Il piacere autentico: la riscoperta della semplicità

Il vero significato del piacere

Ogni giorno, veniamo sommersi da migliaia di stimoli. Stimoli innescati dalle pubblicità, dai giornali, dai film e dalle serie tv che guardiamo, e, soprattutto, dai social media.

Davanti agli occhi ci scorrono, a ripetizione, gli stili di vita più disparati, simili o diametralmente opposti rispetto ai nostri. In risposta a quel confronto, maturiamo desideri, per lo più indotti e artificiosi, che, pur non appartenendoci, consumano le nostre energie – e il nostro denaro – nello sforzo profuso di soddisfarli.

Un appagamento, questo, destinato a non realizzarsi. Maggiore è l’esposizione a tali realtà plastiche e fittizie – interpretazioni abbellite della verità –, minore è, infatti, la possibilità effettiva di raggiungerlo.

Come bloccato in un circolo vizioso, distruttivo e senza fine, l’uomo, quindi, esaurisce e scarta, logora e abbandona, inseguendo un piacere che gli è stato promesso, ma per cui non esiste risoluzione. Un’insoddisfazione perpetua, che lo getterebbe in uno stato, altrettanto perenne, di frustrazione e infelicità.

Il piacere, però, non vive negli oggetti che acquista e conquista.

Gotthold Ephraim Lessing sosteneva:

L’attesa del piacere è essa stessa il piacere.

Una frase, divenuta poi celebre, che potrebbe, quasi con banalità, permetterci di svelare l’arcano.

Ciò che otteniamo non ci rende felice. Allora, il piacere che percepiamo non risiede nell’acquisizione, quanto più nell’indugio. In quel delizioso crogiolare che ci sorprende al pensiero di possedere.

Una consapevolezza che l’umanità sembra aver perso, guidata da una mentalità capitalistica e consumistica, forgiata all’insegna del “tutto e subito”.

È usuale, soprattutto fra le generazioni anziane, sentir dire, in una maniera che ha per noi giovani dell’esasperante:

Si stava meglio quando si stava peggio”.

Inserita in questo contesto, il detto assume un significato diverso. Secondo i loro racconti, pur non avendo un soldo e pane da mangiare e nonostante si andasse avanti alla giornata, i nostri nonni vivevano meglio.

Il sacrificio e le batoste erano all’ordine del giorno, ma, quantomeno, conoscevano il godurioso senso di orgoglio che scaturisce da una lunga e strenua battaglia. Una lotta il cui finale è inatteso, spesso deludente, sempre meritevole di festeggiamenti.

Si disponeva di poco e si perdeva assai di più, però si era felici. Felici di una felicità quieta, non esplosiva, totalizzante ed effimera. Una felicità che mette radici, e resiste anche se scossa.

Dovremmo, in definitiva, riscoprire la pazienza. Allenarci a ricercare il bello nel percorso che ci conduce al piacere. Una meta che è, per l’appunto, lo stesso viaggio che ci porta ad essa.

 

La strada per raggiungerlo

È proprio la pazienza la chiave per contrastare il pensiero del “tutto e subito” a cui la società contemporanea ci ha abituato.

Sono soprattutto i social media ad incrementare la normalizzazione di questa “corsa alla vita”, mostrando continuamente Influencer milionari che partecipano ad eventi e collaborano con prestigiosi brand, acquistano casa e aprono aziende.

Coltivare la capacità di trarre soddisfazione dall’attesa, da ogni singolo momento, da ogni obiettivo raggiunto. Ridurre l’ansia e il confronto con quelle vite apparentemente perfette. Riconoscere che dietro una felicità artificiosa, non sofferta, si cela il segreto desiderio di ottenere subito qualcos’altro.

In questo senso la semplicità diventa un valore imprescindibile, vitale per non cadere in un vortice di perpetua insoddisfazione.

La semplicità sta nel riconoscimento dei piccoli grandi traguardi quotidiani.

In questo contesto, la gratitudine – “l’apprezzamento di ciò che è prezioso e significativo per sé stessi” – diventa un prezioso antidoto per sviluppare una felicità consapevole. Una consapevolezza che ci invita a riflettere su ogni ostacolo incontrato lungo il cammino e sulla crescita che ne è derivata.

La felicità è semplice.

La felicità sta nella consapevolezza, nella conoscenza, nello sguardo verso il mondo. Non si tratta di possedere tutto o di rincorrere mete effimere, ma di imparare a osservare ciò che ci circonda con occhi attenti e curiosi. Ogni esperienza di vita quotidiana, diventa allora occasione di apprendimento e di gioia.

È proprio attraverso la conoscenza che impariamo a scegliere con consapevolezza, a dare priorità a ciò che nutre veramente la nostra anima, piuttosto che rincorrere piaceri effimeri imposti dalla società.

Una felicità basata sulla consapevolezza di noi stessi e del mondo circostante. Una felicità che diventa dialogo.

Ma soprattutto, la felicità sta nelle relazioni umane, sincere e autentiche.

Non è chi possiede molto, ma chi è amato, che è ricco.”

Nessun bene materiale può reggere il confronto con ciò di più puro e semplice che la vita possa donarci: i sentimenti.

Ciò che nutre davvero l’anima è la profondità dei legami, la capacità di condividere emozioni, gioie e difficoltà con chi ci sta accanto.

Al contrario di quanto spesso siamo indotti a pensare, la vera felicità non è un traguardo da raggiungere in fretta, né tantomeno un oggetto da possedere. È piuttosto un viaggio lento e paziente, fatto di piccoli gesti quotidiani, momenti preziosi e soprattutto persone con cui condividerli.

 

Valeria Vella

Antonella Sauta

Stereotipi di genere e media

I mezzi di comunicazione di massa giocano un ruolo fondamentale nella produzione e diffusione degli stereotipi.

Ma cosa sono gli stereotipi?

Per la psicologia sociale, uno stereotipo corrisponde a una credenza­­­­­ o a un insieme di credenze in base a cui un gruppo di individui attribuisce determinate caratteristiche a un altro gruppo di persone.

Lo stereotipo è la base su cui si sviluppa il pregiudizio.

Essi fanno parte della cultura di una comunità. Vengono acquisiti dai singoli e utilizzati per comprendere ciò che ci circonda.

Si tratta di costruzioni sociali della cultura, appresa tramite i processi di socializzazione — dall’educazione familiare a quella scolastica — che l’individuo “indossa” come disposizione naturale, rispecchiando una specifica società con le proprie condizioni storico-sociali.

Gli stereotipi vengono diffusi proprio mediante la società stessa che, talvolta in modo inconsapevole e talvolta consapevolmente, trasmette una certa immagine di alcuni concetti.

Ogni individuo ha una propria visione del mondo, basata su ciò che osserva e ascolta, le esperienze vissute, oltre che dalle intuizioni e credenze personali. Le identità di ciascuna persona sono elaborate anche attraverso i prodotti culturali, come la lettura di libri e giornali, la visione di un film, un documentario, uno spettacolo. Anche lo sport, le arti performative o le pubblicità possono essere considerati prodotti culturali.

In particolare, gli stereotipi di genere, vale a dire “idee preconcette secondo cui a maschi e femmine sono attribuite caratteristiche e ruoli determinati e limitati dal genere loro assegnato in base al sesso”, si manifestano in molteplici forme e, diffondendosi, influenzano profondamente la percezione della realtà.

È proprio attraverso la comunicazione interculturale e crossmediale che veicolano gli stereotipi.

 

Stereotipi di genere
Stereotipi di genere. (fonte: www.cristinabuonaugurio.it)

Stereotipi nei film e nelle serie tv

Un esempio evidente di stereotipi di genere si ritrova spesso nelle serie televisive e nei film. In molte commedie romantiche, ad esempio, la donna viene rappresentata come fragile, emotiva e in attesa dell’uomo “giusto” che la completi, mentre l’uomo appare forte, razionale e poco incline a mostrare sentimenti.

Serie come Friends o How I Met Your Mother, pur essendo amate dal pubblico, mostrano personaggi femminili spesso associati all’aspetto fisico o alla ricerca dell’amore, e personaggi maschili legati al successo, al lavoro e alla conquista. Anche nei film d’azione o in quelli di supereroi, come in James Bond o The Avengers, si osserva lo stesso schema: uomini protagonisti e donne in ruoli secondari, spesso ridotte a interesse romantico o a figura da salvare.

Wonder Woman
Wonder Woman. (fonte: www.leganerd.com)

Solo negli ultimi anni si è iniziato a proporre modelli femminili più complessi, indipendenti e autorevoli. Ad esempio, personaggi come Wonder Woman o Meredith Grey di Grey’s Anatomy, capaci di scardinare le rappresentazioni tradizionali.

Allo stesso modo, anche gli uomini che mostrano sensibilità o vulnerabilità vengono talvolta rappresentati come deboli o “diversi”. Questo dimostra quanto profondamente radicati siano gli stereotipi che collegano la mascolinità alla forza e al controllo delle emozioni.

 

Diffusione e riconoscimento degli stereotipi

Gli stereotipi hanno la capacità di orientare e alterare la valutazione dei dati che arrivano dalla società.

La forza attribuita agli stereotipi può essere valutata attraverso l’analisi del grado di condivisione sociale, ossia quanto un’immagine positiva o negativa sia diffusa e condivisa in relazione a una specifica cultura o società. Maggiore è la diffusione all’interno dei gruppi sociali, più uniformi diventano le manifestazioni di ostilità verso specifiche minoranze, e più aumenta la rigidità e la resistenza al cambiamento degli stereotipi.

Riconoscere l’esistenza degli stereotipi di genere è il primo passo per poterli superare. È importante sviluppare uno sguardo critico nei confronti dei messaggi che riceviamo ogni giorno dai media, dalla pubblicità e persino dal linguaggio comune. Solo attraverso l’educazione, la consapevolezza e il confronto possiamo contribuire a costruire una società più equa, in cui le differenze non diventino barriere ma ricchezze.

Superare gli stereotipi significa restituire libertà alle persone, permettendo a ciascuno di esprimere la propria identità senza essere intrappolato in ruoli imposti o preconcetti sociali.

 

Fonti:

https://eige.europa.eu/publications-resources/thesaurus/terms/1223?language_content_entity=it

https://www.sapere.it/

https://publires.unicatt.it/it/publications/luso-dello-stereotipo-di-genere-in-pubblicit%C3%A0-9

https://en.wikipedia.org/wiki/Media_and_gender

 

Sabrina Levatino

C’era una volta il tempo. E ora?

«C’era un volta il tempo. Avete presente il tempo? Il tempo delle sveglie e quello del riposo, il tempo degli appuntamenti presi e saltati, il tempo che manca sempre, il tempo che non passa mai, il buon tempo di chi non ha niente da fare, i mala tempora che currunt senza andare da nessuna parte».

Si, purtroppo sappiamo a quale tempo si riferisce Simone Tempia, autore di “Vita con Lloyd”, la celebre raccolta di dialoghi tra Sir e il maggiordomo Lloyd.

Nel suo secondo libro “Il giardino del tempo”, Tempia ci accompagna alla scoperta del suo giardino: rigoglioso, pieno di fiori, alberi e frutti. Un giardino non sempre curato, a volte lasciato alle intemperie.

Il giardino si fa metafora del tempo, quel tempo che, come descriveva all’inizio, è un po’ frenetico, scandito dalla corsa della vita.

Siamo così bravi a correre e a rincorrere che potremmo diventare tutti maratoneti. Eppure poi esclamiamo “non ho neanche il tempo per andare a correre”. Un paradosso, insomma.

 

L’evoluzione del concetto del tempo

Ma andiamo indietro proprio nel tempo.

Il concetto di tempo è molto antico ed è stato uno degli oggetti di riflessione che più ha affascinato i grandi pensatori, tanto da studiarne ogni piccolo frammento. Componente centrale della nostra quotidianità ed esperienza del mondo, fa riferimento alla “dimensione con cui si concepisce, organizza, rappresenta e misura lo scorrere degli eventi e il susseguirsi di stati”.

Continuità illimitata ma suddivisibile, distinguibile in passato, presente e futuro.

Una suddivisione che Dickens traccia abilmente attraverso il suo romanzo “Christmas Carol”. Durante quella notte di Natale, il tempo si comprime e si dilata in un processo astratto e contraddittorio,  che fugge da ogni fondamento scientifico.

Periodo andato, istante trascorso, presente che svanisce, futuro incentro: è sempre una questione di tempo. Una fiamma che arde senza mai consumarsi, pronta a illuminare un passato coperto da fitte tenebre.

 

Henri Bergson: uno scorrere continuo e indivisibile

Henri Bergson, filosofo francese del tardo XIX e inizio XX secolo, ha offerto una distinzione tra un tempo scientifico e misurabile, e un tempo vissuto, introducendo il concetto di durée”, come flusso continuo e indivisibile che è percorso internamente, riflettendone la coscienza e l’esperienza soggettiva.

Per Bergson la durata della vita è interna, fluida, indivisibile, al contrario dello spazio che risulta esterno, statico e divisibile.

La visione di Bergson pone l’accento sull’importanza dell’esperienza soggettiva e qualitativa del tempo, centrale per la nostra comprensione. Questa prospettiva invita a riconoscere che il tempo vissuto è fondamentale e non dovrebbe essere ridotto a una semplice dimensione misurabile come lo spazio.

La memoria ha un ruolo essenziale: collega il passato con il presente, mantenendo la continuità della durata.

Quindi, se per il filosofo francese lo spazio è una forma che frammenta e esteriorizza il flusso continuo, la durée abita dentro ognuno di noi, regolando la nostra coscienza. Questo mette in luce la profondità della nostra esperienza interna e critica la riduzione del tempo a una mera dimensione quantificabile.

 

Come sperimentiamo lo scorrere degli eventi?

«Scandisco la vita attraverso nuove unità di misura[..]. E così mi sono creato il mio tempo tutto verde. Un tempo che non è più fatto di numeri, ma di arbusti. Un tempo di ciò che cresce e anche i ciò che secca. Un tempo di cui aver cura. Un tempo che non cammina, ma che si attraversa, osservando tutto quello che c’è e quello che manca. Un tempo in cui tutto, a suo modo, ha un senso».

Attenzione, memoria ed emozioni sono i principali meccanismi cognitivi coinvolti nella codifica e nella manipolazione delle informazioni temporali. Si tratta di un fenomeno che guida tutta la nostra vita. Ci consente di organizzare ed eseguire le azioni, di orientarci in modo coerente a ciò che ci circonda.

Non è solo lo scorrere degli anni, dei mesi, delle settimane, dei giorni, delle ore, dei minuti e dei secondi. Non è solo una continuità quotidiana, una relazione con lo spazio in cui ci troviamo. Non è neanche una scatola vuota che dobbiamo riempire con tutta la nostra vita, con gli impegni, le preoccupazioni, i pensieri.

 

Il tempo della consapevolezza

Il maggiordomo Llyod definisce il tempo come un campo da coltivare, quello che scorre tra un prima e un poi. Fornisce un’idea di quanto qualcosa è cambiato nel suo divenire. Proprio come un giardino, che non dà subito i suoi frutti, non profuma all’istante di rosa o di lavanda.

Aristotele sostiene che per avere una percezione del tempo sia necessaria una mente capace di misurare, accentuando il nesso che intercorre tra tempo e anima.

Dunque, il tempo si definisce in relazione al soggetto che ne fa esperienza. E siamo noi i contadini che ci premuriamo di coltivare il nostro campo, senza fretta, aspettando quel soffio di vento che ci ridesti dalla frenesia di un tempo che si allontana dalla durée bergsoniana e dalla pazienza di Llyod.

Non importa quanto grande sia ciò che facciamo nel nostro tempo. O quanto grande pensiamo che debba sembrare.

Qualunque cosa fai, se sai come viverla e inserirla nel tuo tempo, può trasformarsi in un giardino ancora più verde.

 

Fonti:

https://www.treccani.it/enciclopedia/henri-louis-bergson/

 

Elisa Guarnera

Un volto tra le onde : Jeanne Baret e la spedizione Bougainville

Verso l’ignoto: una moderna Odissea

“Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze.”

Itaca”, ossia la terra promessa. Il punto, cerchiato in rosso, su una vecchia e ormai usurata cartina. Ulisse cerca di scorgere i confini all’orizzonte, ignorando la marea e il canto delle Sirene. Intanto annota sul suo diario prima quell’emozione, ora questo pensiero. L’intrepido Odisseo, sembra voler sfidare l’ignoto dinnanzi a sé. Levando l’ancora, ha lasciato alle sue spalle la furia di Poseidone.

Ora, con la saggia Atena alle sue spalle, squarcia il velo di Maya, sospinto dalla leggera brezza della conoscenza. Con lo sguardo perso nel vuoto, neanche s’accorge d’aver superato i confini della sua stessa mente.

Sembra ripercorrerne i passi Louis de Bougainville, iniziando da Nantes la sua Odissea. Da lui prese il nome una pianta, dai “grandi e sontuosi fiori viola”, che ancora oggi adorna il suolo sudamericano. Ogni ramo, proteso verso l’alto, sembra puntare verso degli immaginari limiti, ormai valicati dalla nave della conoscenza.

Francobollo raffigurante l’avventuriero francese. Sullo sfondo la Boudeuse, una delle navi salpate da Nantes

 

Tappa nello Stato di natura: Tahiti

“Noi siamo innocenti, noi siamo felici; e tu non puoi che nuocere alla nostra felicità.”

Poche parole, pronunciate debolmente, con un filo di voce. A parlare è un uomo magro, dal viso smunto, quasi una cornice di quell’espressione impassibile. Quindi, nella quiete, osserva la figura davanti a sé.

Bougainville, invece, è robusto, il volto pesante, dai lineamenti marcati cui fanno da contorno dei corti capelli bianchi. Sembra quasi l’antitesi dell’anziano che si trova sotto i suoi occhi.

L’arrivo in quel lembo di terra, apparentemente così isolato dal resto del mondo, fu un fulmine a ciel sereno per tutto l’equipaggio della Boudeuse. Appariva come un luogo fuori dal tempo, immerso in un eterno istante che ne lasciava intatti i colori.

Anni dopo, ricordandone la bellezza, Bougainville ne parla come fosse una moderna Citera. Allontaniamoci, però, dalla Grecia. Non ci troviamo nella “banale El Dorado”, come la definì Baudelaire.

Quell’isola, dall’aspetto “cupo e selvaggio”, viene chiamata Tahiti dai suoi stessi abitanti. L’esploratore francese, sembra aver trovato un angolo del globo che, in un impeto antistorico, sembra ancorato ad un primitivo stato di natura.

Rimane, però, colpito dall’accoglienza dei tahitiani, descritti come “ospitali” e “innocenti”. Il resoconto di Bougainville, confluito nel suo “Voyage autour du monde”, offre uno spiraglio nella vita del “buon selvaggio”, riprendendo Rousseau.

Sarà, poco tempo dopo, Diderot a rileggere le parole dell’esploratore suo contemporaneo, da una prospettiva diversa. L’ammiraglio parigino e il pensatore illuminista, sembrano muoversi verso la netta contrapposizione fra Tahiti e l’Europa. Ma ad uno sguardo più analitico, il leitmotiv è invece un acceso confronto tra civiltà e natura.

Didereot affida le sue osservazioni alle pagine del “Supplement”, opera pubblicata poco dopo la rimpatriata di Bouganville.

A sua detta, la civilizzazione dell’uomo passa per l’azione del “tiranno”. Costui è la figura a cui è affidato il difficile compito di “avvelenarlo” con quella che definisce come una “moralità contraria alla natura”.

Ormai, l’epopea di Bouganville, è cristallizzata nel suo “voyage”. Intanto, il grande libro della storia lo ricorda per la circumnavigazione del globo.

Tuttavia, alcune, seppur brevi, righe menzionano il nome di una figura spesso trascurata. Si chiama Jean Baret.

Stampa d’epoca. Ci parla della tappa tahitiana della spedizione Bougainville

 

Tra il fiore e l’onda: Jean Baret

Nei diari di bordo, il suo nome compare sporadicamente. Quasi sempre, è affiancato da quello del botanico Philibert Commerson. Quest’ultimo, uomo di scienza nonché naturalista, accettò l’invito nonostante la cagionevole salute. Accettò di imbarcarsi, a Rochefort, solo col suo “assistente” al seguito.

Baret, non lasciò lettere o testimonianze scritte di suo pugno, rischiando di essere l’ennesima comparsa di una pièce lontana dall’atto finale.

Solo un unico, anonimo, ritratto è sopravvissuto fino a noi. Mostra una figura slanciata, dai lineamenti delicati ma decisi. Indossa un completo da marinaio, come voleva la moda del suo tempo, mentre salta subito all’occhio una giacca blu. Tiene fra le mani, osservandole, delle piante dall’aspetto singolare. Sicuramente, pochi istanti prima, decoravano l’inospitale suolo tahitiano o del Brasile, entrambe tappe della lunga traversata di Bougainville.

Sulla Boudeuse ne osservavano la “scrupolosa modestia” con cui si comportava.

Sovente si dedicava allo studio e alla catalogazione di piante ed erbe, talvolta anche a supporto del lavoro di Commerson. In quell’Eden terrestre, d’altronde, era facile rimanere ammaliati da quella primitiva quanto selvaggia natura.

Il tempo, tuttavia, sembra cancellare le poche tracce della sfuggente Baret, come impronte sulla sabbia. In particolare, dopo lo sbarco a Tahiti, nemmeno Philibert ne fa più menzione.

Probabilmente, quest’assenza di informazioni deriva da un singolare episodio. A parlarcene è François Vives, medico di bordo. Egli richiama l’incontro con alcuni indigeni tahitiani che, sospettosi, scrutano l’aiutante di Commerson. Uno di loro, Ahutoru, non ha dubbi: sulla Boudeuse, viaggia anche una donna.

La giovane Penelope francese, attratta dall’Ignoto, aveva deciso di lasciarsi alle spalle la sua Itaca. Partita da un piccolo villaggio della Borgogna, era riuscita a ottenere un ruolo nel teatro della storia. Ora, tuttavia, è costretta a gettare la maschera.

Bougainville, per evitare lo scandalo, permette alla “donna delle erbe” di lasciare l’equipaggio, uscendo definitivamente di scena.

Oltre un secolo dopo, la troviamo affianco ai nomi di Simone de Beauvoir e Alice Milliat. Siamo alle Olimpiadi francesi del 2024. Chissà se, la giovane Jeanne, avrebbe mai immaginato tutto questo.

 

                                         Unico ritratto della giovane Baret, attribuito a Giuseppe dell’Acqua

 

Fonti:

https://www.britannica.com/biography/Jeanne-Baret

https://www.inomidellepiante.org/storie/con-bougainville-in-viaggio-intorno-al-mondo

https://static-prod.lib.princeton.edu/visual_materials/maps/websites/pacific/bougainville/bougainville.html

https://data.over-blog-kiwi.com/0/99/95/54/20180125/ob_8a956e_lecture-analytique-du-texte-de-diderot.pdf

https://www.schoolmouv.fr/fiches-de-lecture/supplement-au-voyage-de-bougainville-denis-diderot/fiche-de-lecture

 

Manuel Mattia Manti

Dietro il personaggio: Dr. Jekyll e Mr. Hyde

“Ti accorgerai a tue spese che nel lungo cammino della vita incontrerai molte maschere e pochi volti.

Le parole di Pirandello dettano la sceneggiatura nel teatro dell’esistenza. Ognuno aderisce al proprio ruolo, rifuggendo lo sguardo del pubblico. La platea osserva sorpresa i suoi attori.

Lo disse anche Schopenhauer: sul palco “nessuno si fa vedere com’è“. Sembrerà di osservare un novello Dr. Jekyll tentare di nascondere l’impetuoso Mr. Hyde.

Si alza il sipario sulla surreale pièce di cui il dualismo è leitmotiv. Immaginiamo, per qualche istante, di essere parte della folla accalcata sotto il palco.

Un riflesso sotto la maschera

Ecco recitare il primo dei protagonisti. Entra in scena un uomo alto e robusto, dall’aspetto impeccabile. “Liscio in volto“, la sua espressione lascia trasparire “comprensione e bontà“. Jekyll indossa, tuttavia, una grottesca maschera che ne cela l’io recondito. Ad ogni gesto sembra che Hyde chieda a gran voce di essere liberato.

Al centro del teatro, la luce riflette la sua mostruosa ombra sugli spettatori terrorizzati. Sfondo di questa grottesca pièce è la cupa Londra vittoriana.

Al calar del sole, un timido riflesso si proietta sull’ampolla che Jekyll tiene tra le mani. Una figura dall’aspetto “detestabile” compare, mentre il pubblico osserva spaesato. Il rispettabile dottore ha trangugiato in un sorso quella strana pozione, perdendo di colpo se stesso.

“l’uomo non è in verità uno, ma duplice.” La mano trema, lasciando cadere al suolo la fiala. Questa frase risuona nei corridoi della mente di Jekyll. Il rispettabile dottore londinese, ormai smascherato, rivela la sua vera natura.

Hyde, grottesca faccia dell’altra medaglia, prende il sopravvento. Il pubblico guarda disgustato la repentina trasformazione. L’attore al centro del palco, sembra non avere nulla che si possa definire umano.

Basso e pallido, dava una peculiare “impressione di deformità”. Il viso di Jekyll è a malapena coperto da quella maschera esteriore che inibisce ogni suo primitivo istinto. Si riescono a distinguere solo pochi frammenti di quest’anima tormentata.

Se il mondo è teatro, l’austero dottore è interprete d’eccellenza.

In una gelida serata invernale, la fitta nebbia di Londra, fa da contorno a questo lugubre quadro. Intanto i lugubri edifici, appaiono quasi come mostri addormentati. Un silenzio tombale soffoca la città, ma viene rotto dai passi del malvagio Hyde.

In quello stesso momento, sotto lo sguardo di Erebo, qualcosa si muove anche nella lontana Edimburgo. Una figura, con passo elegante ma deciso, si muove nell’oscurità. Un ghigno illumina il suo volto. Sa che ora, col favore delle tenebre, potrà agire indisturbato. Non ha bevuto alcuna pozione, eppure, anche lui partecipa a questa lugubre pièce.

Dalla platea, ad osservarlo, c’è anche Stevenson. Probabilmente, in quel momento, la storia del tormentato Jekyll prende forma tra i suoi pensieri.

Si mormora un nome, ormai dimenticato tra le pagine della storia. La gente lo chiama William Brodie.

 

                                            Poster d’epoca, raffigurante i due protagonisti

“Deacon” Brodie: il vero dr. Jekyll

Immaginiamo, seppure per qualche istante, di trovarci nei panni di un contemporaneo di Brodie. Nella sua Edimburgo, ci accorgiamo che quest’uomo è, in realtà, benvoluto e rispettato.

Mentre Londra, la “metropoli d’incubo”, fa da contorno alle vicende del Dr. Jekyll, ora ci spostiamo in Scozia. Il giovane Brodie lavora come ebanista, professione ereditata dal padre. Inoltre, è lo stimato leader – o Diacono, il soprannome Deacon deriva da questo suo titolo – della “Corporazione di falegnami e scalpellini“.

Nel teatro della vita, tuttavia, anche lui recita inconsapevolmente la sua parte. A stento la maschera aderisce al volto.

Durante il giorno, lavora per quella stessa nobiltà che, durante la notte, è incauta vittima delle sue incursioni. Inizialmente il suo travestimento gli permette di recitare questa parte indisturbato. Al calar del sole, però, l’inganno è svelato.

In una Londra ancora assopita, la furia di Edward Hyde esplode contro Danvers Carew. In quello stesso momento, Brodie, si aggira per i vicoli della sua Edimburgo. La luce della luna, a malapena, ne sfiora l’ombra.

Guardingo, si aggira per Cowgate, nella parte bassa della sua città natale. Gettati gli utensili da carpentiere, eccolo apparire la sua vera natura. “Deacon” Brodie si mescola con mille altri uomini, distratti dal vizio.

Ivi, si abbandona ad uno stile di vita sregolato. Stevenson ne parlerà menzionando la “montagna di contraddizioni” che lo opprime. Ben presto, infatti, sarà la sua “sordida avarizia” a tradirlo.

Brodie, per anni, era riuscito a sfruttare le sue abilità: di giorno installava meccanismi di sicurezza e serrature nelle case dei più abbienti cittadini di Edimburgo; la sera, invece, sfruttava i duplicati delle chiavi che, con altrettanta maestria, produceva.

Aiutato da due complici, George Smith e John Brown, le sue azioni incutono “terrore nei cuori dei ricchi”. La storia di Brodie, tuttavia, ha raggiunto l’atto finale. Il Diacono e i suoi seguaci tentano, invano, di prendere d’assalto l’Ufficio delle Accise. Il tentativo di rapina, si conclude con un nulla di fatto. I colpevoli, in un goffo tentativo di fuga, si disperdono.

Una “fuga per un pelo”, gli permette di raggiungere l’Olanda. Qui, ad Amsterdam, termina la sua epopea. Ricatturato, viene condannato alla forca. Un curioso aneddoto racconta che fu proprio lui a costruire quello stesso patibolo.

Cala, così, il sipario. Tuttavia, anni dopo, c’è chi giura di aver incrociato lo sguardo, per le strade di Londra, con un uomo “alto e ben vestito”. Che si trattasse di un redivivo Brodie?

Un ritratto di William “Deacon” Brodie, ripreso da “An Account of the Trial of William Brodie: And George Smith”

                    Manuel Mattia Manti

Fonti

https://www.historic-uk.com/HistoryUK/HistoryofScotland/Deacon-William-Brodie/

https://archive.org/details/trialofdeaconbro00brod/mode/2up

https://www.britishlibrary.cn/en/articles/man-is-not-truly-one-but-truly-two-duality-in-robert-louis-stevensons-strange-case-of-dr-jekyll-and-mr-hyde/

https://www.forbes.com/sites/abrambrown/2019/10/25/bogeyman-and-gentleman-the-real-life-dr-jekyll-and-mr-hyde/

https://www.undiscoveredscotland.co.uk/usebooks/steveson-edinburgh/chapter04.html

https://archive.org/details/trialofdeaconbro00brod/page/8/mode/2up

Manuel Mattia Manti

Quanto l’arte diventa veleno: l’arsenico nascosto nei colori ottocenteschi

Un verde intenso, saturo, quasi innaturalmente brillante: è il colore che, nell’Ottocento, ridefinì l’estetica della pittura europea.

I pigmenti a base di arsenico — come il “verde di Scheele” prima e il “verde di Parigi” poi — offrirono agli artisti una gamma cromatica senza precedenti.

Ma dietro questa apparente rivoluzione pittorica si celava un agente silenzioso e letale: quelle stesse polveri, che rendevano le tele straordinariamente vibranti, si diffondevano negli atelier, depositandosi sulle superfici fino a penetrare nei polmoni e nella pelle di chi le utilizzava.

La costante esposizione all’arsenico non comprometteva soltanto la salute fisica: poteva, infatti, generare alterazioni dell’umore, disturbi cognitivi e allucinazioni. Non è da escludersi, pertanto, che dietro la leggenda romantica del genio tormentato possa celarsi — almeno in parte — una motivazione scientifica.

 

La nascita di un colore “nuovo”

La storia dell’arsenico artistico inizia nel 1775, quando il chimico svedese Carl Wilhelm Scheele sintetizza un pigmento verde di straordinaria brillantezza, composto da arseniti di rame. Il cosiddetto “verde di Scheele”, economico e di facile produzione, si diffonde rapidamente in tutta Europa, soprattutto nella decorazione d’interni.

Qualche decennio più tardi, nella prima metà dell’Ottocento, la chimica industriale ne perfeziona la formula con la produzione del “verde di Parigi” (o verde smeraldo), un acetoarsenito di rame ancora più luminoso e stabile.

La donna che ricama (1812), Georg Friedrich KerstingFonte: storicang.it

L’adozione di questi pigmenti rappresentò una svolta tecnica e visiva: i verdi naturali, opachi o soggetti a ossidazione, vennero sostituiti dalle nuove formulazioni arsenicali, in grado di mantenere un’intensità cromatica costante, difficilmente replicabile con altri composti. Il loro impiego travalicò gli atelier, investendo dipinti, oggetti di uso quotidiano, carte da parati, abiti, ornamenti teatrali e illustrazioni editoriali.

 

Gli atelier come centri di intossicazione

Le condizioni operative degli artisti ottocenteschi erano profondamente diverse da quelle contemporanee.

Prima della diffusione dei colori prodotti industrialmente, i pigmenti venivano macinati, setacciati e miscelati manualmente con leganti oleosi o gommosi, generando aerosol di polveri sottilissime.

La ventilazione insufficiente degli atelier e la pratica comune di vivere nello stesso ambiente di lavoro favorivano l’accumulo progressivo di residui tossici sulle superfici e nell’aria.

L’esposizione avveniva per via inalatoria, cutanea e, spesso, orale: molti pittori usavano modellare la punta dei pennelli con la bocca, ingerendo piccole quantità di pigmento. Inoltre, in ambienti umidi, le carte da parati contenenti arsenico potevano rilasciare arsina, un gas altamente velenoso, contribuendo a un’esposizione cronica diffusa e involontaria.

 

Un veleno neurotossico e la “follia dell’artista”

L’arsenico è oggi classificato come cancerogeno di gruppo 1 dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), ma la sua pericolosità si manifesta già a livelli sub-letali, attraverso meccanismi tossico-dinamici complessi.

L’esposizione cronica può generare lesioni cutanee ipercheratosiche, anemia microcitica, epatotossicità, nefropatie e alterazioni vascolari.

Ancora più significativi, nel contesto artistico, erano gli effetti neurologici: neuropatie periferiche, tremori, vertigini, disturbi cognitivi e comportamentali, alterazioni dell’umore, irritabilità, allucinazioni visive e uditive. Questi sintomi, tuttavia, erano difficilmente correlabili a un’esposizione ambientale. Venivano piuttosto interpretati come segni di instabilità caratteriale o di quella “follia creativa” mitizzata dalle correnti romantiche.

Oggi, una lettura retrospettiva alla luce della tossicologia moderna suggerisce che una quota non trascurabile di tali disturbi potesse avere una base chimica.

 

Van Gogh e altri casi emblematici

Il caso di Vincent Van Gogh è spesso evocato, sebbene complesso e multifattoriale.

Le sue opere testimoniano l’impiego di pigmenti contenenti arsenico e piombo, in ambienti chiusi e scarsamente ventilati, con uso intensivo di solventi volatili.

Sebbene non esistano prove di avvelenamento diretto, è plausibile che l’esposizione cronica abbia contribuito ad accentuare le sue crisi psicotiche e i sintomi neurologici.

Campo di grano verde con cipresso (1889), Vincent Van GoghFonte: wikipedia.org

In Inghilterra, divennero famose le cosiddette “ragazze del verde”, giovani lavoratrici di fabbriche di pigmenti affette da ulcerazioni, necrosi mandibolare e neuropatie gravi, causate dall’esposizione quotidiana alle polveri d’arsenico.

Gli “Amori disperati” di Pavese

Quel po’ d’anima

“Le parole sono il nostro mestiere. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro.”

Così parla Cesare Pavese in una delle sue opere più celebri, quando racconta di quel “Mestiere di vivere” che fa apparire l’uomo quasi come un artigiano.

Prometeo, dalla sua argilla, creò l’uomo che, a sua volta, darà un contorno, sulla bianca tela, ad un inquieto mondo interiore. Proprio qui, il giovane Pavese scorge le sagome, tanto luminose quante distanti, delle moderne Pleiadi che lui, Orione dei nostri tempi, osserva in silenzio.

La prima di queste figure viene chiamata affettuosamente Milly. Lei, attrice, recita inconsapevolmente una parte nel primo atto della vita del poeta piemontese. Lui, dalla platea, la osserva di sfuggita e ogni suo sguardo è stenografo di una storia ancora al suo prologo.

“Quel poco d’anima” che conosceva della giovane bastò a scatenare una tempesta d’emozioni, che troveranno via d’uscita solo grazie alle lettere che il poeta le scriverà. Ma il giovane Cesare, “perduto sotto la pioggia”, per riprendere le parole di De Gregori, lo sa: l’acqua sbiadisce l’inchiostro.

E lui rimane lì, ai margini di una storia di cui a malapena riesce ad annotare non mere parole ma sguardi.

Sospinto oltre il suo porto sicuro, ormai, il tormentato cuore del poeta ha iniziato la sua Odissea, in un mare tutt’altro che quieto, rischiando di naufragare sugli scogli dell’incertezza.

Inquietudine, questa, che fa da preludio ai tormenti sentimentali del poeta, leitmotiv delle vicende che, su carta, prendono vita.

Carla Mignone, la “Milly” di cui ci parla il giovane Pavese

 

Sentimenti al confino

“Gli amori di un timido sono sempre più seri di quelli di uno sfrontato.”

Frase, quest’ultima, che meglio descrive la vita sentimentale dello scrittore.

Dall’inchiostro della sua penna, sembrano tracciati i confini di una parete invisibile”. Essa separa Pavese da colei che chiamerà, affettuosamente, la “Donna con la voce roca”.

Ma l’amore dello scrittore non riuscirà mai a varcare le sbarre della sua indifferenza, come il rapporto tra Stefano e Concia non supererà quelle dell’incomunicabilità e della solitudine.

Sullo sfondo, due storie (e altrettante delusioni), con lo stesso epilogo. Entrambi condannati per difendere la donna di cui si erano invaghiti. E allo stesso modo, nessuno dei due, riceverà la tanto attesa lettera dell’amata.

Ma, mentre l’esilio di Stefano è limitato alle righe di un romanzo, quello del poeta sbatte sulle catene della realtà. Anche quando potrà lasciare la Calabria, dove si trovava, le mura dell’inquietudine continueranno, però, a tracciare i contorni di un vero e proprio confino interiore.

E in questo enorme Panopticon, dal quale scorgiamo incertezze e sentimenti, palpita inascoltato il martoriato cuore di un Pavese ormai disilluso.

D’altronde, citando Werther, l’uomo felice è una creatura che dimora nella nostra fantasia. Qui è relegato in una prigione cui fa da sfondo, come quella “quarta parete” citata dal poeta, il placido mare dell’inquietudine. All’orizzonte nessun porto sicuro, l’ Odissea sentimentale dell’autore piemontese lo conduce per altri mari, mostrandogli altrettante rive.

Nella bufera, a tuonare è quello che Pavese stesso ricorda come un attimo di “lucida follia”, quando la Pizzardo rifiuta la sua proposta di matrimonio. Ma lo scrittore, dalla “Donna con la voce roca” non si separerà tanto presto. Anzi, negli anni a seguire, ella rimarrà musa di versi e parole.

Incanalati in una stilografica, fidata compagna, Pavese comincia così a delineare i contorni di quel che definirà “Il mestiere di vivere”.

Tina Pizzardo, la “donna dalla voce roca”

 

“Tu, Vento di Marzo”

“Il peggior modo di sentire la mancanza di qualcuno è starci seduto vicino e sapere che non lo potrai avere mai.”

Chissà a cosa pensava García Márquez, quando scrisse queste poche parole. Sembra quasi facciano eco all’ultimo atto della tormentata Odissea del poeta piemontese, definendo i tratti di una trama già vista.

A dipingerne il tema, ancora una volta, la solitudine. Ormai, ella è quasi una compagna inseparabile, ancor di più dopo quelle che, tra i versi, ricorderà come le “serate di Cervinia”.

È il periodo in cui ogni battito e tremore hanno un nome: quello di Constance Dowling, giovane attrice americana di cui il poeta s’invaghisce. La definisce “vento di marzo”: è lei che ridesta il “torrente del cuore”, ispiratrice di versi che scandiscono le sue ultime, monotone, giornate.

Moderna Beatrice, “Connie” rappresenta l’aurora di una vita ormai al crepuscolo, avvinta da quel “vizio assurdo” che, infine, vincerà Pavese.

Ma la giovane ritorna in America, lasciando incompiuta la sceneggiatura di una vita con lo scrittore. Copione che ci parla, a tratti, di un Leandro dei nostri tempi, separato, non solo fisicamente, dalla sua Ero, a causa della lontananza. Leandro morirà in balia delle acque, come Pavese naufragherà nel mare del suo stesso dolore.

Chissà se, nel leggere le ultime battute di questa tragedia, Connie si fosse resa conto che, nei pensieri di Pavese, la morte aveva i suoi occhi color nocciola.

Il poeta e l’attrice, Constance Dowling

 

 

Manuel Mattia Manti

 

 

Fonti

https://www.sololibri.net/amori-donne-Cesare-Pavese-libri.html

https://www.unionesarda.it/3-minuti-con/cesare-pavese-e-lamore-per-tina-la-donna-che-voleva-essere-solo-unamica-irft6zil

https://www.ingenere.it/articoli/pioniere-tina-pizzardo-anticipo-sui-tempi

https://rivistasavej.it/lung/2016-2020/lamore-secondo-cesare-pavese-7b5ca736c081

https://glicineassociazione.com/cesare-pavese-e-lesperienza-del-confino-in-calabria/

https://www.harpersbazaar.com/it/cultura/libri/a37490166/constance-dowling-chi-e-amante-pavese/

https://www.ultimavoce.it/constance-dowling-lultimo-amore-di-cesare-pavese/

http://www.torinocittadelcinema.it/pdf/prono2.pdf

 

Indiegeno Fest 2025: l’edizione della riflessione

Torna con la sua undicesima edizione l’Indiegeno Fest, il festival siciliano organizzato da Leave Music e dall’Associazione Clap con il patrocinio del Comune di Messina. Per l’occasione abbiamo raggiunto telefonicamente Alberto Quartana, direttore artistico del festival, per farci svelare qualche novità di quest’anno.

Due date, 1 e 2 agosto 2025, in due location simboliche del territorio messinese: le Grotte di Mongiove e i suggestivi paesaggi nei pressi dell’Argimusco, per un evento che si annuncia come un’edizione di passaggio, un momento di pausa creativa, riflessione e cambiamento. “Volevamo tornare a una dimensione meno itinerante – ha detto Alberto Quartana – e abbiamo deciso di tornare nel posto dove siamo partiti. L’anno scorso si era creata un po’ di dispersione, e nei festival avere un’identità di luogo è importante.”

Un festival gratuito, aperto, in ascolto

La scelta è chiara e potente: ingresso gratuito, line-up giovane e sperimentale, artisti emergenti e un’atmosfera immersiva. Indiegeno Fest 2025 non punta su nomi altisonanti, ma su talento puro, energia creativa e autenticità, offrendo al pubblico la possibilità di (ri)scoprire la musica come esperienza condivisa e trasformativa.

1 agosto – Grotte di Mongiove (Patti, ME)

La prima serata si svolgerà nel suggestivo scenario naturale delle Grotte di Mongiove, tra mare e roccia. Sul palco:
Giulia Mei, Marco Russo, Zebra TSO, Basim, Tommaso Malatesta, Richie Ritz
A seguire, l’aftershow farà ballare il pubblico con i set di DJ Cafeo e Rumble in the Jungle.

2 agosto – Parco Archeologico Guglielmo, Montalbano Elicona (ME)

La seconda data, la più iconica e rappresentativa dell’intero festival, si terrà nei pressi dell’Argimusco, luogo magico e sospeso nel tempo. Qui, al tramonto, salirà sul palco il Secret Artist, un momento di pura emozione e sorpresa. Alberto Quartana ha svelato che “è un big della musica italiana, che ha creato innovazione nella panorama italiano e che ha portato tanta contaminazione”; non ci resta che scoprirlo il 2 agosto!
Completano la line-up: Nico Arezzo, Idda, Newma, Vick, Maiogabri, Befolko, Stretto Cypher, con un aftershow firmato DJ Cafeo e Dose.

Un anno di transizione per un futuro nuovo: parla il direttore artistico Alberto Quartana

Indiegeno Fest – come si legge nella nota stampa – quest’anno si è preso una pausa dai grandi nomi per tornare a dare spazio alle emozioni. “Quest’anno stiamo facendo una versione di Indiegeno più light, diciamola così. – ci racconta Alberto – Il concept, però, è identico: creare opportunità per gli artisti emergenti di esibirsi in dei palchi insieme. I curiosi della musica, chi non bada soltanto ai nomi altisonanti, hanno sempre trovato degli artisti che poi spesso hanno continuato a seguire.”

“Il sogno è creare una comunità appassionata di musica e con la voglia di scoprire cose nuove. Vorremmo creare un villaggio esteso in cui si entra, si sta una settimana e si vive tutto il panorama musicale italiano e tutto ciò che ci sta attorno. Fare un festival non è per niente facile, anche perché l’aspetto economico non è da sottovalutare e non ci si riesce a sostenere solo con la biglietteria. Serve un aiuto concreto da parte delle istituzioni e degli sponsor: se manca questo, tutto il resto viene meno. Forse dobbiamo abituare di più la gente al concetto di festival, ma questa è una questione italiana più che soltanto siciliana. Tuttavia questo sta cambiando, anche grazie a quello che abbiamo fatto noi, YpsigRock, Mish Mash, e tanti altri.”

In un’epoca in cui tutto corre e si consuma in fretta, Indiegeno Fest 2025 sceglie di rallentare, ascoltare e seminare. Non è solo un festival, ma un atto culturale e umano, un invito alla scoperta e all’autenticità.

Gaetano Aspa e Giulia Cavallaro

 

Heisenberg tra Fisica e Filosofia

Leggendo tra le righe: onde e particelle

[…] nella ricerca dell’armonia della vita, non dobbiamo dimenticarci che nel dramma dell’esistenza siamo insieme attori e spettatori. È comprensibile che nelle nostre relazioni scientifiche con la natura la nostra attività assuma grandissima importanza quando abbiamo a che fare con parti della natura nelle quali possiamo penetrare soltanto servendoci degli strumenti più elaborati.

Questa è una delle frasi più significative di uno dei libri che ho letto recentemente. Si tratta di Fisica e Filosofia, di Werner Heisenberg. Nome rinomato nel campo della Fisica e della Chimica grazie alla formulazione del suo celebre principio di indeterminazione


Il secolo scorso è stato sicuramente segnato dalla nascita della meccanica quantistica. Le particelle non possono essere semplicemente schematizzate come materia, ma vanno considerate anche come onde. Il principio di indeterminazione pone il limite fondamentale entro cui possiamo immaginare la duplice natura delle particelle.

Dopo una lettura attenta del libro sopra citato, ho avvertito la necessità di una riflessione.

Il linguaggio prettamente scientifico e tecnico utilizzato fino ad ora non deve trarvi in inganno. Il campo scientifico di cui stiamo parlando è interconnesso alla vita di tutti i giorni, o meglio, al nostro modo di pensare.

Il grande merito che attribuisco al libro di Heisenberg non è tanto accademico o divulgativo. Il libro costituisce un’ importante riflessione su come Fisica e Filosofia debbano essere viste come due sfere in costante contatto.

La riflessione che voglio condividere riguarda l’incredibile versatilità del pensiero umano, ormai quasi dimenticata e trascurata da molti. I nostri schemi nel pensare e nell’apprendimento, ad oggi, sono il risultato di una complessa storia del pensiero. In questa storia, l’evoluzione scientifica e i cambiamenti nel pensiero filosofico vanno di pari passo.

La culla della civiltà

La Filosofia e la Fisica classica nascono in Grecia, non a caso considerata da tutti come la culla della civiltà.

Pensatori come Democrito sono i primi a teorizzare l’esistenza di un’unità fondamentale della materia: l’atomo.

Chiamato così poichè indivisibile, l’atomo è da subito al centro di controversie e dibattiti sulla sua natura. È più importante lo spazio che gli atomi vanno a riempire o lo spazio vuoto attorno ad essi?

Per la prima volta il pensiero occidentale va in crisi. Per la prima volta si pensa al vuoto. Esso non è più un semplice contrario del pieno, ma una vera e propria entità, sia scientifica quanto filosofica.

Ad ogni modo, in seguito al pensiero di Platone e Aristotele, l’argomento del vuoto passa in secondo piano, o meglio, viene reinterpretato. Adesso non si cerca più una risposta direttamente nei concetti di vuoto e pieno, bensì il pensiero occidentale inizia a tuffarsi nell’astrazione.

Il mondo non è semplice materia. Il mondo non è più un insieme di elementi tangibili. Esiste una nuova porzione, un nuovo piano di realtà che si trova al di sopra del concreto. Tutto ciò che è osservabile ha una corrispondenza nell’iperuranioil mondo al di sopra del mondo. I fisici non studiano la realtà a partire da ciò che osservano, piuttosto studiano attentamente un fenomeno, cercando sempre di astrarre e generalizzare ciò che hanno osservato.

Da Cartesio alla crisi delle certezze

Il modo di pensare che abbiamo analizzato nel precedente paragrafo, il processo di osservazione e conseguente astrazione, è un metodo che ha riscontrato un enorme successo nella Fisica classica.
Il pensiero filosofico che tutto ciò che osserviamo sia riconducibile a una realtà generalizzata, fatta di schemi e leggi, ha accompagnato ogni pensatore e scenziato.

Non fa eccezione Descartes, Cartesio. Nonostante sia considerato il ponte tra il pensiero antico e quello moderno, risulta ancora incatenato ad una concezione classica della scienza. All’osservazione segue sempre una conseguente astrazione, e ad essa la formulazione di una legge che possa generalizzare un caso particolare.

Il concetto di separazione tra anima e corpo non fa che confermare il dominio della teoria Platonica nel pensiero occidentale.

Per svariati secoli, la concezione della scienza rimane la stessa. La porzione di universo che osserviamo, la strumentazione utilizzata per osservarla, le leggi che scaturiscono dal nostro studio, tutto è parte di una grande unità, tutto è parte dello stesso mondo.

Una piccola crepa viene aperta dalla filosofia di Immanuel KantLe leggi che teorizziamo non corrispondono alla assoluta verità, le asserzioni che facciamo sono il risultato di un nostro modo di pensare. Il nostro pensiero, dunque il nostro modo di apprendere e scoprire, è incatenato all’utilizzo di forme pure, categorie che utilizziamo per organizzare ogni informazione che immagazziniamo. Le categorie per eccellenza che individua Kant sono spazio, tempo e causalità.

Per quanto possa sembrare rivoluzionaria, la teoria di Kant sfocia comunque nel dogmatico limite del non poter conoscere la cosa in sè, limitandosi dunque allo studio delle manifestazioni di essa nel mondo materiale.

Ancora una volta, la filosofia Platonica trionfa nel pensiero occidentale, dimostrando il distacco tra il mondo materiale e il mondo astratto.

All’arrivo del XX secolo, il pensiero formulato per migliaia di anni è destinato a crollare. Tutto ciò che è stato detto dai Filosofi e che ha influenzato la fisica classica sta per collassare.

È il periodo della crisi delle certezze.

 

Lo stravolgimento Filosofico nella crisi delle certezze

È importante precisare che il periodo a cui mi riferisco non è quello del Decadentismo.

La crisi delle certezze di cui parlo è quella prettamente scientifica. Planck, Bohr, Einstein, Schrödinger, de Broglie sono tutti nomi di scienziati che hanno contribuito a cambiare per sempre il nostro modo di vedere il mondo che ci circonda.

In seguito al problema del corpo nero, in seguito agli esperimenti sull’effetto fotoelettrico, abbiamo capito che nel mondo dell’infinitamente piccolo non esiste una distinzione netta tra onda e corpuscolo. Quando si ha a che fare con corpi di grandezze infinitesimali, si manifesta un duplice comportamento: ondulatorio e corpuscolare.

Tutto ciò affonda le radici in una concezione che stravolge il pensiero Kantiano e le teorie fisiche e filosofiche di un intero millennio. Lo spazio e il tempo non possono essere viste come categorie assolute. Lo spazio non è più semplice collocazione di elementi, ma è probabilità. La probabilità che una particella si trovi in una determinata regione è essa stessa spazio.

Anche nel momento in cui studio una porzione di universo, un sistema, devo applicare una netta distinzione tra gli strumenti utilizzati, descrivibili con le leggi della Fisica classica, e il comportamento ambiguo del sistema di grandezza infinitesimale.

Ciò che è immensamente piccolo non rientra, a livello comportamentale, nei concetti kantiani di spazio e tempo. Lo studio delle particelle ci conduce dentro un universo non osservabile nella quotidianità, ma non per questo al di sopra della quotidianità. Il mondo dell’infinitesimo si trova incredibilmente immerso dentro l’osservabile, ma a un livello così profondo da sembrare totale astrazione.

Riflessione: due realtà comunicanti

L’eccessiva settorialità del sapere ci porta oggi ad una concezione erronea di Scienza. 

Scienza non è la materia che si studia nel proprio corso di laurea, in modo totalmente scollegato dal resto. Scienza è l’atto di porre uno schema ordinato in una realtà che non si comprende, l’atto di determinare dei rapporti logici tra ciò che accade intorno a noi.

Questo modo di pensare, questa processualità nel nostro apprendimento, è il frutto di anni ed anni di evoluzione del pensiero filosofico, che ci consente di imparare ad imparare. 

Dobbiamo staccarci dalla nostra erronea convinzione che scienza e pensiero classico siano due realtà totalmente scollegate. In fondo, il concetto di onde di probabilità è l’estrema conseguenza della teoria aristotelica della potenza.

Queste due realtà comunicano continuamente tra di loro. Il dualismo tra Scienza e Filosofia, che si rispecchia in ogni aspetto del nostro pensiero, è il più grande risultato che secoli di evoluzione del nostro modo di conoscere hanno ottenuto. Sarebbe un vero peccato cancellarlo dalla nostra mente.

 

Bibliografia

Werner Heisenberg, Fisica e Filosofia, Feltrinelli, Milano, 2015

Immanuel Kant, Critica della ragion pura, editori Laterza, Roma, 2005

Artemisia Gentileschi: pittura, dolore e riscatto

Artemisia Gentileschi (1593 – ca. 1656) è oggi riconosciuta come una delle figure più significative della pittura barocca, non solo per il suo talento eccezionale, ma anche per il coraggio con cui ha affrontato la sua epoca.

Figlia d’arte, prima donna a essere ammessa all’”Accademia delle Arti del Disegno di Firenze“, la sua opera unisce intensità emotiva, maestria tecnica e una straordinaria attenzione alla rappresentazione della figura femminile.

Infanzia e formazione tra Roma e la bottega del padre

Artemisia nacque l’8 luglio 1593 a Roma, nel cuore del quartiere degli artisti.

Il padre, Orazio Gentileschi, era un pittore di talento, influenzato in gioventù dal manierismo ma convertitosi al naturalismo drammatico di Caravaggio.

Fu proprio nella bottega paterna che Artemisia imparò a dipingere, mostrando fin da bambina una sensibilità e una abilità superiori a quelle dei fratelli. L’ambiente artistico romano del tempo, animato dalla riforma urbanistica di papa Sisto V e dalla presenza di grandi maestri come Annibale Carracci e Caravaggio, contribuì alla sua formazione visiva e stilistica.

Il suo stile si distinse presto da quello paterno: mentre Orazio tendeva a idealizzare le figure, Artemisia le rendeva più reali, umane, vibranti di emozioni vere.

Il naturalismo caravaggesco la influenzò profondamente, ma fu il suo sguardo personale, spesso centrato sull’esperienza femminile, a renderla unica nel panorama artistico del Seicento.

La violenza trasformata in arte

La vita di Artemisia fu segnata da un evento traumatico: la violenza subita dal pittore Agostino Tassi e il successivo processo, durante il quale l’artista venne sottoposta a interrogatori e torture.

Nonostante ciò, o forse proprio a causa di questa esperienza, la sua pittura acquisì una forza espressiva straordinaria. Nei suoi dipinti, le protagoniste — eroine bibliche come Giuditta, Susanna, Ester o Lucrezia — non sono mai vittime passive, ma donne attive, forti, capaci di reagire, combattere, sopravvivere.

Artemisia lavorò a Firenze, dove entrò nell’Accademia del Disegno, poi a Venezia, Napoli e Londra.
Ogni città segnò una tappa importante nella sua evoluzione artistica.
A Napoli visse gli ultimi anni della sua vita, lavorando probabilmente fino al 1654 e morendo attorno al 1656, forse a causa della peste che decimò la città.

La pittura come racconto del femminile

Tra le sue opere più celebri vi sono “Susanna e i vecchioni” (1610), “Giuditta che decapita Oloferne” (1613), “La Maddalena penitente“, “Autoritratto come Allegoria della Pittura” (1638-39), “Lucrezia” (1621 e 1642), ma anche composizioni come “Ester davanti ad Assuero“, “Betsabea al bagno“, “Minerva”, “Ulisse scopre Achille fra le figlie di Licomede” e “Giuseppe e la moglie di Putifarre“.

In ognuno di questi lavori, Artemisia dimostra una profonda padronanza del chiaroscuro e una straordinaria capacità di raffigurare la complessità psicologica dei suoi personaggi. Le sue protagoniste non sono idealizzazioni, ma donne reali, cariche di umanità, dolore, orgoglio e dignità.

Tra le opere della maturità, spicca “Lot e le sue figlie” (Toledo Museum of Art), in cui la pittrice rilegge in chiave ambigua e provocatoria un episodio biblico controverso, e “Corisca e il satiro”, ispirata a Il Pastor Fido di Guarini, in cui una ninfa riesce a sfuggire al suo aggressore con intelligenza e determinazione.
In entrambe, Artemisia gioca con luci, gesti e simboli, offrendo letture complesse e mai scontate del corpo femminile.

"Giuditta che decapita Oloferne" (1613), di Artemisia Gentileschi
Giuditta che decapita Oloferne

 

L’eredità di una pittrice ritrovata

Per lungo tempo, dopo la sua morte, Artemisia fu dimenticata o confusa con il padre.
Solo nel Novecento, grazie a storiche dell’arte come Mary Garrard e a mostre fondamentali come “Orazio and Artemisia Gentileschi” (National Gallery of Art, 2001), la sua figura è stata riscoperta e celebrata.

Il suo modo di usare il corpo femminile come strumento narrativo ed espressivo, la sua visione drammatica e intensa della pittura e la sua determinazione in un mondo dominato dagli uomini fanno di Artemisia Gentileschi un simbolo di forza, arte e resistenza.
Non solo una pittrice straordinaria, ma una donna che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’arte europea.

 

Fonti:
“Complete Works of Artemisia Gentileschi – Illustrated”, catalogo “Orazio and Artemisia Gentileschi” (National Gallery of Art, 2001).