Non perché, ma come

“Per molto meno, nei secoli scorsi, scoppiavano guerre e rivolte popolari”. Così D’Amico della Gazzetta del Sud la settimana scorsa chiudeva un articolo riguardo l’isolamento e l’arretratezza in cui verte la Città di Messina.

Fondata come colonia greca col nome di Zancle e poi Messana, la città raggiunse l’apice della sua grandezza fra il tardo medioevo e la metà del XVII secolo, periodo in cui contendeva a Palermo il ruolo di capitale siciliana.

Il nome originario Zancle deriva forse dalla forma a falce della penisola di S. Raineri, la quale oltre ad aver stimolato l’immaginazione dei greci attribuendone l’origine al momento in cui Cronos (padre di Zeus) tentò di scacciare dal trono il padre Urano evirandolo con una falce poi lasciata cadere proprio nello stretto, ha costituito un porto naturale che fu alla base dello sviluppo della colonia greca.

Lo stesso che oggi è snodo fondamentale per le imbarcazioni che solcano il mediterraneo e che nel 2016 è stato il primo porto italiano per traffico passeggeri (250mila in più di Napoli). Considerazioni che poco sembrano interessare alla politica nazionale, la quale toglie a Messina la sede dell’Autorità Portuale e poi la lascia fuori dal fondo di 1 miliardo e 397 milioni di euro destinati alle linee metropolitane e filoviarie delle Città metropolitane e altre città.

Sembra quasi ci sia la volontà di punire ed umiliare ogni volta questa splendida città privandola di tutto, spesso anche di diritti fondamentali. La continuità territoriale, in questa zona così cruciale della geografia italiana, viene negata dallo Stato italiano dato il progressivo rincaro dei biglietti aerei per l’Isola da parte delle compagnie aeree, l’assenza di un’alta velocità ferroviaria (per non dire di treni e binari) insieme alle penose condizioni della Messina-Catania il cui versante peloritano non è stato sistemato nemmeno con la venuta del G7 (Tchamp piss no uor).

Caro voli denunciato nei giorni scorsi ancora una volta dall’associazione “Fuori di Me” con il report annuale, da cui si evince un incremento costante dei biglietti aerei per le tratte che servono la nostra zona con picchi sotto Natale a 603 euro per una A/R sulla tratta Linate-Catania. «Come evidenziato dall’ultimo bilancio demografico – sottolinea l’ex presidente dell’associazione Roberto Saglimbeni –, la città di Messina ha subito una perdita pari a 5000 abitanti (-2,2%) solo negli ultimi cinque anni. È quindi ovvio che c’è una sempre più forte esigenza di collegamenti efficienti, soprattutto aerei».

Una realtà quella del fuorisede messinese che cresce quotidianamente, come attestano i dati Istat pubblicati quest’estate sui quotidiani locali secondo cui Quattromila 20enni hanno lasciato Messina dal 2008 ad oggi. Insomma uno stillicidio di giovani più che una fuga di cervelli. Talenti che devono brillare altrove pur essendo nati e cresciuti qui come il chimico-fisico di 25 anni recentemente intervistato da IlFattoQuotidiano.it Fabrizio Creazzo che dopo la tesi magistrale alla Sorbona ha ottenuto il finanziamento del suo PhD sul carburante ecologico del futuro alla Université Paris-Saclay e Ecole Polytechnique. Dopo un 110 e lode in Fisica all’UniMe Fabio è partito per svoltare la sua situazione economica e professionale come si legge nell’articolo del quotidiano nazionale:

“Io vengo dal Sud ma nonostante ciò, con fatica e sacrifici, ho potuto realizzare la mia tesi magistrale in fisica, con il massimo dei voti, all’Università della Sorbona e ottenere un completo finanziamento da un laboratori d’eccellenza per realizzare il mio PhD sempre in Francia”. Ma non solo: in questi pochi anni di vita parigina Fabrizio ha potuto pubblicare ben tre articoli scientifici, conoscere gli esperti mondiali del suo ambito di lavoro e diventare membro del comitato editoriale di una rivista scientifica a soli 25 anni. “E sono partito da Messina. Tutto questo in Italia sarebbe stato impensabile”.

Tutto ciò potrebbe suonare come un commiserare ripetitivo, una lamentela, di quella che è la situazione attuale, ma ciò che deve spaventare davvero è l’assordante silenzio della classe dirigente locale. L’assenza di politiche concrete che rendano Messina capace di richiamare ed attrarre a sé i più giovani, senza i quali questo posto non ha futuro.

Quando ero all’ultimo anno di Liceo, in occasione del 66^ anniversario della nascita della Regione Sicilia (2012), la mia scuola organizzò un incontro con l’autore del libro “I Siciliani” Gaetanno Savatteri, incontro al quale parteciparono anche l’allora sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca e l’allora assessore regionale alla cultura Mario Centorrino. Mi fu richiesto dal comitato organizzativo insieme ad altri compagni di scuola di porre una domanda allo scrittore. I miei coetanei fecero domande inerenti al libro, alla Sicilia ed alla Mafia, io pensai di andare un po’ fuori traccia. Così presa la parola mi rivolsi direttamente all’assessore regionale e chiesi come potessimo noi giovani una volta terminato il liceo costruirci un futuro rimanendo nella nostra terra. Era un professore distinto, molto pacato, e fu piacevole ascoltare la sua risposta sul perché fosse importante rimanere qui, ma una volta averlo lasciato terminare al microfono dissi: “assessore non le chiedo perché, ma come?”. Lui mi sorrise e fu così gentile da rispondermi che era possibile ma difficile. A distanza di cinque anni però, continuo a pormi la stessa domanda: “Non perché, ma come?”.

Alessio Gugliotta

Dedica di Gaetano Savatteri

 

Sunday in lizza per il David di Donatello: intervista a Danilo Currò

Danilo Currò è un giovane regista italiano, nato a Messina il 6 agosto 1993. Si diploma in Pittura e Decorazioni Pittoriche presso il liceo artistico E. Basile. Approda dapprima alla fotografia, attraverso la quale cura e sviluppa le capacità che lo condurranno ad una più seria ricerca che sfocerà nella scelta della regia come nuovo campo di azione. Nel 2012 la National Geographic Italia seleziona uno dei suoi scatti paesaggistici e in seguito alcune tra le sue fotografie vengono inserite negli album della Leica Talent Italia. Da qui in poi i lavori di regia di Danilo gireranno l’Italia ottenendo vittorie e riconoscimenti vari al Corto Tendenza Festival di Barcellona, al Taormina Film Fest, al Festival di Pordenone ed al Cortona On The Move. Produzione che inoltre sono state trasmesse su Rai 2 e sulla piattaforma online Infinity di Mediaset.

Il 27 novembre del 2015 Currò si è aggiudicato il premio del pubblico, ovvero i lettori de “La Stampa” che hanno votato le fotografie sul web nel concorso fotografico “Sunday Photographers” indetto dal quotidiano nazionale per Photolux Biennale. Nel 2016 ultima il suo primo documentario dal titolo “Sunday”, che segue il filone del progetto fotografico “Black Lips”, raccontando la storia di un giovane migrante. Il documentario è presentato dal regista Gabriele Muccino e partecipa in concorso a numerosi festival internazionali. Dal 2017 vive a Roma e lavora con Palomar al documentario “Indizi di felicità” di Walter Veltroni e nel nuovo film di Gabriele MuccinoA casa tutti bene”. Ci siamo seduti con Danilo a fare due chiacchiere dopo il suo inserimento in concorso al prossimo David di Donatello e lo incontreremo di nuovo il 28 dicembre qui a Messina perchè Sunday verrà proiettato in esclusiva al Cinema Lux alle ore 21:00.

Cosa significa il titolo del documentario “Sunday“? 

Sunday è il nome del protagonista del documentario. Il suo nome completo è Fasasi Sunday Ebenezer.

Sunday sono 23’ di … ?

Sono 23 minuti di respiri spezzati, di parole pesanti e di sorrisi leggeri. 23 minuti in cui un ragazzo non ancora maggiorenne si racconta con semplicità, parlando della sua storia che poi rispecchia quella di molti altri come lui, che è la storia della migrazione. In fuga da un paese che ama ma che lo costringe ad andare via, attraversando il deserto e il mare, per mesi e mesi.

Come nasce la tua passione per il Cinema? 

Nasce in maniera graduale e quasi per caso. Il mio percorso inizia dal disegno, che mi ha portato alla pittura e successivamente alla fotografia. Da lì, dalla fotografia al cinema è stato un attimo. Sentivo il bisogno di muovere le immagini, di unirci altre forme d’arte. L’immagine statica non mi bastava più. E poi quando a 15 anni vedi per caso Arancia Meccanica in tv, o ti disgusti per un qualcosa che non riesci a comprendere e capire, o inizi ad amare quella cosa. E io per fortuna ho iniziato ad amarla.

Che legami hai con la tua città Messina?

Ho un legame profondo e sincero. La amo e la odio, come penso la maggior parte della gente. La odio perché mi ha costretto ad abbandonarla, e la amo perché ogni volta che ci ritorno mi stimola creativamente. Spesso mi piace partire dalla litoranea per arrivare senza sosta fino a su, fino ai Colli. Però diciamo che non riesco mai a ridurre il tutto alla mia città, spesso mi piace parlare di Sicilia. Mi sento siciliano fino al midollo. 

Cosa pensi del tuo inserimento nella categoria cortometraggi al David di Donatello?

Che gran c***! Si può dire? In realtà sono felicissimo perché il documentario ha viaggiato molto durante quest’anno, e sta continuando a farlo. A volte mi porta con se, altre volte sono costretto a lasciarlo andare da solo. E’ la bellezza di un qualcosa che crei e che riesce poi ad essere autonomo, ad essere vista da tanta gente da un punto all’altro dell’Italia. Riguardo ai David non posso che essere orgoglioso del lavoro che siamo riusciti a fare io e gli altri con così pochi mezzi. Per me è già tanto essere in concorso, la candidatura la vedo come una chimera.

Se venissi scelto per la finale quale messaggio vorresti passasse?

Quello della libertà, che poi è l’immagine finale del documentario. Siamo nati liberi in un mondo libero, ed è difficile comprenderne il contrario. Con il mio lavoro cerco di avvicinare al pensiero, alla riflessione di questo. Ma è un messaggio che vorrei passasse ad ogni singola visione, a prescindere dai David.

A cosa stai lavorando per adesso? 

Ho diversi progetti in fase di sviluppo. Diciamo che mi sto dedicando alla scrittura di un lungometraggio, che spero realizzare e di girare anche qui in Sicilia, e perché no, magari a Messina! Ma siccome quando leggo le interviste degli altri a questa domanda si cerca sempre di sviare, prendo esempio da loro e non dico altro!

Ci dici tre personaggi a cui ti ispiri nella tua vita personale e professionale?

In ambito professionale c’è tanta gente a cui mi ispiro, nella forma e nella poetica mi viene da pensare a Bertolucci, Antonioni, Kubrick o Tornatore. Ma è davvero difficile ridurre tutto questo a qualche nome. 

Che consiglio vuoi dare a chi vuole intraprendere la tua stessa strada?

E’ una grossa responsabilità dare consigli, soprattutto di questo tipo. Credo, o almeno è quello che ho imparato finora, che lo studio della storia del cinema sia la base, insieme alla visione di tanti film. E poi c’è la pratica, la tanta pratica che è quella che in ogni cosa ti forma e ti crea artisticamente e professionalmente. Credo che sia importante partire da queste tre cose. E poi ci sono i cliché, costanza e determinazione. Penso che queste due cose facciano la differenza. Il talento possiamo averlo e affinarlo, ma senza quelle due cose lì è veramente difficile farcela. Ci sto provando anch’io, è difficile consigliare cosa è giusto o non giusto. Fate e circondatevi di gente capace.

Alessio Gugliotta

Messina nelle parole di Giovanni Boccaccio

Non ci sono testimonianze scritte del passaggio da Messina di Giovanni Boccaccio, ma le tracce che l’autore lasciò dedicate o riferite alla città dello Stretto, fanno supporre alla fantasia che, almeno una volta nella vita, Boccaccio abbia conosciuto la realtà cittadina messinese.
I lasciti boccacceschi inerenti a Messina sono due, uno meno famoso dell’altro ma, comunque, assolutamente indicativi.
Siamo nella metà del 1300 e Giovanni Boccaccio, toscano di Certaldo, borgo appartenente, oggi, alla provincia di Firenze, era figlio di un mercante, il quale, lo portò con sé sin dalla tenera età, momento, a partire dal quale, il piccolo Giovanni ebbe modo di conoscere quasi tutti i principali porti mercantili italiani.
Queste esperienze gli torneranno utilissime quando, tra gli anni ’40 e ’50 del 1300, l’autore scriverà il Decameron, una raccolta di novelle che costituisce, per la Storia, il primo modello di “romanzo” della borghesia (che all’epoca era una classe nascente seppur non ancora esistente) e rappresenta l’unica opera linguisticamente “poliglotta” (data la presenza di numerosi dialetti diversi).
Tra le tante storie, spicca quella di “Lisabetta da Messina”, ambientata in una città dello Stretto che, all’epoca, era un centro mercantile che riuniva diverse comunità di naviganti-mercanti: in quella Messina si trovavano tutti gli avventurieri e i commercianti figli delle tante Repubbliche Marinare (sarà una costante sino a quasi tutto il 1500, come abbiamo trattato in precedenza, nel caso di Scipione Cigala) e, tra questi, di origine pisana, vi era anche la famiglia di Lisabetta.
La storia è caratterizzata da un amore osteggiato, sofferto e terminato in tragedia (e queste potrebbero essere già le sfumature di una moderna commedia siciliana), con Lisabetta che, in sogno, ritrova l’innamorato scoparso, il quale le rivela di essere stato ucciso dai fratelli di lei che, dopo, lo hanno seppellito in un bosco. La ragazza si reca sul luogo del delitto, riesuma il corpo dell’amato e ne mozza la testa che conserva in un vaso di basilico sul quale piangerà per giorni e giorni. Quando i fratelli scoprono il motivo dello strano comportamento della fanciulla e sradicano la pianta dal vaso, trovando così l’infelice contenuto, lasciano la città per paura di sfuggevoli pettegolezzi.
Di quella Messina, inutile dirlo, non rimane più nessuna testimonianza; sembra, piuttosto, una città diversissima da quella odierna, i cui fervori mercantili e cosmopoliti non animano più il quotidiano messinese e neppure ci son più comunità mercantili straniere che nella città esprimono il proprio benessere e la propria ricchezza con opere monumentali. Una di queste tracce, però, è costituita dalla Chiesa dell’Annunziata  dei Catalani, l’unica testimonianza di una Messina che vantava un ricco ed eterogeneo tessuto cittadino, in cui le varie comunità mercantili, riunitesi in confraternite, esprimevano orgogliosamente i propri simboli attraverso opere e ad architettura.
Altro lascito di Giovanni Boccaccio a Messina è una ricostruzione etimologica “artificiale” sulla toponomastica del termine “Faro di Messina”, che era il termine con il quale all’epoca si designava lo Stretto di Messina.
Come ha ben dimostrato Alessandro De Angelis, Professore presso il nostro Ateneo, Giovanni Boccaccio, in una nota della Commedia di Dante Alighieri, specifica che: “(…) Tra Messina in Cicilia e una punta di Calavria, ch’è di rincontro ad essa, chiamata Capo di Volpe, non guari lontana ad una terra chiamata Catona e a Reggio, è uno stretto di mare pericolosissimo, il quale non ha di largo oltre a tre miglia, chiamato il Fare di Messina. E dicesi “Fare” da “pharos”, che tanto suona in latino quanto “divisione”, perché molti antichi credono che già l’isola di Cicilia fosse congiunta con Italia e poi per tremuoti si separasse il monte chiamato Peloro di Cicilia dal monte Appennino, il quale, è in Italia, e con quella, che era terraferma, si facesse isola”.
Non ci sono prove che questo estratto possa valere come testimonianza di un passaggio di Boccaccio da Messina, ma è più probabile considerare che l’autore, nell’elaborazione di questa etimologia “artificiale”, abbia consultato i trattati scientifici dell’epoca, i quali sostenevano all’unanimità la tesi della separazione della Sicilia dal continente italico in seguito a terremoti avvenuti in epoche arcaiche.
Rimane, tuttavia, un prestigioso lascito da parte di un grande esponente della Letteratura Italiana alla nostra città, la quale non ricorda o non si impegna nel celebrare quelle virtù che il suo grande passato le ha attribuito.

Francesco Tamburello

Image credits:

https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Boccaccio_by_Morghen.jpg

…dietro le origini della nostra Università si cela un primato mondiale?

Il portale dell’antico collegio, nel cortile interno della nuova sede universitaria

Ebbene sì, possiamo vantarcene: la nostra Università detiene un primato storico-culturale a livello mondiale! Fu fondata, infatti, dalla Compagnia di Gesù come primo collegio al mondo aperto esclusivamente ai laici. “Primum ac Prototypum collegium”: così si legge sull’iscrizione in latino posta sopra l’antico portale del collegio, unico elemento rimasto della struttura originaria e ancora oggi visibile nel cortile della sede centrale dell’università, passando da via Venezian. Non si trattava, dunque, solamente del primo istituto di formazione gesuita ma anche di un prototipo, un modello per le innumerevoli strutture che tale ordine religioso avrebbe costruito a seguire in tutto il mondo.

Le origini di quello che può considerarsi il nucleo storico della nostra Università risalgono al 1548. In quell’anno il Senato messinese, appoggiato dal viceré Juan de Vega, diede il suo consenso alla fondazione di un collegio gesuita. Ad interessarsi personalmente e a presentare istanza per la creazione dell’istituto di formazione presso il papa, Paolo III, fu sant’Ignazio di Loyola in persona.

Ignazio di Loyola in un dipinto di Pieter Paul Rubens

Il religioso spagnolo, fondatore nel 1534 della Compagnia di Gesù, si trovava allora in Italia con i suoi; qui si dedicava alle opere di carità e alla predicazione, attività principali del neonato ordine religioso. In Messina, posta tra l’Occidente e l’Oriente, scorse il terreno adatto in cui creare un importante centro culturale e religioso; così, il 16 novembre del 1548, ottenne l’istituzione formale dello Studium attraverso la bolla papale “Copiosus in misericordia Dominus”. Questa prevedeva che a gestire il collegio fosse proprio la Compagnia del Gesù, mentre spettava alla città finanziarne le attività.

Ovviamente ciò portò i gesuiti e le istituzioni locali ad avere non pochi contrasti, che si sarebbero risolti nel 1550 con la divisione dello Studium in due rami: uno laico, con gli insegnamenti di diritto e medicina, retto dal Senato; l’altro gesuitico, con gli insegnamenti di teologia e filosofia, retto dalla Compagnia di Gesù. Quest’ultima poi, nel 1565, verrà addirittura estromessa totalmente dalla gestione dello Studio, il quale aderirà al modello universitario “bolognese”.

Un altro ostacolo, non di poco conto, che la neonata Università messinese si trovò ad affrontare fu l’ostilità del Siciliae Studium Generale di Catania, che, istituito nel 1445, rivendicava solo per sé il diritto di conferire titoli dottorali in Sicilia. Solamente nel 1596, grazie all’intervento del tribunale della Sacra Rota, lo Studium di Messina conferì la sua prima laurea. Nello stesso periodo la città ottenne da Filippo II una cospicua donazione di 200 mila onze, che permise la rifondazione dell’Università.

Da allora ha inizio una storia che, passando tra varie chiusure e successive riaperture dello Studium, collegate alle vicissitudini storiche della città dello Stretto, porta ai nostri giorni ed a quella che è oggi la nostra Università. La quale, diciamolo, ha avuto degli albori tanto originali quanto gloriosi!

Francesca Giofrè

Vuoi saperne di più? Leggi anche questo articolo per approfondire!

Image credits:

  1. Giulia Greco
  2. Di Pieter Paul Rubens – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6675601

Messina da Leggere: la Città come parco letterario

 

 

In quanto porta della Sicilia, Messina, nei suoi quasi tremila anni di storia, è stata porto per antonomasia di flussi commerciali e culturali.

Poiché l’arte, evolutasi di pari passo con il progresso della società umana, è stata, spesso, ambasciatrice e voce espressiva del patrimonio culturale delle varie etnie succedutesi come dominatrici ed anima della nostra isola, questa rubrica vuole ripercorrere e rivalutare, attraverso l’indagine nel vasto mondo della letteratura, i luoghi della nostra città che quotidianamente appaiono abituali, talvolta anonimi allo sguardo del messinese, ma che, al contrario, proprio dietro il loro silenzio, nascondono una storia narrata dalla penna dei più grandi autori della nostra cultura di tutti i tempi.

Cercheremo, in questo modo, di ripresentare Messina come “parco letterario”, secondo l’idea che fu di Stanislao Nievo, il quale nel 1992, forgiò questo termine per indicare tutti quei luoghi che hanno ispirato un autore nella produzione di opere letterarie.

Il concetto di “parco letterario” si contrappone nettamente al pensiero disfattista e pessimista che spoglia Messina di ogni bellezza ed interesse. Per dare al lettore un’idea di cosa si intende per “parco letterario”, basti pensare alla fortuna che la città di Messina può vantare quotidianamente nell’affacciarsi sullo Stretto di Messina: proprio tra i due lembi di Sicilia e Calabria separati da una striscia di mare, l’aedo Omero narrò dei due famigerati mostri Scilla e Cariddi,  famelici divoratori di navi e marinai, tra le cui grinfie passò la ciurma dell’impavido Ulisse. Quello stesso scenario ritorna nei ricordi successivi di un turista Edmondo De Amicis che, nel 1866, scrisse nel suo diario di viaggio della: “La bella Messina, privilegiata d’una delle più favorevoli situazioni geografiche del mondo, dove due mari si congiungono (…)” – tracciando dei messinesi un profilo dettagliato degno di riguardo.

La dolce penna di De Amicis, testimone della precoce ripresa della città dal terribile terremoto che la rase al suolo nel 1783, segue proprio l’apocalittica cronaca del disastro sismico riportata da un altro grande padre della letteratura europea quale Wolfgang Goethe. Di una Messina che non esiste più ci parlano, ancora, le annotazioni del professor Giovanni Pascoli, il quale nel 1898, dal balcone della propria abitazione in Piazza Risorgimento (l’odierna Piazza Don Fano), scrisse della veduta attraverso la finestra di Palazzo Sturiale: “Si vede il forte Gonzaga sui monti…dall’altra finestra il mare, su l’Aspromonte…” , tessendo gli elogi della straordinaria natura geografica di Messina e del suo porto, che definì “il più bel porto del mondo” ; e fu proprio da quella posizione che, qualche decennio prima, il filosofo Friedrich Nietzsche, dalla stiva di una nave proveniente dal continente italiano, scrisse piccoli componimenti noti come “Idilli di Messina”. Benché i poemetti del filosofo non rechino alcun riferimento alla città, il lettore potrà rivivere senz’altro l’animo di Nietzsche recitando i brevi ed eccentrici versi davanti una cortina del porto che, a causa del sisma del 1908, non presenta più i caratteri che il pensatore poté ammirare dal ponte della nave. Allo stesso modo quei ricordi dell’allora elegante porto di Messina sormontato dalla raffinata e monumentale Palazzata, permangono nei diari di altri grandi intellettuali e scrittori che visitarono la nostra città, i quali le riconobbero un carattere cosmopolita del tutto unico rispetto agli altri capoluoghi siciliani, prerogativa che non intaccò mai lo stereotipo del messinese generoso, polemico e chiacchierone, tipicamente siciliano.

L’elevata considerazione di Messina da parte dei grandi intellettuali ed artisti della nostra storia, è dimostrata dalle cronache che ricordano un Richard Wagner e signora passeggiare frequentemente presso la piazza del Teatro Vittorio Emanuele; sempre a Messina,  in una non specificata chiesa a metà degli anni ’70 del 1800, si celebrò il matrimonio tra il grande poeta catanese Mario Rapisardi e la giovane Giselda Fojanesi, unione che causò, successivamente, l’attrito tra il Rapisardi ed il più giovane Giovanni Verga, instancabile dongiovanni e corteggiatore della Fojanesi.

Ben più importante valore hanno, di certo, le numerose dediche che vari intellettuali ed artisti rivolsero alla città all’indomani del terribile sisma del 1908: tra questi vanno ricordati Hermann Hesse, Ruggero Leoncavallo, il succitato Pascoli, Salvatore Quasimodo, Gabriele D’Annunzio e tanti altri monumenti della cultura che ebbero a cuore la nostra città e dei quali la nostra rubrica approfondirà emozioni, sentimenti e ricordi tangibili dai loro lasciti letterari.

Saranno proprio queste memorie a cui la rubrica porrà attenzione, ripercorrendo meno i funerei elogi della città distrutta, quanto più soffermandosi sul ricordo felice dei luoghi tutt’ora esistenti di Messina che testimoniano, silenti, i passi, le parole, i versi e le prose custodi di un passato ormai perduto ma che, nonostante ciò, ci appartiene come eredità identitaria del vero messinese, attraverso la testimonianza e le parole degli illustri.

Francesco Tamburello 

Messina borghese e opulenta: lusso e Art Nouveau a Villa de Pasquale

Del terremoto del 1908 ci troviamo spesso a parlare, nella nostra rubrica, come di un evento che fu per la storia urbana messinese un tragico spartiacque fra la Messina dei secoli passati, con la sua fisionomia urbana e i suoi monumenti oggi in buona parte perduti, e la Messina post terremoto, la città in cui oggi viviamo, con le sue luci e le sue ombre. Dobbiamo però ricordare che il grande Terremoto non fu la fine di tutto e che, nei primi decenni del secolo scorso, la città intera fu animata da una incredibile ondata di tenacia e orgoglio, che si esprimeva nel desiderio di ricostruire Messina più grande e più bella di prima. Allo sforzo delle autorità cittadine si aggiungeva quello dei privati, della ricca borghesia: la fisionomia della città che conosciamo, con le sue vie squadrate ed i suoi grandi palazzi in stile eclettico, spesso non privi di un loro fascino e di un loro valore artistico, è proprio il frutto di questo grande slancio ricostruttivo.

Dietro ognuno dei grandi palazzi del centro storico possiamo immaginarci le centinaia di storie di borghesi, imprenditori, banchieri, aristocratici che facevano a gara fra loro nel fare sfoggio delle proprie ricchezze e del proprio potere, e al contempo a lasciare il proprio segno nella fisionomia della città in rinascita; spesso con il contributo di architetti blasonati, come il grande Gino Coppedè che a Messina lasciò molte opere pregevoli. È a uno di questi membri di quella borghesia rampante e vitale, l’imprenditore Eugenio De Pasquale, che si deve la costruzione di una delle più significative testimonianze di quel periodo storico: la preziosa quanto sconosciuta Villa De Pasquale.

 

È il 1912 quando Eugenio De Pasquale, imprenditore agrumario, dà inizio ai lavori per la costruzione di una sontuosa residenza privata. Il luogo designato non è però il centro storico, ma la periferia sud della città, quella che all’epoca ne costituiva la zona industriale: a pochi passi dai grandi agrumeti e dalle sue fabbriche, in cui si trasformavano gli agrumi e i fiori di gelsomino in essenze da usare in profumeria, che venivano rivendute in tutta Italia e nel mondo. È lì che la villa si trova ancora: a pochi passi dal torrente Larderia, in zona Contesse, lungo la antica via Consolare Valeria (oggi denominata in quel tratto via Marco Polo), a meno di un chilometro dall’odierno Policlinico Universitario.

 

La grande villa, restaurata e riaperta al pubblico in tempi relativamente recenti (circa un anno fa) dopo anni di decadenza e abbandono, consta di un ampio parco e di un palazzo in stile neorinascimentale, dalle linee architettoniche sobrie ed eleganti. Dietro il caratteristico cancello a forma di ragnatela, un lungo vialetto porta alla residenza padronale, in cima a una scenografica scalinata. L’atmosfera di serena compostezza dettata dalle linee essenziali della costruzione è la stessa che si respira negli interni ampi e luminosi, che conservano ancora il mobilio d’epoca.

Lontano dalle bizzarrie e dalle stravaganze di molto liberty contemporaneo, qui tutto sembra limpido e razionale, a richiamare gli ideali di bellezza neoclassica e rinascimentale che evidentemente dovevano rientrare nei gusti della ricca committenza; statue, mobili, decorazioni, fregi e dipinti, copie fedeli dalle opere dei grandi maestri del Rinascimento e del Manierismo italiano.

 

Poi il pezzo forte, al piano superiore, con la grande galleria resa trionfo di luce dalle ampie finestre che danno sull’esterno. Sul soffitto dello spazioso salone dipinto in verde, le grandi tavole di Salvatore De Pasquale riproducono capolavori di Tiziano Vecellio e Rubens; in lontananza, fuori, si stende l’abitato di Contesse e, sullo sfondo, la Calabria. Possiamo a stento immaginare quanto suggestivo potesse essere stato questo luogo, quando, nei primi decenni del secolo scorso, le case e i palazzi residenziali erano molto di meno, la campagna molta di più, da queste finestre, Eugenio De Pasquale e i suoi familiari potevano affacciarsi e vedere, in lontananza, la spiaggia e le acque dello Stretto.

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Museo di Messina: l’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli Italiani

Il sabato scorso, dopo mesi e mesi di attesa trepidante, ho finalmente potuto varcare la soglia della sede definitiva del Museo Regionale di Messina, che dalle 20:30 alle 22:30 apriva i suoi battenti gratuitamente al pubblico: la prima apertura completa della struttura museale, a distanza di oltre cento anni dalla sua nascita. Insieme a me una folla notevole (lascio ai contabili del giorno dopo la stima dei numeri, per me erano e resteranno sempre “chio’ssai d’i cani i Brasi”, come si dice a Messina) composta da gente di ogni età, ceto e condizione sociale accorsa da tutta Messina e anche da fuori, anche a seguito della notevole campagna pubblicitaria che questa volta ha coinvolto anche le reti televisive nazionali.

Nel mio personale sentire, il Museo Regionale di Messina, fin dalle prime volte in cui lo visitai da piccolo, è sempre stato un luogo speciale, quasi sacro. Uno scrigno della memoria, come ebbi modo di scrivere in un articolo in occasione della apertura parziale di Dicembre. Un grande tempio laico dedicato a Messina. Mi piace pensare che nessun altro museo al mondo possa vantare una storia simile, anche se forse non è così. La sua storia si intreccia indissolubilmente con quella del Terremoto del 1908: prima era poco più che una pinacoteca comunale sorta dal confluire di collezioni private.

Poi accadde il disastro, e secoli interi della storia e del patrimonio artistico di Messina furono cancellati dalla faccia della Terra. Il moderno Museo Regionale nasce da quelle macerie, dal lavoro paziente di tanti messinesi che si misero a frugare in quelle rovine, a tirarvi fuori tutto ciò che potesse avere un qualche valore storico e artistico, ed ad ammucchiarlo, accatastarlo nella antica sede del convento del SS. Salvatore dei Greci, dove si trovava la filanda Barbera-Mellinghoff, che per tanti anni ne è stata la sede provvisoria. Il loro sogno era che un giorno tutto potesse tornare a vivere, che la antica Messina dei secoli d’oro, la Messina che il terremoto aveva sfregiata, distrutta, annichilita, potesse in parte tornare a esistere. Melior de cinere surgo: come l’araba fenice, anche Messina con la sua storia e la sua cultura sarebbe un giorno risorta dalle sue ceneri.

Ci sono voluti oltre cento anni affinché questo sogno divenisse realtà. Oggi, finalmente, Messina ha il suo Museo Regionale. Un percorso espositivo unico, fra i più estesi del Meridione, in grado di raccontarci secoli di storia: dalla Zancle greca al Medioevo arabo-normanno, dal Quattrocento della Scuola fiamminga e di Antonello fino al Rinascimento, Montorsoli, Calamech, Polidoro Caldara, Alibrandi, allievi di Michelangelo e Raffaello. E poi il seicento, Caravaggio e i caravaggeschi, gli splendori del barocco, gli argenti e i marmi a mischio del Settecento, la lenta decadenza dell’Ottocento. Un viaggio nella storia di Messina dalle origini ai giorni nostri attraverso i suoi capolavori più belli e preziosi. 

Insomma, l’Italia è stata fatta (e finalmente, aggiungerei). Adesso, però, si devono fare gli Italiani. L’apertura completa del Museo Regionale è senza dubbio un traguardo: ma deve essere il primo di una lunga serie. Un Museo così grande e importante come quello che ha appena aperto le sue porte rappresenta una risorsa invalutabile per quello che è e che sarà il turismo culturale nella Città dello Stretto e nei suoi dintorni. Non può né deve permettersi di restare confinato al margine della sua vita sociale; deve, al contrario, rivendicare orgogliosamente il ruolo e la posizione di fulcro, di guida e di punto focale per la rinascita culturale della città. 

Questa nuova apertura pone dunque alla direzione grandi responsabilità, apre nuovi orizzonti e offre nuove sfide. Una ad esempio potrebbe essere quella di porre il Museo, da sempre in una posizione periferica rispetto al centro storico, nel posto che si merita all’interno dei già ridotti circuiti turistici della città. La stagione estiva è alle porte, visitatori e croceristi cominciano timidamente ad affollare le vie del centro; se già adesso è difficile che si spingano oltre il “triangolo magico” incluso fra Piazza Duomo, l’Annunziata dei Catalani e Palazzo Zanca, e forse del Museo Regionale ignorano persino l’esistenza, chi li porterà fino al Torrente Annunziata per vederlo?

Insomma, il lavoro è appena cominciato e servirà un rinnovato impegno, e la formazione di nuove sinergie con il Comune e con gli enti pubblici, affinché il nuovo Museo possa sviluppare in pieno le sue potenzialità benefiche per l’intera città di Messina. A noi visitatori resta la speranza che la recente apertura completa si riveli non un comodo letto di allori su cui sdraiarsi a riposare, ma la prima tappa di un lungo percorso di rinascita: un percorso che abbia come obiettivo finale la riscoperta, agli occhi dei messinesi e del mondo intero, di Messina e della sua bellezza. 

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

La storia fantastica del cinema America. Il recupero dei beni comuni

C’era una volta a Trastevere , in via Agostino Bertani, il teatro Lamarmora , là al suo posto negli anni Cinquanta venne costruito il Cinema America.

L’arena venne chiusa nel 1999 per fare spazio prima ad una sala bingo e poi ad una palazzina ad uso residenziale.
A Roma come nel resto di Italia, negli anni a venire, vengono chiuse tante sale: cementificare piuttosto che curare e valorizzare il luoghi di cultura.
Nel 2008 il “comitato cinema America” , grazie anche al supporto dei trasteverini, riesce a bloccare il progetto di costruzione di un palazzo ad uso abitativo,ma le richieste per destinarlo ad uso sociale e culturale vengono rifiutate e la sala viene abbandonata.
È il 2012, accade un evento tipicamente giovanile: i “trast invaders” , ragazzi del liceo e dell’università, occupano per qualche ora il cinema e grazie alle foto che affollano i giornali la condizione di degradante abbandono del luogo è sotto gli occhi di tutti.
Di propria iniziativa e con il supporto degli abitanti del quartiere i ragazzi ricostruiscono il tetto, i pavimenti e creano una biblioteca e un’aula studio. Diventa uno spazio di aggregazione culturale.

Veloce aumenta l’interesse di attori, registi e produttori che passano dalla sala e supportano i ragazzi.
La sala è piena ogni giorno, vengono proiettati film e presentati prima dagli stessi registi o attori creando una atmosfera di scambio culturale. Il Maestro Ettore Scola è stato da sempre vicino a loro.
La storia non finisce qui: i ragazzi vengono fatti sgomberare ma i trasteverini, conquistati dalla passione dei ragazzi, concedono in comodato d’uso l’ex forno accanto il cinema.
È ora che nasce l’arena San Cosimato : cinema all’aperto nella piazza di Trastevere.
Più di un successo.

Questa è una storia di sgomberi, occupazioni e continue battaglie legali, l’ultima vede protagonista la sindaca Raggi e la l’appello del mondo del cinema (in direttissima da Cannes sottoscrivono Almodovar, Chastain e Sorrentino). Passando per iniziative bellissime come gli “Schermi pirata” e proiezioni nella periferia romana.
Intanto i ragazzi sono riusciti a vincere il bando per l’assegnazione della sala Troisi , altra sala chiusa da anni, e anche quest’anno da giugno ad agosto la piazza San Cosimato si illumina di cinema e riempie di persone (https://trasteverecinema.it/).

La realtà italiana vede, nella maggior parte delle città, sempre più coinvolti i cittadini nella cura e recupero dei beni comuni.
Non solo le sale vengono chiuse sempre più frequentemente, i luoghi di cultura o di interesse artistico vengono tenuti chiusi per mancanza di fondi. O almeno così molti dicono.

Le vicende che ho riportato potrebbero essere solo l’inizio di un vero e proprio movimento culturale italiano.
Chi meglio di noi, col nostro patrimonio, dovrebbe recuperare il rapporto coi nostri luoghi? Ritrovandone la bellezza, curandoli, rispettandoli e valorizzandoli tramite attività culturali : dalle proiezioni alle esibizioni alla creazione di luoghi di ritrovo per scambiare idee e conoscenza.
A Messina ci sono una quantità di luoghi chiusi al pubblico, riaperti ogni tanto per le Giornate di Primavera del Fai, che hanno tutte le caratteristiche.

È una idea bizzarra forse e potrebbe spaventare perché è un territorio ignoto.

I ragazzi del cinema America erano interessati ad avere uno spazio dove fare cultura, tutto è stato consequenziale, hanno studiato, hanno imparato a chiedere autorizzazioni e permessi, si sono fatti aiutare dai consigli di esperti. Difendono l’arte e i beni comuni, in un mondo che sembrerebbe andare in direzione contraria.
Non hanno mollato davanti alla bestia nera italiana che è la burocrazia.
Grazie ragazzi.

Checché se ne dica i “giovani d’oggi” sono interessati alla cultura, molto. Sono certa che non solo a Roma starebbero (o stanno già) in prima fila per migliorare la condizione delle città.
Questa è una avventura che stimola chi , come i ragazzi dell’America, ama i luoghi che ha attorno e crede nelle stesse idee.

Si dice sempre che l’Italia potrebbe andare avanti solo col patrimonio culturale e paesaggistico che ha, e allora perché non osare? 

Arianna De Arcangelis

 

ndr: per chi fosse interessato qui il link della pagina Facebook https://www.facebook.com/piccoloamerica/

Macalda di Scaletta: una dama guerriera nella Messina del Medio Evo

Nella folta schiera di personaggi che la Storia ha cristallizzato nella leggenda, trasformandone la memoria in un tutt’uno fra il mito, la diceria, l’aneddoto, l’epopea e la realtà storiografica, non può non rientrare il nome di Macalda di Scaletta. 

La sua è una storia affascinante, una autentica parabola che portò questa donna bella e ambiziosa, ricca e potente ma di umili origini, alla corte di uno dei più grandi monarchi di Sicilia, Re Pietro il Grande d’Aragona. Una storia fatta di intrighi e di tradimenti, sullo sfondo della caotica Sicilia dell’epoca dei Vespri Siciliani. 

Dalla montagna di scritti su Macalda è difficile capire dove finisce la leggenda e inizia la realtà. Si sa che nacque a Scaletta, vicino Messina, intorno al 1240, e che ereditò dal padre, Giovanni, il castello di Scaletta, solida roccaforte strategica sulla strada fra Catania e Messina, che tutt’ora si erge maestoso a guardia di quel tratto della riviera jonica. A differenza di quel che si potrebbe pensare però, le origini di Macalda erano umilissime: il nonno era un militare di bassa estrazione sociale, tanto da essere soprannominato “Matteo Selvaggio”, che aveva acquisito il castello dietro concessione reale e che aveva avuto la fortuna di arricchirsi grazie al rinvenimento di un tesoro nascosto al suo interno. 

Una famiglia di inarrestabili arrampicatori sociali di cui Macalda è degna discendente: dopo aver sposato in prime nozze un nobile caduto in miseria, Guglielmo Amico, alla morte del primo marito dà già mostra del suo carattere spregiudicato e indipendente, finendo a girovagare per la Sicilia travestita da frate francescano, fra espedienti e avventure amorose. 

“Molto bella e gentile, e valente nel cuore e nel corpo, generosa nel donare e, a tempo e luogo, valorosa nelle armi al par d’un cavaliere”: è questo il ritratto che fa di lei un suo contemporaneo, lo storico catalano Bernat Desclot. Qualche anno dopo, questa giovane dama guerriera viene data in moglie ad Alajmo da Lentini, anziano uomo d’arme e politico navigato alla corte angioina; a questo altrettanto spregiudicato e ambizioso personaggio, che già anni prima non aveva esitato a tradire Manfredi di Svevia per ottenere il favore degli Angioini, si deve parte del suo successo.

Di lì a qualche anno, infatti, Alajmo non esita a tradire anche Carlo d’Angiò schierandosi a favore dei siciliani insorti nella rivolta dei Vespri. Quando re Carlo scende alla testa dei suoi uomini per sedare la rivolta, è Alajmo, nelle vesti di Capitano del Popolo di Messina, a frapporsi fra lui e il suolo siculo e sarà lui il grande regista della difesa cittadina durante l’assedio di Messina del 1282, punto di svolta della prima guerra del Vespro e tappa fondamentale della storia della città, mentre alla moglie, in sua assenza, viene affidato il governo di Catania.

All’arrivo nell’isola di Pietro d’Aragona, acclamato dagli insorti Re di Sicilia, Alajmo da Lentini viene premiato per la sua strenua resistenza col titolo di Gran Giustiziere del Regno: lui e la moglie diventano così fra i più alti dignitari della nuova corte di Sicilia. Ma a Macalda non basta: quando il re entra in trionfo a Randazzo Macalda non si fa sfuggire l’occasione per farsi notare e gli viene incontro a cavallo, in armatura, con in mano una mazza d’argento. Ben presto diventano evidenti le sue intenzioni di sedurre il Re per diventarne la favorita: intenzioni che non sfuggono alla moglie, la regina Costanza di Hohenstaufen, legittima erede di Federico II di Svevia, con cui presto inizia una rivalità spietata, una autentica escalation di provocazioni e continui sfoggi di potere e ricchezza.

Così, quando Alajmo da Lentini, sospettato dell’ennesimo tradimento, cade in disgrazia presso il nuovo Re, anche Macalda ne condivide la sventura. Mentre il marito, dopo essere stato convocato in Spagna, viene fatto giustiziare, Macalda finisce i suoi giorni in prigionia, nel castello messinese di Rocca Guelfonia. Anche da prigioniera, i suoi comportamenti restano assolutamente sopra le righe: si racconta che destasse stupore per la vivacità e l’immodestia dei suoi abiti, mentre trascorreva le giornate intrattenendosi a giocare a scacchi con un altro nobile prigioniero del castello, l’emiro Margam Ibn Sebir.

Sublimato nella leggenda, il personaggio di questa straordinaria siciliana anche a distanza di secoli non esaurisce il suo fascino; nel tempo, la si ritrova come protagonista di diverse leggende e racconti popolari siciliani. Nell’Ottocento Michele Amari, storiografo siciliano, la riscopre come personaggio storico e riferisce con gusto prettamente romantico e dovizia di particolari tutti i particolari più rocamboleschi delle sue avventure; qualche decennio dopo, Macalda diventa addirittura la protagonista di poemi e melodrammi.

Femminista ante litteram o ambiziosa femme fatale? Spregiudicata arrivista o valorosa amazzone guerriera? Eroina romantica o donna del suo tempo? Macalda di Scaletta è stata un po’ di tutto questo e un po’ niente. La sua storia si perde nel mito e ne trasforma il personaggio in un archetipo, enigmatico e complesso, di indomita donna siciliana. 

Gianpaolo Basile

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  3. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=849228
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#loveislove, ma non basta

Omosessualità: se non fossi in Italia, sarebbe difficile scrivere di questo argomento.

Perché? ”- direte. Per il semplice fatto che in ben 22 paesi è vietato anche solo pronunciare la ”temibile” parola omosessuale.
Ad esempio, in Medio Oriente l’omosessualità risulta un’espressione dell’occidentalizzazione e, quindi, saldamente condannata.

Essere gay, però, non è un’invenzione occidentale, ma è una condizione assolutamente naturale della realtà umana – affermava Hillary Clinton nel lontano 7 dicembre 2011, in occasione della Conferenza organizzata dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).  Sei anni dopo questo famoso discorso, nonostante la tutela degli omosessuali ed il riconoscimento del matrimonio gay, negli Stati Uniti esistono ancora delle criticità e, con la recente elezione di Trump alla presidenza, si prevedono tempi duri per le LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender).

Se nel continente americano, gli omosessuali – seppur non totalmente in egual misura – vengono riconosciuti, tutelati e hanno diritti al pari di ogni cittadino ritenuto ”normale”, facendo un salto nelle terre storicamente nemiche degli USA, esiste una realtà più assurda di una classificazione di cittadini A e B.

Yuri Guaiana, da sempre attivista gay, ci dimostra che proprio in questi paesi dell’Est Europa, il #loveislove per molti è una realtà utopistica.

Come è stato raccontato in vari reportage, la situazione degli uomini nella piccola repubblica caucasica è tragica: almeno un centinaio di gay sono detenuti illegalmente in un centro di prigionia ad Argun, ad est della capitale Groznyj. Secondo i testimoni, i prigionieri vengono catturati attraverso uomini-esca che si fingono a loro volta gay, portati in luoghi segreti e torturati a lungo con tubi di gomma o cavi elettrici; vengono anche ricattati fino a dover pagare un vero e proprio pizzo in denaro per evitare l’outing.

In molti sono già scappati dalla loro terra natia, quella che li sevizia nei nuovi lager del 2017.

Di fronte allo sdegno mondiale per quanto sta accadendo, quindi, l’ALL OUT ha raccolto due milioni di firme, in cui si chiede la fine immediata delle persecuzioni in Cecenia.

Motivi, questi, per cui Yuri Guaiana si è recato a Mosca dove ha consegnato la petizione con tutte le firme raccolte. Come poteva rispondere la pacifica Federazione? Guaiana è stato prima arrestato e poi, su pressione della Farnesina, rilasciato.

La situazione in Cecenia è talmente grave che diversi politici stranieri hanno sentito il dovere di condannare le violenze e le intimidazioni contro la gay community cecena.

Ma l’Italia? Sembra essere avara di parole da spendere in merito. Il ministro Andrea Orlando, solo in occasione dell’incontro per il primo anniversario dell’approvazione delle unioni civili, ha condannato la situazione, ricordando che Putin è al centro di simpatie di alcuni politici italiani. Poi, in prima linea, il silenzio di Angelino Alfano, responsabile degli Esteri e – per voler finire – il totale disinteresse dei media.

Ma d’altronde, si sta parlando di omosessuali, mica di diritti umani.
Si sta chiacchierando solo di un nuovo stile di vita condivisibile o meno, mica di violenza ingiustificata, di razzismo o di ghettizzazione.

O forse, si sta parlando di coraggio, di amore, un sentimento che non dovrebbe subire discriminazione, che dovrebbe essere libero per tutti; quell’amore che non dovrebbe avere sessualità, ne pregiudizi o intolleranze. Eppure, adesso, l’amore non basta per vincere l’ignoranza e la violenza di chi non lo conosce.

Jessica Cardullo