Indiegeno Fest 2025: l’edizione della riflessione

Torna con la sua undicesima edizione l’Indiegeno Fest, il festival siciliano organizzato da Leave Music e dall’Associazione Clap con il patrocinio del Comune di Messina. Per l’occasione abbiamo raggiunto telefonicamente Alberto Quartana, direttore artistico del festival, per farci svelare qualche novità di quest’anno.

Due date, 1 e 2 agosto 2025, in due location simboliche del territorio messinese: le Grotte di Mongiove e i suggestivi paesaggi nei pressi dell’Argimusco, per un evento che si annuncia come un’edizione di passaggio, un momento di pausa creativa, riflessione e cambiamento. “Volevamo tornare a una dimensione meno itinerante – ha detto Alberto Quartana – e abbiamo deciso di tornare nel posto dove siamo partiti. L’anno scorso si era creata un po’ di dispersione, e nei festival avere un’identità di luogo è importante.”

Un festival gratuito, aperto, in ascolto

La scelta è chiara e potente: ingresso gratuito, line-up giovane e sperimentale, artisti emergenti e un’atmosfera immersiva. Indiegeno Fest 2025 non punta su nomi altisonanti, ma su talento puro, energia creativa e autenticità, offrendo al pubblico la possibilità di (ri)scoprire la musica come esperienza condivisa e trasformativa.

1 agosto – Grotte di Mongiove (Patti, ME)

La prima serata si svolgerà nel suggestivo scenario naturale delle Grotte di Mongiove, tra mare e roccia. Sul palco:
Giulia Mei, Marco Russo, Zebra TSO, Basim, Tommaso Malatesta, Richie Ritz
A seguire, l’aftershow farà ballare il pubblico con i set di DJ Cafeo e Rumble in the Jungle.

2 agosto – Parco Archeologico Guglielmo, Montalbano Elicona (ME)

La seconda data, la più iconica e rappresentativa dell’intero festival, si terrà nei pressi dell’Argimusco, luogo magico e sospeso nel tempo. Qui, al tramonto, salirà sul palco il Secret Artist, un momento di pura emozione e sorpresa. Alberto Quartana ha svelato che “è un big della musica italiana, che ha creato innovazione nella panorama italiano e che ha portato tanta contaminazione”; non ci resta che scoprirlo il 2 agosto!
Completano la line-up: Nico Arezzo, Idda, Newma, Vick, Maiogabri, Befolko, Stretto Cypher, con un aftershow firmato DJ Cafeo e Dose.

Un anno di transizione per un futuro nuovo: parla il direttore artistico Alberto Quartana

Indiegeno Fest – come si legge nella nota stampa – quest’anno si è preso una pausa dai grandi nomi per tornare a dare spazio alle emozioni. “Quest’anno stiamo facendo una versione di Indiegeno più light, diciamola così. – ci racconta Alberto – Il concept, però, è identico: creare opportunità per gli artisti emergenti di esibirsi in dei palchi insieme. I curiosi della musica, chi non bada soltanto ai nomi altisonanti, hanno sempre trovato degli artisti che poi spesso hanno continuato a seguire.”

“Il sogno è creare una comunità appassionata di musica e con la voglia di scoprire cose nuove. Vorremmo creare un villaggio esteso in cui si entra, si sta una settimana e si vive tutto il panorama musicale italiano e tutto ciò che ci sta attorno. Fare un festival non è per niente facile, anche perché l’aspetto economico non è da sottovalutare e non ci si riesce a sostenere solo con la biglietteria. Serve un aiuto concreto da parte delle istituzioni e degli sponsor: se manca questo, tutto il resto viene meno. Forse dobbiamo abituare di più la gente al concetto di festival, ma questa è una questione italiana più che soltanto siciliana. Tuttavia questo sta cambiando, anche grazie a quello che abbiamo fatto noi, YpsigRock, Mish Mash, e tanti altri.”

In un’epoca in cui tutto corre e si consuma in fretta, Indiegeno Fest 2025 sceglie di rallentare, ascoltare e seminare. Non è solo un festival, ma un atto culturale e umano, un invito alla scoperta e all’autenticità.

Gaetano Aspa e Giulia Cavallaro

 

Heisenberg tra Fisica e Filosofia

Leggendo tra le righe: onde e particelle

[…] nella ricerca dell’armonia della vita, non dobbiamo dimenticarci che nel dramma dell’esistenza siamo insieme attori e spettatori. È comprensibile che nelle nostre relazioni scientifiche con la natura la nostra attività assuma grandissima importanza quando abbiamo a che fare con parti della natura nelle quali possiamo penetrare soltanto servendoci degli strumenti più elaborati.

Questa è una delle frasi più significative di uno dei libri che ho letto recentemente. Si tratta di Fisica e Filosofia, di Werner Heisenberg. Nome rinomato nel campo della Fisica e della Chimica grazie alla formulazione del suo celebre principio di indeterminazione


Il secolo scorso è stato sicuramente segnato dalla nascita della meccanica quantistica. Le particelle non possono essere semplicemente schematizzate come materia, ma vanno considerate anche come onde. Il principio di indeterminazione pone il limite fondamentale entro cui possiamo immaginare la duplice natura delle particelle.

Dopo una lettura attenta del libro sopra citato, ho avvertito la necessità di una riflessione.

Il linguaggio prettamente scientifico e tecnico utilizzato fino ad ora non deve trarvi in inganno. Il campo scientifico di cui stiamo parlando è interconnesso alla vita di tutti i giorni, o meglio, al nostro modo di pensare.

Il grande merito che attribuisco al libro di Heisenberg non è tanto accademico o divulgativo. Il libro costituisce un’ importante riflessione su come Fisica e Filosofia debbano essere viste come due sfere in costante contatto.

La riflessione che voglio condividere riguarda l’incredibile versatilità del pensiero umano, ormai quasi dimenticata e trascurata da molti. I nostri schemi nel pensare e nell’apprendimento, ad oggi, sono il risultato di una complessa storia del pensiero. In questa storia, l’evoluzione scientifica e i cambiamenti nel pensiero filosofico vanno di pari passo.

La culla della civiltà

La Filosofia e la Fisica classica nascono in Grecia, non a caso considerata da tutti come la culla della civiltà.

Pensatori come Democrito sono i primi a teorizzare l’esistenza di un’unità fondamentale della materia: l’atomo.

Chiamato così poichè indivisibile, l’atomo è da subito al centro di controversie e dibattiti sulla sua natura. È più importante lo spazio che gli atomi vanno a riempire o lo spazio vuoto attorno ad essi?

Per la prima volta il pensiero occidentale va in crisi. Per la prima volta si pensa al vuoto. Esso non è più un semplice contrario del pieno, ma una vera e propria entità, sia scientifica quanto filosofica.

Ad ogni modo, in seguito al pensiero di Platone e Aristotele, l’argomento del vuoto passa in secondo piano, o meglio, viene reinterpretato. Adesso non si cerca più una risposta direttamente nei concetti di vuoto e pieno, bensì il pensiero occidentale inizia a tuffarsi nell’astrazione.

Il mondo non è semplice materia. Il mondo non è più un insieme di elementi tangibili. Esiste una nuova porzione, un nuovo piano di realtà che si trova al di sopra del concreto. Tutto ciò che è osservabile ha una corrispondenza nell’iperuranioil mondo al di sopra del mondo. I fisici non studiano la realtà a partire da ciò che osservano, piuttosto studiano attentamente un fenomeno, cercando sempre di astrarre e generalizzare ciò che hanno osservato.

Da Cartesio alla crisi delle certezze

Il modo di pensare che abbiamo analizzato nel precedente paragrafo, il processo di osservazione e conseguente astrazione, è un metodo che ha riscontrato un enorme successo nella Fisica classica.
Il pensiero filosofico che tutto ciò che osserviamo sia riconducibile a una realtà generalizzata, fatta di schemi e leggi, ha accompagnato ogni pensatore e scenziato.

Non fa eccezione Descartes, Cartesio. Nonostante sia considerato il ponte tra il pensiero antico e quello moderno, risulta ancora incatenato ad una concezione classica della scienza. All’osservazione segue sempre una conseguente astrazione, e ad essa la formulazione di una legge che possa generalizzare un caso particolare.

Il concetto di separazione tra anima e corpo non fa che confermare il dominio della teoria Platonica nel pensiero occidentale.

Per svariati secoli, la concezione della scienza rimane la stessa. La porzione di universo che osserviamo, la strumentazione utilizzata per osservarla, le leggi che scaturiscono dal nostro studio, tutto è parte di una grande unità, tutto è parte dello stesso mondo.

Una piccola crepa viene aperta dalla filosofia di Immanuel KantLe leggi che teorizziamo non corrispondono alla assoluta verità, le asserzioni che facciamo sono il risultato di un nostro modo di pensare. Il nostro pensiero, dunque il nostro modo di apprendere e scoprire, è incatenato all’utilizzo di forme pure, categorie che utilizziamo per organizzare ogni informazione che immagazziniamo. Le categorie per eccellenza che individua Kant sono spazio, tempo e causalità.

Per quanto possa sembrare rivoluzionaria, la teoria di Kant sfocia comunque nel dogmatico limite del non poter conoscere la cosa in sè, limitandosi dunque allo studio delle manifestazioni di essa nel mondo materiale.

Ancora una volta, la filosofia Platonica trionfa nel pensiero occidentale, dimostrando il distacco tra il mondo materiale e il mondo astratto.

All’arrivo del XX secolo, il pensiero formulato per migliaia di anni è destinato a crollare. Tutto ciò che è stato detto dai Filosofi e che ha influenzato la fisica classica sta per collassare.

È il periodo della crisi delle certezze.

 

Lo stravolgimento Filosofico nella crisi delle certezze

È importante precisare che il periodo a cui mi riferisco non è quello del Decadentismo.

La crisi delle certezze di cui parlo è quella prettamente scientifica. Planck, Bohr, Einstein, Schrödinger, de Broglie sono tutti nomi di scienziati che hanno contribuito a cambiare per sempre il nostro modo di vedere il mondo che ci circonda.

In seguito al problema del corpo nero, in seguito agli esperimenti sull’effetto fotoelettrico, abbiamo capito che nel mondo dell’infinitamente piccolo non esiste una distinzione netta tra onda e corpuscolo. Quando si ha a che fare con corpi di grandezze infinitesimali, si manifesta un duplice comportamento: ondulatorio e corpuscolare.

Tutto ciò affonda le radici in una concezione che stravolge il pensiero Kantiano e le teorie fisiche e filosofiche di un intero millennio. Lo spazio e il tempo non possono essere viste come categorie assolute. Lo spazio non è più semplice collocazione di elementi, ma è probabilità. La probabilità che una particella si trovi in una determinata regione è essa stessa spazio.

Anche nel momento in cui studio una porzione di universo, un sistema, devo applicare una netta distinzione tra gli strumenti utilizzati, descrivibili con le leggi della Fisica classica, e il comportamento ambiguo del sistema di grandezza infinitesimale.

Ciò che è immensamente piccolo non rientra, a livello comportamentale, nei concetti kantiani di spazio e tempo. Lo studio delle particelle ci conduce dentro un universo non osservabile nella quotidianità, ma non per questo al di sopra della quotidianità. Il mondo dell’infinitesimo si trova incredibilmente immerso dentro l’osservabile, ma a un livello così profondo da sembrare totale astrazione.

Riflessione: due realtà comunicanti

L’eccessiva settorialità del sapere ci porta oggi ad una concezione erronea di Scienza. 

Scienza non è la materia che si studia nel proprio corso di laurea, in modo totalmente scollegato dal resto. Scienza è l’atto di porre uno schema ordinato in una realtà che non si comprende, l’atto di determinare dei rapporti logici tra ciò che accade intorno a noi.

Questo modo di pensare, questa processualità nel nostro apprendimento, è il frutto di anni ed anni di evoluzione del pensiero filosofico, che ci consente di imparare ad imparare. 

Dobbiamo staccarci dalla nostra erronea convinzione che scienza e pensiero classico siano due realtà totalmente scollegate. In fondo, il concetto di onde di probabilità è l’estrema conseguenza della teoria aristotelica della potenza.

Queste due realtà comunicano continuamente tra di loro. Il dualismo tra Scienza e Filosofia, che si rispecchia in ogni aspetto del nostro pensiero, è il più grande risultato che secoli di evoluzione del nostro modo di conoscere hanno ottenuto. Sarebbe un vero peccato cancellarlo dalla nostra mente.

 

Bibliografia

Werner Heisenberg, Fisica e Filosofia, Feltrinelli, Milano, 2015

Immanuel Kant, Critica della ragion pura, editori Laterza, Roma, 2005

Artemisia Gentileschi: pittura, dolore e riscatto

Artemisia Gentileschi (1593 – ca. 1656) è oggi riconosciuta come una delle figure più significative della pittura barocca, non solo per il suo talento eccezionale, ma anche per il coraggio con cui ha affrontato la sua epoca.

Figlia d’arte, prima donna a essere ammessa all’”Accademia delle Arti del Disegno di Firenze“, la sua opera unisce intensità emotiva, maestria tecnica e una straordinaria attenzione alla rappresentazione della figura femminile.

Infanzia e formazione tra Roma e la bottega del padre

Artemisia nacque l’8 luglio 1593 a Roma, nel cuore del quartiere degli artisti.

Il padre, Orazio Gentileschi, era un pittore di talento, influenzato in gioventù dal manierismo ma convertitosi al naturalismo drammatico di Caravaggio.

Fu proprio nella bottega paterna che Artemisia imparò a dipingere, mostrando fin da bambina una sensibilità e una abilità superiori a quelle dei fratelli. L’ambiente artistico romano del tempo, animato dalla riforma urbanistica di papa Sisto V e dalla presenza di grandi maestri come Annibale Carracci e Caravaggio, contribuì alla sua formazione visiva e stilistica.

Il suo stile si distinse presto da quello paterno: mentre Orazio tendeva a idealizzare le figure, Artemisia le rendeva più reali, umane, vibranti di emozioni vere.

Il naturalismo caravaggesco la influenzò profondamente, ma fu il suo sguardo personale, spesso centrato sull’esperienza femminile, a renderla unica nel panorama artistico del Seicento.

La violenza trasformata in arte

La vita di Artemisia fu segnata da un evento traumatico: la violenza subita dal pittore Agostino Tassi e il successivo processo, durante il quale l’artista venne sottoposta a interrogatori e torture.

Nonostante ciò, o forse proprio a causa di questa esperienza, la sua pittura acquisì una forza espressiva straordinaria. Nei suoi dipinti, le protagoniste — eroine bibliche come Giuditta, Susanna, Ester o Lucrezia — non sono mai vittime passive, ma donne attive, forti, capaci di reagire, combattere, sopravvivere.

Artemisia lavorò a Firenze, dove entrò nell’Accademia del Disegno, poi a Venezia, Napoli e Londra.
Ogni città segnò una tappa importante nella sua evoluzione artistica.
A Napoli visse gli ultimi anni della sua vita, lavorando probabilmente fino al 1654 e morendo attorno al 1656, forse a causa della peste che decimò la città.

La pittura come racconto del femminile

Tra le sue opere più celebri vi sono “Susanna e i vecchioni” (1610), “Giuditta che decapita Oloferne” (1613), “La Maddalena penitente“, “Autoritratto come Allegoria della Pittura” (1638-39), “Lucrezia” (1621 e 1642), ma anche composizioni come “Ester davanti ad Assuero“, “Betsabea al bagno“, “Minerva”, “Ulisse scopre Achille fra le figlie di Licomede” e “Giuseppe e la moglie di Putifarre“.

In ognuno di questi lavori, Artemisia dimostra una profonda padronanza del chiaroscuro e una straordinaria capacità di raffigurare la complessità psicologica dei suoi personaggi. Le sue protagoniste non sono idealizzazioni, ma donne reali, cariche di umanità, dolore, orgoglio e dignità.

Tra le opere della maturità, spicca “Lot e le sue figlie” (Toledo Museum of Art), in cui la pittrice rilegge in chiave ambigua e provocatoria un episodio biblico controverso, e “Corisca e il satiro”, ispirata a Il Pastor Fido di Guarini, in cui una ninfa riesce a sfuggire al suo aggressore con intelligenza e determinazione.
In entrambe, Artemisia gioca con luci, gesti e simboli, offrendo letture complesse e mai scontate del corpo femminile.

"Giuditta che decapita Oloferne" (1613), di Artemisia Gentileschi
Giuditta che decapita Oloferne

 

L’eredità di una pittrice ritrovata

Per lungo tempo, dopo la sua morte, Artemisia fu dimenticata o confusa con il padre.
Solo nel Novecento, grazie a storiche dell’arte come Mary Garrard e a mostre fondamentali come “Orazio and Artemisia Gentileschi” (National Gallery of Art, 2001), la sua figura è stata riscoperta e celebrata.

Il suo modo di usare il corpo femminile come strumento narrativo ed espressivo, la sua visione drammatica e intensa della pittura e la sua determinazione in un mondo dominato dagli uomini fanno di Artemisia Gentileschi un simbolo di forza, arte e resistenza.
Non solo una pittrice straordinaria, ma una donna che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’arte europea.

 

Fonti:
“Complete Works of Artemisia Gentileschi – Illustrated”, catalogo “Orazio and Artemisia Gentileschi” (National Gallery of Art, 2001).

Il primo maggio: festa di che?

Ogni primo maggio si conclude quella tripletta di giorni rossi nel calendario che, da Pasquetta passando per il 25 aprile fino al primo maggio stesso vede protagonista una maratona di: feste, festini, ponti, concerti e arrostite no stop. Dalle montagne alle spiagge l’Italia festeggia.
Ma cosa?

Il valore del profitto ha comprato tutti gli altri

Viviamo un’epoca che alcuni denunciano sia decadente. Una fase storica, dove valori e tradizioni sono andati persi.

Almeno, questa è la classica frase che possiamo ascoltare al bancone del bar mentre prendiamo un caffè. Magari proprio prima di recarci alla grigliata del primo maggio.

Ma quali sono le radici di tutto questo? Forse, una causa è proprio la mancanza di memoria, lo svuotamento del significato di ogni ricorrenza.

Se Pasquetta è svuotata del proprio significato religioso, normale conseguenza in un paese laico con una chiesa secolarizzata.

Diverso è una data come il 25 aprile. In occasione di quest’ultimo anniversario, durante le celebrazioni in Parlamento, e non solo in quella sede, alcuni elementi del partito di governo Forza Italia hanno arbitrariamente voluto rinominare il giorno della liberazione dal nazi-fascismo in un altro modo, ribattezzandolo da giorno della Liberazione a giorno delle libertà (giusto per non essere divisivi).

Accade anche che il primo maggio, scelto come giorno di protesta e festa dei lavoratori, si pieghi al dogma dell’apoliticità e del consumismo fine a se stesso.

Logiche di profitto che mascherano date fortemente simboliche, rendendole semplici date di ponte, effimere, come tante altre.

Festeggiare diviene sinonimo di consumare

Consuma e basta. Consuma, quando te lo dicono loro, senza chiederti perchè. Festeggia solo quando è rosso sul calendario, riempi le tasche degli organizzatori di eventi, che, nella socialità e aggregazione individuano solo un’opportunità. Il solo scopo è trarne profitto, è solo lavoro.

Tutto il resto che importanza ha?

Se, nel passato, il primo maggio era la festa dei lavoratori, dove tutti i lavoratori festeggiavano e godevano di un giorno di riposo all’infuori delle feste religiose, oggi sono migliaia quelli che, nonstante sia la festa dei lavoratori, dovranno lavorare per mantenere ben oliata la macchina del profitto di chi siede al vertice delle piramidi dell’impresa.

L’origine del primo maggio

Intorno alla metà del 1800, il mondo era nel pieno dalla Seconda Rivoluzione industriale.

Oltre al Regno Unito, i giovani Stati Uniti d’America portarono avanti la loro grande industrializzazione.

La Prima Rivoluzione industriale aveva visto protagoniste le industrie tessili. La seconda, ebbe come protagonista la costruzione dei primi binari ferroviari. Enormi creature d’acciaio macinavano chilometri, emettendo nubi di vapore che hanno affollato l’immaginario collettivo dell’epoca. Divennero l’icona di numerosi dipinti ad olio, furono descritte nei romanzi ambientati nel lontano West. Protagoniste dei primi effetti speciali nei cortometraggi di fine Ottocento.

Sebbene questa rivoluzione portasse con sè grandiose promesse di ricchezza, progresso e miglioramento della vita per tutti, la realtà fu ben diversa.

Paradossalmente, chi godeva dell’opulenza e del benessere derivati dai prodotti della rivoluzione industriale e i suoi nuovi stili di vita non era tutta la popolazione. Men che meno, compresi tra i beneficiari, vi era chi lavorava all’interno delle fabbriche.

Solo una nuova classe si andava arricchendo. Si affermò una nuova classe dominante. La borghesia, l’unica che veramente ottenne un vero beneficio.

Essa era detentrice dei nuovi mezzi di produzione. Se nel Medioevo, il feudatario era il possessore dei terreni e i contadini coltivavano la sua terra in cambio di una misera parte del raccolto. Durante la rivoluzione industriale erano cambiati i denominatori, ma il risultato era lo stesso.

Non vennero chiamati più Duca o Barone. Vennero ribattezzati. Erano i cosiddetti industriali, i padroni delle fabbriche.

Sedici ore di lavoro, la norma speculativa nel vuoto legislativo:

Le tutele e i diritti che oggi sembrano normali e scontati, all’epoca era impensabili.

Chi lavorava dentro una fabbrica svolgeva turni di sedici ore. Non erano previsti giorni liberi o ferie, né la pensione. Tantomeno un indennizzo in caso di infortunio sul lavoro. Il lavoro minorile era la prassi, quasi obbligatoria per i figli degli operai, che lavoravano insieme ai genitori proprio perchè le paghe che ricevevano non erano sufficienti neanche per sfamare e dare un tetto all’intera famiglia. La mortalità tra gli operai era altissima. Le disuguaglianze nell’era del progresso andavano aumentando al posto di diminuire. Questa è stata da sempre una delle contraddizioni più lampanti del sistema capitalista.

Manifestazione per il primo maggioFonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=http%3A%2F%2Fwww.digi.to.it%2F2021%2F04%2F30%2Ffesta-lavoratori-perche-il-1-maggio%2F&psig=AOvVaw2kXkWbaYmDWKKjuTKBYi3e&ust=1746126184523000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBQQjRxqFwoTCOiY1oq5gI0DFQAAAAAdAAAAABAE
Manifestazione per il primo maggio
Fonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=http%3A%2F%2Fwww.digi.to.it%2F2021%2F04%2F30%2Ffesta-lavoratori-perche-il-1-maggio%2F&psig=AOvVaw2kXkWbaYmDWKKjuTKBYi3e&ust=1746126184523000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBQQjRxqFwoTCOiY1oq5gI0DFQAAAAAdAAAAABAE

La prima grande conquista

Correva l’anno 1866 e nella città di Chicago, nello Stato federale nord americano dell’Illinois, in seguito a numerose battaglie e proteste guidate dall’associazione dei lavoratori Knights of Labor, venne approvata la prima legge al mondo che imponeva un tetto limite alle ore lavorative giornaliere che un operaio potesse svolgere. Tale tetto fu fissato a otto ore.

Una legge rivoluzionaria per l’epoca. Ebbe un eco straordinario. Tuttavia, quella legge entrò in vigore soltanto il primo maggio dell’anno successivo.

La legge delle otto ore andava a favore dei più deboli, gli ultimi, che al tempo stesso rappresentavano la classe produttiva, il motore dell’economia.

Divenne molto popolare in tutti gli Stati Uniti d’America. Diciannove anni dopo, però, l’Illinois restava ancora uno dei pochi Stati americani ad avere una legge che regolasse l’orario lavorativo. Otto ore restarono l’eccezione: nel resto degli Stati Uniti si continuava a lavorare sedici ore.

Così, a Chicago, a quasi un ventennio da quella grande conquista operaia, i lavoratori, mossi dalla solidarietà che li accumunava e gli dava forza d’azione, indissero un’enorme protesta.

Il primo maggio 1886, data simbolica, iniziarono uno sciopero generale, un metodo di lotta pacifica che era un’arma di pressione sui padroni. Una strategia di lotta politica ideata da pensatori anarchici come Pierre-Joseph Proudhon.

La manifestazione fu enorme. La partecipazione si stima fu di ottantamila persone.

Quel giorno non solo a Chicago, ma in tutti gli Stati Uniti, dodicimila fabbriche fermarono la produzione. Quattrocentomila operai incrociarono le braccia.

All’epoca protestare, non era un diritto come oggi. Scioperare era una cosa seria, e si poteva anche morire  per scioperare. Così accadde quel primo maggio del 1886. La polizia, a Chicago, aprì il fuoco sulla folla, uccidendo due manifestanti e ferendone molti altri.

La rivolta di Haymarket

In risposta, i collettivi di operai anarchici che all’epoca erano molto attivi, indissero un presidio in risposta alla brutalità della polizia, per il giorno dopo, nel mercato di Haymarket.  Gli avvenimenti videro il loro apice il 4 maggio.

Così il 4 maggio, da una traversa dell’Haymarket, qualcuno lanciò un piccolo ordigno verso la polizia, nel momento in cui la stessa marciava in formazione per disperdere la folla, con la forza.  L’esplosione uccise un poliziotto e ne ferì altri.

La forza pubblica, per rappresaglia, aprì immediatamente il fuoco sulla folla, indiscriminatamente. Nella confusione, morirono altri sette poliziotti colpiti da fuoco amico. In totale, i morti, tra civili e poliziotti, furono undici. Innumerevoli i feriti, i quali per la maggior parte non si recarono in ospedale, per paura di esser arrestati.

La repressione federale non si fece attendere. Otto esponenti anarchici furono arrestati e condannati a morte.

Di questi otto, solo due erano presenti all’Haymarket , rendendo gli altri sei anarchici un puro capro espiatorio. Il processo fu una farsa, non vi erano prove su chi effettivamente avesse lanciato l’ordigno. Furono comunque condannati, in quanto ritenuti responsabili.

La Corte sostenne che chi aveva lanciato la bomba lo avesse fatto sotto l’incitamento dei discorsi degli anarchici.

Degli otto anarchici accusati, solo quattro furono giustiziati, mentre uno si suicidò in carcere la sera prima, per non dare soddisfazione al boia di Stato.

La paura statunitense per il significato del primo maggio e per il sentimento socialista

La notizia delle condanne a morte rese gli anarchici di Chicago dei martiri.

All’epoca vi furono proteste in tutto il mondo in loro nome. In Italia, famosa fu la rivolta di Livorno. Al Congresso Internazionale dei Lavoratori di Parigi, che diede vita alla Seconda Internazionale nel 1889, si decise di scegliere come data commemorativa il primo maggio. In onore dei martiri di Chicago e e dei diritti dei lavoratori che, dalla conquista delle otto ore di lavoro rivendicate come tetto massimo, sulla scia di quel giorno, continuarono le loro lotte per conquistare la propria dignità e i diritti che spettavano loro.

Da allora, in tutto il mondo, si scelse e diffuse questa data. In quasi tutte le nazioni.

Se l’identità nazionale e religiosa ha diviso i popoli nei secoli, l’identità di classe produttiva ha unito i lavoratori di tutto il mondo. Pane, pace e lavoro erano i loro valori.

Negli Stati Uniti, però, come in Australia e nel Regno Unito, celebrano la giornata dei lavoratori in altre date. A determinare ciò fu il timore delle classi dominanti che il significato di quella giornata potesse rafforzare il sentimento socialista che andava montando nelle masse operaie e contadine di tutto il globo.

Tuttavia, i loro tentativi furono vani.

Il primo maggio durante il ventennio fascista italiano

Durante il ventennio della dittatura fascista, la festa dei lavoratori, che si celebrava in Italia dal primo maggio 1890, venne abolita. Si sostituì tale data con quella del 21 aprile, giorno in cui si celebrava il compleanno di Roma capitale, una festa fascista.

Il primo maggio si tornò a festeggiare nuovamente dal 1946. Sei giorni dopo il primo anniversario della liberazione dal fascismo, il 25 aprile.

1947 un primo maggio di sangue in Italia

Edizione straordinaria del quotidiano “La Voce della Sicilia”, pubblicata in occasione della strage di Portella della Ginestra <br> Fonte: https://www.ilpensieromediterraneo.it/wp-content/uploads/2021/04/Portella-della-Ginestrala-prima-Strage-di-Stato.jpg
Edizione straordinaria del quotidiano “La Voce della Sicilia”, pubblicata in occasione della strage di Portella della Ginestra
Fonte: https://www.ilpensieromediterraneo.it/wp-content/uploads/2021/04/Portella-della-Ginestrala-prima-Strage-di-Stato.jpg

Il primo maggio 1947, in Sicilia a Portella della Ginestra, avvenne la prima pagina scritta col sangue di quella vicenda che sarà chiamata strategia della tensione.

Il bandito Giuliano e la sua banda, in accordo con esponenti della democrazia cristiana e, probabilmente, i servizi segreti americani, si rese autore di una strage di contadini siciliani, che si erano radunati per festeggiare il primo maggio e l’ottimo risultato ottenuto dalle forze di sinistra alle elezioni locali, svolte il 20 aprile precedente.

Il bilancio fu di undici vittime.

Nei giorni successivi, la banda Giuliano attaccò a colpi di bombe a mano e mitra le camere del lavoro e varie sedi dei partiti di sinistra, in molti comuni della provincia di Palermo. Così, la mafia iniziava il suo servizio di manovalanza per le forze reazionarie e i nuovi padroni americani.

La strategia della tensione, nell’ambito della guerra fredda, gettava le sue basi pratiche e ideologiche prima ancora che fosse eretta la “cortina di ferro”.

Cosa resta di quelle lotte e conquiste raggiunte centocinquantanove anni fa?

Il bilancio, dopo oltre un secolo e mezzo di lotte dei lavoratori, è molto amaro. Qualcuno direbbe che la lotta di classe l’hanno vinta i padroni.

In Italia, nel 1970, a seguito di durissime lotte operaie, si ottenne lo Statuto dei Lavoratori. Anni di lotta avevano garantito l’articolo 18 e tante altre conquiste, che resero l’Italia un paese civile.
Bisogna lavorare per vivere e non vivere per lavorare.

Il motto dei primi sindacati operai, nel 1850, in Australia recitava:

Otto ore di lavoro – otto ore di svago – otto ore di riposo.

Cosa ne resta oggi? Chi può godersi, quasi due secoli dopo, quelle famose otto ore di svago e di riposo?

Paradossalmente, chi entra nel mercato del lavoro italiano si rende conto che, spesso e volentieri, in molti settori lavorativi, soprattutto quello turistico e della ristorazione, per otto ore di lavoro la retribuzione intesa dai datori di lavoro (o prenditori di lavoro?) corrisponde a quella prevista per i part-time. Otto ore nel mercato nero del lavoro italiano, che non rappresentano l’eccezione ma la norma, nel silenzio dei governi che si susseguono. Otto ore significano mezza giornata per i datori di lavoro italiani di molte realtà produttive.

Lo Statuto dei Lavoratori è stato smantellato, l’articolo 18 abolito. Dopo centocinquantanove anni, la giornata media del lavoratore manuale italiano è di dieci o dodici ore. Se consideriamo chi è costretto a fare il pendolare, si arriva anche a quattordici ore. Ovviamente, il viaggio casa-lavoro non è contemplato nella busta paga.

Il neoliberismo è la libertà di sfruttare

Se osserviamo con onestà intellettuale il liberalismo, esso non incarna quel significato semantico che la parola sembrerebbe suggerirci.

Liberalismo non è la libertà di tutti. È la libertà degli imprenditori di sfruttare il capitale umano.

La deregolamentazione e la flessibilità del mercato del lavoro vengono invocate nei salotti tv come un dogma. Ma non portano benessere e ricchezza. O meglio, lo portano, ma solo nelle tasche di pochi eletti. Chi paga gli effetti collaterali sono i milioni di lavoratori che si trovano senza sicurezza sul lavoro, senza dignità e senza la stabilità di poter pianificare una vita degna di questo nome.

Morire di lavoro nel terzo millennio

Nel 2024, i morti sul lavoro sono stati 1090. È il bilancio di una strage. Una strage che è in aumento, con quarantanove morti in più rispetto ai morti del 2023 (+4.7%). Tra loro ci sono anche studenti, che sono vittime dello sfruttamento reso legale da quella legge chiamata “alternanza scuola-lavoro”.

I lavoratori stranieri corrono un rischio di morte triplicato rispetto agli italiani.

Il settore con il maggiore tasso di mortalità resta quello delle costruzioni, che, nel 2024, ha raggiunto centocinquantasei morti bianche.

Gli infortuni sul lavoro toccano, invece, una quota che si avvicina ai numeri di una guerra. Nel 2024, gli infortuni sono stati cinquecentonavantamila, anche questi in crescita rispetto al 2023  (+0.8%).

Questi numeri parlano da soli. Trenta anni di deregolamentazioni presentano un bilancio disastroso.

Il momento di spostare il dibattito dalla flessibilità del mercato del lavoro verso quello della sicurezza è ora, ed è inderogabile. Bisogna esigere la tutela per chi, nel mercato del lavoro, ottiene un trattamento come se fosse merce egli stesso. I lavoratori sono esseri umani, non capitale umano, come qualche economista ha deciso di chiamarli.

Non è una questione ideologica. È una questione di civiltà in un paese che voglia dichiararsi democratico, civile e sviluppato.

 

Il primo maggio è noto anche per il suo concertone a Roma. Dunque, lascio ai lettori di Universome una canzone, con l’augurio che possa essere d’ispirazione per questa giornata.

Auguro un buon primo maggio a tutte e tutti.

 

Fonti:

https://www.collettiva.it/copertine/culture/primo-maggio-dove-nasce-la-festa-dei-lavoratori-f9cj4qp4

https://it.wikipedia.org/wiki/Rivolta_di_Haymarket

https://www.assoutenti.it/1-maggio-festa-dei-lavoratori-significato-storia/

https://www.vegaengineering.com/news/infortuni-sul-lavoro-1090-morti-in-italia-nel-2024-in-aumento-del-4-7-rispetto-al-2023/

https://www.raiplay.it/dirette/raistoria/Passato-e-Presente—Il-Primo-Maggio-nella-storia-unitaria—01052025-0138a8f1-f816-4ac9-b12b-42cb4b4b1cb1.html

 

 

 

La cultura della parola: Quasimodo e la poesia

Salvatore Quasimodo, vincitore del Premio Nobel per la poesia nel 1959, è stato uno dei massimi esponenti della letteratura italiana del Novecento. Le sue opere, tradotte in oltre quaranta lingue, vengono studiate in tutto il mondo.

Nato a Modica, in provincia di Ragusa, il 20 agosto 1901, incontrò fin da giovane numerose difficoltà nel coltivare la sua passione per la scrittura. La sua famiglia desiderava per lui una carriera da ingegnere, ma le sue inclinazioni erano ben diverse. Fu solo nel 1926, a Reggio Calabria – dove si trovava per lavoro – che ritrovò fiducia nelle sue capacità letterarie.

Alla poesia affidò il senso stesso dell’esistenza, certo che sarebbe sempre prevalsa su ogni altra cosa.

La sua prima fase creativa fu caratterizzata da un lirismo intimo, fatto di abbandono ed effusione, sebbene fortemente ancorato al quotidiano. La seconda fase, invece, fu segnata da una riflessione critica e da una crescente consapevolezza esistenziale.

Quasimodo comprese che la poesia non poteva limitarsi a un esercizio di compiacimento sentimentale, ma doveva rispondere alla storia degli uomini e confrontarsi con essa.

Nelle Liriche degli anni Quaranta emerge con chiarezza il suo disagio: la poesia non poteva più essere mero strumento di evasione, ma nemmeno piegarsi alla propaganda politica.
Alla poetica della parola sentì l’urgenza di sostituire una poetica dell’uomo.

Il simbolismo rimase tuttavia la sua principale forma di comunicazione, e l’Ermetismo continuò a rappresentare la solitudine dell’autore e dell’intera umanità, filtrata attraverso una continua e profonda ricerca linguistica.

Alla pietà per se stesso seguì quella per tutti gli uomini. La poesia divenne così un’espressione sociale, moderna, un faro nell’esistenza, pur rimanendo sempre in cerca di un equilibrio e di una dimensione che fosse autenticamente umana.

Il viaggio di Quasimodo – dalla Sicilia a Milano, dall’infanzia all’esilio, dal tempo mitico alla modernità – riflette le tappe di un percorso poetico che va dal monologo interiore al dialogo con il mondo.

Nella sua poesia sociale, realtà e simbolo convivono armoniosamente.

Quasimodo rimase sempre fedele a un’immagine di se stesso mai rinnegata, e ciò gli permise di illuminare l’“Isola” dell’umanità.

Fino all’ultima fase poetica degli anni Sessanta, cercò – attraverso l’anticonformismo – di affermare il valore autonomo della poesia, opponendosi a una letteratura che considerava conformista, favorita e protetta dalla politica.

Per Quasimodo, la poesia è destinata ad andare oltre la morte, risvegliando le coscienze e riconducendole alla verità.


Quasimodo e Messina

Quasimodo non fu l’unico scrittore siciliano a mantenere uno stretto legame con la propria terra d’origine: anche Elio Vittorini, Vitaliano Brancati e Giuseppe Tomasi di Lampedusa fecero altrettanto.

Fino al 1968, Quasimodo coltivò il suo rapporto con la Sicilia in modo discreto ma ostinato, seguendo percorsi sempre diversi, anche attraverso le traduzioni dal greco e da lingue moderne.

Fu particolarmente legato a Messina, città che vide per la prima volta subito dopo il devastante terremoto del 1908. Messina gli apparve come un cumulo di macerie, morte e distruzione. Ancora bambino, visse con il padre ferroviere su un vagone, nutrendosi soltanto di mele.

In seguito, la loro dimora divenne una baracca di legno, poi una piccola casa in cemento armato situata in via Croce Rossa n. 81, nel Quartiere Americano. Quel paesaggio – l’odore dei limoni, il cielo azzurro, il vento che veniva dal mare – rimase per sempre vivo nella memoria del poeta.

Dopo l’infanzia trascorsa a Roccalumera, Quasimodo conseguì il diploma nel 1919 all’Istituto Tecnico “Antonio Maria Jaci” di Messina, sezione fisico-matematica.

Furono anni intensi, caratterizzati da scambi culturali, circoli letterari, riviste e importanti letture: da Dante a Dostoevskij, da Baudelaire a Mallarmé e Verlaine.

La sua ricerca della verità lo portò a confrontarsi anche con i testi di Platone, Cartesio, Spinoza, Sant’Agostino e i Vangeli.

Tutta la sua prosa critica affonda le radici nella filosofia.

A Messina intrecciò rapporti duraturi con personalità di rilievo come Salvatore Pugliatti, futuro rettore dell’Università, e Giorgio La Pira, destinato a diventare sindaco di Firenze.
Con loro condivise un’intensa stagione culturale, culminata anche nella nascita di un nuovo giornale letterario, il cui secondo numero venne redatto nella baracca di legno dove allora abitava.

Non perse mai il desiderio di ritrovare gli amici. Ogni volta che tornava a Messina, si recava alla libreria dell’Ospe, in Piazza Cairoli, fondata da Antonio Saitta. Qui, nacque l’“Accademia della Scocca”, cui aderivano alcune tra le menti più brillanti della poesia e della letteratura.

Il primo nucleo poetico della raccolta Acque e terre nacque a Messina, con introduzione di Salvatore Pugliatti, mentre con La Pira mantenne uno scambio epistolare continuo.

Messina e la Sicilia furono sempre al centro della sua “topografia poetica”. La sua isola diventò così terra di miti, di memoria e di antica bellezza.


 La modernità di Quasimodo

La poesia di Quasimodo è ancora oggi straordinariamente attuale. Egli scelse un rapporto diretto con i lettori, privo di filtri o cesure, per affrontare a viso aperto le grandi problematiche sociali del suo tempo.

Per Quasimodo, il poeta deve saper raccontare il quotidiano e restituire dignità al presente, affinché l’uomo possa finalmente diventare artefice del proprio destino, libero da condizionamenti esterni.

Le sue parole parlano ancora oggi con forza: l’uomo è armonia e non può aspirare soltanto al dominio, alla conquista o alla guerra. Anela, invece, a un radicamento autentico nella società, in sintonia con il pensiero di Hannah Arendt, filosofa tedesca che denunciò i totalitarismi.

Ogni individuo, secondo questa visione, deve farsi portatore di pace, garante dei diritti dell’altro, condividendo con lui le strutture sociali in nome di un egualitarismo spirituale di matrice cristiana. 

 

 

Bibliografia

Salvatore Quasimodo, Poesie e Discorsi sulla poesia, Mondadori 1983.

– G.Finzi, Invito alla lettura di Quasimodo, Mursia 1983.

– Stefania Campo, Salvatore Quasimodo e la sua Sicilia, Il leone verde 2022

Sitografia

https://turismoecultura.cittàmetropolitana.me.it/cultura/archivio-quasimodo/la-biografia/

https://gazzettadelsud.it/articoli/cultura/2021/02/25/quasimodo-messina-citta-sommersa-nel-mio-cuore-0c44132e-d1c2-4ce1-bc39-c37d59a7df5f/

Il ruolo dell’Arte nell’educazione alla sostenibilità

La Sostenibilità: Una Sfida Urgente e Culturale

Oggi, il tema della sostenibilità rappresenta una delle questioni più urgenti e complesse del nostro tempo.

Eventi climatici estremi, scioglimento dei ghiacci, perdita di biodiversità, inquinamento diffuso sono tutti segnali che non possono più essere ignorati. Eppure, nonostante i dati scientifici siano sempre più allarmanti, il cambiamento procede lentamente.

Perché?

La sostenibilità non può essere solo una questione tecnica, fatta di normative, statistiche o tecnologie. È anche, e soprattutto, una questione culturale che richiede un cambio di mentalità.

Ha bisogno anche di narrazioni, di immagini, di emozioni: ha bisogno dell’arte. Perché è attraverso la cultura che possiamo costruire una nuova visione del futuro.

L’arte permette, infatti, di trasformare la percezione, educare allo stupore, ricordarci la bellezza e la fragilità del mondo naturale.

In un’epoca di overload informativo (sovraccarico di informazioni) e disconnessione emotiva, l’arte può riaccendere quel legame profondo con la natura che la modernità ha spesso reciso.

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Effetti del cambiamento climatico.
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La rappresentazione della natura nella storia dell’arte

La natura è sempre stata una delle protagoniste principali dell’arte. Fin dalle origini, l’essere umano ha sentito il bisogno di rappresentare il mondo naturale che lo circondava non solo per documentarlo, ma per dargli un senso, celebrarlo, o temerlo.

Già nelle pitture rupestri, decine di migliaia di anni fa, troviamo rappresentazioni della fauna: immagini potenti, spesso legate al rapporto spirituale e simbolico con la caccia e la sopravvivenza. Qui, la natura non è sfondo, ma protagonista assoluta.

Nel Rinascimento, la natura si fa armonia e ordine. Maestri come Leonardo da Vinci osservano piante, animali, paesaggi naturali contemporaneamente con occhio scientifico e artistico, rendendoli parti integranti delle opere.

Esempio emblematico è la pittura di Caravaggio, precursore del naturalismo pittorico, per la sua capacità di rappresentare la realtà con assoluta fedeltà e assenza di idealizzazione.

Con il Romanticismo, la natura esplode in tutta la sua forza. I paesaggi diventano espressione dello stato d’animo umano. Basti pensare ad opere come “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich, dove la natura è immensa, sublime, a tratti minacciosa, specchio dell’infinito e dell’ignoto.

Anche gli Impressionisti celebrano la natura nella sua luce mutevole, nei suoi riflessi, nella vita quotidiana all’aperto, con l’intento di racchiudere emozioni autentiche.

Nel Novecento, la natura non è solo rappresentata: diventa materia. La Land Art è un movimento artistico in cui l’ambiente naturale è allo stesso tempo mezzo e messaggio.

Questa evoluzione della rappresentazione artistica della natura mostra quanto essa sia stata non solo fonte d’ispirazione, ma anche riflesso dei cambiamenti nel pensiero umano: da divinità temuta a risorsa da studiare, da bellezza da contemplare a organismo vivente da rispettare e con cui convivere.

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“Canestra di frutta”, Caravaggio, 1597-1600.
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Oggi: l’Arte come strumento di sensibilizzazione ambientale

Nel contesto attuale, segnato da emergenze ambientali sempre più evidenti, l’arte ha assunto un nuovo ruolo: non solo rappresentare la natura, ma anche difenderla.

Sono sempre più numerosi gli artisti che si fanno portavoce di una coscienza ecologica, usando il proprio linguaggio per porre domande, scuotere le coscienze, stimolare il cambiamento. È nata così una vera e propria corrente: l’eco-art, un’arte impegnata, che mette al centro il rapporto tra uomo e ambiente, spesso con un approccio critico e sperimentale.

Molti artisti, inoltre, utilizzano materiali di scarto o riciclati per sensibilizzare sul tema dei rifiuti.

Ci sono, poi, progetti partecipativi e comunitari, in cui l’arte diventa uno strumento per coinvolgere le persone in attività sociali volte a trasformare spazi degradati e generare una nuova relazione con il territorio.

In tutte queste forme, l’obiettivo è chiaro: rendere visibile ciò che spesso è invisibile, toccare corde emotive, creare consapevolezza. Perché l’arte, oggi più che mai, può essere un ponte tra la conoscenza e l’azione.

Perché, in fondo, ogni gesto sostenibile nasce da una domanda antica e semplice: che mondo vogliamo lasciare? E forse è proprio l’arte, ancora una volta, a suggerirci la risposta.

 

Antonella Sauta

Effetto Werther: il tragico fascino del suicidio

L’effetto Werther è un fenomeno psicologico e sociologico secondo cui la rappresentazione romantica del suicidio nei media può indurre comportamenti emulativi, soprattutto tra i giovani e le persone vulnerabili. Il termine nasce dal romanzo I dolori del giovane Werther (1774) di Johann Wolfgang von Goethe, in cui il protagonista, sopraffatto da un amore impossibile, si toglie la vita con un colpo di pistola. Continua a leggere “Effetto Werther: il tragico fascino del suicidio”

Farm Cultural Park: la street art da nuova vita al territorio

Street art in Sicilia

Negli ultimi decenni, l’evoluzione dell’arte ha profondamente cambiato il paesaggio della nostra isola. I territori siciliani sono diventati un esempio di rinascita attraverso la street art, grazie a vari progetti di trasformazione urbana.
Numerosi artisti, locali e internazionali, hanno apportato il loro contributo, permettendo non solo una trasformazione urbana, ma anche e soprattutto una rivitalizzazione economica, sociale e cultuale.

In Sicilia, accanto al suo ricchissimo patrimonio artistico, che affonda le radici nella sua storia di dominazioni e accoglienza di culture diverse, e si riflette nelle testimonianze architettoniche di tutte le epoche (dai templi greci alle chiese barocche) stanno nascendo nuove realtà che lo arricchiscono ulteriormente, fondendo tradizione e innovazione in un continuo processo di trasformazione.

Esempi notevoli di questa evoluzione sono “Fiumara d’Arte” e il “Cretto di Gibellina”.

Farm Cultural Park

 

Farm Cultural Park (Favara, AG): esempio di street art in Sicilia https://www.artinresidence.it/it/properties/farm-cultural-park/
Farm Cultural Park (Favara, AG): esempio di street art in Sicilia
Fonte: https://www.artinresidence.it/it/properties/farm-cultural-park/

Uno dei progetti più significativi è il Farm Cultural Park, a Favara, provincia di Agrigento. Il piccolo comune, che come molti altri dell’entroterra siculo stava affrontando una profonda crisi demografica, riuscì a rinascere dalle sue ceneri grazie ad una coppia di imprenditori, Andrea Bartoli e Florinda Saieva, che investirono nell’ambizioso progetto di rendere Favara un centro artistico, attraente soprattutto per i giovani. Nel 2010 nasce, quindi, Farm Cultural Park, un’iniziativa di riqualificazione urbana che unisce arte, cultura e comunità.

Attraverso la ristrutturazione di edifici abbandonati del centro storico e l’allestimento di opere ed installazioni, il comune diventa un centro artistico a 360°, in grado di attrarre artisti internazionali e visitatori da tutto il mondo.

Farm Cultural Parkhttps://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.vita.it%2Fstorie-e-persone%2Fa-favara-larte-di-farm-cultural-park-ha-reinventato-la-citta%2F&psig=AOvVaw34RNKWanguMvpd6CSZA0t8&ust=1742055974262000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBgQjhxqFwoTCLDup8j-iYwDFQAAAAAdAAAAABAd
Farm Cultural Park
Fonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.vita.it%2Fstorie-e-persone%2Fa-favara-larte-di-farm-cultural-park-ha-reinventato-la-citta%2F&psig=AOvVaw34RNKWanguMvpd6CSZA0t8&ust=1742055974262000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBgQjhxqFwoTCLDup8j-iYwDFQAAAAAdAAAAABAd

Turismo e sviluppo

Farm Cultural Park ospita, ogni anno, numerosi eventi come festival, workshop ed attività educative, creando un ambiente dinamico e vivace.

L’arte urbana ha svolto un ruolo fondamentale nel rafforzare l’identità culturale delle comunità locali, promuovendo la partecipazione attiva dei cittadini e la riappropriazione degli spazi pubblici.

Il turismo, che si è sviluppato in seguito alle numerose iniziative intraprese, porta benefici economici su tutto il territorio. Inoltre, per limitare le conseguenze negative sull’ambiente, il comune adotta politiche rivolte alla sostenibilità.

Questo progetto ha dimostrato come l’arte possa essere un potente strumento di trasformazione sociale, capace di innescare processi virtuosi di sviluppo sostenibile e inclusivo.

In conclusione, il progetto di rivitalizzazione di Favara è diventato un importante esempio replicabile da tanti altri comuni e riconosciuto a livello internazionale.

Farm Cultural Parkhttps://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.loquis.com%2Fit%2Floquis%2F2762056%2FFarm%2BCultural%2BPark%2BFavara&psig=AOvVaw34RNKWanguMvpd6CSZA0t8&ust=1742055974262000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBgQjhxqFwoTCLDup8j-iYwDFQAAAAAdAAAAABAr
Farm Cultural Park
Fonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.loquis.com%2Fit%2Floquis%2F2762056%2FFarm%2BCultural%2BPark%2BFavara&psig=AOvVaw34RNKWanguMvpd6CSZA0t8&ust=1742055974262000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBgQjhxqFwoTCLDup8j-iYwDFQAAAAAdAAAAABAr

Fonti:

https://www.farmculturalpark.com/

“Imparare da Favara. Radici culturali e prospettive di una rigenerazione urbana di successo”. Pier Paolo Zampieri

Antonella Sauta

Il Concetto filosofico di Arte

PREMESSA

Il concetto di Arte è da sempre oggetto di discussione. In particolare, ci si è interrogati se questa possa avere un posto nell’Olimpo della verità, o se vada rifiutata fuori dalle mura delle proprie città.

Per analizzare tali possibilità, quello che seguirà sarà un excursus dei più importanti pensieri filosofici della storia, considerando il periodo che va da Platone a Hegel.

PLATONE

Per dare una connotazione di carattere generale, basti sapere che Platone basa la verità delle cose sulle Idee. Intangibili ed empiree, sono quelle da cui le cose materiali prendono forma e “ispirazione”. Diventano, quindi, una diretta copia delle prime, allontanando, di fatto, l’anima dalla verità.

Da qui, sembra chiara la posizione rispetto l’Arte di Platone.

Le cose come appaiono sono copia delle Idee delle cose. L’Arte, essendo rappresentazione delle cose, è (per mimemis) copia della copia. Ne deriva che essa debba essere rigettata fuori dalle mura della città ideale, un clima politico filosofico concettualizzato nella Repubblica.

Non c’è spazio per l’Arte nel luogo delle verità per Platone.

Essa è mera imitazione, che distoglie l’anima dalla verità ideale, e per questo ha un’accezione più che negativa per il filosofo greco.

Opera d'Arte: La città ideale, di Leon Battista Alberti
              La città ideale, di Leon Battista Alberti

ARISTOTELE

Se per Platone l’Arte aveva un carattere completamente negativo, per Aristotele è esattamente il contrario.

L’Arte, e in  particolare la tragedia, ha per quest’ultimo un ruolo catartico, capace di rappresentare sentimenti umani (come la rabbia, la pietà ecc.) affinché l’uomo possa averne una migliore comprensione.

Ha anche un fondamentale scopo educativo e morale, oltre ad essere non solo imitazione della realtà, ma imitazione della “realtà possibile”. Per cui l’operare dell’artista imita l’operare della natura.

AGOSTINO

Pur non essendo un filosofo dell’Arte, le celeberrime Confessioni offrono uno sguardo più critico.

Per quanto l’Arte sia espressione della bellezza divina (e in quanto tale va apprezzata), ammirare le opere artistiche come tali non deve distogliere l’uomo dall’apprezzamento della bellezza di Dio.

Sembra quasi un tentativo di conciliazione tra arte e religione, dove comunque vi è una subordinazione alla ricerca della verità spirituale.

TOMMASO D’AQUINO

Filosofo medievale, Tommaso d’Aquino concepisce l’Arte come manifestazione della perfezione divina. L’artista, infatti, può essere considerato un “co-creatore“, che riproduce la bellezza divina nel mondo.

Oltre a un fare estetico, per Tommaso è uno strumento utile per l’elevazione spirituale. In particolare, l’arte visiva delle chiese permetterebbe al fedele di concentrarsi meglio su Dio.

IconografiaFonte: https://resinflamedecoart.com/wp-content/uploads/2021/07/jesus-christ-4152894_640.jpg
Iconografica esemplificativa

IMMANUEL KANT

Figura fondamentale, Kant sviluppa una teoria estetica nella critica del giudizio, mettendo in evidenza il giudizio estetico come contemplazione disinteressata. Il che non significa esserne “disinteressato” in senso assoluto, bensì distaccarsi completamente da ogni fare e volere utilitario.

Questo giudizio permette all’uomo di esprimere il sublime e il bello (naturale) in modo universale.

La bellezza, quindi, trascende la sfera pratica e si lega alla capacità di risvegliare un senso di armonia universale.

FRIEDRICH HEGEL

Hegel concepisce l’Arte come il primo luogo di manifestazione dello Spirito, la pura libertà umana.

Nelle sue lezioni di Estetica (1820), il filosofo analizza l’arte come l’espressione umana del Bello. Questa, infatti, è il punto di congiunzione perfetto tra sensibilità (mondo sensibile) e razionalità (Spirito).

Chiaramente, non tutta l’arte permette all’uomo di incontrare lo Spirito, bensì solo un contenuto storicamente determinato.

È un contenuto preciso, collocato nell’arte greca, il Partenone.

Di fronte a tale visione, l’uomo non vede la sola forma. L’uomo vede il Bello ideale.

Dall’arte greca in poi, essa non ha più la funzione di dover elevare l’uomo a Spirito intuendolo. Da qui, nasce la concezione della “morte dell’arte” di Hegel.

PartenoneFonte: https://affascinarte.altervista.org/wp-content/uploads/2017/04/P_20170419_101826_1.jpg
                                       Il Partenone

CONCLUSIONE

L’Arte, oltre ad essere da sempre stata apprezzata, ha avuto modo di essere reinterpretata nel suo Concetto, mostrando a noi diverse concezioni artistiche/estetiche.

Il pensiero di questi filosofi ha influenzato per molto tempo l’uomo occidentale nella visione dell’Arte, con il culmine “filosofico” nell’Olimpo della verità da parte di Hegel, partendo dalla gettata fuori dalle mura delle Città di Platone.

FONTI

La Repubblica di Platone

Le Confessioni di Sant’Agostino

Critica del Giudizio di Kant

Lezioni di Estetica di Hegel

 

La donna-angelo: il topos che ha impoverito la complessità della donna

Esistono miti che sembrano eterni, radicati così profondamente nell’immaginario collettivo da sopravvivere alle epoche, alle rivoluzioni, ai cambiamenti sociali. Alcuni si trasformano, si adattano, cambiano forma per perpetuare la loro influenza. Altri, invece, si sgretolano sotto il peso di un progresso che non può più tollerarne le menzogne. Tra questi, uno dei più longevi e insidiosi, è quello della donna-angelo: eterea, pura, inarrivabile.

Per secoli, la donna è stata relegata a spettro, simulacro immacolato privo di voce e volontà. Il Romanticismo l’ha trasfigurata in icona di struggimento e sacrificio, la Belle Époque l’ha incastonata in un bozzolo di lasciva decadenza, mentre il cinema del Novecento ne ha fatto una dicotomia ingannevole: la femme fatale, avvincente e predatoria, e la casalinga impeccabile, devota e rassicurante. Archetipi opposti, ma ugualmente costrittivi, espressioni di un unico dogma: la donna come superficie riflettente, oggetto da contemplare, mai soggetto autonomo di narrazione.

Oggi, però, non è più ombra evanescente. Ha demolito le barriere che la volevano eco del desiderio maschile, occupando con potenza lo spazio che le è sempre appartenuto. Dall’accademia alla politica, dalla scienza all’arte, le donne hanno sradicato la narrazione che le relegava a comparse, imponendosi come protagoniste.

Eppure, il cadavere della donna-angelo non smette di essere riesumato. Ogni volta che si esige grazia come condizione imprescindibile, ogni volta che la dolcezza viene imposta come filtro della forza, ogni volta che il sacrificio e la devozione si travestono da nobiltà d’animo, si perpetua una narrazione che avrebbe dovuto dissolversi da tempo.

Il linguaggio stesso si fa strumento di controllo: la donna deve essere “forte ma femminile”, “determinata ma gentile”, come se la sua autodeterminazione dovesse sempre essere mitigata, mai feroce, mai destabilizzante.

E il mito non si dissolve, si trasforma. Si insinua nelle rappresentazioni culturali, si rigenera nei media, si annida nelle aspettative sociali. La madre è impeccabile, la “ragazza della porta accanto” è rassicurante, la donna in carriera è brillante ma mai eccessiva. Si esige un equilibrio innaturale, attraverso cui bisogna essere tutto e il suo contrario, senza mai incrinare l’illusione di pura armonia. La società recepisce, assimila, riproduce. Modella aspettative, plasma giudizi, impone codici e comportamenti, proponendo l’ennesimo ideale che, pur riformulato, resta sempre domato.

Ma la donna non è simbolo, non è astrazione, non è un riflesso. È presenza, volontà, irruzione.

Chi si ostina a rimpiangere quell’eterea creatura imbalsamata nella purezza nega una verità ormai ineluttabile: il futuro, piaccia o no, non ha bisogno di ali.