… il nostro Stretto ha nutrito il mito di Scilla e Cariddi?

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Oggi possiamo ben dire che passare lo stretto di Messina sia una passeggiata: a migliaia ci spostiamo dalla sponda sicula a quella calabra, e viceversa, ogni giorno in pochissimo tempo. Senza contare poi tutte le imbarcazioni, di ogni genere, che continuamente lo attraversano da nord a sud.

Eppure, in  passato questo tratto di mare era considerato fra i più pericolosi. Correnti, gorghi e le fredde acque che lo contraddistinguono spaventavano molto i navigatori. Oggigiorno sappiamo che si tratta di fenomeni dovuti al fatto che lo Stretto sia punto di incontro tra due mari: il Tirreno e lo Ionio. Due mari che hanno caratteristiche fisico-chimiche diverse: a livello di temperatura, di salinità e di densità delle acque; inoltre, quando il mar Tirreno si trova in fase di bassa marea, quello Ionio presenta alta marea, e viceversa. Accade dunque che le acque dei due bacini si mescolino: in fase di corrente “scendente” le acque tirreniche si riversano nel bacino ionico; in fase di corrente “montante”, al contrario, le acque ioniche invadono il bacino tirrenico. Tale mescolarsi delle due masse d’acqua dà vita a diversi fenomeni, quali appunto gorghi e vortici, ma anche scale di mare, garofali e macchie d’olio.

In antichità, ovviamente, non si aveva consapevolezza di tutto ciò e tali eventi, allora inspiegabili, venivano ricondotti alla mitologia. Si pensava, infatti, che in tale porzione di mare che separa la nostra isola dal continente, albergassero due mostri marini: Scilla e Cariddi.

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Scilla era una bellissima ninfa, solita passeggiare sulla spiaggia di Zancle e fare il bagno nel mare. Un giorno, il dio marino Glauco la notò e se ne innamorò perdutamente, al tal punto da respingere Circe. Fu così che la maga si vendicò, trasformando la ninfa in un essere mostruoso con dodici piedi e sei teste di cani rabbiosi attaccate alla vita. Da quel momento, Scilla si nascose sulla costa calabra, là dove essa protende verso la Sicilia, seminando terrore sulle navi che si trovavano a passare da lì.

Anche Cariddi era stata una bellissima ninfa, forse figlia di Poseidone e Gea. La sua voracità l’aveva portata a rubare e divorare i buoi di Eracle, di passaggio dallo Stretto. Per questo Zeus l’aveva trasformata in un mostro marino, che risucchiava e risputava una grande quantità di acqua  tre volte al giorno, facendo così naufragare le imbarcazioni che passavano nei pressi di Capo Peloro, dove era collocata.

Si credeva, dunque, che passare per quello che oggi conosciamo come l’”innocuo” e tranquillo Stretto di Messina, significasse passare in mezzo a queste mostruose e terribili creature, poste l’una di fronte all’altra. Bisognava, anzi, scegliere vicino a quale delle due transitare. Come dovette fare Ulisse (così ci narra Omero nel XII libro dell’Odissea): temendo che Cariddi distruggesse la sua nave, decise di passare vicino a Scilla; una volta lì, tentò di fronteggiarla con le armi, ma il mostro agguantò e divorò sei dei suoi uomini. Successivamente, Ulisse si trovò comunque ad affrontare anche Cariddi: dopo che Zeus distrusse la sua nave e disperse i suoi compagni per aver osato violare le vacche di Helios, egli si trovò nei pressi di Cariddi, alla quale riuscì a sfuggire miracolosamente aggrappandosi ad un fico riemerso dalle acque.

Ma quella di Scilla e Cariddi è solo una delle tante leggende che sono nate intorno allo Stretto di Messina, da sempre luogo ricco di fascino e suggestione…

Francesca Giofrè

 

Dieci racconti, dieci punti di vista sulla città. “Cara Messina ti scrivo…”

Attribuire il valore ad una città servendosi della scrittura. Giovanni Pascoli, citato ad apertura del volumetto, diceva: “dove è quasi distrutta la storia resta la poesia”.

In questi dieci racconti che si susseguono a guisa di snodi di un’unica, fondamentale, rappresentazione, drammatica e dialettica, della vicenda umana, le trame si organizzano per dare tutte risalto ai diversi modi di percepire l’ambiente in cui si muove affannosa l’esistenza.

Pubblicata nel 2013 per La Feluca Edizioni, casa editrice fondata dai fratelli Buttafarro, la raccolta miscellanea è articolata secondo un principio cronologico che parte da un quotidiano familiare e risale alle cronache perdute nelle macerie dei violenti terremoti fino a sconfinare nel mito di un lontano passato. Dieci scrittori di Messina convogliano la fantasia per offrire materia verbale ai pensieri e le memorie che agitano coloro che vivono o ritornano da lei. “Se questa città davvero la sia ama, bisogna avere l’animo di non abbandonarla al suo destino” afferma nella prefazione Giuseppe Ruggeri. Inseguendo tale desiderio si sviluppa Cara Messina ti scrivo... Gli scrittori, molti professionisti, insegnanti e medici, hanno dedicato ciascuno un tassello per restituire l’amore che li lega alla città. Non è un caso che queste sponde appaiano fin dall’atto di nascita di tutte le letterature, dalla vedetta dell’albero maestro della nave di Odisseo, un tutt’uno con la parola e il canto, e che Messina sia stata scelta da numerosi scrittori, in epoche più o meno vicine ai giorni nostri, come un faro che stringe nel suo abbraccio il prodigio di una natura affascinante e catastrofica.

Ad un tavolo all’aperto dell’Irrera, di metallo, con intorno quattro sedie pure di metalo, come si usava nei bar, un ragazzo ed una ragazza gustavano, con studiata lentezza, quasi a prolungarne il soave piacere, una “mezza caffè con panna” con la brioche calda e fragrante.  (Sogno … un mattino d’estate -P. Russo)

M. De Domenico, “Miele a Messina”, omaggio per la mostra di Milo Manara a Etnacomics ’14

Dietro ai racconti che l’antologia mette insieme si raccolgono storie che guardano indietro. Ci sono ferite che non si rimarginano, errori, compagnie di gioventù,  ricordi degli attimi andati, insieme ai gesti del presente, disseminati nei reticoli della planimetria cittadina. Anche la costa e gli schizzi delle onde del mare risalgono come elementi di un sogno e le calamità naturali, la pioggia e il sale della marina in estate sono un’eco nei passi dei suoi abitanti.

Michela De Domenico, “menza ca’ panna”

Così da un quadro intimo di vita familiare, in una sonnacchiosa camera assolata (“è tempo di sale sulla pelle, da leccare via furtivamente da una spalla o dal dorso di una mano, per sentire il sapore del mare che ci scorre nelle vene”) dopo una mattina in spiaggia in Piedi Grandi di Patrizia Vicari, la scena si sposta in un casolare dove è stato compiuto un delitto dai contorni indefiniti, descritto attraverso i tarli del protagonista che ritrova a Messina i legami di una antica amicizia nel racconto Quella sera nel bosco di Giuseppe Ruggeri. Il mare è poi il centro nella storia di Emilia Celi, Micia Stidda, figghia di lu mari, in cui una donna, innamorata della sua terra, si oppone alla costruzione del ponte: “e le spiagge, cosa ne sarà delle spiagge? Ci ha pensato? E i grandi pesci, che cercano le isole per andarci a fare l’amore cosa faranno quando l’ombra del ponte attraverserà l’acqua come un muro, portandole via la luce del sole?”. Di richiami sensuali si veste la scrittura preziosa di Incontro di Lino Soraci a cui fa da sfondo la tangenziale autostradale nel suo punto più panoramico: “per lenire lo sconforto procurategli dalle presenti miserie, prese a fantasticare sulla selvaggia bellezza con la quale la Sicilia doveva essere apparsa ai primi colonizzatori greci che vi avrebbero in seguito fondato città e templi bellissimi”.  Teenager protagonisti e motivi fantasy si trovano in Un desiderio per Messina di Elisabetta Venuti in cui una ragazza del Maurolico sogna di vedere rinascere Messina con una magia che tuttavia non offrirà i risultati attesi.

Per quella notte, l’occulta regia dello straordinario spettacolo di luci ed acqua dello Stretto aveva deciso di andare in scena nella versione da lui prediletta: mare piatto e nero come un rilucente piano d’ardesia sul quale scivolavano lievemente, senza lasciare spumose scie, le imbarcazioni di costante collegamento tra l’Isola e il Continete, le cui idronidamiche strutture erano appena rischiarate dal misterioso light design che una notturna e fantasiosa Fata Morgana s’ingegnava a proiettare su tutta quell’ampia veduta così naturalmente bella da sembrare, paradossalmente, un finto fondale di tela dipinto a mano da un esperto scenografo per le riprese di un film-kolossal. (Incontro – L. Soraci)

Michela De Domenico, “tomba del marinaio”

Ne Il viaggio del rimpianto di Vincenzo Ragno il pegno verso la propria città viene pagato nel modo più tragico. Maldicenze e peccati di gioventù si ritagliano uno spazio tra i fuochi d’artificio e la festa della Vara. Ancora il passato e la nuova conformazione della città a distanza di anni appaiono nel racconto Sogno… un mattino d’estate di Pasquale Russo. Un uomo si addormenta e immagina di essere ancora ragazzo, a bordo della sua utilitaria insieme alla compagna che sarebbe rimasta accanto a lui una vita, mentre percorrono il litorale: “Meta, le montagne di sabbia di Capo Rasocolmo. Si erano premuniti indossando i costumi da bagno sotto i vestiti. La ‘500 correva ed il vento caldo scompigliava i loro capelli, mentre si baciavano liberi e felici nel raggiante splendore della loro giovinezza e nella luce dei loro sogni”. Una vera e propria sezione a parte è costituita dai racconti che parlano del terremoto nei due racconti Potrebbe essere accaduto davvero di Ignazio Pandolfo e Sisma di Mario Oscar Venuti. Il primo, una narrazione divisa in tre episodi che descrive gli ultimi attimi ignari di due personaggi pochi istanti prima che la terra tremasse quel 28 dicembre del 1908 e l’approdo di una nave russa sullo Stretto. Un filo narrativo, una specie di corsa all’oro, unisce fantasiosamente l’evento sismico del 1783 e del 1908, nel secondo dei due racconti: “ un sussurro, portato dal vento, circa un patrimonio seppellito e difficilmente recuperabile rimbalza da orecchio a orecchio, di bocca in bocca, da balcone a balcone fino alla pubblica piazza”. L’ultima novella, Duello, di Alfredo Buttafarro si fa ancora più lontana, riportando, nella Messina del 1600, l’amore infelice, ma a lieto fine, di una ricca dama e un giovane, sullo sfondo dell’antica chiesa della Badiazza.

Eulalia Cambria

Un ringraziamento a Michela De Domenico per averci concesso i suoi disegni. Potete trovarne altri sù:

https://mycomicsjourney.wordpress.com

https://www.facebook.com/messinamycomicsjourney/

Girolamo Alibrandi, il Raffaello di Messina

Nell’ambito dell’arte della prima metà del cinquecento nell’Italia meridionale, Girolamo Alibrandi risulta una figura molto interessante. Scolaro di Salvo D’Antonio della bottega di Antonello da Messina, Alibrandi, è tra i primi a sintetizzare l’esperienza antonelliana con influenze leonardesche e soprattutto raffaellesche. Non stupisce, infatti, che gli sia stato attribuito dai suoi contemporanei l’epiteto di “Raffaello di Messina”.

 

La sua vita è avvolta dal mistero. Non si hanno sue notizie prima del 1514, quando, a dire di molti studiosi, il pittore ha circa trentacinque anni. Basandosi su una biografia scritta da Francesco Susinno nel 1724 – molto romanzata e poco attendibile – ma soprattutto analizzando l’evoluzione stilistica delle sue opere, si pensa che Alibrandi si sia allontanato da Messina per un tempo indefinito. Questo ipotetico viaggio porta il pittore a Venezia, dove viene a contatto con le opere di Duhrer e Giorgione e a Milano, dove subisce le influenze del circolo di Leonardo.

A questa significativa esperienza artistica è possibile ricondurre la realizzazione delle meravigliose tavole di San Pietro e San Paolo , entrambe esposte al Museo Regionale di Messina nella sala dedicata al pittore.

San Pietro

Nel San Pietro è possibile identificare sulla destra uno scorcio veneziano identificabile con la zona dell’Arsenale, mentre sulla sinistra vi è uno scorcio architettonico, esplicita citazione del Bramante.

San Paolo

Alle colonne della tavola di San Pietro si contrappone nel San Paolo un paesaggio naturalistico dal sapore leonardesco.

Si pensa che le due tavole fossero i pannelli laterali di un trittico, la cui parte centrale è stata identificata in una Madonna con Bambino e San Giovannino che si trova attualmente sul mercato francese.

 

 

Fondamentale per Alibrandi è l’incontro con Cesare da Sesto, pittore lombardo che ha portato in Sicilia esperienze leonardesche e raffaellesche. A seguito di questo incontro il pittore messinese dipinge la sua opera più famosa, La presentazione al tempio.

La presentazione al Tempio

Si tratta di un’enorme pala firmata e datata 1519, realizzata per l’altare maggiore della chiesa della Candelora e successivamente trasferito nella chiesa di San Niccolò dei Gentiluomini. A seguito del devastante terremoto del 1908, la pala di Alibrandi, così come molti altri pezzi d’arte messinesi, viene distrutta. I circa duecento e più frammenti rimasti dell’opera sono stati assemblati in due restauri che hanno permesso agli abitanti di Messina di ammirare la pregevole pala del loro concittadino al Museo Regionale.

L’imponente struttura in cui si svolge la scena presenta dei chiari rimandi alla Scuola di Atene di Raffaello, la cui influenza è visibile anche nella dinamicità dei personaggi.

L’artista muore a Messina a seguito del contagio della peste nel 1524.

Girolamo Alibrandi è un artista intellettuale, secondo il modello rinascimentale; una mente plastica e aperta che osserva il mondo circostante e assimila elementi da tutto ciò con cui viene in contatto.

Renata Cuzzola

Antonello Gagini: gentil scultore d’arte religiosa

Architettura. Scultura. Statuaria. Queste parole rimanderanno molti di voi al ricordo dei libri del liceo; altri immagineranno, invece, dei semplici agglomerati di marmo, argilla o pietra. Ma, vi è mai capitato di soffermarvi dinanzi ad un’opera – una qualsiasi opera – e chiedervi chi ne è l’autore e cosa lo ha portato a realizzarla? Oggi voglio parlarvi di Antonello Gagini: di chi era, di cosa faceva e di cosa ci ha lasciato.

In questo artista possiamo identificare il massimo esponente del rinascimento siciliano nell’ambito dell’architettura, della scultura e della statuaria.

Nasce a Palermo nel 1478, e già all’età di vent’anni si stabilisce a Messina avviando un’attività di commercio di marmo con la Toscana e la prima bottega di sculture in marmo.

La sua prima opera, l’Arco di Santa Cristina a Palermo, risale al 1477 per essere consegnata nel 1501, qualche anno prima della partenza per Roma. Sarà proprio nel 1505, infatti, che il Gagini compirà un viaggio nella capitale rimanendo impressionato dalle opere di Michelangelo Buonarroti, già maestro del padre Domenico.

Intorno al 1508, si ristabilisce nella città natale avviando un’organizzazione industriale che gli permetterà di fondare la Scuola gaginiana, alla quale aderiranno figli e nipoti, potendo così possedere due botteghe: una di queste utilizzata come cantiere di lavorazione, ed una seconda come punto di esposizione ed esportazione in tutta la Sicilia e la Calabria.

Nelle chiese Maria Maggiore e San Leoluca di Vibo Valentia possono essere, infatti, ammirate le tre rappresentazioni della Vergine Maria – la Madonna delle Grazie, la Madonna della Neve e la Madonna col bambino – e le figure di San Giovanni Evangelista e Santa Maria MaddalenaSan Luca Evangelista. Le sue opere di carattere religioso sono contraddistinte dal tentativo di rappresentare la bellezza della nascita di Gesù, il rapporto del bambino con la Vergine Madre, la presentazione al tempio, l’Annunciazione e i Santi Martiri.

In seguito ad alcune commissioni private e religiose nel territorio messinese, l’attività lavorativa dello scultore si stabilisce per via della forte presenza di scultori lombardi e toscani nella città di Palermo; fu proprio questa decisione a determinare il suo successo artistico e commerciale: a Gagini si deve essere impartito il merito di aver rinnovato, in chiave semplice ed elegante, le caratteristiche architettoniche del luogo ancora ispirate al periodo tardogotico.

Oltre che in molte località della provincia, come a Castroreale e Ficarra, alcune delle sue opere possono essere ammirate nel Museo Regionale di Messina, come la statua marmorea denominata “Santa Caterina d’Alessandria”; nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Bordonaro, ove è custodita la statua marmorea “Santa Maria delle Grazie”; e lungo la scalinata del Palazzo D’Alcontres, un altorilievo risalente al 1500. Originariamente commissionato sempre per Palazzo D’Alcontres è anche Lo Spinario, opera verosimilmente ispirata all’arte ellenistica, oggi collocata al Metropolitan Museum of art di New York.

 

 

Erika Santoddì

L‘illustratore di Pinocchio: disegni, poesie e scritti di Ugo Fleres

Ho tante smanie / sotto il cappello / leggo – e dimentico / scrivo – e cancello

Messina da Leggere si arricchisce di un nuovo tassello. Tracceremo in questa puntata un profilo biografico dedicato a Ugo Fleres: critico d’arte, ma anche romanziere, disegnatore e autore di versi.

L’ingegno multiforme di Ugo Fleres non ha conosciuto freni. La sua versatilità irriducibile gli ha permesso di muoversi come una scheggia impazzita percorrendo i più disparati territori dell’arte. Eppure non sono molti, nella sua terra natale, ad averne conservato il ricordo. Gli anni centrali della sua vita sono spesi tra gli incarichi affidati dal ministero dell’Istruzione e le frequentazioni, sfociate nell’incontro e amicizia con altri esuli siciliani, dei circoli letterari e giornalistici nella capitale.  E avendo bene in mente quell’ambiente Luigi Pirandello lo ricorda in una lettera, pervasa di un sentimento di malinconia, dell’ottobre del 1924: “Vivo a Roma quanto più posso ritirato; non esco che per poche ore soltanto sul far della sera, per fare un po’ di moto, e m’accompagno se mi capita, con qualche amico: Giustino Ferri o Ugo Fleres”. A Pirandello, Fleres, fece anche un ritratto, e svolse il ruolo di intermediario per introdurlo a Luigi Capuana. Lo stesso Capuana parlò di “abbandono alla fantasticheria riflessiva” nei riguardi dello scrittore messinese ed ebbe delle parole di elogio per le poesie contenute nella raccolta Sacellum (1889).

era un bel fanciullone nonostante la bionda lanugine di barba e il cappellone di castoro e il passo grave con cui girellava per l’Urbe (Luigi Pirandello, 1937)

Lasciata in gioventù Messina, dove nacque l’11 dicembre 1857, figlio di un procuratore legale originario di Savoca, dopo avere frequentato l’Istituto Tecnico, si stabilì, obbedendo al suo talento artistico, a Napoli, dove divenne allievo del pittore Domenico Morelli. Nella città partenopea si trattenne solo un paio di anni per trasferirsi presto a Roma. Qui riuscì a farsi strada, studiando i classici latini e greci, imparando lo spagnolo e il francese, iniziando a stringere contatti che lo porteranno a militare come illustratore nelle file di alcuni giornali. Negli stessi anni scrisse dei poemetti e una novella, Il cieco (1879), appuntandola in una sorta di diario personale. Nonostante la frequenza di lezioni all’università rimase fondamentalmente un’autodidatta. E fu grazie anche all’amico poeta G.A Costanzo che venne preso nel 1880 nella redazione del periodico letterario Capitan Francassa, dove pubblicò prose d’arte a cui associava spesso, celandosi dietro a una sequenza di pseudonimi bizzarri (Ariel, Fortunio, Fantasio o Leo Fergus, ad esempio) illustrazioni e disegni realizzati a penna e a matita. Contemporaneamente Fleres si dedicò anche all’attività di scrittore, lavorando allo stralunato scritto La musica dell’occhio.


Gli incontri con Luigi Pirandello si fecero nel tempo più frequenti. Pirandello lesse in vari momenti a Fleres Il Fu Mattia Pascal e i due, insieme, esplorano gallerie d’arte, musei, pinacoteche, per trarne spunti da utilizzare nella produzione letteraria. Contro le mode letterarie, in primo luogo il dannunzianesimo, ma anche il filone della Scapigliatura e in nome di una “sincerità” del fare letterario, fondarono anche una rivista, Ariel (1897-1898), periodico a cadenza settimanale. A presentare al pubblico il romanzo L’Anello è sempre l’amico agrigentino, nascosto dietro il nome d’arte di Giulian Dorpelli. In questo scritto Fleres racconta l’ambiente del teatro operistico alle soglie del ‘900 con tutti i suoi retroscena e i personaggi che vi gravitano; un parallelo, potremmo dire, del pirandelliano Quaderni di Serafino Gubbio operatore, dedicato alla nascente industria cinematografica. Ma il poliedrico messinese è passato alle memorie, soprattutto, per essere stato il primo ad avere dato fisicità e forma concreta al burattino di legno di Carlo Collodi nelle  Avventure di Pinocchio (1882) apparso sul Giornale per bambini. In origine, quello che poi sarà stampato come romanzo nel 1883, era uscito per metà a puntate con un altro nome, ed era stato sospeso quando l’autore, stanco del personaggio, aveva deciso di farlo morire. La prima vignetta si apre proprio sulla scena in cui Pinocchio, impiccato a una quercia, riprende a camminare e porta così avanti la storia. Oltre alle novelle, contenute in Profane Istorie, i romanzi (Vortice esce nel 1887), Fata Morgana (in cui scrisse anche in dialetto messinese) la passione predominante di Fleres resta l’arte, a cui si dedica con fervore, ottenendo, dopo la cattedra di storia dell’arte al Magistero, la nomina a direttore, agli inizi del ‘900, della Galleria nazionale di arte moderna di Roma, carica che mantenne, con qualche interruzione nel periodo della prima guerra mondiale, fino al 1933. Al Fleres si deve anche una interessante produzione nel campo del melodramma, con libretti per il teatro: da Uranio, La tazza per the, a Il trillo del diavolo, messo in musica dal Maestro Falchi.

                                                                                                                Eulalia Cambria

Da Messina a Greenwich: la parabola letteraria di Bartolo Cattafi

Una delle pagine migliori riservate a figure poco raccontate e adornate da orpelli di inchiostro della storia della letteratura italiana del’900 reca il nome di Bartolo Cattafi; personalità, all’interno di questa, tra le più inquiete e singolari. Estraneo alle scuole e alle etichette dei critici, il suo lascito poetico ha coinciso con una ricca avventura umana costellata da viaggi negli anni della giovinezza e della maturità, in primo luogo all’interno del mediterraneo, senza mai sfuggire al richiamo dello Stretto, nonostante le esigenze di trovare un posto nel mondo lo portarono per un certo periodo di tempo, dopo una laurea in Giurisprudenza conseguita all’UniMe, a trasferirsi a Milano, arrivando a stringere contatti importanti coi letterati Giovanni Raboni e Vittorio Sereni, continuando a scrivere versi “in preda a non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, troppo dolci”. In un bel volumetto che è stato pubblicato da pochi anni, curato da Nino Sottile Zumbo – Le isole lontane – si è tenuto conto di questo suo vagabondare come di un serbatoio capace di nutrire fascinazioni dalle quali Cattafi ha tratto memorie organizzate e trasferite sul verso e nei dettagliati reportage, alcuni tuttora inediti.

In una nota autobiografica, del resto, aveva scritto di sé: “Nato il 6 luglio 1922 a Barcellona Pozzo di Gotto (Me) (…). Si reca all’estero ogni volta che può e come può (…). Tra i paesi visitati predilige Irlanda, Inghilterra e Scozia”. Gli anni ’50 e ’60 furono quindi per Cattafi un girovagare dettato da un vero e proprio bisogno, come è stato detto, “biologico”, di far coincidere l’attività poetica con l’esistenza in movimento. La poesia per Cattafi nasce, con parole sue, “sotto il segno dell’imprevisto” ed è di conseguenza “avventura, scoperta” per tentare di approdare a “una decifrazione del mondo”. Questo amore per il viaggio è rivolto più che agli ambienti come entità materiali al modo di percepirli e rappresentarli. Una delle isole lontane di Bartolo Cattafi è proprio l’Inghilterra esaltata nelle prose dai titoli Sbarcare a Londra e Ordinata campagna inglese contenute nell’ultima sezione del volumetto. Per lo scrittore Londra rappresenta un punto cardine non solo geografico, poiché: “Si parte sempre da Greenwich/dallo zero segnato in ogni carta e in questo/ grigio sereno colore d’Inghilterra” (poesia omonima contenuta nella raccolta Partenza da Greenwich, 1955).

Poeta prolifico, pubblicò, fino alla sua morte (avvenuta precocemente nel 1979), un notevolissimo numero di raccolte. Prima tappa cruciale è il volume L’Osso, l’anima (1964), al quale è seguito un lungo periodo di silenzio, non privo tuttavia di una brillante vena creativa espressa nelle opere grafiche e in alcuni oli e acquarelli. Il ritorno alla poesia avvenne con L’aria secca del fuoco (1972): la prima sezione dal nome “lo stretto” comprende sedici poesie dedicate a Messina e al suo mare. Una di queste, Cancro, parla del tram a vapore che collegava la linea Barcellona Pozzo di Gotto – Messina, leggibile sulla targa posta oggi dalla Pro Loco, nella città di nascita del poeta, dove un tempo c’era la stazione e adesso si trova la villa comunale. Tutta la produzione di Cattafi abbraccia sovente colori e immagini che fanno capo a Messina, anche quando il suo autore non amò mai rimanere avvinghiato a un solo paese. A questo proposito occorre citare alcuni versi della poesia intitolata Da donna Giovanna, storica trattoria della città dello Stretto, frequentata anche da Salvatore Quasimodo (“una granita di caffè con panna” diceva “è un endecasillabo perfetto”) che recita: “Qui da Donna Giovanna trattoria/ mangio all’ombra d’eucalipti e di palme assenti/ macerie di terremoti e fumanti sciagure/ fatti d’arme commerci alghe e malcerte/ creature d’abisso marino.”

Tirreno e Jonio

 “Si cambiano sovente i connotati

diventano violenti

schiumano sul luogo dello scontro 

e le seppie schizzano inchiostro

le triglie s’aggirano torve come squali

i passeggeri si tengono alle maniglie

se l’acciuga avanza come un mostro”

 

La stessa scrittura in prosa (spesso con accenti lirici) degli articoli apparsi su varie riviste manifesta questo legame verso quei luoghi dell’infanzia. In un volume fotografico dell’Automobile Club d’Italia,Lo stretto di Messina e Eolie” (1961), l’autore nell’introduzione delinea i tratti geografici e storici della città. Ma Cattafi è uno scrittore che sorpassa la dimensione locale, e se la sua Barcellona gli ha intitolato il Palacultura e lo ricorda (sempre mai abbastanza!) con periodici reading di poesie, aumentano al contempo le traduzioni in lingua straniera. E’ Carlo Bo a usare questi termini: “Quando si tireranno le somme del libro della poesia del Novecento, a Cattafi spetterà un posto privilegiato”. E a noi non rimane che adoperarci per riscoprire un autore a lungo dimenticato nell’attesa di una nuova edizione che consegni la ristampa dell’intera opera.

 

 

Eulalia Cambria

Hermann Hesse e Messina

Herman Hesse in una foto del 1927

Da Gaienhofen, un piccolo centro di tremila anime affacciato sull’Untersee, estensione del Lago di Costanza, giunge ai nostri giorni, dal 1909, una lettera dedicata alla Messina distrutta dal terremoto dell’anno precedente e che porta la firma di Hermann Hesse.

Le poche righe che lo scrittore dedicò in lingua tedesca alla città dello Stretto dimostrano il legame tra Hesse e Messina nei suoi ricordi, memorie che cercheremo di ripercorrere in questo appuntamento della rubrica “Messina da Leggere”.

Il legame tra gli Hesse e Messina nasce nel 1865 quando Marie Hesse, madre di Hermann, intraprese un viaggio con Charles Isemberg, missionario con il quale aveva stretto una relazione, seguendolo, anche dopo il matrimonio, nelle tappe dei suoi viaggi. Fu proprio per questo motivo che, all’età di ventitrè anni, nell’anno del ’25, Marie partì dall’India con il coniuge a bordo della nave “Möris”, documentando in lettere e in pagine di diario tutto ciò che avrebbe visto.

E fu proprio durante una notte di navigazione che la Hesse costeggiò le rive di Messina, ricordando il paesaggio caratterizzato dai dorsali delle montagne buie nell’oscuro cielo stellato, riferendo delle onde danzanti e delle luci rosse e verdi della lanterna del faro. La città, a quell’ora della notte, era sopita in un sonno, probabilmente, senza luci e tutto sembrava, agli occhi di Marie, come lo scenario di un sogno incantato. Tale memoria, infatti, ritorna nella sua confessione con la quale ammise: “Non dimenticherò mai l’incantevole impressione di quella notte in mare”.

Che cosa abbia potuto vedere Marie Hesse in quella notte del 1865? Una descrizione più dettagliata della Messina di quell’epoca si può evincere dai ricordi di Edmondo De Amicis, il quale, proprio negli anni ’60 del 1800 era di “guarnigione” a Messina per la guerra tra Italia e Austria.

Quale fu il valore delle memorie di Maria Hesse per il figlio Hermann lo si evince, invece, dalle righe del romanzo “Hermann Lauscher”, opera autobiografica in cui Hesse rivolge un pensiero alla madre:

Ho ascoltato lettori e narratori e conversatori di fama mondiale e li ho trovati freddi e privi di gusto non appena li paragonavo ai racconti di mia madre.[…] Da dove traggono le madri quest’arte potente e gaia, questa plasticità, questa instancabile sorgente magica dalle loro labbra? Ti vedo ancora, madre mia, con il bel capo piegato verso di me, esile, flessuosa e paziente, con i tuoi incomparabili occhi scuri

Da un legame, dunque, affettivo, caratterizzato da testimonianze indirette, nasce il riguardo il padre letterario del “Siddharta” espresso per Messina nella sua lettera del 1909, emessa dal piccolo borgo di Gaienhofen, nel quale soggiornò, non appena sposatosi con Maria Bernoulli, dal 1904 al 1911, anno in cui Hesse, poi, si trasferì brevemente in India, terra natale della madre, stabendosi, successivamente a Berna.

Francesco Tamburello

 

…uno tra i più talentuosi protagonisti del barocco italiano ha vissuto a Messina?

Caravaggio in un celebre ritratto d’epoca

 Forse non tutti sanno che la città di Messina può vantarsi di essere stata, anche se per un breve periodo, la casa di Michelangelo Merisi, noto come Caravaggio.

Ma cosa spinge il geniale pittore lombardo a stabilire la sua dimora a Messina? Prima di rispondere, bisogna fare delle premesse.

Caravaggio ebbe un’ indole violenta, oggi lo si definirebbe una testa calda. Non stupisce infatti che la sua vita sia stata un susseguirsi di risse, denunce e processi. Momento cruciale è quando, nel maggio del 1606, a Roma, ferisce mortalmente un nobile romano. Per sfuggire alla pena capitale, ossessionato dalla paura della morte, il pittore passerà il resto della sua breve vita -morirà quattro anni dopo, a soli 38 anni– scappando dalle guardie del Papa.

Prima si rifugia a Napoli, poi a Malta. Inizialmente viene accolto nell’ ordine dei Cavalieri di Malta, poi, a causa di una rissa, viene imprigionato dall’Ordine stesso. Grazie all’aiuto della famiglia Colonna, riesce ad evadere e fugge in Sicilia. Dopo essere stato a Siracusa ospite del pittore Mario Minniti (amico e forse anche amante) i due approdano nella città di Messina. Caravaggio vi si ferma per meno di un anno (dalla fine del 1608 fino all’estate successiva), ma è un periodo particolarmente fecondo per la sua produzione artistica.

Ma quindi, perché proprio Messina?

Perché la città offre tutto quello che un artista potrebbe desiderare. In quel tempo a Messina, grazie alla grande crescita economica e alla presenza del suo porto, si sviluppa una borghesia mercantile cosmopolita con un grande senso estetico. Caravaggio, infatti, trova subito diversi committenti, disposti a tutto pur di avere un suo quadro. C’è anche da dire che la protezione di persone potenti, come l’arcivescovo di Messina, e la possibilità di approfondire la conoscenza delle opere di Antonello, potrebbero aver influito sulla sua scelta.

Purtroppo,  nonostante il periodo messinese sia stato piuttosto proficuo, sono pochi i quadri certamente attribuibili alla permanenza del pittore in città.

“La resurrezione di Lazzaro” (a sinistra) e “L’adorazione dei pastori” (a destra). Messina, Museo Regionale.

Sicuramente in quei mesi Caravaggio dipinge “La resurrezione di Lazzaro” e “L’adorazione dei pastori”, opere che è possibile osservare al Museo Regionale. Curioso il fatto che, mentre nella maggior parte delle tele prodotte in quel periodo ricorrono temi come morte e penitenza, gli unici due dipinti sicuramente messinesi hanno come soggetto la vita.

C’è da dire che “La resurrezione di Lazzaro” è protagonista di uno degli aneddoti più noti della vita dell’irrequieto pittore, avvenuto al momento della consegna del dipinto. Sembrerebbe infatti che, a seguito di una critica mossa da un accompagnatore del committente, Caravaggio abbia preso a colpi di pugnale la tela con veemenza. Dopo essersi ricomposto egli si rivolse al committente, dicendogli di non preoccuparsi, in quanto presto avrebbe sostituito la tela appena distrutta con un’altra migliore.

È bello pensare che Caravaggio, il pittore della luce, tra gli artisti italiani più apprezzati al mondo, osservando il sole che emerge dallo Stretto ed illumina la città di Messina, come tutti quelli che giornalmente vedono tale spettacolo, sia rimasto a bocca aperta.

Renata Cuzzola

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  2. Ph: Giulia Greco

Passeggiando con Edmondo De Amicis a Messina

Ritratto fotografico di Edmondo de Amicis

Oggi, Messina da Leggere parlerà di Edmondo De Amicis, professore e autore, tra le tante opere, del celebre libro “Cuore”, romanzo che ha caratterizzato il sentimento patriottico della prima Italia Unita.

Per omaggiare il ricordo del grande scrittore di Oneglia, paesino vicino Imperia e centro della bella Liguria, UniVersoMe ripercorrà i luoghi delle memorie di Edmondo De Amicis lasciate a Messina nel suo viaggio in Sicilia compiuto nel 1905.

Il terremoto che rase al suolo la città nel 1908 ha lasciato poco o nulla di ciò che gli occhi dell’autore videro durante quel particolare soggiorno, ma le sue annotazioni accuratamente scritte sono per tutti i messinesi un dettagliato resoconto della Messina che fu e che più non sarà.

Per poter risentire l’eco distante dei sentimenti che De Amicis provò nella nostra città bisognerà sfogliare le prime pagine del bel volumetto “Ricordi d’un viaggio in Sicilia”, edito da “Il Palindromo”. Il primo luogo letterario legato alla memoria dell’autore ligure è senz’altro lo Stretto di Messina, ritrovato dopo 40 anni trascorsi dall’ultimo soggiorno in terra peloritana, permanenza che vide un giovane De Amicis assegnato “di guarnigione” proprio a Messina negli anni ’60 del 1800, per partecipare alla guerra d’Italia contro l’Austria. Nelle prime annotazioni l’autore volge lo sguardo sullo Stretto e nota sulla sponda calabrese lo sviluppo urbano che fa delle costruzioni edilizie: “Una macchia biancastra da Villa a Reggio” – molto simile alla veduta odierna. All’epoca non c’erano i traghetti che collegavano le due sponde d’Italia, ma i piroscafi che, già allora, imbarcavano i primi vagoni  che viaggiavano sulle prime ferrovie.

La Palazzata del Minutoli in una foto antecedente al terremoto del 1908

Un altro ricordo dell’autore è quel “tramway” che collegava il centro cittadino alla punta del Faro, ferrovia che resistette quasi sino al 1940, quando il tragitto tramviario fu ridotto al contesto urbano.

Ben diversa era anche la cortina della Marina di Messina, la quale agli occhi di De Amicis era caratterizzata da: “Una schiera di edifici uniformi” – tra cui vi era anche la bella “Palazzata” rasa al suolo dal sisma e tipica del nostro porto, mai più ricostruita dopo il terremoto e sostituita da costruzioni razionaliste, tra cui il Palazzo Littorio di fronte Piazza Municipio.

Per ricordare il soggiorno Deamicissiano bisognerà, poi, volgere gli occhi al “Verde lussureggiante della vegetazione che copre l’anfiteatro dei suoi colli e dei suoi monti” – mentre, per rivivere il bellissimo ritratto antropologico delineato da De Amicis sull’indole dei messinesi di allora, sarà utile recarsi al Cimitero Monumentale di Messina, laddove riposano i tanti nomi seppelliti dalle macerie, identità di cui l’autore di Oneglia ricorda – “I caratteri interessanti delle popolazioni di confine” – le quali – “modificano i costumi propri sotto influenze di elementi forestieri”. Rispetto agli altri siciliani, i messinesi conosciuti da De Amicis in quella Messina perduta si distinguevano per un accento meno marcato rispetto ai conterranei delle altre località della Sicilia, con i quali condividevano i – “modi cerimoniosamente cortesi”. Virtù esclusive del messinese dell’epoca erano, però, la – “apertura con gli stranieri”, il lessico dialettale – “ricco di vocaboli importati” – e la presenza di “tanti biondi”, caratteristica che subito risaltò agli occhi dell’autore.

La chiesa dell’Annunziata dei Catalani

Una passeggiata letteraria per i pochi luoghi superstiti e legati alla memoria deamicissiana a Messina sarà utile per ogni messinese che vuole riscoprire la propria identità perduta, l’indole cosciente cancellata dalla successiva ripopolazione urbana, spirito molto affine a quello degli abitanti delle grandi città, depositari di una storia di mercanti, di pirati, di marinai e di porti autonomi: Messina come Genova e Barcelona, godeva e gode di un grande retaggio, la cui prova risiede proprio nelle nostre strade e nella memoria della propria tradizione. Per i meno convinti di questa affinità, sarà utile una passeggiata per la Chiesa della SS. Annunziata dei Catalani, la cui origine e i suoi simboli della facciata testimoniano con migliore eloquenza di qualunque storico la verità del grande ieri che rese Messina protagonista nel Mediterraneo e porta autentica della Sicilia.

Francesco Tamburello

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  1. Di Schemboche – The Critic: https://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=hvd.hnxxb5;view=1up;seq=116;size=200, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=53267636
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  3. Ph: Giulia Greco

Messina borghese e opulenta: lusso e Art Nouveau a Villa de Pasquale

Del terremoto del 1908 ci troviamo spesso a parlare, nella nostra rubrica, come di un evento che fu per la storia urbana messinese un tragico spartiacque fra la Messina dei secoli passati, con la sua fisionomia urbana e i suoi monumenti oggi in buona parte perduti, e la Messina post terremoto, la città in cui oggi viviamo, con le sue luci e le sue ombre. Dobbiamo però ricordare che il grande Terremoto non fu la fine di tutto e che, nei primi decenni del secolo scorso, la città intera fu animata da una incredibile ondata di tenacia e orgoglio, che si esprimeva nel desiderio di ricostruire Messina più grande e più bella di prima. Allo sforzo delle autorità cittadine si aggiungeva quello dei privati, della ricca borghesia: la fisionomia della città che conosciamo, con le sue vie squadrate ed i suoi grandi palazzi in stile eclettico, spesso non privi di un loro fascino e di un loro valore artistico, è proprio il frutto di questo grande slancio ricostruttivo.

Dietro ognuno dei grandi palazzi del centro storico possiamo immaginarci le centinaia di storie di borghesi, imprenditori, banchieri, aristocratici che facevano a gara fra loro nel fare sfoggio delle proprie ricchezze e del proprio potere, e al contempo a lasciare il proprio segno nella fisionomia della città in rinascita; spesso con il contributo di architetti blasonati, come il grande Gino Coppedè che a Messina lasciò molte opere pregevoli. È a uno di questi membri di quella borghesia rampante e vitale, l’imprenditore Eugenio De Pasquale, che si deve la costruzione di una delle più significative testimonianze di quel periodo storico: la preziosa quanto sconosciuta Villa De Pasquale.

 

È il 1912 quando Eugenio De Pasquale, imprenditore agrumario, dà inizio ai lavori per la costruzione di una sontuosa residenza privata. Il luogo designato non è però il centro storico, ma la periferia sud della città, quella che all’epoca ne costituiva la zona industriale: a pochi passi dai grandi agrumeti e dalle sue fabbriche, in cui si trasformavano gli agrumi e i fiori di gelsomino in essenze da usare in profumeria, che venivano rivendute in tutta Italia e nel mondo. È lì che la villa si trova ancora: a pochi passi dal torrente Larderia, in zona Contesse, lungo la antica via Consolare Valeria (oggi denominata in quel tratto via Marco Polo), a meno di un chilometro dall’odierno Policlinico Universitario.

 

La grande villa, restaurata e riaperta al pubblico in tempi relativamente recenti (circa un anno fa) dopo anni di decadenza e abbandono, consta di un ampio parco e di un palazzo in stile neorinascimentale, dalle linee architettoniche sobrie ed eleganti. Dietro il caratteristico cancello a forma di ragnatela, un lungo vialetto porta alla residenza padronale, in cima a una scenografica scalinata. L’atmosfera di serena compostezza dettata dalle linee essenziali della costruzione è la stessa che si respira negli interni ampi e luminosi, che conservano ancora il mobilio d’epoca.

Lontano dalle bizzarrie e dalle stravaganze di molto liberty contemporaneo, qui tutto sembra limpido e razionale, a richiamare gli ideali di bellezza neoclassica e rinascimentale che evidentemente dovevano rientrare nei gusti della ricca committenza; statue, mobili, decorazioni, fregi e dipinti, copie fedeli dalle opere dei grandi maestri del Rinascimento e del Manierismo italiano.

 

Poi il pezzo forte, al piano superiore, con la grande galleria resa trionfo di luce dalle ampie finestre che danno sull’esterno. Sul soffitto dello spazioso salone dipinto in verde, le grandi tavole di Salvatore De Pasquale riproducono capolavori di Tiziano Vecellio e Rubens; in lontananza, fuori, si stende l’abitato di Contesse e, sullo sfondo, la Calabria. Possiamo a stento immaginare quanto suggestivo potesse essere stato questo luogo, quando, nei primi decenni del secolo scorso, le case e i palazzi residenziali erano molto di meno, la campagna molta di più, da queste finestre, Eugenio De Pasquale e i suoi familiari potevano affacciarsi e vedere, in lontananza, la spiaggia e le acque dello Stretto.

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco