fine di scongiurare la pestilenza, ma che portò al suo abbandono; i numerosi straripamenti e terremoti che hanno contribuito al suo declino.  Successivo alla suddetta peste è l’utilizzo dell’Abbazia come residenza estiva che portò poi alla fondazione di un Monastero ed una Chiesa entro le mura cittadine, che oggi sono intitolate a Santa Maria della Valle. La vecchia chiesa, ormai in avanzato stato di deterioramento, risentì dell’alluvione del 1855 e del terremoto del 1908.

Tutto ciò che ad oggi è rimasto, è un bell’esempio di arte medievale che accomuna vari aspetti dell’architettura siciliana del tempo.

img_9610L’interno si articola in tre navate a pianta quadrata con un ampio transetto sormontato da cupola centrale. Il santuario, richiama lo schema della qubba islamica, divenuta modello per le chiese cristiane di età normanna, la copertura a cupola è di chiara derivazione normanna, mentre le crociere costolonate a sezione rettangolare sono riconducibili a età sveva. Da notare è la somiglianza con la Chiesa cistercense di Santo Spirito del Vespro a Palermo. D’altronde le ipotesi avanzate riguardo l’epoca di costruzione, assegnano la fondazione (quasi) certa ai normanni, ma non si escludono influenze sveve o aragonesi.

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Ad oggi, purtroppo, la Chiesa è chiusa al pubblico. Tuttavia, il Comune di Messina ha avviato un’opera di restauro a cura della Soprintendenza ai Beni Culturali di Messina ed un iter per la riqualificazione della zona; di fatto, la Chiesa è raggiungibile imboccando la Via Palermo e procedendo lungo il letto della fiumara San Michele per un, non troppo lungo, percorso dissestato.

Erika Santoddì

Ph: Giulia Greco

Musica, Maestro! Breve passeggiata storica e musicale fino al teatro Vittorio Emanuele di Messina

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L’argomento della storia della musica messinese, particolarmente caro agli storici locali, non è altrettanto caro al grande pubblico: i nomi dei compositori messinesi sembrano essere stati totalmente cancellati dalla memoria collettiva, le loro musiche paiono quasi bandite dai programmi di concerti ed eventi culturali, e forse non è un caso se l’attuale Conservatorio di Messina è intitolato ad Arcangelo Corelli, grandissimo violinista e compositore settecentesco, che, ciò nondimeno, con Messina e la sua storia musicale ha ben poco a che spartire…

Eppure pare che negli scorsi secoli Messina sia stata una città di primissimo piano nel panorama musicale siciliano e nazionale. Nel suo periodo d’oro, che culmina nel XVII sec. per concludersi con la tragica parentesi della rivolta antispagnola del 1674-1678, la produzione musicale a Messina era fiorente e riguardava prevalentemente musica sacra e strumentale: la Cappella Senatoria del Duomo di Messina era seconda per prestigio solo a quella di Palermo, e vide l’operato di musicisti come Bernardo Storace, Michelangelo Falvetti, Giovanni Antonio Pandolfi Mealli e Vincenzo Tozzi, tutti nomi assolutamente ignoti ai più ma che (soprattutto i primi due) di recente iniziano ad essere oggetto di un rinnovato interesse da parte degli addetti ai lavori e degli esecutori di musica antica.

 

Meno si sa invece per quanto riguarda la musica teatrale: le già scarse notizie riguardanti il ‘600 diventano ancora più sparute per quel che riguarda il ‘700, anche se già da tempo è documentata in città la presenza di un teatro regio, il cosiddetto Teatro della Munizione, così chiamato perché ricavato a partire da un deposito di armi e munizioni nei pressi della via omonima, nel centro della città. È invece nel secolo successivo, con lo svilupparsi e il diffondersi del genere dell’Opera lirica, che si sentì il bisogno di dotare la città di un teatro nuovo e più grande: il vecchio Teatro della Munizione, infatti, secondo le testimonianze del La Farina, scrittore e letterato locale, era ormai decisamente attempato, e non più adatto alle esigenze dell’epoca. In quel periodo, oltretutto, Messina aveva visto la nascita di diversi compositori di opera lirica, fra i quali il più celebre è indubbiamente Antonio Laudamo, a cui oggi è intitolata l’omonima Filarmonica; diversi di loro però, come il meno conosciuto Mario Aspa, autore di diverse opere, o il provinciale Placido Mandanici, originario di Barcellona Pozzo di Gotto, preferivano lasciare la città per fare successo e far eseguire le proprie opere in teatri più grandi e famosi, come il Fondo e il San Carlo di Napoli, o la Scala di Milano.

A Messina, insomma, la mancanza di un teatro al passo coi tempi impediva lo sviluppo di una scena musicale attiva e vivace, tanto che, all’epoca, era diffusa l’opinione secondo la quale i messinesi non avessero gusto per il teatro: luogo comune contro il quale si trovò a polemizzare prima, nel 1836, il pubblicista messinese Carlo Gemelli e in seguito, nel 1840, lo stesso La Farina.
Fu anche per questo motivo che, dietro ordine regio, si decise di edificare un nuovo teatro per la città di Messina, teatro che sarebbe sorto al posto di una prigione sita sulla centrale via Ferdinanda, oggi via Garibaldi, e il cui progetto fu affidato al napoletano Pietro Valente e al messinese Carlo Falconieri. I lavori, iniziati nel 1842, diedero vita al teatro “Santa Elisabetta”, che, inaugurato nel 1852 con l’esecuzione di una opera del Laudamo, sarà poi rinominato dopo l’Unità d’Italia, col nome che porta tutt’oggi: “Vittorio Emanuele II”.

 

Ai giorni nostri il teatro, rimasto quasi illeso dopo il terremoto del 1908 ma ampiamente danneggiato dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e smantellato negli anni ’50, è stato ricostruito interamente: la facciata, abbastanza fedele al progetto ottocentesco, è arricchita da fregi e bassorilievi rappresentanti effigi di musicisti e drammaturghi celebri e scene mitologiche, opera di Saro Zagari, ed è sormontata da un gruppo marmoreo allegorico, scolpito dallo stesso autore: rappresenta il Tempo, alato e con la clessidra in mano, che disvela la Verità, a sinistra, mostrandola alla città di Messina, personificata nella figura a destra. L’interno invece, completamente moderno nella struttura, è adornato, sulla volta, da un celeberrimo dipinto raffigurante la leggenda di Colapesce, opera di Renato Guttuso del 1985.

Attivo ogni anno con la sua stagione teatrale e operistica, il Vittorio Emanuele continua a essere uno dei centri principali dell’intrattenimento culturale della città; e magari sarebbe interessante se al suo interno potessero tornare a suonare un po’ più spesso le note di Laudamo, Aspa, o di qualcun altro dei tanti compositori messinesi che il tempo e l’incuria hanno, forse immeritatamente, consegnato all’oblio…

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco