Castello Larcan-Gravina Acquedolci

È storia quella dietro al Castello “Larcan-Gravina” di Acquedolci, per certi versi dimenticata ma mai completamente.

La moderna cittadina di Acquedolci si è sviluppata dopo la Frana di San Fratello il 9 luglio 1922, durante il Governo Facta con la legge n. 1045 approvata da Vittorio Emanuele lll Re d’Italia.

Il nuovo centro della cittadina si sviluppava proprio nelle vicinanze dell’antico Castello “Larcan-Gravina” che con la sua Torre stava a vedetta del territorio da numerosi secoli.

LA RINASCITA DI UNA STORIA DIMENTICATA

IL NUCLEO DEL CASTELLO. LA TORRE ATÀLIA 

 

 

Castello Larcàn - Gravina di Acquedolci
Torre Atàlia – ©Enrico Caiola

 

Nel 1395 giunse in Sicilia il Principe Martino detto il Giovane, di origine spagnola. Egli saliva al potere grazie al matrimonio con la giovane Regina Maria d’Aragona, ultima discendente del Regno di Sicilia.

Dopo la sua salita al trono spartì tra i suoi cavalieri più fedeli i feudi siciliani.

Uno dei cavalieri che si distinse di più fu Ugerotto Larcàn.

Egli mostrò il suo coraggio contro la resistenza che Federico d’Aragona aveva organizzato contro il Principe Martino. Ugerotto ricevette il Feudo di “San Filadelfio e delle Acque Dolci” nel 1398 e fu autore della costruzione della Torre Atàlia nell’anno 1405. Il tentativo era quello di difendere il territorio da possibili attacchi pirateschi dei Saraceni che infestavano la costa e saccheggiavano i feudi.

Il termine Atàlia è un termine biblico che serviva da monito agli invasori e significa “Dio è grande”.

La famiglia Larcàn crebbe in prestigio rendendo ricca e prosperosa la Marina delle Acque Dolci.

Ad Ugerotto Larcàn succedette il nipote, Antonio Giacomo Larcàn, che viene principalmente ricordato per aver rafforzato ed ingrandito la Torre Atàlia.

Successivamente fu costruito il Baglio del Castello con un’ornatura di merli ghibellini,  la Tonnara e la Chiesa di San Giuseppe alla Torre nell’anno 1498.

La Chiesa col tempo divenne sempre più importante perché, essendo la Chiesa del Borgo della Vecchia Marina, rimase per circa 450 anni Chiesa Madre del villaggio. L’artistico altare venne realizzato in epoca barocca durante il restauro voluto dalla famiglia Gravina che, imparentatasi con i Larcàn, succedette loro nella gestione amministrativa del Feudo.

IL PRINCIPE DI PALAGONIA

Nel 1754 San Fratello venne colpita da una disastrosa frana che rase al suolo il castello di San Filadelfio e il rispettivo quartiere. Il principe di Palagonia Francesco Ferdinando propose di delocalizzare la popolazione nei pressi della Marina di Acquedolci dove sorgeva la sua dimora-castello.

Fu tuttavia costretto a cambiare i propri piani a causa dei malumori della popolazione contraria al trasferimento e la ricostruzione del paese avvenne in collina.

Baglio antico Castello Larcàn - Gravina - Chiesa San Giuseppe alla Torre. © Enrico Caiola
Antico Baglio del Castello con la Chiesa di San Giuseppe alla Torre – ©Enrico Caiola

 

Nel frattempo, la famiglia Gravina aveva immaginato che il Castello diventasse la sede amministrativa del feudo.  Una dismessa la produzione della canna da zucchero e la lavorazione della seta, venne avviato un radicale adeguamento del Castello a lussuosa dimora che avrebbe dovuto ospitare il Principe durante la sua permanenza nel feudo.

Tra gli interventi più importanti troviamo la ristrutturazione della Chiesa e la realizzazione dell’altare in stile barocco, l’edificazione del palazzo con i suoi saloni riccamente decorati, l’edificazione delle zone riservate ad alloggio per la servitù e la realizzazione del bellissimo prospetto Nord che ancora oggi si può ammirare nella parte Nord del complesso architettonico.

IL CASTELLO OGGI

Negli anni il castello ha subito i cambiamenti del tempo soprattutto per una mancata cura e purtroppo, dello sfarzo di un tempo, resta ben poco.  Si può però ancora scorgere la grandiosità di una struttura che è il frutto di oltre sei secoli di stratificazioni architettoniche.

La torre invece, negli anni 60’ dello scorso secolo, era gravemente pericolante a causa dei danni dovuti ai bombardamenti del 4 agosto 1943 e minacciava di crollare sulla Ferrovia che costeggia il prospetto Nord. Per questo motivo si preferì demolirla con l’esplosivo.

Da quel momento il castello andò velocemente in rovina e si verificarono crolli dovuti alla non cura e all’abbandono. Nei decenni si è sempre discusso circa l’opportunità di salvare questo antico complesso architettonico che riveste importanza notevole per la storia Siciliana.

IL RITORNO ALLA LUCE

Alcuni interventi  di recupero si sono avuti solo nei primi anni 2000 dopo l’acquisto da parte del comune e l’interessamento da parte della Soprintendenza dei Beni Culturali di Messina in seguito a gravi crolli che hanno interessato la torre Est e il prospetto Nord.

Sul sito, negli ultimi anni, sono da segnalarsi interventi di pulizia da parte dell’amministrazione comunale guidata dal Sindaco Riolo e da parte di alcuni volontari civici come Enrico Caiola che da anni contribuisce a mantenere vivo il castello occupandosi, assieme a Gabriele Currò, della pulizia e dell’organizzazione di numerose iniziative culturali come ad esempio convegni, mostre, eventi musicali che hanno visto la partecipazione di band locali e di artisti di rinomata fama come il soprano Felice Bongiovanni, il pianista Fabio Ciulla e il tenore Gianluca Pasolini.

Il Castello con il Baglio pulito e con la chiesetta fruibile è diventato velocemente un monumento che ha registrato record di visitatori, sempre più richiesto per servizi fotografici e video promozionali.

Il 16 marzo del 2023, per la prima volta, dopo oltre 60 anni, è stata officiata una messa in onore di San Giuseppe.

Il Castello è un tassello importante per ricostruire la storia Siciliana e potrebbe diventare un punto di riferimento per la cultura di Acquedolci e dell’intero territorio.

Prendersi cura della propria storia e di quella del proprio paese è forse uno dei gesti più nobili che si possa fare.

Benedetto Lardo

Fonti

http://acquedolcifuriano.blogspot.com/p/storia-di-acquedolci.html?m=1

https://fondoambiente.it/luoghi/castello-cupane-di-acquedolci?ldc

 

Luigi Ghersi: il ricordo di un grande artista messinese

Il 13 aprile 2022 ci lasciò Luigi Ghersi, grande artista messinese che, grazie al suo stile originale e in grado di distinguersi, svolse una carriera ricca di importanti commissioni pubbliche e riconoscimenti da parte della critica e del pubblico.

Biografia

Nato a Messina nel 1932, si diploma all’Istituto d’Arte di Firenze e si laurea in Giurisprudenza a Palermo.

Per molti anni affianca l’attività artistica con quella giornalistica: nel 1957 fonda a Messina il giornale “La Città” con Eugenio Vitarelli e Giuseppe Loteta.

Trasferitosi a Roma nel 1960, diventa rettore di alcuni settimanali e frequenta alcuni corsi gratuiti dell’Accademia di Belle Arti.

Nel 1974, dopo aver esposto delle opere nella Galleria Due Mondi di Roma e aver ricevuto numerosi apprezzamenti, decise di dedicarsi esclusivamente all’arte. Svolge, quindi, la sua attività tra Messina (Itala) e la Capitale (via Cavour) e si fa conoscere in tutt’Italia e all’estero, esponendo anche a Parigi e a Madrid.

Dopo cinquant’anni torna nella sua città natale, dove muore a 89 anni  lasciando un enorme contributo culturale.

Rapporto con l’arte e con la città

Tramite degli appunti della moglie Linuccia, morta solo quattro mesi prima, è possibile conoscere meglio l’artista e le sue opere, infatti si legge:

Luigi si trova a suo agio nello spazio “illimite”… Secondo lui, i luoghi deputati all’arte non sono né i musei né le mostre: sono le città. La crisi dell’arte comincia quando le città smettono di raccontarsi dalle loro piazze e dai loro muri, quando il tessuto urbano non è più abitato dalle immagini della fantasia e del sogno, dai simboli che riflettono tutto ciò che si agita nel cuore dell’uomo: le sue speranze e il suo destino”.

Così Luigi Ghersi si fa promotore della land-art che caratterizza la Sicilia, proiettandola in un contesto di contraddizione tra l’antico e il moderno.

 

La battaglia sullo Stretto - Scilla
La battaglia sullo Stretto – Scilla. Aula Magna polo Papardo. © Salvatore Donato

Opere

Tra le sue opere più importanti:

La battaglia sullo Stretto- Scilla e La traversata notturna dello Stretto-Le sirene”, pitture murali situate nell’Aula Magna del dipartimento di Scienze Chimiche, Biologiche, Farmaceutiche ed Ambientali dell’Università di Messina (polo Papardo).

Centauromachia, grande bassorilievo in bronzo nell’ospedale Papardo di Messina.

Pegaso, scultura di bronzo per l’Università di Reggio Calabria, esposta nel 2003 all’Università Sapienza di Roma.

Ci sono poi opere non agibili, quali:

L’Agorà, gruppo di sculture per l’Aeroporto Falcone e Borsellino di Palermo;

Le pitture murali all’interno della Cappella dell’ospedale di Patti.

I numerosi schizzi, studi e disegni preparatori mostrano il percorso dell’artista per arrivare alla propria perfezione stilistica.

La traversata notturna dello Stretto-Le sirene e La battaglia sullo Stretto-Scilla

Opera di oltre 80m, realizzata in circa tre anni di lavoro secondo la tecnica del muro a secco, divisa in due parti:

La prima si ispira al romanzo dell’amico Stefano D’Arrigo “Horcynus Orca”, rappresentando il protagonista  ‘Ndrja Cambrìa che attraversa lo Stretto sulla barca di Ciccina Circè (rappresentata con le sembianze della moglie Linuccia).

Lo stesso autore del romanzo commenta l’opera di Ghersi definendola “qualcosa destinata a durare nel tempo”;

La seconda parte raffigura una battaglia ispirandosi all’evento storico dei Vespri siciliani.

La parte inferiore dei dipinti vede come protagoniste delle figure che richiamano la mitologia classica.

 

La traversata notturna dello Stretto- Le sirene
La traversata notturna dello Stretto – Le sirene, Aula Magna polo Papardo. © Salvatore Donato

Stile

Il suo stile inconfondibile è dato dallo studio approfondito prima dell’arte classica e nello specifico di Michelangelo, e successivamente dei protagonisti delle avanguardie artistiche, primi tra tutti Picasso e Bacon.

Fu egli stesso a definirsi un artista “innaturale”, in grado di fondere la mitologia classica (raccontatagli dal padre e filosofo Guido Ghersi) alla realtà contemporanea.

Ritiene, inoltre, di essere decisamente lontano dalla pittura colta e accademica tipica del Neoclassicismo, in quanto essa è un’arte statica e poco creativa, al contrario il suo atteggiamento nei confronti dell’arte punta ad essere molto aperto ed espressivo.

Premi e riconoscimenti

Tra i vari premi: premio Antonello da Messina (Roma, 1998), premio Anassilaos (Reggio Calabria, 2000), premio Rotary Club di Messina (Messina,2001), premio Orione (Messina,2017).

 

Antonella Sauta

Fonti:

https://messina.gazzettadelsud.it/foto/cultura/2022/04/14/addio-al-messinese-luigi-ghersi-grande-artista-inattuale-32e9f9e5-fffa-46bd-aa69-c17b4f9d70d4/amp/

http://www.rai.tv/dl/sicilia/video/ContentItem-753f5a07-e5e1-4b89-bdf1-75069683c1f5.html

 

 

Crono: il dio che diede vita a Messina

Gaia per primo generò, simile a sé,
Urano stellato, che l’avvolgesse tutta d’intorno,
che fosse ai beati sede sicura per sempre. […]
con Urano giacendo, generò Oceano dai gorghi profondi,
e Coio e Crio e Iperione e Giapeto,
Teia, Rea, Teti e Mnemosine,
e Foibe dall’aurea corona e l’amabile Teti;
e dopo di questi, per ultimo, nacque Crono dai torti pensieri, il più̀ tremendo dei figli, e prese in odio il gagliardo genitore.

 Esiodo, Teogonia, vv.126-128; 133-138.

Messina ha origini assai remote e sono molteplici le leggende che trattano della sua nascita.

Quella più accreditata ne attribuisce il merito a Orione, gigante cacciatore figlio di Poseidone, mentre molte altre, più verosimili perché ancorate ai fatti storici, riconducono la fondazione della città ad alcune antiche popolazioni greche.

Esiste, però, un’ulteriore ipotesi, da non molti vagliata e quasi sconosciuta: quella di Crono.

 Scopriamola insieme!

Il mito di Crono

Figlio della Terra e del Cielo, Crono – nella mitologia romana Saturno – è una divinità preolimpica, titano della fertilità, del tempo e dell’agricoltura.

Secondo il mito, il padre Urano, considerando i figli delle mostruosità, cominciò a trangugiarne i corpi, spingendo l’accorata madre Gea ad architettare il suo omicidio.

Costruendo dapprima una falce dentata, Gea decise di affidare l’arma all’ultimo e il più tremendo dei suoi pargoli, proprio Crono, istigandolo, una volta avvicinato il genitore, a colpirlo.

Così avvenne: Crono tagliò il suo phallo e questo cadde sulla terra. Il sangue che ne fuoriuscì bagnò le coste siciliane, rendendole d’allora fertilissime, e generò la dea Afrodite.

Saturno e Urano
Giorgio Vasari e Cristofano Gherardi, Saturno o Crono mutila il cielo Urano, 1555 ca, olio su tavola, Firenze, Museo di Palazzo Vecchio. [1]

La falce di Crono e Zancle

Il mondo, come abbiamo appena appreso, deve i suoi natali ad un’evirazione.

Sembra, però, che Esiodo non abbia l’esclusiva su questa versione: anche la teogonia ittita, quasi nove secoli prima, raccontò di uno scontro primordiale fra divinità ancestrali, conclusosi con una castrazione. In esso, però, fu protagonista una taglierina di rame.

Che quella di Crono fosse una rivisitazione?

 

Dove si trova?

Qualunque sia la reale fonte del mito, ciò che in tanti, nel corso dei secoli, si sono chiesti è: dov’è finita la falce?

Gli Ittiti dicevano di averla nascosta al sicuro sul Monte Hazzi, dimora del dio della tempesta Teshub e sacro luogo di culto.

Ai tempi, però, erano in molte le località che prendevano il nome di drepanon, ovvero falce. Ciò, come nel caso di Trapani, di Cipro, di Corinto e di Istanbul, era dovuto alla loro morfologia, caratterizzata da promontori ricurvi e una chiara similitudine con l’utensile. Il fatto è abbastanza rivelatorio e indicativo.

Si dà il caso che anche la stessa Messina rientrasse nel novero delle città con questa denominazione.

Essa era stata chiamata dai greci Zancle, che significa proprio falce, e il suo paesaggio, esattamente nel porto e in prossimità del Braccio di San Ranieri, ne rappresentava e ne rappresenta tutt’ora una perfetta e naturale riproduzione.

A riprova di ciò, le monete con la raffigurazione di Crono, coniate nella colonia di Imera, e il poema Aitia, di Callimaco.

In esso, l’autore, riportando la testimonianza della musa della storia Clio, narrò di come i fondatori di Zancle avessero eretto torri di legno attorno all’area falcata, in quanto proprio lì la falce, con la quale Crono aveva reciso gli attributi del padre, era stata conservata.

Un primato di cui poterci fieramente vantare!

Braccio di San Ranieri e Forte del San Salvatore
 Il Braccio di San Ranieri e il Forte San Salvatore, luogo che secondo le leggende custodisce la falce di Crono [2]

La tomba di Crono

Ribelle, salvatore e, a sua volta, divoratore di figli.

Il destino di Crono era stato predetto dal suo stesso padre: avrebbe replicato i suoi errori e da un suo discendente sarebbe stato privato del trono e sconfitto.

È una storia che, fra orrore e curiosità, tutti noi abbiamo imparato a scuola.

Sapevate, però, che la tomba del crudele titano Crono pare trovarsi, anch’essa, a Messina?

Esattamente a Fiumedinisi, presso il Monte Scuderi, legato al toponimo Mons Saturnius.

Tra Monte Scuderi e il Braccio di San Ranieri esiste anche un collegamento visivo: da entrambi, infatti, è possibile osservare la falce..

Monte Schuderi e tomba di Crono
 Monte Scuderi, dove si troverebbe la tomba di Crono [3]

Valeria Vella

 

 

 

Fonti: https://giannibonina.blogspot.com/2015/07/la-falce-di-crono-e-sotterrata-messina.html

Ignazio Caloggero, Culti Miti e Leggende dell’Antica Sicilia, Centro Studi Helios, 2018

Immagini: 

1 – https://eclecticlightdotcom.files.wordpress.com/2020/06/vasarimutiliationuranus.jpg

2 https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/1/19/Hafeneinfahrt_Mariendenkmal%40Fort_San_Salvatore_Messina_20171018_02.jpg/800px-Hafeneinfahrt_Mariendenkmal%40Fort_San_Salvatore_Messina_20171018_02.jpg

3 – https://www.naturalmentesicilia.it/images/riservafiumedinisi.jpg

La Circe siciliana

Circe dai riccioli belli, la Diva possente canora, ch’era sorella d’Eèta, signore di mente feroce. Erano entrambi nati dal Sole che illumina il mondo:fu madre loro Perse, di Perse fu Ocèano padre.

Odissea, Canto X, Omero

 

Conosciamo tutti il mito di Circe, no?

La divina maga, figlia del Sole e della ninfa Perseide, concubina di Ulisse e mangiatrice di uomini.

Circe, dalla quale il re di Itaca ebbe un figlio e i cui soldati trasformò in maiali, in cani e, talvolta secondo altri miti, in leoni.

 

Circe e i maiali
Circe e i maiali, Brighton Riviere, 1896
Fonte: https://arthive.net/res/media/img/oy800/work/b9f/663950@2x.jpg

 

Circe, è noto, possedeva l’immortalità del padre e da lui aveva ereditato anche i poteri. Della madre, invece, aveva la voce, melodiosa e umana, della quale si serviva per attirare nella sua isola valorosi e innocenti guerrieri.

Sapevate, però, che nel messinese, esattamente a Tindari, una donna è conosciuta per avere molto in comune con la dea in questione?

Scopriamo insieme la storia della Circe siciliana!

 

L’insidiosa bellezza di Circe

Ispirandosi certamente alle vicende omeriche, la Circe di Tindari, tale Donna Villa, era una donna brutta e deforme, dotata di poteri in grado di trasformarla in una splendida e giovane ragazza. Col suo canto soave, l’ingannevole e insidiosa bellezza attraeva nel suo giaciglio, una grotta a picco sul mare, gli uomini avventurosi e forti che osavano solcare le acque al di sotto.

Sfruttando l’impervia posizione, lontana dalla civiltà e dal possibile rischio di essere scoperta, dopo aver trascorso intense ore interessanti, Donna Villa si avventava contro le sue ignare vittime, sfinite dalle troppe effusioni d’amore, depredandole di tutti i loro averi e facendole precipitare nel vuoto. La maga ne divorava poi i corpi, spolpandone le ossa, e con le stesse tappezzava le pareti, come bottino di guerra e segno di rivincita per il suo cuore spezzato.

Sembra, infatti, che la strega avesse subito una insopportabile delusione d’amore e che cercasse, per questo, vendetta.

 

La Circe siciliana esiste davvero?

Sirena crudele e antropofaga, sprezzante zitella vendicativa o triste e solitaria donna, calunniata dalle male voci?

Non possiamo dare una risposta incontestabile, così come non possiamo affermare con assoluta certezza che la Circe siciliana sia esistita realmente.

Della presunta Donna Villa, però, rimangono ancora i segni. Segni che continuano ad alimentare la leggenda.

Non tutte le barche navigavano nelle onde di quel mare e non tutti i marinai venivano catturati dalla sua malia. Così, quando il suo richiamo non attecchiva, la donna, accecata dall’ira, artigliava la dura roccia, lasciando su di essa dei profondi solchi.

Le storie – e le guide turistiche – tralasciano di dire che quei buchi non hanno nulla a che fare con la strega: sono solo le impronte lasciate dai molluschi. Inoltre, le ossa trovate sul luogo non sono le spoglie degli uomini divorati dalla cannibale, ma i resti di animali che lì trovavano rifugio.

 

Come si raggiunge?

La grotta interessata, una cavità naturale sui laghetti di Marinello, non risulta essere completamente inaccessibile. Tramite un piccolo ed erto sentiero, in contrada Rocca Femmina, è infatti possibile raggiungerla. Dati i cento metri di altezza e il percorso scosceso, è consigliabile essere accompagnati da una guida turistica.

 

Grotta di Donna Villa
La grotta di Circe
Fonte: https://i0.wp.com/images.liveuniversity.it/sites/2/2022/05/grotta-donna-villa.jpg?w=960&ssl=1

 

Sono in molti, di fatto, ad andare ancora oggi alla ricerca del tesoro che la maga avrebbe accumulato. La vista del paesaggio ripaga della sua spiacevole e deludente assenza.

 

 

 

 

Valeria Vella

 

Fonti:

Collura M., Sicilia sconosciuta. Itinerari insoliti e curiosi, Rizzoli, 2016

https://catania.liveuniversity.it/2022/05/13/sicilia-grotta-donna-villa-circe/

Immagine in evidenza:

https://4.bp.blogspot.com/-xvLN3r33jEE/V77u7EvU-5I/AAAAAAAAcZ8/xapXdgdmwvMtpJ2E5fu4DwD6bhM4G6JuQCLcB/s1600/circe1.jpg

 

 

Miguel Cervantes: una memoria dimenticata

Fra le tante personalità che ormai sono cadute nell’oblio della memoria cittadina, troviamo quella di Miguel de Cervantes Saavedra.

Uno degli scrittori più importanti del panorama europeo e mondiale di tutti i tempi, autore del Don Chisciotte della Mancia, nato nel periodo messinese dello scrittore spagnolo.

Pillole di vita

Cervantes nasce ad Alcalá de Henares nel 1547, una cittadina vicino Madrid da una famiglia di modesta estrazione sociale. A causa della precaria condizione economica è costretto a spostarsi continuamente. Nel 1570 fugge in Italia per evitare la condanna del taglio della mano, pena computata per aver ferito un certo Antonio de Segura.

Dalla Spagna al soggiorno messinese

Arrivato in Italia, s’impiega come cortigiano alla corte del Ducato di Atri, degli Acquaviva, in Abruzzo. Nello stesso anno, si arruola nella compagnia guidata da Diego de Urbina,  capitano del reggimento di fanteria di Miguel de Moncada, che allora serviva sotto Marc’Antonio Colonna: al figlio di quest’ultimo, Ascanio (divenuto poi cardinale), dedicherà La Galatea.

Nel 1571, è testimone dell’ingresso a Messina di Don Giovanni d’Austria, luogo dove si stavano concentrando le forze navali della Lega Santa per la spedizione contro la flotta turca.  Imbarcato come soldato sulla galea Marquesa, parteciperà alla famosissima Battaglia di Lepanto, dove rimane gravemente ferito, perdendo l’uso della mano sinistra.  Fatto ritorno dalla vittoriosa battaglia, viene ricoverato per sei mesi all’Ospedale Civico di Messina. Lo stesso appellativo Saavedra, che scalzo il suo cognome materno, deriva infatti dalla parola araba shaibedraa, che nello spagnolo dell’epoca significava gergalmente “monco”.

 

Ritratto di Miguel Cervantes. Fonte: libriantichionline

Dall’odissea di Cervantes al ritorno in patria

Nel 1575 parte da Napoli verso la Spagna ma, la nave su cui viaggiava la galea Sol, viene assalita dai pirati. Egli verrà  tenuto in stato di cattività per cinque lunghi anni fino al pagamento del riscatto ad opera delle missioni dei trinitari.  Negli anni di prigionia stringe amicizia con il poeta siciliano Antonio Veneziano, a cui dedicherà un’epistola reinserita nella commedia El trato de Argel.

L’ammirazione da parte di Cervantes per Veneziano, si può dedurre dalla novella El amante liberal, che narra di un prigioniero siciliano che magnificava la bellezza della sua donna con versi sublimi, chiaro riferimento alla Celia di Veneziano. Finalmente liberato con l’aiuto delle famiglia, ritorna in Spagna, vivendo un periodo di umiliazioni e ristrettezze economiche. Dal 1587, si occupa delle provvigioni dell’Armada invencible e poi come percettore d’imposte. La requisizione di un carico di cereali e di beni della curia andalusa, gli valgono ben due scomuniche quell’anno.

Ultimi anni

Nel giro di cinque anni viene arrestato due volte, la prima nel 1597 per bancarotta fraudolenta e la seconda per illeciti amministrativi. Negli anni immediatamente successivi va a Valladolid insieme alle due sorelle e alla figlia Isabella, nata da una relazione con una certa Anna de Rojas. Nel 1605 subisce una nuova vertenza giudiziaria poiché, nelle vicinanze di casa sua, viene ritrovato il cadavere del cavaliere Gaspar de Ezpeleta, facendo cadere i sospetti sullo scrittore. Indagato e subito prosciolto, passa il resto della sua vita nell’amarezza del dubbio che il delitto, possa essere riconducibile alla moralità dei suoi famigliari.

Nonostante i continui stenti segue la corte di Filippo III di Spagna a Madrid, dove si dedica a un’intensa attività letteraria e alla scrittura dei suoi più grandi successi.

Miguel Cervantes muore il 22 aprile del 1616 a 68 anni e viene sepolto nel convento dei Trinitari Scalzi a Madrid. L’ubicazione della tomba di Cervantes perduta negli anni successivi, viene ritrovata nel 2015 e spostata nella chiesa di San Ildefonso.

Incisione di epoca barocca in cui si vede l’Ospedale Maggiore di Messina, opera di Andrea Calamech, attuale tribunale. Fonte: wikipedia

Cervantes, Don Chisciotte e Messina

Lo scrittore e biografo catalano Sebastià Arbò, nel suo Cervantes del 1954, attribuisce al periodo della permanenza a Messina, la nascita del capolavoro di Cervantes il  Don Chisciotte della Mancia e suggerisce l’idea che alcune scene l’autore le abbia riprese dal paesaggio dello Stretto.

Racconta egli stesso: “Per mesi Miguel de Cervantes fu confinato in un letto di ospedale a Messina, aspettando la guarigione delle ferite. […]  Desiderava ardentemente la pace della campagna siciliana per fargli dimenticare l’incubo della violenza che si celava dietro di lui. […] La sua immaginazione univa i ricordi di questi giorni felici in Sicilia con le impressioni della campagna andalusa, e da qui creava la scena del suo Don Chisciotte in cui il cavaliere, dopo aver condiviso un pasto scarso con i grezzi e primitivi caprai, parla loro dell’Età d’Oro dell’umanità.” 

Anche l’altra celebre scena di Don Chisciotte dove confonde una triste locanda con un castello incantato, profetizzando vita eterna a poveri e oppressi, sarebbe da accreditare alle fantasie messinesi di Cervantes.  La città di Messina citata nel racconto dello schiavo che, nel passaggio dello Stretto per unirsi alla flotta di Don Giovanni d’Austria, viene fatto prigioniero da Uccialì (il corsaro calabrese convertitosi all’Islam), unico comandante dello schieramento ottomano a sopravvivere allo scontro di Lepanto.

L’oblio della memoria

La storia di Miguel Cervantes e del suo soggiorno a Messina, è solo l’ennesima di tante storie cadute nell’oblio della memoria. Ben più lieta sorte è toccata al Don Giovanni d’Austria, la cui pregevole statua di Andrea Calamech domina il largo di via Lepanto.

Ci auguriamo che ben presto la memoria di personaggi illustri come Cervantes possa prendere il posto che merita nella storia culturale della città.

Gaetano Aspa

Maria Costa – ‘a Puitissa di Missina

«In Maria Costa la poesia nasce come bisogno di estrinsecare la propria esperienza, perché sia di giovamento a tutti lungo la strada comune, come modo di rivivere con sofferenza il dolore degli uomini. Una scrittura poetica la sua come apertura al dialogo, come fiducia nella forza della parola che scava in profondità senza infingimenti o compiacimenti. Ciò fa sì che nella poetessa di Case Basse la parola poetica si faccia di volta in volta senso ritrovato di un’umanità che non conosce limiti, partecipazione sofferta e silenziosa alle ragioni degli altri».

Giuseppe Cavarra

 

Maria Costa è ‘a Puitissa di Missina, simbolo, emblema e “faro” della cultura peloritana.

Sin da giovane si dedica alla poesia, facendosi portavoce della memoria collettiva di quella che era una Messina distrutta nel profondo dal terremoto.

Vita

Un’attività di famiglia

«Nascia on ribba o mari, in ta na spiaggia ricca»

racconta Maria, in un’intervista condotta da Mario Sergio Tedesco,

«unni me maci e me paci un facianu autru chi varari e tirari barchi».

Maria viene infatti al mondo nel borgo marinaro di Case Basse, nel villaggio Paradiso, il 15 dicembre 1926. La sua è una famiglia di pescatori e il padre possiede un barcone, con il quale tutti i giorni trasporta materiali da costruzione.

Maria trascorre la sua intera vita in riva al mare, con lo sguardo rivolto allo Stretto e alla costa calabra e qui trova il nutrimento della sua anima e, con la crescita, la sua musa.

La poetessa è la penultima di otto fratelli e l’unica figlia femmina. Cresce di fatto in un ambiente prettamente maschile e nella sua famiglia non si è mai parlato di uncinetto, di punto Norvegia, di punto palestrina, ma di monachette, bombressi, pappafichi e griselli.

Il padre, conosciuto come Don Placido, duranti i crudi inverni, raduna i figli davanti al braciere e racconta loro storie e storie: “è una fonte inesauribile” nonché suo maestro e ispirazione.

Maria è accorata, enfatica; la passione le arde negli occhi e vibra nella sua voce. D’altronde,

 

«Si vede che lo avevo nel DNA il pallino della poesia».

Gli esordi

Durante la Seconda Guerra Mondiale, tre dei suoi fratelli vengono chiamati alle armi e uno di questi, mobilitato a Taranto, non manca mai di spedirle il corriere: “Giornali che parlano di poesia”, a detta sua.

Maria, però, capisce ben presto che quello che legge non sono affatto le poesie che ricercava.

Quei giornali raccontano, in realtà, di imprese spacciate per vittorie, che, per Maria, non sono altro che sonore tumpulate e, soprattutto, non un qualcosa che il suo animo da picciridda possa sopportare.

In pena, è proprio qui che inizia a scrivere e non cesserà mai di farlo per il resto della sua vita.

 

Maria Costa
Maria Costa
Fonte: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/wp-content/uploads/2019/02/maria-costa-copertina.jpg

 

La poesia

L’eredità linguistica a cui attingere

Maria Costa scrive in dialetto e canta delle tradizioni, degli usi e dei costumi della sua terra.

Sviluppa, infatti, una duplice attitudine di poetessa popolare e di portatrice attiva di uno sterminato patrimonio di memorie orali.

La poetessa dello Stretto risulta inoltre essere l’ultima depositaria del messinese pre-terremoto, appreso da lei direttamente e mai abbandonato fino alla sua scomparsa.

Il suo lessico, di fatto, è diventato negli anni, oggetto di studio di linguisti, antropologi, studiosi di tradizioni marinare, dialettologi e storici della letteratura popolare. Ad esso si è attinto anche per la redazione del Vocabolario Siciliano, fondato da Giorgio Piccitto e diretto da Giovanni Tropea, edito a cura del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani.

 

Le opere

Duranti i suoi quasi novant’anni di vita e di attività letteraria, Maria Costa pubblica vari volumi di poesie. Fra questi ricordiamo Farfalle serali, Mosaico, A prova ‘ill’ovu, Cavaddu ‘i coppi, Scinnenti e muntanti, Ventu cavalèri, Mari e maretta e Àbbiru maistru.

In essi, l’autrice si fa sirena e, con aria mistica, rievoca i miti e le leggende del Mediterraneo, come Fata Morgana e Colapesce.

 

Colapisci

Colapisci è uno dei componimenti più conosciuti e belli della produzione di Maria Costa. Anch’esso in dialetto, contiene espressioni idiomatiche che difficilmente possono essere tradotte. Con la sua interpretazione avvincente, viene sostenuta, durante un convegno svoltosi a Castelmola, la tesi contraria alla costruzione del ponte sullo Stretto.

Qui di seguito un estratto:

‘U Re ‘llampau e ‘n ‘coppu i maretta
‘i sgarru ci sfilau la vigghetta.

Giovi, Nettunu, dissi a vuci china,
quantu fu latra sta ributtatina.
Oh Colapisci, scinni lupu ‘i mari
e vidi si mi la poi tu truvari!
Era cumprimentu dà rigina,
l’haiu a malaggurio e ruina.

E Colapisci, nuncenti, figghiu miu,
‘a facci sa fici ianca dù spirìu
dicennu: Maistà gran dignitari
mi raccumannu sulu ‘o Diu dù mari.
e tempu nenti fici a gira e vota
scutuliau a cuta e a lena sciota
tagghiau ‘i centru e centru a testa sutta
e si ‘ndirizzau pà culonna rutta.

Ciccava Colapisci ‘i tutti i lati
cu di mani russi Lazzariati,
ciccau comu potti ‘ntò funnali
ma i boddira ‘nchianavanu ‘ncanali.
‘U mari avia ‘a facci ‘i viddi ramu
e allura ‘u Re ci fici ‘stu richiamu:
Colapisci chi fai, dimurasti?
e a vint’una i cavaddi foru all’asti.

E Cola cecca e cecca ‘ntà lu strittu
‘st ‘aneddu fattu, ‘ntà l’anticu Agittu.
Sò matri, mischinedda ancora ‘u chiama
cà mani a janga e ‘ncori ‘na lama.
Ma Colapisci cecca e cicchirà
st’aneddu d’oru pi l’atennità.

 

I riconoscimenti

Negli anni, Maria Costa ottiene numerosi riconoscimenti, nazionali e internazionali: i premi Vann’Antò, Lisicon, Bizzeffi, Tindari, Colapesce, Poesia da contatto, Montalbano, Maria Messina e ultimo, ma non per importanza, il prestigioso Ignazio Buttitta.

Inoltre, il suo nome è iscritto nel registro dei Tesori Umani Viventi dell’Unesco e la sua abitazione, dopo il 7 settembre 2016, data della sua morte, è una Casa Museo e sede del Centro Studi Maria Costa.

 

Case Basse, Maria Costa
Centro Studi Maria Costa a Case Basse. Fonte: https://www.mestyle.it/wp-content/uploads/2021/09/foto-copertina-1-1160×655.jpeg

 

Su di lei sono stati realizzati innumerevoli documentari, da parte di registi italiani, giapponesi, tedeschi, e francesi e altrettanti sono gli articoli, studi, tesi universitarie e iniziative editoriali a lei dedicati.

 

Valeria Vella

 

* articolo pubblicato all’interno dell’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud il 02/02/2023

 

Fonti:

Maria Costa – Wikipedia

Maria Costa – YouTube

 

L’Accademia Peloritana dei Pericolanti

Nel primo trentennio del XVIII secolo, in tutta Europa aleggiava un forte desiderio di rinascita, di una rinnovata ansia di riforme.

Sentimenti diffusi anche a Messina che, dopo la pesante repressione spagnola, venne dichiarata “muerta civilmente” e privata delle sue istituzioni: l’università e il Senato.

E’ in seno a questa nuova situazione storico-sociale che nacquero numerosi nuovi centri culturali come L’Accademia Peloritana dei Pericolanti, l’unica che continua a vivere ancora oggi.

Andiamo quindi a ripercorre le tappe di questo cenacolo culturale, dividendolo in due parti, in questo partendo dalle origini fino alla fine dell’ottocento.

Origines

Nel ‘700, l’Università degli Studi di Messina fu soppressa in seguito alla rivolta antispagnola (1674-1678) che colpì la città di Messina e parte della provincia.

L’attività culturale della città non si fermò e cominciarono numerose iniziative tra cui l’Accademia di Teologia Morale e l’Accademia degli Accorti, seppure di breve durata.

Un gruppo di studiosi più numeroso e vario era quello dei Periclitantes, nobili cittadini interessati

a riunire i buoni ingegni di Messina nel…fine di cooperare all’incremento degli studi non solo letterari…ma anche scientifici

Si riunivano due volte al mese per discutere sopra le massime di letteratura, filosofia, storia, matematica, giurisprudenza e varie altre materie

Nel 1727, il messinese Paolo Aglioti (dottore di diritto e studioso di antiquaria) scrisse a Ludovico Antonio Muratori affinché venissero associati all’Accademia dei Dissonanti di Modena. Dopo un lungo carteggio tra i due, nel febbraio del 1728, Muratori scrisse ad Aglioti

che si sarebbe fatta in breve l’aggregazione di codesta Accademia alla nostra”

L’anno successivo fu fondata la Periclitantes Peloritana Regia Academia con approvazione del governo locale.

Il 22 ottobre, l’accademia si riunì a Palazzo Reale per la prima volta e lo stesso viceré Conte di Sàstago, diede il permesso di future riunioni presso lo stesso, ma la sede dell’accademia fu spostata presso il Palazzo della Loggia dei Mercanti.

Accademia Peloritana dei Pericolanti
Sala dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti. Fonte: http://unimemagazine.unime.it/

Seconda metà del’700

Con l’epidemia di peste del 1743, l’accademia perse 63 membri, tra cui il fondatore, costringendo la sospensione delle attività per ben 3 anni.

Nel ventennio successivo, con il nuovo pro segretario Andrea Gallo, l’accademia torno in auge e nel 1766 ricevette la richiesta di aggregazione da parte dei Calatini di Caltagirone.

Il terremoto del 1783 impose una nuova battuta d’arresto da cui l’accademia si riprese lentamente.

Solo quasi 10 anni dopo, riuscì ad ottenere dal re Ferdinando III di Borbone, una rendita annua a carico del Tesoro dello Stato, grazie alla quale avviò la pubblicazione di un Giornale di Letteratura, scienza ed arti e bandì concorsi tra gli accademici.

800: Il processo di unificazione istituzionale

Il percorso ottocentesco dell’accademia va a fondersi con quello dell’Università, evidenziando lo stretto rapporto tra le due più significative istituzioni culturali messinesi.

Sin dal 1838, ovvero l’anno della rifondazione borbonica dell’Università, emerse la volontà di ripristinare quegli antichi legami tra la Città, l’Ateneo e le varie accademie, anche se in quegli anni l’unica ad essere rimasta in vita era proprio quella dei Periclitantes.

Nel 1846, la stessa Accademia lasciava le sale Municipali per trasferirsi in una struttura attigua alla Regia Università. Ancora più tardi, nel 1884, la sede cambiò nuovamente per essere trasferita in un ampio locale dell’attuale “Rettorato”, donato proprio dall’università.

Nel 1848, il cenacolo culturale seguiva le sorti dell’Ateneo che veniva richiuso anche se per poco più di due anni.

Lo stretto legame tra le istituzioni, testimoniata dal gran numero di soci all’interno del corpo docente universitario, finì per divenire il centro di elaborazione e diffusione del sentimento antiborbonico.

                                        Prospetto antico dell’Università degli Studi di Messina. Fonte: unime.it

Dall’Unificazione d’Italia alla fine del secolo

L’unificazione nazionale portò una nuova vitalità nel panorama culturale della città, infatti, alle riviste giuridiche si affiancavano le prime pubblicazioni dell’Accademia.

Grazie all’impegno del Segretario Generale Antonio Catara-Lettieri, fu pubblicato il Giornale di Scienze, Lettere e Belle Arti della Reale Accademia Peloritana, al quale, per la prima volta, collaborarono sia i soci ordinari che i corrispondenti.

Appare di fondamentale rilievo, che verso la fine del XIX secolo, le maggiori cariche di governo delle due maggiori istituzioni culturali cittadine coincidessero.

Nel  1889, il magnifico rettore Giuseppe Oliva venne eletto Presidente dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, carica che avrebbe ricoperto per più di dieci anni.

Gaetano Aspa

Fonti: http://www.accademiapeloritana.it/

Messina tra arte e indifferenza: la Palazzina Grill

Percorrendo la SS 114 verso l’Orientale Sicula, al confine tra la zona di Minissale e Contesse, possiamo ammirare la maestosa Palazzina Grill, ubicata a lato monte del grande giardino, prima zona di accesso all’immobile.

Il giovane rampollo Federico Grill

Un pezzo di storia ottocentesca, la Palazzina Grill  costruita dal giovane borghese Federico Grill nato a Augsburg di Baviera che negli anni della sua giovinezza decise di trasferirsi a Messina.

 

Messina a fine '800. Fonte: Pinterest
Bivio Corso Garibaldi e Porta Real Basso nella Messina di fine ‘800. Fonte: Pinterest

 

Catturato da così tanta magnificenza, che da sempre ha contraddistinto la nostra città ma che con il tempo è caduta nell’oblio della memoria cittadina, Federico Grill appena giunto in città viene accolto dal nobile ricco Giovanni Walser che lo nomina contabile e amministratore del suo patrimonio.

Alla morte di Walser, Federico scopre di essere l’erede universale di tutti i beni di appartenenza al Sir Walser.

Investito da una grande eredità, il giovane Grill inaugura una nuova stagione della propria vita; difatti in un primo momento si prodiga in affari economici e commerciali attenzionando i meno abbienti, per poi catapultarsi nell’arte ed eventi culturali messinesi.

L’origine del nome

Riconoscendo Messina città dalla grande capacità turistica, commerciale ed economica Federico Grill decide di intraprendere un inaspettato progetto architettonico, nasce così quella che fu battezzata Palazzina Grill, dal suo ideatore.

Eppure questo risulta essere un nome ingannevole per quella che fu tutto tranne che una Palazzina.

Costruita come rudere, impreziosito da facciate in stile barocco, pensata come dependance di un uomo nobile e adibita come un luogo di ritrovo, descritta dagli anziani della città come una Casa del tè, oggi approda nell’essere una grande pattumiera per i passanti dal poco senso civico.

 

L'elegante facciata. Fonte: GazzettadelSud
Dettaglio dell’elegante facciata di Palazzo Grill. Fonte: GazzettadelSud

 

Sopravvissuta al terremoto del 1908, che vide la distruzione di una grande percentuale del territorio messinese, la Palazzina Grill al suo esterno conserva lo stesso stile architettonico utilizzato da Falconieri per il Teatro Vittorio Emanuele e l’omonima fontana, mentre al suo interno troviamo ciò che rimane di preziose opere d’arte con le quali Grill impreziosì la sua tea house: dipinti scampati dalle mani vandaliche dei più feroci con l’obiettivo di depredare la città.

Tutto questo splendore, dopo la morte del nobile Grill, subisce un declino senza pari tanto che la stessa Palazzina finì con l’essere adattata come pollaio nel pieno centro cittadino.

Un disinteresse accentuato dalla funesta inciviltà di chi non sa valorizzare le bellezze del proprio territorio.

Messina ha bisogno di chi l’ama!

Ad un secolo e mezzo di distanza, troviamo affisso nella facciata della Palazzina Grill il cartello vendesi.

L’immobile si estende per 60 metri quadri su più livelli, un terrazzino  di 18 metri quadri e un giardino di 35 metri quadri nei quali possiamo ammirare una facciata barocca nelle sue eleganti decorazioni.

 

Stato di abbandono della Palazzina Grill. Fonte: GazzettadelSud

 

A nulla è servito il vincolo della Soprintendenza dei Beni culturali nel salvaguardare il gioiello ottocentesco ormai destinato ad essere una  discarica che si estende per tutta l’area esterna alla quale si aggiunge anche il devastamento e il saccheggio delle opere che costellavano l’interno; scomparse finestre e addirittura i prestigiosi dipinti di Giacomo Conti.

Un bene culturale, un opera architettonica, un gioiello ottocentesco ignorato dai cittadini e dimenticato anche dal suo erede in successione residente a Milano, ha confermato ancora una volta che non è necessario progettare nuove opere per risanare Messina, ciò che serve è avere un cuore che batte di passione per la propria città.

 

Elena Zappia

 

 

 

Fonti:

https://www.letteraemme.it/perche-i-luoghi-di-messina-si-chiamano-cosi-minissale/

https://www.tremedia.it/la-palazzina-grill-gioiello-ottocentesco-scampato-al-terremoto-trasformato-in-discarica-video/

https://www.immobiliare.it/annunci/74217170/

Giuseppe Avarna e la campana dell’amore

Siamo ormai abituati a sentire le stravaganze e le follie degli artisti, da Byron a Wilde, da Casanova a D’Annunzio. Pochi sanno che anche qui, nel ridente borgo di Gualtieri Sicaminò, ha vissuto una figura letteraria tanto eccentrica quanto anticonformista.

Nobile dal cuore nobile, incompreso dalla maggior parte delle persone, visto solo come un rampollo di un’antica casata, Giuseppe Avarna era un grande intellettuale dotato di una sensibilità malinconica. Egli ha parlato e tanto ha fatto parlare di sé.

Ma chi era il nobile che faceva suonare le campane dell’amore?

Ritratto di un (non troppo) nobile artista

Giuseppe Avarna nasce a Roma l’11 novembre del 1916, appartenente a una  delle più antiche casate nobiliari, il cui blasone risale al primo insediamento longobardo nel marsicano e s’intreccia con tutte le dominazioni nell’Isola e nella penisola sino al regno sabauda. Il padre fu il duca Carlo Avarna di Gualtieri, la madre Giulietta Farensbach; il nonno Giuseppe fu ambasciatore italiano a Vienna e amico fidato dell’imperatore Francesco Giuseppe, e Carlo fu l’ultimo presidente del consiglio del Regno delle Due Sicilie. Passa la sua infanzia a Roma, studia in famiglia e impara l’inglese e il francese.  A settembre del 1941 sposa a Cortina d’Ampezzo Magda Persichetti dalla quale avrà tre figli.

Maniero degli Avarna e cappella adiacente. Fonte:https://comune.gualtieri.me.it/

Casanova, politico eclettico, stravagante poeta

Negli anni ’40,  fonda e dirige con un gruppo di giovani scrittori la rivista Girasole, e nel frattempo s’impegna sul versante politico aderendo prima al  Partito Nazionale Monarchico, successivamente con il Movimento sociale. Nel 1945 a Messina, fu tra i fondatori del Movimento per l’indipendenza della Sicilia, assieme a Francesco Paolo Lo Presti, Umberto Bonino, Gaetano Martino, Giuseppe Pulejo, Antonino Vaccarino e Carlo Stagno d’Alcontres, dove scrisse anche un testo sull’autonomia della Sicilia.

Compone numerose opere prevalentemente in francese, tra le più importanti un dramma in tre episodi intitolato Poème d’un soldat mort à la guerre, che racconta le crisi sociali e morali che vissero la gioventù durante la II Guerra Mondiale, e una raccolta di liriche dal titolo Poème d’une douce saison.

Il duca visse la sua vita tra Roma, dove risiedeva presso palazzo Odescalchi, e il ridente borgo di Gualtieri Sicaminò. A Roma frequentava i salotti dell’alta nobiltà romana, distinguendosi per il suo estro e le sue ampie capacità seduttive. Ma il nobile non visse chiuso nel dorato universo aristocratico, ma fu soprattutto un raffinato poeta ed eclettico politico, bizzarro e provocatore.

Giuseppe Avarna fu un tombeur de femmes ma, tra le tante divagazioni dal letto coniugale, quella che destò più scandalo fu con Tava Daetz, che si rivelò una relazione duratura e non un’avventura occasionale.

Muore tragicamente a 82 anni, il 21 febbraio 1999, nell’incendio della sua abitazione adiacente al castello di Gualtieri Sicaminò, entrato nella casa in fiamme nel tentativo disperato di salvare quello che poteva dalla finestra, le poesie e gli scritti.

Quanto suonano le campane dell’amore?

L’incontro tra Giuseppe Avarna e Tava Daetz avviene nel 1976 nel pieno centro di Roma. Tava Daetz è un’assistente di volo della compagnia Pan Am, ha 26 anni mentre il duca di anni ne ha già 60.

Pochi giorni dal primo incontro e i due amanti si trasferiscono in Sicilia, ma nel castello di Gualtieri non c’è più posto per lui, perciò la coppia va a vivere in quell’ambiente bucolico della cappella sconsacrata del curato, adiacente il castello. Lei suona la chitarra mentre lui declama i suoi versi, il tutto condito da numerosi tocchi di campana. Quelle campane suonavano per amore.

Dopo ogni convegno erotico, il duca di Gualtieri e la sua giovane amante Tava Daetz, facevano rintoccare le campane a coronamento della reciproca passione, perché tutto il paese sapesse, a la facci di l’inviriusi; soprattutto, perché l’eco del congiungimento giungesse all’ex consorte. La favola delle campane fece il giro del mondo.

 

Spezzone dell’intervista di Enzo Biagi a Giuseppe Avarna e Tava Daez

Giuseppe Avarna intervistato da Enzo Biagi sulla questione precisò che le campane suonavano per vari motivi: “euforia”, “tristezza”, “riflessione”, “gioia” e, soprattutto, per segnalare come la coppia interpretasse la vita: e cioè “ con ironia”, “con umorismo”. Solo una timida smentita, da parte dei due amanti, che quelle campane suonassero dopo le loro notti d’amore.

 

Gaetano Aspa

Il ricordo di Francesca Morvillo nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne

Il 25 novembre si è svolta presso l’Aula Magna del Rettorato dell’Ateneo di Messina, la presentazione del libro di Felice Cavallaro: Francesca- storia di un amore in tempo di guerra. Il libro è dedicato alla figura di Francesca Morvillo, magistrata competente e moglie del giudice Giovanni Falcone, vittima insieme a lui della strage di Capaci nel 1992.  

Il 25 novembre, celebrazione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, è particolarmente indicata per commemorare la prima e unica magistrata ad essere stata assassinata in Italia.

 

Svolgimento del convegno nell’aula magna del rettorato

 

Il ricordo di Lorena Quaranta

La presentazione si è aperta con i saluti istituzionali da parte del rettore Salvatore Cuzzocrea. Il rettore ha ricordato l’importanza di educare le nuove generazioni a un “amore sano” e di condannare gli atteggiamenti nocivi all’interno di una relazione, manifestati non solo attraverso episodi di violenza fisica, ma anche mediante una logorante violenza psicologica.

Concludendo l’intervento, il rettore, ha annunciato di voler intitolare il giardino del rettorato a Lorena Quaranta, la studentessa di Medicina dell’università di Messina vittima di femminicidio nel marzo 2020, poco tempo prima della conclusione dei suoi studi e per cui le è stata conferita la laurea honoris causa.
 
 

Lorena Quaranta. Fonte: palermo.repubblica.it

 

Violenza di genere: i dati e le iniziative per eliminarla

 

L’intervento del Prefetto di Messina, Cosima Di Stani, ha messo in luce l’aumento del numero annuale di femminicidi, consumati prevalentemente tra le mura domestiche.

Un importante dato in crescita rispetto agli anni precedenti è quello del numero di ammonimenti, indice di una maggiore propensione alla denuncia rispetto al passato, allo stesso tempo, è un segnale preoccupante della persistenza del fenomeno nella società contemporanea.

Il lavoro svolto dai centri antiviolenza è un contributo fondamentale nell’attuazione di strategie di prevenzione e di contrasto del fenomeno, inoltre sono costantemente a fianco delle vittime durante il percorso di emancipazione dalla violenza.

Il prefetto ha inoltre individuato un punto di svolta della problematica, con l’implemento dei braccialetti elettronici. Questi dispositivi permetterebbero alle vittime di violenza di venire a conoscenza della prossimità del soggetto potenzialmente pericoloso, tramite l’ausilio di un’applicazione, evitando così l’aggiramento dei divieti di avvicinamento disposti dall’autorità giudiziaria.

Le disposizioni volte alla tutela delle donne non sono sufficienti a debellare il problema, le cui radici possono essere estirpate solo grazie a un intervento mirato alla riabilitazione dei maltrattanti. La Questura di Messina ha recentemente sottoscritto il protocollo Zeus, provvedimento che permette al destinatario di intraprendere un percorso di recupero finalizzato a far maturare la consapevolezza del proprio comportamento e disincentivare i comportamenti violenti.

 

Felice Cavallaro, Francesca: Storia di un amore in tempo di guerra, Solferino, 2022. Fonte: ibs.it

 

Chi è Francesca Morvillo

La necessità di delineare un percorso di sensibilizzazione sul tema della violenza di genere, oggi come in passato, è fondamentale per favorire la conoscenza del fenomeno e indirizzare i giovani verso la cura delle relazioni.

Felice Cavallaro, autore del libro, ricorda come la stessa Francesca Morvillo ha messo i suoi studi al servizio dei figli dei detenuti, come insegnante in un doposcuola pomeridiano frequentato in prevalenza da ragazzi di famiglie disagiate. Emerge il ritratto di una giurista attenta alla funzione riabilitativa della pena e di una donna con una sensibilità spiccata nei confronti dei minori.

La figura di Francesca Morvillo viene spesso ricordata esclusivamente in relazione a quella del marito Giovanni Falcone, dimenticando che il rapporto tra i due non fu di dipendenza bensì di condivisione. Condivisione di ideali comuni, di un percorso professionale, di uno stile di vita.

 

Francesca è stata moglie di Giovanni Falcone come conseguenza del suo modo di essere. Sentiva la giustizia come la bellezza della società e quindi ha fatto di tutto perché questi ideali potessero realizzarsi, anteponendo un ideale anche a sé stessa ed alla sua vita

 

Il 23 maggio 1992 infatti è stata uccisa una magistrata prima che una moglie.

Francesca Morvillo nacque a Palermo il 14 dicembre 1945.

Figlia del sostituto procuratore Guido Morvillo, ottenne la laurea in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Palermo nel 1967. Fu tra le prime donne a vincere il concorso in magistratura nel 1968, cinque anni dopo l’apertura della carriera in magistratura alle donne.

Dopo aver superato il concorso ricoprì diversi ruoli: prima giudice del Tribunale di Agrigento, poi Sostituto Procuratore al Tribunale dei minori di Palermo, in seguito consigliere della Corte di Appello e infine membro della Commissione per il concorso di accesso in magistratura.

Nella sfera privata era una persona molto riservata, ma allegra e piena di vita, capace di entrare facilmente in sintonia con gli altri. Tratto caratteristico del suo carattere era la sua dolcezza, che si rispecchiava in un sorriso radioso e rassicurante quando sorrideva lo faceva con tutta l’anima…

Quel sorriso rimase impresso nella memoria della magistrata Maria Teresa Arena, che il 22 maggio 1992 era tra i candidati al concorso in magistratura. La magistrata consegnò  l’ultimo compito proprio nelle mani di Francesca Morvillo, il giorno prima della tragica scomparsa di quest’ultima.

 

Tre decenni dopo quella stagione di stragi, emerge nella dimensione pubblica anche tutto il valore personale e professionale di Francesca Morvillo, che è stata sì indiscutibilmente l’amata consorte di Giovanni Falcone e la sua ascoltata consigliera, ma è stata a sua volta un’infaticabile magistrata, una fine giurista, attenta all’importanza della formazione e alla funzione costituzionale della pena”

 

Santa Talia