Artemisia Gentileschi: pittura, dolore e riscatto

Artemisia Gentileschi (1593 – ca. 1656) è oggi riconosciuta come una delle figure più significative della pittura barocca, non solo per il suo talento eccezionale, ma anche per il coraggio con cui ha affrontato la sua epoca.

Figlia d’arte, prima donna a essere ammessa all’”Accademia delle Arti del Disegno di Firenze“, la sua opera unisce intensità emotiva, maestria tecnica e una straordinaria attenzione alla rappresentazione della figura femminile.

Infanzia e formazione tra Roma e la bottega del padre

Artemisia nacque l’8 luglio 1593 a Roma, nel cuore del quartiere degli artisti.

Il padre, Orazio Gentileschi, era un pittore di talento, influenzato in gioventù dal manierismo ma convertitosi al naturalismo drammatico di Caravaggio.

Fu proprio nella bottega paterna che Artemisia imparò a dipingere, mostrando fin da bambina una sensibilità e una abilità superiori a quelle dei fratelli. L’ambiente artistico romano del tempo, animato dalla riforma urbanistica di papa Sisto V e dalla presenza di grandi maestri come Annibale Carracci e Caravaggio, contribuì alla sua formazione visiva e stilistica.

Il suo stile si distinse presto da quello paterno: mentre Orazio tendeva a idealizzare le figure, Artemisia le rendeva più reali, umane, vibranti di emozioni vere.

Il naturalismo caravaggesco la influenzò profondamente, ma fu il suo sguardo personale, spesso centrato sull’esperienza femminile, a renderla unica nel panorama artistico del Seicento.

La violenza trasformata in arte

La vita di Artemisia fu segnata da un evento traumatico: la violenza subita dal pittore Agostino Tassi e il successivo processo, durante il quale l’artista venne sottoposta a interrogatori e torture.

Nonostante ciò, o forse proprio a causa di questa esperienza, la sua pittura acquisì una forza espressiva straordinaria. Nei suoi dipinti, le protagoniste — eroine bibliche come Giuditta, Susanna, Ester o Lucrezia — non sono mai vittime passive, ma donne attive, forti, capaci di reagire, combattere, sopravvivere.

Artemisia lavorò a Firenze, dove entrò nell’Accademia del Disegno, poi a Venezia, Napoli e Londra.
Ogni città segnò una tappa importante nella sua evoluzione artistica.
A Napoli visse gli ultimi anni della sua vita, lavorando probabilmente fino al 1654 e morendo attorno al 1656, forse a causa della peste che decimò la città.

La pittura come racconto del femminile

Tra le sue opere più celebri vi sono “Susanna e i vecchioni” (1610), “Giuditta che decapita Oloferne” (1613), “La Maddalena penitente“, “Autoritratto come Allegoria della Pittura” (1638-39), “Lucrezia” (1621 e 1642), ma anche composizioni come “Ester davanti ad Assuero“, “Betsabea al bagno“, “Minerva”, “Ulisse scopre Achille fra le figlie di Licomede” e “Giuseppe e la moglie di Putifarre“.

In ognuno di questi lavori, Artemisia dimostra una profonda padronanza del chiaroscuro e una straordinaria capacità di raffigurare la complessità psicologica dei suoi personaggi. Le sue protagoniste non sono idealizzazioni, ma donne reali, cariche di umanità, dolore, orgoglio e dignità.

Tra le opere della maturità, spicca “Lot e le sue figlie” (Toledo Museum of Art), in cui la pittrice rilegge in chiave ambigua e provocatoria un episodio biblico controverso, e “Corisca e il satiro”, ispirata a Il Pastor Fido di Guarini, in cui una ninfa riesce a sfuggire al suo aggressore con intelligenza e determinazione.
In entrambe, Artemisia gioca con luci, gesti e simboli, offrendo letture complesse e mai scontate del corpo femminile.

"Giuditta che decapita Oloferne" (1613), di Artemisia Gentileschi
Giuditta che decapita Oloferne

 

L’eredità di una pittrice ritrovata

Per lungo tempo, dopo la sua morte, Artemisia fu dimenticata o confusa con il padre.
Solo nel Novecento, grazie a storiche dell’arte come Mary Garrard e a mostre fondamentali come “Orazio and Artemisia Gentileschi” (National Gallery of Art, 2001), la sua figura è stata riscoperta e celebrata.

Il suo modo di usare il corpo femminile come strumento narrativo ed espressivo, la sua visione drammatica e intensa della pittura e la sua determinazione in un mondo dominato dagli uomini fanno di Artemisia Gentileschi un simbolo di forza, arte e resistenza.
Non solo una pittrice straordinaria, ma una donna che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’arte europea.

 

Fonti:
“Complete Works of Artemisia Gentileschi – Illustrated”, catalogo “Orazio and Artemisia Gentileschi” (National Gallery of Art, 2001).

Il primo maggio: festa di che?

Ogni primo maggio si conclude quella tripletta di giorni rossi nel calendario che, da Pasquetta passando per il 25 aprile fino al primo maggio stesso vede protagonista una maratona di: feste, festini, ponti, concerti e arrostite no stop. Dalle montagne alle spiagge l’Italia festeggia.
Ma cosa?

Il valore del profitto ha comprato tutti gli altri

Viviamo un’epoca che alcuni denunciano sia decadente. Una fase storica, dove valori e tradizioni sono andati persi.

Almeno, questa è la classica frase che possiamo ascoltare al bancone del bar mentre prendiamo un caffè. Magari proprio prima di recarci alla grigliata del primo maggio.

Ma quali sono le radici di tutto questo? Forse, una causa è proprio la mancanza di memoria, lo svuotamento del significato di ogni ricorrenza.

Se Pasquetta è svuotata del proprio significato religioso, normale conseguenza in un paese laico con una chiesa secolarizzata.

Diverso è una data come il 25 aprile. In occasione di quest’ultimo anniversario, durante le celebrazioni in Parlamento, e non solo in quella sede, alcuni elementi del partito di governo Forza Italia hanno arbitrariamente voluto rinominare il giorno della liberazione dal nazi-fascismo in un altro modo, ribattezzandolo da giorno della Liberazione a giorno delle libertà (giusto per non essere divisivi).

Accade anche che il primo maggio, scelto come giorno di protesta e festa dei lavoratori, si pieghi al dogma dell’apoliticità e del consumismo fine a se stesso.

Logiche di profitto che mascherano date fortemente simboliche, rendendole semplici date di ponte, effimere, come tante altre.

Festeggiare diviene sinonimo di consumare

Consuma e basta. Consuma, quando te lo dicono loro, senza chiederti perchè. Festeggia solo quando è rosso sul calendario, riempi le tasche degli organizzatori di eventi, che, nella socialità e aggregazione individuano solo un’opportunità. Il solo scopo è trarne profitto, è solo lavoro.

Tutto il resto che importanza ha?

Se, nel passato, il primo maggio era la festa dei lavoratori, dove tutti i lavoratori festeggiavano e godevano di un giorno di riposo all’infuori delle feste religiose, oggi sono migliaia quelli che, nonstante sia la festa dei lavoratori, dovranno lavorare per mantenere ben oliata la macchina del profitto di chi siede al vertice delle piramidi dell’impresa.

L’origine del primo maggio

Intorno alla metà del 1800, il mondo era nel pieno dalla Seconda Rivoluzione industriale.

Oltre al Regno Unito, i giovani Stati Uniti d’America portarono avanti la loro grande industrializzazione.

La Prima Rivoluzione industriale aveva visto protagoniste le industrie tessili. La seconda, ebbe come protagonista la costruzione dei primi binari ferroviari. Enormi creature d’acciaio macinavano chilometri, emettendo nubi di vapore che hanno affollato l’immaginario collettivo dell’epoca. Divennero l’icona di numerosi dipinti ad olio, furono descritte nei romanzi ambientati nel lontano West. Protagoniste dei primi effetti speciali nei cortometraggi di fine Ottocento.

Sebbene questa rivoluzione portasse con sè grandiose promesse di ricchezza, progresso e miglioramento della vita per tutti, la realtà fu ben diversa.

Paradossalmente, chi godeva dell’opulenza e del benessere derivati dai prodotti della rivoluzione industriale e i suoi nuovi stili di vita non era tutta la popolazione. Men che meno, compresi tra i beneficiari, vi era chi lavorava all’interno delle fabbriche.

Solo una nuova classe si andava arricchendo. Si affermò una nuova classe dominante. La borghesia, l’unica che veramente ottenne un vero beneficio.

Essa era detentrice dei nuovi mezzi di produzione. Se nel Medioevo, il feudatario era il possessore dei terreni e i contadini coltivavano la sua terra in cambio di una misera parte del raccolto. Durante la rivoluzione industriale erano cambiati i denominatori, ma il risultato era lo stesso.

Non vennero chiamati più Duca o Barone. Vennero ribattezzati. Erano i cosiddetti industriali, i padroni delle fabbriche.

Sedici ore di lavoro, la norma speculativa nel vuoto legislativo:

Le tutele e i diritti che oggi sembrano normali e scontati, all’epoca era impensabili.

Chi lavorava dentro una fabbrica svolgeva turni di sedici ore. Non erano previsti giorni liberi o ferie, né la pensione. Tantomeno un indennizzo in caso di infortunio sul lavoro. Il lavoro minorile era la prassi, quasi obbligatoria per i figli degli operai, che lavoravano insieme ai genitori proprio perchè le paghe che ricevevano non erano sufficienti neanche per sfamare e dare un tetto all’intera famiglia. La mortalità tra gli operai era altissima. Le disuguaglianze nell’era del progresso andavano aumentando al posto di diminuire. Questa è stata da sempre una delle contraddizioni più lampanti del sistema capitalista.

Manifestazione per il primo maggioFonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=http%3A%2F%2Fwww.digi.to.it%2F2021%2F04%2F30%2Ffesta-lavoratori-perche-il-1-maggio%2F&psig=AOvVaw2kXkWbaYmDWKKjuTKBYi3e&ust=1746126184523000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBQQjRxqFwoTCOiY1oq5gI0DFQAAAAAdAAAAABAE
Manifestazione per il primo maggio
Fonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=http%3A%2F%2Fwww.digi.to.it%2F2021%2F04%2F30%2Ffesta-lavoratori-perche-il-1-maggio%2F&psig=AOvVaw2kXkWbaYmDWKKjuTKBYi3e&ust=1746126184523000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBQQjRxqFwoTCOiY1oq5gI0DFQAAAAAdAAAAABAE

La prima grande conquista

Correva l’anno 1866 e nella città di Chicago, nello Stato federale nord americano dell’Illinois, in seguito a numerose battaglie e proteste guidate dall’associazione dei lavoratori Knights of Labor, venne approvata la prima legge al mondo che imponeva un tetto limite alle ore lavorative giornaliere che un operaio potesse svolgere. Tale tetto fu fissato a otto ore.

Una legge rivoluzionaria per l’epoca. Ebbe un eco straordinario. Tuttavia, quella legge entrò in vigore soltanto il primo maggio dell’anno successivo.

La legge delle otto ore andava a favore dei più deboli, gli ultimi, che al tempo stesso rappresentavano la classe produttiva, il motore dell’economia.

Divenne molto popolare in tutti gli Stati Uniti d’America. Diciannove anni dopo, però, l’Illinois restava ancora uno dei pochi Stati americani ad avere una legge che regolasse l’orario lavorativo. Otto ore restarono l’eccezione: nel resto degli Stati Uniti si continuava a lavorare sedici ore.

Così, a Chicago, a quasi un ventennio da quella grande conquista operaia, i lavoratori, mossi dalla solidarietà che li accumunava e gli dava forza d’azione, indissero un’enorme protesta.

Il primo maggio 1886, data simbolica, iniziarono uno sciopero generale, un metodo di lotta pacifica che era un’arma di pressione sui padroni. Una strategia di lotta politica ideata da pensatori anarchici come Pierre-Joseph Proudhon.

La manifestazione fu enorme. La partecipazione si stima fu di ottantamila persone.

Quel giorno non solo a Chicago, ma in tutti gli Stati Uniti, dodicimila fabbriche fermarono la produzione. Quattrocentomila operai incrociarono le braccia.

All’epoca protestare, non era un diritto come oggi. Scioperare era una cosa seria, e si poteva anche morire  per scioperare. Così accadde quel primo maggio del 1886. La polizia, a Chicago, aprì il fuoco sulla folla, uccidendo due manifestanti e ferendone molti altri.

La rivolta di Haymarket

In risposta, i collettivi di operai anarchici che all’epoca erano molto attivi, indissero un presidio in risposta alla brutalità della polizia, per il giorno dopo, nel mercato di Haymarket.  Gli avvenimenti videro il loro apice il 4 maggio.

Così il 4 maggio, da una traversa dell’Haymarket, qualcuno lanciò un piccolo ordigno verso la polizia, nel momento in cui la stessa marciava in formazione per disperdere la folla, con la forza.  L’esplosione uccise un poliziotto e ne ferì altri.

La forza pubblica, per rappresaglia, aprì immediatamente il fuoco sulla folla, indiscriminatamente. Nella confusione, morirono altri sette poliziotti colpiti da fuoco amico. In totale, i morti, tra civili e poliziotti, furono undici. Innumerevoli i feriti, i quali per la maggior parte non si recarono in ospedale, per paura di esser arrestati.

La repressione federale non si fece attendere. Otto esponenti anarchici furono arrestati e condannati a morte.

Di questi otto, solo due erano presenti all’Haymarket , rendendo gli altri sei anarchici un puro capro espiatorio. Il processo fu una farsa, non vi erano prove su chi effettivamente avesse lanciato l’ordigno. Furono comunque condannati, in quanto ritenuti responsabili.

La Corte sostenne che chi aveva lanciato la bomba lo avesse fatto sotto l’incitamento dei discorsi degli anarchici.

Degli otto anarchici accusati, solo quattro furono giustiziati, mentre uno si suicidò in carcere la sera prima, per non dare soddisfazione al boia di Stato.

La paura statunitense per il significato del primo maggio e per il sentimento socialista

La notizia delle condanne a morte rese gli anarchici di Chicago dei martiri.

All’epoca vi furono proteste in tutto il mondo in loro nome. In Italia, famosa fu la rivolta di Livorno. Al Congresso Internazionale dei Lavoratori di Parigi, che diede vita alla Seconda Internazionale nel 1889, si decise di scegliere come data commemorativa il primo maggio. In onore dei martiri di Chicago e e dei diritti dei lavoratori che, dalla conquista delle otto ore di lavoro rivendicate come tetto massimo, sulla scia di quel giorno, continuarono le loro lotte per conquistare la propria dignità e i diritti che spettavano loro.

Da allora, in tutto il mondo, si scelse e diffuse questa data. In quasi tutte le nazioni.

Se l’identità nazionale e religiosa ha diviso i popoli nei secoli, l’identità di classe produttiva ha unito i lavoratori di tutto il mondo. Pane, pace e lavoro erano i loro valori.

Negli Stati Uniti, però, come in Australia e nel Regno Unito, celebrano la giornata dei lavoratori in altre date. A determinare ciò fu il timore delle classi dominanti che il significato di quella giornata potesse rafforzare il sentimento socialista che andava montando nelle masse operaie e contadine di tutto il globo.

Tuttavia, i loro tentativi furono vani.

Il primo maggio durante il ventennio fascista italiano

Durante il ventennio della dittatura fascista, la festa dei lavoratori, che si celebrava in Italia dal primo maggio 1890, venne abolita. Si sostituì tale data con quella del 21 aprile, giorno in cui si celebrava il compleanno di Roma capitale, una festa fascista.

Il primo maggio si tornò a festeggiare nuovamente dal 1946. Sei giorni dopo il primo anniversario della liberazione dal fascismo, il 25 aprile.

1947 un primo maggio di sangue in Italia

Edizione straordinaria del quotidiano “La Voce della Sicilia”, pubblicata in occasione della strage di Portella della Ginestra <br> Fonte: https://www.ilpensieromediterraneo.it/wp-content/uploads/2021/04/Portella-della-Ginestrala-prima-Strage-di-Stato.jpg
Edizione straordinaria del quotidiano “La Voce della Sicilia”, pubblicata in occasione della strage di Portella della Ginestra
Fonte: https://www.ilpensieromediterraneo.it/wp-content/uploads/2021/04/Portella-della-Ginestrala-prima-Strage-di-Stato.jpg

Il primo maggio 1947, in Sicilia a Portella della Ginestra, avvenne la prima pagina scritta col sangue di quella vicenda che sarà chiamata strategia della tensione.

Il bandito Giuliano e la sua banda, in accordo con esponenti della democrazia cristiana e, probabilmente, i servizi segreti americani, si rese autore di una strage di contadini siciliani, che si erano radunati per festeggiare il primo maggio e l’ottimo risultato ottenuto dalle forze di sinistra alle elezioni locali, svolte il 20 aprile precedente.

Il bilancio fu di undici vittime.

Nei giorni successivi, la banda Giuliano attaccò a colpi di bombe a mano e mitra le camere del lavoro e varie sedi dei partiti di sinistra, in molti comuni della provincia di Palermo. Così, la mafia iniziava il suo servizio di manovalanza per le forze reazionarie e i nuovi padroni americani.

La strategia della tensione, nell’ambito della guerra fredda, gettava le sue basi pratiche e ideologiche prima ancora che fosse eretta la “cortina di ferro”.

Cosa resta di quelle lotte e conquiste raggiunte centocinquantanove anni fa?

Il bilancio, dopo oltre un secolo e mezzo di lotte dei lavoratori, è molto amaro. Qualcuno direbbe che la lotta di classe l’hanno vinta i padroni.

In Italia, nel 1970, a seguito di durissime lotte operaie, si ottenne lo Statuto dei Lavoratori. Anni di lotta avevano garantito l’articolo 18 e tante altre conquiste, che resero l’Italia un paese civile.
Bisogna lavorare per vivere e non vivere per lavorare.

Il motto dei primi sindacati operai, nel 1850, in Australia recitava:

Otto ore di lavoro – otto ore di svago – otto ore di riposo.

Cosa ne resta oggi? Chi può godersi, quasi due secoli dopo, quelle famose otto ore di svago e di riposo?

Paradossalmente, chi entra nel mercato del lavoro italiano si rende conto che, spesso e volentieri, in molti settori lavorativi, soprattutto quello turistico e della ristorazione, per otto ore di lavoro la retribuzione intesa dai datori di lavoro (o prenditori di lavoro?) corrisponde a quella prevista per i part-time. Otto ore nel mercato nero del lavoro italiano, che non rappresentano l’eccezione ma la norma, nel silenzio dei governi che si susseguono. Otto ore significano mezza giornata per i datori di lavoro italiani di molte realtà produttive.

Lo Statuto dei Lavoratori è stato smantellato, l’articolo 18 abolito. Dopo centocinquantanove anni, la giornata media del lavoratore manuale italiano è di dieci o dodici ore. Se consideriamo chi è costretto a fare il pendolare, si arriva anche a quattordici ore. Ovviamente, il viaggio casa-lavoro non è contemplato nella busta paga.

Il neoliberismo è la libertà di sfruttare

Se osserviamo con onestà intellettuale il liberalismo, esso non incarna quel significato semantico che la parola sembrerebbe suggerirci.

Liberalismo non è la libertà di tutti. È la libertà degli imprenditori di sfruttare il capitale umano.

La deregolamentazione e la flessibilità del mercato del lavoro vengono invocate nei salotti tv come un dogma. Ma non portano benessere e ricchezza. O meglio, lo portano, ma solo nelle tasche di pochi eletti. Chi paga gli effetti collaterali sono i milioni di lavoratori che si trovano senza sicurezza sul lavoro, senza dignità e senza la stabilità di poter pianificare una vita degna di questo nome.

Morire di lavoro nel terzo millennio

Nel 2024, i morti sul lavoro sono stati 1090. È il bilancio di una strage. Una strage che è in aumento, con quarantanove morti in più rispetto ai morti del 2023 (+4.7%). Tra loro ci sono anche studenti, che sono vittime dello sfruttamento reso legale da quella legge chiamata “alternanza scuola-lavoro”.

I lavoratori stranieri corrono un rischio di morte triplicato rispetto agli italiani.

Il settore con il maggiore tasso di mortalità resta quello delle costruzioni, che, nel 2024, ha raggiunto centocinquantasei morti bianche.

Gli infortuni sul lavoro toccano, invece, una quota che si avvicina ai numeri di una guerra. Nel 2024, gli infortuni sono stati cinquecentonavantamila, anche questi in crescita rispetto al 2023  (+0.8%).

Questi numeri parlano da soli. Trenta anni di deregolamentazioni presentano un bilancio disastroso.

Il momento di spostare il dibattito dalla flessibilità del mercato del lavoro verso quello della sicurezza è ora, ed è inderogabile. Bisogna esigere la tutela per chi, nel mercato del lavoro, ottiene un trattamento come se fosse merce egli stesso. I lavoratori sono esseri umani, non capitale umano, come qualche economista ha deciso di chiamarli.

Non è una questione ideologica. È una questione di civiltà in un paese che voglia dichiararsi democratico, civile e sviluppato.

 

Il primo maggio è noto anche per il suo concertone a Roma. Dunque, lascio ai lettori di Universome una canzone, con l’augurio che possa essere d’ispirazione per questa giornata.

Auguro un buon primo maggio a tutte e tutti.

 

Fonti:

https://www.collettiva.it/copertine/culture/primo-maggio-dove-nasce-la-festa-dei-lavoratori-f9cj4qp4

https://it.wikipedia.org/wiki/Rivolta_di_Haymarket

https://www.assoutenti.it/1-maggio-festa-dei-lavoratori-significato-storia/

https://www.vegaengineering.com/news/infortuni-sul-lavoro-1090-morti-in-italia-nel-2024-in-aumento-del-4-7-rispetto-al-2023/

https://www.raiplay.it/dirette/raistoria/Passato-e-Presente—Il-Primo-Maggio-nella-storia-unitaria—01052025-0138a8f1-f816-4ac9-b12b-42cb4b4b1cb1.html

 

 

 

La cultura della parola: Quasimodo e la poesia

Salvatore Quasimodo, vincitore del Premio Nobel per la poesia nel 1959, è stato uno dei massimi esponenti della letteratura italiana del Novecento. Le sue opere, tradotte in oltre quaranta lingue, vengono studiate in tutto il mondo.

Nato a Modica, in provincia di Ragusa, il 20 agosto 1901, incontrò fin da giovane numerose difficoltà nel coltivare la sua passione per la scrittura. La sua famiglia desiderava per lui una carriera da ingegnere, ma le sue inclinazioni erano ben diverse. Fu solo nel 1926, a Reggio Calabria – dove si trovava per lavoro – che ritrovò fiducia nelle sue capacità letterarie.

Alla poesia affidò il senso stesso dell’esistenza, certo che sarebbe sempre prevalsa su ogni altra cosa.

La sua prima fase creativa fu caratterizzata da un lirismo intimo, fatto di abbandono ed effusione, sebbene fortemente ancorato al quotidiano. La seconda fase, invece, fu segnata da una riflessione critica e da una crescente consapevolezza esistenziale.

Quasimodo comprese che la poesia non poteva limitarsi a un esercizio di compiacimento sentimentale, ma doveva rispondere alla storia degli uomini e confrontarsi con essa.

Nelle Liriche degli anni Quaranta emerge con chiarezza il suo disagio: la poesia non poteva più essere mero strumento di evasione, ma nemmeno piegarsi alla propaganda politica.
Alla poetica della parola sentì l’urgenza di sostituire una poetica dell’uomo.

Il simbolismo rimase tuttavia la sua principale forma di comunicazione, e l’Ermetismo continuò a rappresentare la solitudine dell’autore e dell’intera umanità, filtrata attraverso una continua e profonda ricerca linguistica.

Alla pietà per se stesso seguì quella per tutti gli uomini. La poesia divenne così un’espressione sociale, moderna, un faro nell’esistenza, pur rimanendo sempre in cerca di un equilibrio e di una dimensione che fosse autenticamente umana.

Il viaggio di Quasimodo – dalla Sicilia a Milano, dall’infanzia all’esilio, dal tempo mitico alla modernità – riflette le tappe di un percorso poetico che va dal monologo interiore al dialogo con il mondo.

Nella sua poesia sociale, realtà e simbolo convivono armoniosamente.

Quasimodo rimase sempre fedele a un’immagine di se stesso mai rinnegata, e ciò gli permise di illuminare l’“Isola” dell’umanità.

Fino all’ultima fase poetica degli anni Sessanta, cercò – attraverso l’anticonformismo – di affermare il valore autonomo della poesia, opponendosi a una letteratura che considerava conformista, favorita e protetta dalla politica.

Per Quasimodo, la poesia è destinata ad andare oltre la morte, risvegliando le coscienze e riconducendole alla verità.


Quasimodo e Messina

Quasimodo non fu l’unico scrittore siciliano a mantenere uno stretto legame con la propria terra d’origine: anche Elio Vittorini, Vitaliano Brancati e Giuseppe Tomasi di Lampedusa fecero altrettanto.

Fino al 1968, Quasimodo coltivò il suo rapporto con la Sicilia in modo discreto ma ostinato, seguendo percorsi sempre diversi, anche attraverso le traduzioni dal greco e da lingue moderne.

Fu particolarmente legato a Messina, città che vide per la prima volta subito dopo il devastante terremoto del 1908. Messina gli apparve come un cumulo di macerie, morte e distruzione. Ancora bambino, visse con il padre ferroviere su un vagone, nutrendosi soltanto di mele.

In seguito, la loro dimora divenne una baracca di legno, poi una piccola casa in cemento armato situata in via Croce Rossa n. 81, nel Quartiere Americano. Quel paesaggio – l’odore dei limoni, il cielo azzurro, il vento che veniva dal mare – rimase per sempre vivo nella memoria del poeta.

Dopo l’infanzia trascorsa a Roccalumera, Quasimodo conseguì il diploma nel 1919 all’Istituto Tecnico “Antonio Maria Jaci” di Messina, sezione fisico-matematica.

Furono anni intensi, caratterizzati da scambi culturali, circoli letterari, riviste e importanti letture: da Dante a Dostoevskij, da Baudelaire a Mallarmé e Verlaine.

La sua ricerca della verità lo portò a confrontarsi anche con i testi di Platone, Cartesio, Spinoza, Sant’Agostino e i Vangeli.

Tutta la sua prosa critica affonda le radici nella filosofia.

A Messina intrecciò rapporti duraturi con personalità di rilievo come Salvatore Pugliatti, futuro rettore dell’Università, e Giorgio La Pira, destinato a diventare sindaco di Firenze.
Con loro condivise un’intensa stagione culturale, culminata anche nella nascita di un nuovo giornale letterario, il cui secondo numero venne redatto nella baracca di legno dove allora abitava.

Non perse mai il desiderio di ritrovare gli amici. Ogni volta che tornava a Messina, si recava alla libreria dell’Ospe, in Piazza Cairoli, fondata da Antonio Saitta. Qui, nacque l’“Accademia della Scocca”, cui aderivano alcune tra le menti più brillanti della poesia e della letteratura.

Il primo nucleo poetico della raccolta Acque e terre nacque a Messina, con introduzione di Salvatore Pugliatti, mentre con La Pira mantenne uno scambio epistolare continuo.

Messina e la Sicilia furono sempre al centro della sua “topografia poetica”. La sua isola diventò così terra di miti, di memoria e di antica bellezza.


 La modernità di Quasimodo

La poesia di Quasimodo è ancora oggi straordinariamente attuale. Egli scelse un rapporto diretto con i lettori, privo di filtri o cesure, per affrontare a viso aperto le grandi problematiche sociali del suo tempo.

Per Quasimodo, il poeta deve saper raccontare il quotidiano e restituire dignità al presente, affinché l’uomo possa finalmente diventare artefice del proprio destino, libero da condizionamenti esterni.

Le sue parole parlano ancora oggi con forza: l’uomo è armonia e non può aspirare soltanto al dominio, alla conquista o alla guerra. Anela, invece, a un radicamento autentico nella società, in sintonia con il pensiero di Hannah Arendt, filosofa tedesca che denunciò i totalitarismi.

Ogni individuo, secondo questa visione, deve farsi portatore di pace, garante dei diritti dell’altro, condividendo con lui le strutture sociali in nome di un egualitarismo spirituale di matrice cristiana. 

 

 

Bibliografia

Salvatore Quasimodo, Poesie e Discorsi sulla poesia, Mondadori 1983.

– G.Finzi, Invito alla lettura di Quasimodo, Mursia 1983.

– Stefania Campo, Salvatore Quasimodo e la sua Sicilia, Il leone verde 2022

Sitografia

https://turismoecultura.cittàmetropolitana.me.it/cultura/archivio-quasimodo/la-biografia/

https://gazzettadelsud.it/articoli/cultura/2021/02/25/quasimodo-messina-citta-sommersa-nel-mio-cuore-0c44132e-d1c2-4ce1-bc39-c37d59a7df5f/

Il ruolo dell’Arte nell’educazione alla sostenibilità

La Sostenibilità: Una Sfida Urgente e Culturale

Oggi, il tema della sostenibilità rappresenta una delle questioni più urgenti e complesse del nostro tempo.

Eventi climatici estremi, scioglimento dei ghiacci, perdita di biodiversità, inquinamento diffuso sono tutti segnali che non possono più essere ignorati. Eppure, nonostante i dati scientifici siano sempre più allarmanti, il cambiamento procede lentamente.

Perché?

La sostenibilità non può essere solo una questione tecnica, fatta di normative, statistiche o tecnologie. È anche, e soprattutto, una questione culturale che richiede un cambio di mentalità.

Ha bisogno anche di narrazioni, di immagini, di emozioni: ha bisogno dell’arte. Perché è attraverso la cultura che possiamo costruire una nuova visione del futuro.

L’arte permette, infatti, di trasformare la percezione, educare allo stupore, ricordarci la bellezza e la fragilità del mondo naturale.

In un’epoca di overload informativo (sovraccarico di informazioni) e disconnessione emotiva, l’arte può riaccendere quel legame profondo con la natura che la modernità ha spesso reciso.

Effetti del cambiamento climatico.https://img.freepik.com/premium-photo/splitscreen-image-where-one-half-shows-dry-landscape-other-half-shows-green-forest_1268699-584.jpg
Effetti del cambiamento climatico.
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La rappresentazione della natura nella storia dell’arte

La natura è sempre stata una delle protagoniste principali dell’arte. Fin dalle origini, l’essere umano ha sentito il bisogno di rappresentare il mondo naturale che lo circondava non solo per documentarlo, ma per dargli un senso, celebrarlo, o temerlo.

Già nelle pitture rupestri, decine di migliaia di anni fa, troviamo rappresentazioni della fauna: immagini potenti, spesso legate al rapporto spirituale e simbolico con la caccia e la sopravvivenza. Qui, la natura non è sfondo, ma protagonista assoluta.

Nel Rinascimento, la natura si fa armonia e ordine. Maestri come Leonardo da Vinci osservano piante, animali, paesaggi naturali contemporaneamente con occhio scientifico e artistico, rendendoli parti integranti delle opere.

Esempio emblematico è la pittura di Caravaggio, precursore del naturalismo pittorico, per la sua capacità di rappresentare la realtà con assoluta fedeltà e assenza di idealizzazione.

Con il Romanticismo, la natura esplode in tutta la sua forza. I paesaggi diventano espressione dello stato d’animo umano. Basti pensare ad opere come “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich, dove la natura è immensa, sublime, a tratti minacciosa, specchio dell’infinito e dell’ignoto.

Anche gli Impressionisti celebrano la natura nella sua luce mutevole, nei suoi riflessi, nella vita quotidiana all’aperto, con l’intento di racchiudere emozioni autentiche.

Nel Novecento, la natura non è solo rappresentata: diventa materia. La Land Art è un movimento artistico in cui l’ambiente naturale è allo stesso tempo mezzo e messaggio.

Questa evoluzione della rappresentazione artistica della natura mostra quanto essa sia stata non solo fonte d’ispirazione, ma anche riflesso dei cambiamenti nel pensiero umano: da divinità temuta a risorsa da studiare, da bellezza da contemplare a organismo vivente da rispettare e con cui convivere.

"Canestra di frutta", Caravaggio, 1597-1600.https://www.disegnoepittura.it/wp-content/uploads/Canestro-Frutta-Caravaggio-HD.jpg
“Canestra di frutta”, Caravaggio, 1597-1600.
https://www.disegnoepittura.it/wp-content/uploads/Canestro-Frutta-Caravaggio-HD.jpg

Oggi: l’Arte come strumento di sensibilizzazione ambientale

Nel contesto attuale, segnato da emergenze ambientali sempre più evidenti, l’arte ha assunto un nuovo ruolo: non solo rappresentare la natura, ma anche difenderla.

Sono sempre più numerosi gli artisti che si fanno portavoce di una coscienza ecologica, usando il proprio linguaggio per porre domande, scuotere le coscienze, stimolare il cambiamento. È nata così una vera e propria corrente: l’eco-art, un’arte impegnata, che mette al centro il rapporto tra uomo e ambiente, spesso con un approccio critico e sperimentale.

Molti artisti, inoltre, utilizzano materiali di scarto o riciclati per sensibilizzare sul tema dei rifiuti.

Ci sono, poi, progetti partecipativi e comunitari, in cui l’arte diventa uno strumento per coinvolgere le persone in attività sociali volte a trasformare spazi degradati e generare una nuova relazione con il territorio.

In tutte queste forme, l’obiettivo è chiaro: rendere visibile ciò che spesso è invisibile, toccare corde emotive, creare consapevolezza. Perché l’arte, oggi più che mai, può essere un ponte tra la conoscenza e l’azione.

Perché, in fondo, ogni gesto sostenibile nasce da una domanda antica e semplice: che mondo vogliamo lasciare? E forse è proprio l’arte, ancora una volta, a suggerirci la risposta.

 

Antonella Sauta

Effetto Werther: il tragico fascino del suicidio

L’effetto Werther è un fenomeno psicologico e sociologico secondo cui la rappresentazione romantica del suicidio nei media può indurre comportamenti emulativi, soprattutto tra i giovani e le persone vulnerabili. Il termine nasce dal romanzo I dolori del giovane Werther (1774) di Johann Wolfgang von Goethe, in cui il protagonista, sopraffatto da un amore impossibile, si toglie la vita con un colpo di pistola. Continua a leggere “Effetto Werther: il tragico fascino del suicidio”

Farm Cultural Park: la street art da nuova vita al territorio

Street art in Sicilia

Negli ultimi decenni, l’evoluzione dell’arte ha profondamente cambiato il paesaggio della nostra isola. I territori siciliani sono diventati un esempio di rinascita attraverso la street art, grazie a vari progetti di trasformazione urbana.
Numerosi artisti, locali e internazionali, hanno apportato il loro contributo, permettendo non solo una trasformazione urbana, ma anche e soprattutto una rivitalizzazione economica, sociale e cultuale.

In Sicilia, accanto al suo ricchissimo patrimonio artistico, che affonda le radici nella sua storia di dominazioni e accoglienza di culture diverse, e si riflette nelle testimonianze architettoniche di tutte le epoche (dai templi greci alle chiese barocche) stanno nascendo nuove realtà che lo arricchiscono ulteriormente, fondendo tradizione e innovazione in un continuo processo di trasformazione.

Esempi notevoli di questa evoluzione sono “Fiumara d’Arte” e il “Cretto di Gibellina”.

Farm Cultural Park

 

Farm Cultural Park (Favara, AG): esempio di street art in Sicilia https://www.artinresidence.it/it/properties/farm-cultural-park/
Farm Cultural Park (Favara, AG): esempio di street art in Sicilia
Fonte: https://www.artinresidence.it/it/properties/farm-cultural-park/

Uno dei progetti più significativi è il Farm Cultural Park, a Favara, provincia di Agrigento. Il piccolo comune, che come molti altri dell’entroterra siculo stava affrontando una profonda crisi demografica, riuscì a rinascere dalle sue ceneri grazie ad una coppia di imprenditori, Andrea Bartoli e Florinda Saieva, che investirono nell’ambizioso progetto di rendere Favara un centro artistico, attraente soprattutto per i giovani. Nel 2010 nasce, quindi, Farm Cultural Park, un’iniziativa di riqualificazione urbana che unisce arte, cultura e comunità.

Attraverso la ristrutturazione di edifici abbandonati del centro storico e l’allestimento di opere ed installazioni, il comune diventa un centro artistico a 360°, in grado di attrarre artisti internazionali e visitatori da tutto il mondo.

Farm Cultural Parkhttps://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.vita.it%2Fstorie-e-persone%2Fa-favara-larte-di-farm-cultural-park-ha-reinventato-la-citta%2F&psig=AOvVaw34RNKWanguMvpd6CSZA0t8&ust=1742055974262000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBgQjhxqFwoTCLDup8j-iYwDFQAAAAAdAAAAABAd
Farm Cultural Park
Fonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.vita.it%2Fstorie-e-persone%2Fa-favara-larte-di-farm-cultural-park-ha-reinventato-la-citta%2F&psig=AOvVaw34RNKWanguMvpd6CSZA0t8&ust=1742055974262000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBgQjhxqFwoTCLDup8j-iYwDFQAAAAAdAAAAABAd

Turismo e sviluppo

Farm Cultural Park ospita, ogni anno, numerosi eventi come festival, workshop ed attività educative, creando un ambiente dinamico e vivace.

L’arte urbana ha svolto un ruolo fondamentale nel rafforzare l’identità culturale delle comunità locali, promuovendo la partecipazione attiva dei cittadini e la riappropriazione degli spazi pubblici.

Il turismo, che si è sviluppato in seguito alle numerose iniziative intraprese, porta benefici economici su tutto il territorio. Inoltre, per limitare le conseguenze negative sull’ambiente, il comune adotta politiche rivolte alla sostenibilità.

Questo progetto ha dimostrato come l’arte possa essere un potente strumento di trasformazione sociale, capace di innescare processi virtuosi di sviluppo sostenibile e inclusivo.

In conclusione, il progetto di rivitalizzazione di Favara è diventato un importante esempio replicabile da tanti altri comuni e riconosciuto a livello internazionale.

Farm Cultural Parkhttps://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.loquis.com%2Fit%2Floquis%2F2762056%2FFarm%2BCultural%2BPark%2BFavara&psig=AOvVaw34RNKWanguMvpd6CSZA0t8&ust=1742055974262000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBgQjhxqFwoTCLDup8j-iYwDFQAAAAAdAAAAABAr
Farm Cultural Park
Fonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.loquis.com%2Fit%2Floquis%2F2762056%2FFarm%2BCultural%2BPark%2BFavara&psig=AOvVaw34RNKWanguMvpd6CSZA0t8&ust=1742055974262000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBgQjhxqFwoTCLDup8j-iYwDFQAAAAAdAAAAABAr

Fonti:

https://www.farmculturalpark.com/

“Imparare da Favara. Radici culturali e prospettive di una rigenerazione urbana di successo”. Pier Paolo Zampieri

Antonella Sauta

Il Concetto filosofico di Arte

PREMESSA

Il concetto di Arte è da sempre oggetto di discussione. In particolare, ci si è interrogati se questa possa avere un posto nell’Olimpo della verità, o se vada rifiutata fuori dalle mura delle proprie città.

Per analizzare tali possibilità, quello che seguirà sarà un excursus dei più importanti pensieri filosofici della storia, considerando il periodo che va da Platone a Hegel.

PLATONE

Per dare una connotazione di carattere generale, basti sapere che Platone basa la verità delle cose sulle Idee. Intangibili ed empiree, sono quelle da cui le cose materiali prendono forma e “ispirazione”. Diventano, quindi, una diretta copia delle prime, allontanando, di fatto, l’anima dalla verità.

Da qui, sembra chiara la posizione rispetto l’Arte di Platone.

Le cose come appaiono sono copia delle Idee delle cose. L’Arte, essendo rappresentazione delle cose, è (per mimemis) copia della copia. Ne deriva che essa debba essere rigettata fuori dalle mura della città ideale, un clima politico filosofico concettualizzato nella Repubblica.

Non c’è spazio per l’Arte nel luogo delle verità per Platone.

Essa è mera imitazione, che distoglie l’anima dalla verità ideale, e per questo ha un’accezione più che negativa per il filosofo greco.

Opera d'Arte: La città ideale, di Leon Battista Alberti
              La città ideale, di Leon Battista Alberti

ARISTOTELE

Se per Platone l’Arte aveva un carattere completamente negativo, per Aristotele è esattamente il contrario.

L’Arte, e in  particolare la tragedia, ha per quest’ultimo un ruolo catartico, capace di rappresentare sentimenti umani (come la rabbia, la pietà ecc.) affinché l’uomo possa averne una migliore comprensione.

Ha anche un fondamentale scopo educativo e morale, oltre ad essere non solo imitazione della realtà, ma imitazione della “realtà possibile”. Per cui l’operare dell’artista imita l’operare della natura.

AGOSTINO

Pur non essendo un filosofo dell’Arte, le celeberrime Confessioni offrono uno sguardo più critico.

Per quanto l’Arte sia espressione della bellezza divina (e in quanto tale va apprezzata), ammirare le opere artistiche come tali non deve distogliere l’uomo dall’apprezzamento della bellezza di Dio.

Sembra quasi un tentativo di conciliazione tra arte e religione, dove comunque vi è una subordinazione alla ricerca della verità spirituale.

TOMMASO D’AQUINO

Filosofo medievale, Tommaso d’Aquino concepisce l’Arte come manifestazione della perfezione divina. L’artista, infatti, può essere considerato un “co-creatore“, che riproduce la bellezza divina nel mondo.

Oltre a un fare estetico, per Tommaso è uno strumento utile per l’elevazione spirituale. In particolare, l’arte visiva delle chiese permetterebbe al fedele di concentrarsi meglio su Dio.

IconografiaFonte: https://resinflamedecoart.com/wp-content/uploads/2021/07/jesus-christ-4152894_640.jpg
Iconografica esemplificativa

IMMANUEL KANT

Figura fondamentale, Kant sviluppa una teoria estetica nella critica del giudizio, mettendo in evidenza il giudizio estetico come contemplazione disinteressata. Il che non significa esserne “disinteressato” in senso assoluto, bensì distaccarsi completamente da ogni fare e volere utilitario.

Questo giudizio permette all’uomo di esprimere il sublime e il bello (naturale) in modo universale.

La bellezza, quindi, trascende la sfera pratica e si lega alla capacità di risvegliare un senso di armonia universale.

FRIEDRICH HEGEL

Hegel concepisce l’Arte come il primo luogo di manifestazione dello Spirito, la pura libertà umana.

Nelle sue lezioni di Estetica (1820), il filosofo analizza l’arte come l’espressione umana del Bello. Questa, infatti, è il punto di congiunzione perfetto tra sensibilità (mondo sensibile) e razionalità (Spirito).

Chiaramente, non tutta l’arte permette all’uomo di incontrare lo Spirito, bensì solo un contenuto storicamente determinato.

È un contenuto preciso, collocato nell’arte greca, il Partenone.

Di fronte a tale visione, l’uomo non vede la sola forma. L’uomo vede il Bello ideale.

Dall’arte greca in poi, essa non ha più la funzione di dover elevare l’uomo a Spirito intuendolo. Da qui, nasce la concezione della “morte dell’arte” di Hegel.

PartenoneFonte: https://affascinarte.altervista.org/wp-content/uploads/2017/04/P_20170419_101826_1.jpg
                                       Il Partenone

CONCLUSIONE

L’Arte, oltre ad essere da sempre stata apprezzata, ha avuto modo di essere reinterpretata nel suo Concetto, mostrando a noi diverse concezioni artistiche/estetiche.

Il pensiero di questi filosofi ha influenzato per molto tempo l’uomo occidentale nella visione dell’Arte, con il culmine “filosofico” nell’Olimpo della verità da parte di Hegel, partendo dalla gettata fuori dalle mura delle Città di Platone.

FONTI

La Repubblica di Platone

Le Confessioni di Sant’Agostino

Critica del Giudizio di Kant

Lezioni di Estetica di Hegel

 

La donna-angelo: il topos che ha impoverito la complessità della donna

Esistono miti che sembrano eterni, radicati così profondamente nell’immaginario collettivo da sopravvivere alle epoche, alle rivoluzioni, ai cambiamenti sociali. Alcuni si trasformano, si adattano, cambiano forma per perpetuare la loro influenza. Altri, invece, si sgretolano sotto il peso di un progresso che non può più tollerarne le menzogne. Tra questi, uno dei più longevi e insidiosi, è quello della donna-angelo: eterea, pura, inarrivabile.

Per secoli, la donna è stata relegata a spettro, simulacro immacolato privo di voce e volontà. Il Romanticismo l’ha trasfigurata in icona di struggimento e sacrificio, la Belle Époque l’ha incastonata in un bozzolo di lasciva decadenza, mentre il cinema del Novecento ne ha fatto una dicotomia ingannevole: la femme fatale, avvincente e predatoria, e la casalinga impeccabile, devota e rassicurante. Archetipi opposti, ma ugualmente costrittivi, espressioni di un unico dogma: la donna come superficie riflettente, oggetto da contemplare, mai soggetto autonomo di narrazione.

Oggi, però, non è più ombra evanescente. Ha demolito le barriere che la volevano eco del desiderio maschile, occupando con potenza lo spazio che le è sempre appartenuto. Dall’accademia alla politica, dalla scienza all’arte, le donne hanno sradicato la narrazione che le relegava a comparse, imponendosi come protagoniste.

Eppure, il cadavere della donna-angelo non smette di essere riesumato. Ogni volta che si esige grazia come condizione imprescindibile, ogni volta che la dolcezza viene imposta come filtro della forza, ogni volta che il sacrificio e la devozione si travestono da nobiltà d’animo, si perpetua una narrazione che avrebbe dovuto dissolversi da tempo.

Il linguaggio stesso si fa strumento di controllo: la donna deve essere “forte ma femminile”, “determinata ma gentile”, come se la sua autodeterminazione dovesse sempre essere mitigata, mai feroce, mai destabilizzante.

E il mito non si dissolve, si trasforma. Si insinua nelle rappresentazioni culturali, si rigenera nei media, si annida nelle aspettative sociali. La madre è impeccabile, la “ragazza della porta accanto” è rassicurante, la donna in carriera è brillante ma mai eccessiva. Si esige un equilibrio innaturale, attraverso cui bisogna essere tutto e il suo contrario, senza mai incrinare l’illusione di pura armonia. La società recepisce, assimila, riproduce. Modella aspettative, plasma giudizi, impone codici e comportamenti, proponendo l’ennesimo ideale che, pur riformulato, resta sempre domato.

Ma la donna non è simbolo, non è astrazione, non è un riflesso. È presenza, volontà, irruzione.

Chi si ostina a rimpiangere quell’eterea creatura imbalsamata nella purezza nega una verità ormai ineluttabile: il futuro, piaccia o no, non ha bisogno di ali.

Genio e dannazione: la vita inquieta di Charles Baudelaire

Dall’armonia all’inquietudine: la svolta nella vita di Baudelaire

Charles Baudelaire nasce a Parigi il 9 aprile 1821, in una vecchia casa del Quartier Latin, al numero 13 di Rue Hautefeuille, dove oggi si trova la “Librairie Hachette”.

Considerato il simbolo del “poeta maledetto”, Baudelaire incarna la gioventù bohemienne, vivendo tra eccessi di alcool, assenzio e droghe, e combattendo contro le proprie fragilità mentali e fisiche.

La sua infanzia trascorre felicemente tra l’affetto della madre e il lusso del padre, un uomo anziano con inclinazioni artistiche. Tuttavia, la sua vita subisce una svolta drastica con il secondo matrimonio della madre con il maggiore Jacques Aupick, futuro generale, ambasciatore e senatore.

Baudelaire soffre profondamente questa unione e sviluppa un’avversione irriducibile per il patrigno, portandolo a un progressivo distacco dalla famiglia e a una vita sempre più ribelle e instabile.

La sofferenza come fonte di ispirazione

L’esistenza del poeta è segnata da alloggi precari, debiti, instabilità mentale e vari tentativi di suicidio.
La precarietà economica lo costringe a dipendere spesso dagli aiuti materni, mentre il suo spirito inquieto e tormentato lo spinge a esplorare l’arte sotto prospettive nuove e radicali.

Baudelaire non si piega alle convenzioni e trasforma le sue angosce in opere poetiche di straordinaria potenza, capaci di tradurre la decadenza e la bellezza del mondo in versi memorabili.

Il rapporto con Victor Hugo: ammirazione e critica

Baudelaire entra nel mondo della letteratura quando Victor Hugo è già un’icona del Romanticismo francese. Dopo un’iniziale ammirazione per il grande scrittore, sviluppa un rapporto contrastante con lui, criticando l’abbondanza stilistica e la visione morale dell’arte. Baudelaire ritiene che il poeta non debba avere la missione di guidare l’umanità, ma piuttosto cercare la purezza artistica.
Nel suo “Salon de 1845” accusa Hugo di aver influenzato negativamente intere generazioni di artisti con il suo sentimentalismo eccessivo. Tuttavia, col tempo, modera le sue critiche, riconoscendo il contributo di Hugo alla letteratura francese, pur continuando a preferire autori come Théophile Gautier, che incarnano una visione dell’arte più rigorosa e libera da intenti morali.

Simbolismo e poesia: il ruolo de L’Albatros e Correspondances

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I fiori del male – Poemetti in prosa. Collana: i Grandi Scrittori Stranieri II-43

Nel 1857, Charles Baudelaire pubblica la sua opera più celebre, Les Fleurs du Mal, un capolavoro che rivoluziona la poesia moderna e anticipa il Simbolismo. Il libro viene censurato per immoralità e alcune poesie vengono bandite, ma la sua influenza si rivelerà incalcolabile.
Baudelaire sostiene che l’arte non debba avere un fine sociale o morale, ma debba servire esclusivamente la bellezza e la ricerca di verità nascoste nel mondo.

All’interno della raccolta emergono due poesie emblematiche della sua poetica: L’Albatros e Correspondances.
L’Albatros rappresenta il dramma del poeta, paragonato all’albatros, un uccello maestoso in cielo ma goffo e vulnerabile sulla terra. Questo simbolismo esprime il contrasto tra la grandezza dell’ispirazione artistica e la difficoltà di adattarsi alla realtà quotidiana.
Correspondances, invece, introduce l’idea delle corrispondenze tra i sensi e il mondo spirituale, un concetto chiave del Simbolismo. In questa poesia, Baudelaire sviluppa la teoria secondo cui la natura è un tempio di simboli che l’artista deve decifrare, una visione che influenzerà profondamente la letteratura successiva.

Le Poète est semblable au prince des nuées 
Qui hante la tempête et se rit de l’archer;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l’empêchent de marcher

Il Poeta è simile al principe delle nubi,
che sfida la tempesta e ride dell’arciere;
ma esiliato a terra, tra il dileggio della folla,
le sue ali di gigante gli impediscono di camminare.

L’Albatros

In Les Fleurs du Mal, Baudelaire esplora anche il conflitto tra due stati d’animo opposti: lo Spleen e l’Ideale. Lo Spleen rappresenta una profonda malinconia, un’angoscia esistenziale e un senso di disperazione di fronte alla banalità della vita quotidiana. Al contrario, l’Ideale simboleggia l’aspirazione alla bellezza, alla perfezione e a una realtà trascendente. Attraverso questa dicotomia, Baudelaire illustra la lotta interiore del poeta, diviso tra la ricerca di un ideale sublime e la realtà opprimente dello spleen.

L’ultimo periodo: malattia e morte

La sua salute, però, peggiora progressivamente. Nel 1866, viene colpito da un ictus che gli provoca una grave afasia e paralisi. Ricoverato alla “Clinique Hydrotherapique” di Chaillot, le sue condizioni rimangono stazionarie per mesi. Il 31 agosto 1867, alle 11 del mattino, muore a soli 46 anni, senza che Les Fleurs du Mal abbia trovato un nuovo editore.

L’eredità immortale di Baudelaire

Oggi, Baudelaire è considerato uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. La sua arte, nata dal tormento e dal desiderio di trascendere la realtà, continua a influenzare generazioni di scrittori e artisti. Con il suo coraggio espressivo e la sua ricerca di una bellezza superiore, ha lasciato un’eredità immortale, capace di parlare ai cuori inquieti di ogni epoca.

 

Fonti:
Il sole nero dei poeti, Maria Luisa Belleli
I fiori del male – Poemetti in prosa, Charles Baudelaire

L’arte della ceramica di Santo Stefano di Camastra

Storia

La cittadina di Santo Stefano di Camastra sorge come un ideale terrazzo sul Tirreno, incastonata tra i Monti Nebrodi e la dorata costa tirrenica.

La storia di Santo Stefano di Camastra si articola in tre fasi:

  1. Noma, antica civiltà di pastori e contadini;
  2. Stefano di Mistretta, casale sotto il controllo di Mistretta fino al XV secolo;
  3. e infine S. Stefano di Camastra, la città moderna.

In seguito a una frana avvenuta nel 1682, il Duca di Camastra fondò il nuovo centro abitato in una zona più costiera rispetto a quella precedente, seguendo un piano urbanistico ispirato a Versailles. Questo provocò un profondo mutamento sociale: gli stefanesi svilupparono nuove tradizioni , tra cui quella ceramista già presente in epoca araba. I vasai stefanesi segnarono profondamente la cultura locale, tanto da ispirare celebri autori siciliani come Luigi Pirandello e Vincenzo Consolo.

Santo Stefano di Camastra Fonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=http%3A%2F%2Fwww.foto-sicilia.it%2Ffoto.cfm%3Fidfoto%3D140265%26citta%3Dsanto%2520stefano%2520di%2520camastra%26idfotografo%3D3054&psig=AOvVaw2YwGaKMBipYnQsQOTP3G-t&ust=1740410553328000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBYQjRxqFwoTCKD34-OM2osDFQAAAAAdAAAAABAi
Santo Stefano di Camastra
Fonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=http%3A%2F%2Fwww.foto-sicilia.it%2Ffoto.cfm%3Fidfoto%3D140265%26citta%3Dsanto%2520stefano%2520di%2520camastra%26idfotografo%3D3054&psig=AOvVaw2YwGaKMBipYnQsQOTP3G-t&ust=1740410553328000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBYQjRxqFwoTCKD34-OM2osDFQAAAAAdAAAAABAi

Lo sviluppo della ceramica

Nel Settecento, l’incremento del commercio via mare portò gli abitanti del piccolo comune a dedicarsi alla produzione della mattonella maiolicata.

Assimilando le tecniche dei colori e degli smalti napoletani, durante tutto l’Ottocento diedero vita ad innumerevoli piastrelle che rappresentano una parte fondamentale della storia dell’arte siciliana e mantengono tutt’oggi una forte identità culturale.

Un elemento che favorì lo sviluppo di questa particolare forma d’arte fu la presenza nel territorio delle cave “Turrazza” e “Piano Elia”, oggi chiuse, ma dalle quali si estraeva una delle argille tra le migliori della Sicilia.

La produzione di ceramica inizia in concomitanza con l’evento calamitoso che distrusse il paese e costrinse gli abitanti a spostarsi in una nuova ubicazione più a valle. Dunque, i primi oggetti realizzati furono materiali per l’edilizia, come le tegole. Successivamente, l’argilla venne impiegata nella realizzazione di altri oggetti, tra cui le celebri Giare Stefanesi, particolarmente apprezzate in quanto potevano raggiungere dimensioni molto più elevate delle altre presenti nel resto della Sicilia e d’Italia. Questa peculiarità, nella società agricola dell’epoca, rese la giara il prodotto di punta della produzione stefanese.

Accanto alla produzione tradizionale, si sviluppò gradualmente un’artigianalità sempre più diversificata, comprendente oggettistica varia e immagini sacre, contribuendo così a consolidare la fama dell’arte ceramica stefanese.

Santo Stefano di Camastra Fonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fjp.pinterest.com%2Fpin%2F312929874104477659%2F&psig=AOvVaw1VYWrJ9eKV1sMIvPH_lCaE&ust=1740410960397000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBYQjRxqFwoTCOjHkKiO2osDFQAAAAAdAAAAABAJ
Ceramiche di Santo Stefano di Camastra
Fonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fjp.pinterest.com%2Fpin%2F312929874104477659%2F&psig=AOvVaw1VYWrJ9eKV1sMIvPH_lCaE&ust=1740410960397000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBYQjRxqFwoTCOjHkKiO2osDFQAAAAAdAAAAABAJ

La ceramica oggi

La ceramica di Santo Stefano di Camastra è profondamente intrecciata con la sua identità culturale, rappresentando non solo un’attività economica centrale, ma anche un simbolo della storia e delle tradizioni della comunità locale.

Riconosciuta a livello internazionale, la produzione stefanese diventa simbolo della qualità Made in Italy e permette al territorio di godere dei suoi benefici, tra cui il turismo.

Il Museo della Ceramica, ospitato nel Palazzo Trabia, funge da custode di questa eredità culturale, esponendo opere che testimoniano l’evoluzione stilistica e tecnica della ceramica locale. I numerosi eventi comunali come “l’inceramicata”, una variante locale dell’infiorata, evidenziano come la ceramica sia parte integrante delle celebrazioni e delle tradizioni del luogo.

La presenza di numerosi laboratori artigianali e botteghe nel territorio sottolinea l’importanza della ceramica nella vita quotidiana degli abitanti. Questa produzione artigianale non solo sostiene l’economia, ma rafforza anche il senso di appartenenza e l’orgoglio comunitario, rendendo Santo Stefano di Camastra un punto di riferimento per l’arte ceramica in Sicilia.

Oggi, Santo Stefano di Camastra è un vero museo a cielo aperto, dove l’arte delle ceramiche decora strade, palazzi e piazze.

Inceramicata di Santo Stefano di CamastraFonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.buongiornoceramica.it%2Feventi%2Finceramicata-2%2F&psig=AOvVaw3c9Yr8PLdRrCDXgN-CbWBq&ust=1740409290442000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBYQjRxqFwoTCKCJn4eI2osDFQAAAAAdAAAAABAE
Inceramicata di Santo Stefano di Camastra

Fonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.buongiornoceramica.it%2Feventi%2Finceramicata-2%2F&psig=AOvVaw3c9Yr8PLdRrCDXgN-CbWBq&ust=1740409290442000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBYQjRxqFwoTCKCJn4eI2osDFQAAAAAdAAAAABAE

 

Fonti:

https://comune.santostefanodicamastra.me.it/amministrazione/luogo/bellezze-naturali/

https://comune.santostefanodicamastra.me.it/wp-content/uploads/2019/02/la_citta_del_duca.pdf

https://comune.santostefanodicamastra.me.it/wp-content/uploads/2019/02/ATLANTE_COMPLETO.pdf

 

Antonella Sauta