Atlas: la vita come un’arrampicata

Il tocco mai banale del regista e l’interpretazione magistrale della De Angelis in uno dei drammi più interessanti di quest’anno – Voto UVM: 5/5

Atlas, del regista Niccolò Castelli, racconta la storia della protagonista Allegra, interpretata magistralmente da una Matilda De Angelis  in una delle sue migliori prove drammatiche, giustamente premiata come Miglior Attrice al Taormima Film Festival.

Niccolò Castelli e Matilda De Angelis al Taormina Film Fest

La montagna di Allegra

Le vicende prendono luogo sulle Alpi e seguono, ispirandosi liberamente, una storia realmente accaduta. Un gruppo di giovani ragazzi appassionati d’arrampicata decide di cimentarsi in una sfida: scalare le montagne della catena dell’Atlante in Marocco, volendo ambire a qualcosa di più rispetto alle montagne che sono abituati a scalare tra Svizzera ed Italia. Arrivati in cima i ragazzi si fanno promessa di provare nuove esperienze, cercando nuove vette da scalare, dando prova così di grande forza d’animo e vitalità.

A questo punto però, il film non segue più le loro vicende e veniamo spostati su un piano diametralmente opposto: ritroviamo la protagonista completamente sconvolta da quello che capiamo essere stato un evento tragico avvenuto in Marocco, comprendiamo quindi che il suo viaggio non è andato a finire nel migliore dei modi e che soprattutto i suoi compagni non sono tornati a casa assieme a lei.

Matilda De Angelis nei panni di Allegra. Fonte: iodonna.it

E’ qui che la pellicola comincia a mostrarci il suo vero volto, mettendo in mostra gli stati d’animo di Allegra, facendoci entrare davvero in sintonia con la protagonista e ritraendo quella che può essere una psiche spezzata: Allegra non parla più con i genitori, non cerca nuovi contatti e quelli vecchi non riescono più a darle nessuno stimolo che la porti con la mente lontano dalla sua continua sofferenza.

L’occhio del regista sulle emozioni

Tutto il lavoro sulla pellicola serve di fatto a farci avvicinare a lei: il lavoro metodico del regista, che riesce benissimo a puntare l’obiettivo mettendo in risalto sia la protagonista che ciò che le sta attorno. La maniera confusa in cui vive ciò che ha intorno a sé, così come il suo dramma interiore, che vediamo messo in risalto da frequenti primi piani sull’attrice (autrice anch’essa di una grande prova), sono la dimostrazione di un lavoro consapevole da parte di Castelli, che non ha creato qualcosa di banale – come invece poteva accadere dato il soggetto – ma anzi è riuscito a costruire una storia con delle inquadrature che non sbagliano quasi mai e lavorano in simbiosi con De Angelis mentre percorre la strada di Allegra.

I vari passi che la portano ad affrontare i suoi traumi vengono sanciti da un’alternarsi di ricordi con la vita odierna: vediamo quindi il passato per come viene affrontato da Allegra, andando a scavare sempre più a fondo mano a mano che si va avanti nella pellicola e le emozioni vengono sempre di più a galla.

L’obbiettivo del film è qui chiaro: raccontare di una risalita umana, in una maniera che, con tatto, renda anche giustizia a quella che è stata una tragedia vera, vissuta da persone vere.

Allegra e Arad. Fonte: cinemany.ch

C’è infine il lavoro dell’intero cast che va a interpretare i personaggi secondari, anch’essi colpiti a fondo dallo stesso dramma. Uno dei personaggi che hanno maggior risalto è quello di Arad, interpretato da Helmi Dridi,  che si rivelerà un incontro centrale per Allegra: il loro rapporto, complicato all’inizio, diverrà il punto di svolta nella storia della protagonista e il momento in cui anche noi spettatori scopriamo tutti i suoi traumi mentre Allegra li affronta, dopo aver tenuto dentro di sé il dolore e la rabbia della perdita.

Verdetto

Il film, per concludere, riesce quasi perfettamente nel suo intento, con l’unica pecca di non aver forse dato abbastanza risalto ai personaggi secondari. Sbaglio comunque perdonabile in quello che risulta essere uno dei drammi più interessanti di quest’anno, nonché una delle migliori prove attoriali che ci auguriamo possa essere un’ulteriore vetrina per il talento di Matilda De Angelis

Matteo Mangano

L’intarsio tra cinema e Sicilia al Taormina Film Fest

Lo scorso sabato è calato il sipario sulla 67esima edizione del Taormina Film Fest con la cerimonia di premiazione. Il Cariddi d’Oro (premio al miglior film) è stato assegnato al film Next Door di e con Daniel Brühl, che ha conquistato inoltre la Maschera di Polifemo come migliore attore. La Maschera di Polifemo per la categoria femminile è stata assegnata a Matilda De Angelis, per la sua impeccabile interpretazione nel film Atlas di Niccolò Castelli. Il Cariddi d’Argento è andato a Roberto De Feo e Paolo Strippoli, giovani registi di A classic horror story. Inoltre sono stati assegnati tre Taormina Arte Arwards, rispettivamente a Francesca Michielin, Anna Ferzetti e Ferzan Ozpetek.

Matilda De Angelis, vincitrice della Maschera di Polifemo come miglior attrice – Fonte: ciakmagazine.it

Oltre ai film in concorso, il grande protagonista del Festival è stato senza dubbio l’intarsio tra il cinema e la Sicilia; numerosi, infatti, sono stati gli appuntamenti e le proiezioni che hanno messo al centro questo profondo legame. Ripercorriamo insieme le tappe principali del viaggio attraverso questo prezioso intreccio.

Space Beyond

Apre la serie di proiezioni di “Cinema e Sicilia” -in collaborazione con Sicilia Film Commission e Fondazione Taormina Arte– il film-documentario Space Beyond (2020), dedicato all’astronauta siciliano Luca Parmitano. Diretto da Francesco Cannavà, Space Beyond è il racconto biografico della missione “Beyond” dell’ESA (European Space Agency), effettuata da Parmitano nelle vesti di colonnello pilota sperimentatore dell’Aeronautica militare e primo comandante italiano della Stazione Spaziale Internazionale.

Sei mesi di missione sulla ISS racchiusi in 82 minuti di film, con immagini inedite ed esclusive degli esperimenti scientifici svolti e delle attività extraveicolari effettuati durante la permanenza a bordo. “Il limite lo scegli tu, lo scegliamo noi come umanità come scienziati ed esploratori. Nel momento in cui lo scegliamo abbiamo un obiettivo da superare, poi sta a noi metterci tutti i mezzi necessari per poterlo superare. Per me Beyond, il termine “oltre”, è un contenitore e in un certo senso ci mettiamo dentro sia il limite sia il mezzo per superare questo limite” ha dichiarato Luca Parmitano.

Luca Parmitano – Fonte: ciakmagazine.it

Sulle tracce di Goethe in Sicilia

L’appuntamento successivo si è incentrato sul documentario Sulle tracce di Goethe in Sicilia (2020), del regista tedesco Peter Stein, che ha ripercorso le tappe del poeta connazionale attraverso l’occhio della telecamera. Il tema principale che merge dal diario di viaggio di Goethe è soprattutto la contraddizione tra la bellezza dell’Isola e le condizioni di vita della popolazione. Stein ha preso ispirazione proprio della bellezza dei paesaggi siciliani immortalati su un libro di fotografie; ha sottolineato inoltre di aver un profondo legame con la nostra terra, che lo ha premiato varie volte.

Peter Stein (a destra) durante le riprese – Fonte: ciakmagazine.it

Salviamo gli elefanti

Tre “corti cinematografici” -che affrontano il tema dell’integrazione- sono stati posti al centro di uno degli appuntamenti: stiamo parlando di La bellezza imperfetta (2019) di Davide Vigore, Scharifa di Fabrizio Sergi e Salviamo gli elefanti (2021) di Giovanna Bragna Sonnino. Quest’ultimo in particolare è stato proiettato in anteprima al festival e acclamato con una moltitudine di applausi da parte del suo primo pubblico.

Il corto, nonostante la breve durata, è denso di significato e rappresenta aspetti significativi della società siciliana. I due protagonisti sono Agata, donna ignorante e con una mentalità molto chiusa, e Orlando, bambino di origini italiane nato a Nairobi. Orlando è in vacanza con la sua famiglia e nella confusione del mercato del pesce si perde. Sarà Agata a proteggerlo e a portarlo con sé; i due sono molto diversi e questo porta a una impossibilità di incomprensione tanto verbale quanto culturale. Orlando ama gli animali, è un bambino molto intelligente, vive in una famiglia normale. Agata vive in un substrato sociale completamente diverso: parla prevalentemente in dialetto, non riuscendo a parlare bene l’italiano, è molto diffidente nei confronti degli animali; lavora come donna delle pulizie. Nonostante i contrasti iniziali, alla fine i due riusciranno ad imparare l’uno dall’altro.

Salviamo gli elefanti porta una certa innovazione nel mondo dei cortometraggi: racconta le vicende di una Catania povera, di una donna che, come molte altre, è invisibile nella società. Qui il tema delle differenze socio-culturali porta all’integrazione, alla comprensione del diverso: l’essere umano è sempre portato a temere il diverso, ma è proprio da esso che si andrà ad imparare e ad ampliare le proprie vedute.

Locandina di “Salviamo gli elefanti” – Fonte: ciakmagazine.it

Lo schermo a tre punte

Conclude il ciclo di incontri di “Cinema e Sicilia” l’opera Lo schermo a tre punte, del regista bagherese Giuseppe Tornatore, che ha dialogato con uno degli organizzatori del Festival -tramite la piattaforma online “Zoom”- prima della proiezione del film. Con lo stesso metodo della scena conclusiva del suo masterpiece Nuovo Cinema Paradiso, il Maestro ha unito diversi frame, tratti da oltre un centinaio di film legati alla cultura siciliana.

Attraverso la suddivisone in capitoli, Tornatore si è focalizzato sugli elementi comuni più presenti nei numerosi film visionati; vi è, così, un capitolo dedicato ai gesti, ai codici e al linguaggio tipici della sicilianità, uno dedicato alla Storia, uno alle carte geografiche dell’Isola, uno alle donne siciliane, e così via.

L’opera, dunque, non è altro che un’enciclopedia della cultura cinematografica siciliana, in continua evoluzione; proprio a causa di questa espansione, il regista considera il suo lavoro incompleto e ha ammesso che se dovesse aggiungere un nuovo capitolo lo dedicherebbe alle nuove generazioni.

Nonostante il lungometraggio sia datato risulta ancora funzionale ed irripetibile, un’intuizione geniale che esalta una cultura peculiare, bastarda, ricca e affascinante come quella siciliana.

Giuseppe Tornatore al Taormina Film Fest – Fonte: ciakmagazine.it

 

Sofia Ruello, Mario Antonio Spiritosanto

 

Fonti:

https://www.ciakmagazine.it/ciak-taormina/

Immagine in evidenza:

Acquerello ispirato al viaggio di Goethe in Sicilia – Fonte: ciakmagazie.it

 

Paolo Sorrentino: la grande bellezza del cinema italiano

Buon compleanno, Paolo Sorrentino!  Regista, sceneggiatore, scrittore o semplicemente grande artista del cinema contemporaneo italiano, il cineasta compie oggi 51 anni. Per festeggiarlo ripercorriamo un po’ la sua brillante carriera cinematografica e soprattutto presentiamo la sua pellicola più nota e vincitrice di molti premi, tra cui un Oscar: La Grande Bellezza.

Paolo Sorrentino: grande artista orgoglio italiano

fonte: cinema.fanpage.it, il regista con il suo premio Oscar

Il regista nasce a Napoli il 31 maggio del 1970; a soli 17 anni perde entrambi i genitori in un incidente stradale. Inizia a coltivare la sua passione per il cinema solo dopo aver lasciato l’Università.

Nell’Agosto 2001, esce nelle sale il suo primo lungometraggio, L’uomo in più, con il quale il regista inizia una lunga collaborazione artistica con l’attore Toni Servillo, autentico interprete di molti dei personaggi scritti e ideati da Sorrentino. Il film ottiene diverse nomination al Festival del cinema di Venezia e per i Nastro d’Argento a Taormina.

La coppia Sorrentino-Servillo trionfa nuovamente nel 2004 con la pellicola Le conseguenze dell’amore, la quale vince ben 5 David di Donatello e 4 nastri D’argento.

Nel 2011 il regista si dedica al suo primo film in lingua inglese: stiamo parlando di This must be the place, con protagonista Sean Penn e la ormai nota Frances McDrmand.

Il 2014 è l’anno in cui il regista tocca l’apice della sua carriera artistica con il suo capolavoro: La Grande Bellezza. La pellicola vince anche il premio Oscar per il miglior film straniero (è stato l’ultimo film italiano ad essere candidato ed a vincere in questa categoria dal 2014 ad oggi).

La Grande Bellezza

Fonte: infooggi.it- Locandina del film

Finisce tutto così, con la morte. Prima però c’era la vita, nascosta dal bla bla bla..

Il vuoto e la vanità di una vita mondana, fatta di soli vizi e sfrenatezza: questo il punto focale, il vero messaggio di questo capolavoro cinematografico. La trama è effettivamente molto semplice e priva di importanti azioni o colpi di scena. Il film narra le vicende della classe ricca e mondana  di Roma, in particolare del giornalista e mancato scrittore Jep Gambardella, interpretato da Toni Servillo. Racconta sogni infranti, come quelli di Romano, amico di Jep , venuto a Roma in gioventù per diventare uno scrittore teatrale; vite devastate, come quella di Stefania (Galatea Ranzi), che cerca di distaccarsi dagli altri credendosi migliore, ma alla fine deve confrontarsi con i suoi fallimenti, come scrittrice, come madre e come donna.

 

Il cast comprende, oltre all’attore protagonista per eccellenza dei film di Sorrentino, molti interpreti italiani, tra cui Carlo Verdone, Sabrina Ferilli e Carlo Buccirosso, per una produzione pienamente made in Italy.

La Grande Bellezza, oltre all’Oscar come miglior film straniero, viene premiato in molti tra i più importanti Festival del cinema, quali i Golden Globe, gli European Film Awards e i David di Donatello.

Jep Gambardella: il re dei mondani

fonte: ciakclub.it, il protagonista Jep Gambardella

A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: “La fessa”. Io, invece, rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. La domanda era: “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?” Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella.

Jep Gambardella è l’emblema della mondanità: con il suo garbo e il suo fascino, vive di feste e pura superficialità per evitare di confrontarsi con la realtà della sua vita vuota. Egli però, a differenza di tutti gli altri, è un osservatore, vede le verità di chi lo circonda e, con un umorismo che lascia una certa amarezza, riesce a portarle alla luce.

In gioventù ha pubblicato un solo libro, per poi abbadnonare la scrittura: per scrivere e ritrovare “la grande bellezza” dve prima trovare il senso della sua esistenza.

Diversa si rivelerà la sua relazione con Ramona, spogliarellista figlia di un suo vecchio amico; grazie a lei, Jep inizierà a riflettere e a voler cambiare la sua realtà.

Un film che lascia un messaggio

La grande bellezza, oltre ad essere una grande pellicola riconosciuta anche a livello internazionale, lascia al pubblico una speciale consapevolezza sulla propria esistenza. In fin dei conti, non sono i soldi e gli eventi chic a fare la felicità, ma le esperienze che facciamo e le relazioni autentiche che abbiamo con i nostri cari a rendere la vita veramente degna di essere vissuta.

                                                                                                                                                                  Ilaria Denaro 

 

Nomadland: 3 Oscar per una pellicola “d’autrice”

 

Uno dei migliori film di quest’anno. Il cinema d’autore paga ancora: Hollywood riconosce i meriti di un film diverso dal solito e attuale- Voto UVM: 5/5

Nomadland si presenta da pellicola a basso budget: “soltanto” tra i quattro e i sei milioni di dollari spesi per produrla. Firmata dalla regista cinese Chloè Zhao, la prima asiatica ad ottenere un Oscar per la miglior regia e la seconda donna dopo Kathryn Bigelow (vincitrice con The Hurt Locker), Nomadland si è confermato vincitore di ben altri due premi Oscar, tra cui quello per miglior film; la terza statuetta va invece alla francese Frances McDormand, miglior attrice protagonista.

La pellicola ottiene inoltre l’ambitissimo e prestigioso Leone d’oro della Mostra Internazionale Cinematografica di Venezia, kermesse che si tiene nella Serenissima ogni due anni.

Nomadland: locandina. Fonte: cnn.com

La pellicola si basa  sul libro-inchiesta dall’omonimo titolo della giornalista statunitense Jessica Bruder; l’autrice scrive delle  storie di moderni nomadi Usa: la Bruder ha infatti vissuto per alcuni mesi a bordo di un camper, seguendo i viaggiatori lungo i loro itinerari.  Il periodo storico di riferimento è quello della crisi del 2008, innescata dal crack dei Sub-Prime.

Il film inizia con la ripresa in primissimo piano della protagonista Fern (Frances McDomand), cittadina del centro industriale di Empire, Nevada. Lo stabilimento di cartongesso “US Gypsum”, fulcro dell’economia locale, è costretto a chiudere i battenti a causa della scarsa domanda del prodotto; via via il centro si spopola, i negozi abbassano le serrande e Fern, perso il marito per un tumore, acquista un furgone e decide di abbandonare la città ormai quasi fantasma.

Quello della protagonista è un personaggio di finzione ma molto simile ai tanti “nuovi nomadi” americani descritti nel libro. Empire è altresì tanto simile a una di quelle città fantasma del West, ormai parte dell’immaginario collettivo di qualsiasi spettatore. Questo film d’autore potrebbe apparire un Western con al posto dei cavalli, furgoni e camper, anziché yankee, pistoleri cittadini che hanno superato la mezza età alla ricerca di un nuovo impiego o alle prese con  viaggi esistenziali.

La precarietà della vita nei camper, spesso fatta di sopravvivenza e sacrifici, è ripagata dai giorni trascorsi nella libertà dalla dipendenza dal denaro e dalle cose materiali, dal giudizio o buonismo di una parte della società borghese, temi che la regista asiatica affronta, senza mai sfociare in un’aperta critica al sistema borghese-capitalistico. A parlare saranno i racconti e le opinioni dei personaggi, fieri nella loro compostezza, sempre orgogliosi seppure provati – chi più chi meno – dalla vita.

A fare da leitmotiv della pellicola la fotografia del film e le riprese in primissimo piano dei personaggi, che andranno via via allargandosi con il dipanarsi della trama.

Uno dei primissimi piani di Fern, firmati Zhao. Bravissima l’attrice nella resa delle emozioni. Fonte: WordPress.com

Da subito emerge il contrasto/complementarietà fra i primissimi piani e le riprese lunghe se non lunghissime di straordinari paesaggi americani. Entrambi i tipi di ripresa faranno sì che chi guarda possa quasi sentirsi dentro la pellicola, quasi a peregrinare con la protagonista per gli States.

Fern trova lavori saltuari, tra i quali il più amato sembra essere l’impiego nella catena di impacchettamento di Amazon. Terminato il contratto sarà costretta a ripartire alla ricerca di nuove precarie occupazioni. La donna si districherà infatti fra lavoretti nell’ambito dell’agricoltura, paninoteche, pulizie, nonostante i 60 anni suonati, per poi far ritorno al colosso di Jeff Bezos.

Anche qui Zhao non vuole strizzare un occhio ai tanti critici di Amazon e del capitalismo, nonché alle lamentele dei lavoratori e l’azienda viene piuttosto mostrata come un gigante buono che offre lavoro dignitoso, dai ritmi umani, che pagherà a Fern persino il campeggio del suo furgone. Diversamente quindi, per citare un caso, dal film Furore (1940), che mostrava la crudezza dello sfruttamento dei lavoratori di inizio ‘900.

Nomadland non è un film di denuncia del capitalismo o il racconto di una società o di singoli personaggi in fuga. La pellicola narra piuttosto di persone ordinarie che vogliono vivere la vita diversamente. Mai appaiono eccentriche o strane, ma anzi serie e compite, fiere anche se provate. Decise ad andare avanti nel loro percorso alternativo.

Qualcuno fra i personaggi parla contro il capitalismo, contro il consumismo. Sarà Bob (Bob Wells), leader e sorta di santone di un campo di “nomadi” a spiegare : «Siamo rifiuti, ci hanno sfruttato e buttato via.» ma ancora con un tono di fiera compostezza, privo di isterismi, volgarità, rabbia eccessiva.

Nomadland è un film da vedere, anzi da gustare con calma e attenzione prendendosi il giusto tempo. Un lungometraggio dal sapore intimista, che riesce a mescolare bene dolce e amaro della vita senza scadere nella banalità di scene già viste e frasi già sentite. Non può certamente che meritare i tre premi Oscar, il Leone d’Oro e i nostri 5 punti.

Un esempio di una ripresa con una maggiore profondità; a fare da sfondo il sorgere o il tramontare del sole. Fonte: cloneweb.net

Marco Prestipino

 

 

 

Oscar 2021: ecco cosa è successo nella notte più attesa dagli amanti del cinema

Gli Oscar di quest’anno sono stati senza dubbio inusuali rispetto agli standard soliti dell’Accademy: la cerimonia si è infatti svolta in differenti location, data l’impossibilità per molti dei protagonisti di viaggiare o anche solo di potersi riunire nella normale location del Dolby Theatre.

L’evento

La cerimonia si è infatti svolta in diverse sedi: il Dolby Theatre e la Union Station a Los Angeles, più svariati altri luoghi da cui gli attori hanno ricevuto i loro premi. Tutto ovviamente per assicurare il rispetto delle norme anti Covid e garantire allo stesso tempo la presenza fisica degli invitati alla cerimonia: la loro assenza è infatti costata cara ad altri eventi come i Golden Globe, che hanno visto più che dimezzato il proprio pubblico.

Il Dolby Theatre, tradizionale scenario della magica notte degli Oscar. Fonte: flickr.com, © 2016 American Broadcasting Companies

Un’altra innovazione rispetto ai precedenti anni è stato anche il ritmo dell’evento stesso, che si è rivelato essere molto più incentrato sui premi stessi: si è scelto infatti di eliminare le gag tra un premio e l’altro che costituivano prima parte integrante dello show, così come si è scelto anche di rivedere l’ordine delle premiazioni in sé: il miglior film è stato infatti eletto quasi all’inizio della serata in contrasto con la convenzione che lo vede come “portata finale”, persino in eventi che prendono gli Oscar ad esempio.

I film

I lungometraggi più importanti quest’anno sono senza alcun dubbio quelli candidati come miglior film: Nomadland racconta la storia dei nuovi nomadi americani, che colpiti dalla grave crisi economica del 2008 si ritrovano ad affrontare una nuova vita senza fissa dimora; The sound of metal racconta poi il tema della sordità di un musicista, Minari quello del pregiudizio razziale, mentre Mank e Una donna promettente raccontano rispettivamente la storia dello sceneggiatore di Quarto Potere e di una donna che porta avanti una vendetta per la violenza di cui è stata testimone.

I premi

Questa edizione ha visto come maggiori contendenti al più alto numero di statuette Netflix e Disney, che si sono alla fine spartiti tra loro due un totale di 12 premi, con Netflix che ha prevalso con  7 premi.

Importante caratteristica delle premiazioni di quest’anno è stata la grande inclusività: Chloé Zhao, regista di nazionalità cinese,  è stata la seconda donna nella storia dell’evento a vincere il premio come miglior regista; sono stati premiati anche Daniel Kaluuya come miglior attore non protagonista e il film Ma Rainey’s Black Bottom per miglior trucco e costumi, girato con un cast di personaggi interamente di colore. Ci si sarebbe aspettati anche un premio al compianto Chadwick Boseman, che è invece andato ad Anthony Hopkins eletto miglior attore protagonista per il film The Father. Anche il film Soul è stato eletto come miglior lungometraggio d’animazione avendo un protagonista di colore.

Anthony Hopkins, vincitore dell’Oscar come miglior attore protagonista per la sua interpretazione in “The father”. Fonte: flickr.com

Il premio più importante come miglior film è stato poi dato a Nomadland, come tra l’altro molti pronosticavano. Il film ha anche raccolto il premio alla miglior attrice, donato a Frances McDormand.

A completare i premi i due alla miglior sceneggiatura, Una donna promettente e The Father, quello ai miglior effetti special per Tenet, e quello per la miglior attrice non protagonista dato a Yoon Yeo-jeong per la sua performance nel film Minari. Nulla da fare invece per Laura Pausini, con il trionfo di Fight for You.

I protagonisti

Un altro elemento di rottura rispetto alle edizioni precedenti è stata la presenza di più conduttori della serata, diversamente dal singolo che di solito presenta sul palco: la cerimonia è stata fatta partire da Regina King e proseguita poi da attori come Brad Pitt e Harrison Ford, in continuazione della tradizione che vede i precedenti premi Oscar premiare i nuovi vincitori.

Chloe Zhao, vincitrice dell’Oscar “miglior regia” per “Nomadland”. Fonte: Vegafi, wikimedia.org

Oltre ciò però la serata ha sicuramente sancito per l’industria un ritorno che si speri continui con la riapertura delle sale, perché come ha anche detto Chloé Zhao questo medium vive nei cinema e sul grande schermo. Quella che stiamo vivendo deve limitarsi ad essere solo, per quanto lunga e dolorosa, una parentesi.

 

                   Matteo Mangano

Mank, affari da vecchia Hollywood

Un elegante “metafilm” che mette – forse – una pietra sopra le controversie legate al capolavoro “Quarto Potere” – Voto UVM: 4/5

Le vicende di Hollywood spesso nascondono delle storie avvincenti che soprattutto negli ultimi anni molti registi hanno deciso di raccontare.

Basta pensare a Once Upon a Time … in Hollywood (2019), L’ultima parola: la vera storia di Dalton Trumbo (2015) o Ave, Cesare! (2016) dove vengono rappresentati i meccanismi della vecchia Hollywood.

Il regista David Fincher ha deciso di entrare a far parte di questa lista con Mank (2020) ricostruendo la genesi di uno dei migliori film della storia del cinema: Quarto potere (1941). Proprio questa pellicola è stato inserito dall’American Film Institute al primo posto della AFI’s 100 Years… 100 Movies, ovvero la lista dei cento film americani più importanti di sempre, resistendo anche ai successivi aggiornamenti della classifica con film più recenti.

Oltre alle varie controversie legate alla genesi di Quarto Potere, ecco perché è valsa la pena girare (e vale la pena guardare) “un film su un film”.

La locandina del film – Fonte: netflix.com

Trama

Nel 1940 al drammaturgo e sceneggiatore Herman Mankiewicz, soprannominato da tutti “Mank” (Gary Oldman), viene commissionata la stesura del copione di Quarto potere direttamente da Orson Welles.

Il protagonista viene spedito in una casa di campagna così da non avere distrazioni durante il lavoro, che dovrà essere ultimato in soli 60 giorni. Oltre all’ostacolo del tempo fortemente limitato, il protagonista deve fare i conti anche con la propria gamba, infortunatasi in seguito ad un incidente stradale avvenuto pochi giorni prima, che lo obbliga a stare a letto.

Mank non è certo privo di compagnia in quanto viene assistito da un’infermiera e dalla propria dattilografa.

Una delle scene più emblematiche di Quarto potere – Fonte: lascimmiapensa.com

Nel corso del film vi sono dei lunghi flashback dove viene mostrata la sua vita durante gli anni 30.

Era un uomo estremamente colto, capace in pochi istanti di riuscire a sorprendere e di farsi apprezzare da personaggi illustri dell’epoca come Irving Thalberg, David O. Selznick, Marion Davies e molti altri.

Vengono mostrati anche gli incontri con il suo amato fratello Joseph, anch’egli sceneggiatore, ed il suo ufficio ai tempi in cui lavorava per la Paramount. Una volta concluso il copione Mank inizia a riflettere sul suo operato.

A causa del contratto sottoscritto con la produzione, lo sceneggiatore non potrà comparire nei titoli di coda di Quarto potere. Quando si accorge però di aver creato lo scritto migliore della sua vita si scontrerà con Orson Welles.

Cast

Di Gary Oldman abbiamo già avuto modo di parlare qui.

L’attore in questo film è stato calato in un universo all’interno del quale vige una perfetta armonia: gli impeccabili dialoghi scritti da uno straordinario Jack Fincher (padre del regista David) e le altre interpretazioni del cast hanno permesso a Gary  non solo di poter recitare serenamente ma anche di potersi spingere oltre.

Gary Oldman nei panni di Herman Mankiewicz – Fonte: ddatalent.com

Immedesimato al massimo nella parte, riesce nel dar vita ad un personaggio profondamente complesso.

Un uomo raffinato ed incredibilmente intelligente ma incapace di rinunciare ai vizi, che si sente in una trappola da lui costruita e nella quale ripara egli stesso ogni buco per poter fuggire.

Non a caso l’attore è candidato come miglior attore protagonista agli Oscar 2021.

Di primaria importanza anche la prova dell’attrice di Amanda Seyfried nei panni di Marion Davies la quale ha interpretato in maniera eccelsa la diva del cinema servendosi principalmente di una tecnica d’espressione facciale degna di nota.

Regia

Così come è stato per The Irishman (2019) di Martin Scorsese, ancora una volta è grazie solo ed esclusivamente all’intervento di Netflix se oggi possiamo assistere a questa pellicola.

Il progetto di Mank venne creato dal padre del regista Jack Fincher ed ultimato nel 2003, ma tutte le case di produzione lo rifiutarono (mentre ora è candidato a 10 Oscar).

David Fincher ha deciso di realizzare il film totalmente in bianco e nero e di adottare tecniche di ripresa ed inquadrature tipiche degli anni 30 per dar vita ad un’atmosfera fortemente retrò in cui lo spettatore si immedesima, calandosi maggiormente nella storia.

David Fincher e Gary Oldman sul set di Mank – Fonte: derzweifel.com

La struttura narrativa è fortemente ispirata a quella proprio di Quarto potere in quanto non segue uno schema lineare, bensì è caratterizzata da vari intervalli in cui sono stati montati i flashback del protagonista così da creare dei continui sbalzi temporali.

La storia raccontata in Mank è un misto tra eventi reali e fantasia.

L’assoluta verità sul ruolo che ebbe Orson Welles sulla stesura di Quarto potere non ci è pervenuta, ma ciò che ci è giunto fortunatamente è questa pellicola. Ogni amante del cinema si augura di vederne di simili il prima possibile.

Vincenzo Barbera

 

 

Ma Rainey’s Black Bottom, una storia raccontata dal blues

Una produzione Netflix tutta da vedere: sarà rivelazione agli Oscar?- Voto UVM: 4/5

Prima ancora di Billie Holiday, Nina Simone ed Etta James c’era una sola diva del blues: Gertrude detta “Ma Rainey”, cantante afroamericana dei ruggenti anni ’20. Detta la “madre del blues”,  di fatto battezzò il genere; il suo è un grande nome ormai destinato a cadere nell’oblio se non fosse per la recente pellicola di Netflix, Ma Rainey’s Black Bottom. Prodotto da Denzel Washington, diretto da George C. Wolfe e in concorso agli Oscar per ben cinque statuette (miglior attore protagonista, migliore attrice protagonista, trucco, costumi e scenografia) il film merita di essere visto per tanti motivi.

Dramma, pathos e “talking blues”

Se esistesse la categoria “miglior soggetto” agli Oscar, state certi che il film di Wolfe sarebbe in concorso anche per quella, proprio per la sua storia originale e sui generis. Quando si tratta di star della musica, infatti, portarle al cinema spesso significa dimenticarsi dell’arte e concentrarsi su gossip e vicende private, riducendo tutto alla famigerata triade “sesso, droga e rock’n’ roll”(anche per gli artisti che non sono “rock”). Ma Rainey’s Black Bottom non è niente di tutto ciò! E non perché sia una smielata favola su una grande artista afroamericana di successo in un’America tutt’altro che propensa a dare ai neri successo. Non perché sia un film con tanto di happy ending, privo di drammi, rabbia e violenza, anzi.

La diva Ma Rainey (Viola Davis) assieme ai membri della band in sala incisione. Fonte: blog.ilgiornale.it

Il film di Wolfe, più che della diva Ma Rainey e della sua vita, parla della storia di una canzone, appunto Black Bottom. Parla di blues, che non è solo un genere musicale: è un grido di dolore, è vita vera che scorre nelle vene degli afroamericani e nelle loro storie di subita sopraffazione che vengono fuori dalle parole dei personaggi, dai loro monologhi profondi e densi di pathos, fluidi come canzoni, accompagnati in sottofondo dalle note degli strumenti, che siano piano, tromba o contrabasso. Un blues che parla (si potrebbe azzardare “talking blues”) è quello dei dialoghi del film, tratti dall’omonimo dramma teatrale di August Wilson.

Proprio come le grandi tragedie antiche, infatti, la  maggior parte della vicenda è concentrata in una sola giornata e in un unico luogo: lo studio discografico in cui viene incisa la famosa canzone. Storcono il naso gli amanti dell’azione: in Ma Rainey non succede – quasi – nulla o meglio, la maggior parte di ciò che accade è solo ricordato nei racconti dei quattro membri della band, talmente vividi da permetterci quasi di vederli raffigurati sullo schermo. Leeve (Chadwick Boseman), Toledo (Glynn Turman), Cutler (Colman Domingo) e Slow Drag (Michael Potts) si riuniscono in sala prove, suonano e risuonano i brani tra scherzi e diverbi finché non arriva Ma (Viola Davis) che dà il via alle danze e si parte con l’incisione.

Da sinistra a destra: Toledo (Glynn Turman), Levee (Chadwick Boseman) e Slow Drag (Michael Potts) provano i pezzi. Fonte: nonsolocinema.com

Grandi interpreti in spazi ristretti

Nonostante il film possa apparire limitato nello spazio (e anche nel tempo, con soli 93 min di durata) è proprio attraverso una storia all’apparenza statica che emerge la bravura degli attori in scena: Viola Davis sprigiona tutta la rabbia di una cantante afroamericana che si sente sfruttata dal suo agente, “addolcita” dallo stesso solo al fine di trarne profitto.

Da lei ci aspettavamo una performance esattamente di questo tipo: anche quando il trucco viene rovinato dal calore insopportabile della Chicago anni ’20, Ma è una donna forte, che ama realmente la sua musica e che non ha paura di puntare i piedi per farsi rispettare, sia dagli altri membri della band che da agente e produttore. Le movenze e la mimica facciale dell’attrice rispecchiano in pieno il carattere forte della protagonista, fruttandole una meritata nomination come migliore attrice protagonista.

Viola Davis e Chadwick Boseman sul set – My Red Carpet

Ancor più sorprendente è la prova attoriale del compianto Chadwick Boseman, nei panni dell’alternativo trombettista Levee, che già gli è valso un Golden Globe postumo. Nella narrazione possiamo considerare questo personaggio come l’opposto di Ma: innovatore e fuori dagli schemi, vuole rompere con le sue melodie il “classicismo” della cantante, arroccata sulle sue posizioni storiche e tradizionali.

Ma non sono le scene che rappresentano questo dualismo le più significative dell’attore: la voglia di rivalsa e indipendenza, con il sogno di fondare una sua band, fanno da cornice a una storia disperata di violenza, che ha spaccato la sua famiglia quando era solo un bambino, lasciando un segno indelebile e forse mai elaborato dal personaggio. L’attore riesce al meglio a immedesimarsi sia nel lato spensierato e gioviale del trombettista, che in quello triste e tormentato: un mix che meriterebbe l’Oscar.

Simbolismo della pellicola

Due sono i simboli che spiccano sulla scena: il caldo, che diventa quasi un personaggio vero e proprio, invadente e “palpabile” (soprattutto su Ma) in quasi tutte le scene. Sembrano però soffrirne solo i personaggi di colore, che spesso non riescono ad aprire i ventilatori e ad alleviare questo fastidio evidente: sembra quasi simbolo dell’oppressione e delle sofferenze che gli afroamericani hanno dovuto patire, espresse esplicitamente nelle storie raccontate dei personaggi.

Il secondo è una porta chiusa, che Leeve cerca continuamente di aprire senza successo: alla fine riuscirà a vedere cosa c’è dietro, grazie alla sua caparbietà; a voi l’interpretazione su cosa troverà dietro essa, metafora sul cosa gli ha fruttato il suo comportamento.

La vera Ma Rainey con la sua blues band. Fonte. cineavatar.it

C’è una lunga storia dietro una canzone, spesso ignorata dal grande pubblico e lasciata solo alle ricerche di appassionati del settore: il film la riporta alla luce rendendola il perno attorno cui ruotano altre storie; allo stesso tempo resta un lieve rammarico per la breve durata del film, che lascia lo spettatore desideroso di continuarne la visione. Ma Rainey’s Black Bottom parla di musica, sì, ma non trascura i drammi sociali del tempo, dà loro voce attraverso la musica stessa, attraverso quel blues che è “un modo di comprendere la vita”, una filosofia che i bianchi non sembrano capire, ma di cui hanno un disperato bisogno.

Sarebbe un mondo vuoto senza il blues. Già, io cerco di afferrare quel vuoto e poi cerco di riempirlo. Non sono stata la prima a cantare così. Il blues c’è sempre stato.

Angelica Rocca, Emanuele Chiara

Pieces of a woman: tra arte e dolore

Vanessa Kirby suprema nel trasmettere al pubblico il dolore di una madre – Voto UVM: 4/5

Continuiamo la nostra rassegna sugli Oscar con la pellicola Pieces Of a Woman disponibile su Netflix e diretta da Kornél Mundruczó. Stavolta non tratteremo la categoria “miglior film”, bensì quella “miglior attrice protagonista”: infatti la splendida Vanessa Kirby è in gara per l’ambita statuetta con altre grandi attrici. Il suo talento e la sua interpretazione l’hanno portata fino al più famoso red carpet al mondo: il film è stato infatti presentato per la prima volta alla settantasettesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia dove la Kirby si è aggiudicata il premio per la miglior interpretazione femminile

Trama

Chi se ne importa cosa pensano? Si tratta di me. Si tratta della mia vita.

Il film si apre con la stagione autunnale e  racconta la storia di una donna di nome Martha (Vanessa Kierby) che assieme al suo compagno di nome Sean (Shia LaBeouf) sta aspettando il suo primo figlio o – in questo caso –  figlia. Martha, ha deciso che il lieto evento sarà a casa, lontano dal “bianco” dell’ospedale.

Vanessa Kirby e Shia LaBeouf in una scena del film. Fonte: screenmovie.it                           

I due futuri genitori si sono affidati a una levatrice di nome Barbara, ma quest’ultima non si presenterà e manderà una sostituita di nome Eva (Molly Parker). Da quel momento in poi il film assume una piega inaspettata; si percepisce tensione: lo spettatore è proiettato all’interno della stanza accanto ai protagonisti, ma allo stesso tempo si sente come se fosse costretto a guardare senza far nulla.

 Martha comincerà a sentire dolore ed una forte nausea ed Eva noterà che il battito cardiaco della bambina è sceso. Sean e Eva insistono per andare in ospedale, ma Martha è ferma sulla sua scelta e il parto continua a casa. Darà alla luce una bambina: lo spettatore dall’altro lato dello schermo sorride! Attimi dopo però la neonata diventa blu ed Eva cercherà di rianimarla, ma sarà tutto inutile e poco dopo la bambina morirà per arresto cardiaco.  

E non posso farla tornare.

Da quel momento in poi  Martha e Sean percorreranno un tunnel di cui non si intravede la fine, ma solo dolore e angoscia: pian piano cominceranno ad allontanarsi l’uno dall’altra, il loro amore si trasformerà in un odio profondo e finiranno per detestarsi. La perdita profonda si intreccerà con l’egoismo dei familiari che, invece di aiutare, abbatteranno ancor di più Martha, trattando il suo dolore con mera sufficienza. 

In campo clinico certe cose sono un mistero.

Ormai lontana da tutto e da tutti, Martha  dovrà uscire da sola da quella sofferenza disumana.

Martha isolata da tutti. Fonte:s.yimg.com                 

Tra arte e  simbolismo

Il film è accompagnato da tre simboli: la mela, le stagioni e il ponte.

Il ponte rappresenta l’inizio e la fine del film ma, in special modo, l’accettazione della perdita della bambina: difatti in una scena del film vedremo Martha che spargerà le ceneri della sua piccola bimba proprio da un ponte. Proprio qui si comprende che non si può rimanere aggrappati al passato e al dolore, sebbene a quest’ultimo non si può porre fine, ma soltanto cercare di accettarlo.

A volte la forza della risonanza può far cadere anche un ponte.

La mela rappresenta la maternità, che la nostra Martha non ha potuto vivere a  360 gradi. In una scena del film vediamo la protagonista che percorre il reparto di un supermercato e la sua attenzione è rivolta verso le mele: le esamina e le osserva con attenzione. Tantissime sono poi le scene in cui la vediamo mangiare il frutto fino al torsolo fino a conservanee i semi e decidere di farli germogliare: l’operazione finale avverrà con l’accettazione del lutto.

Martha con una mela in mano. Fonte: metropolitanmagazine.it

Le stagioni saranno un nodo fondamentale per tutto l’arco temporale dell’opera: difatti il film inizia con l’autunno che rappresenta la morte, poi arriverà l’inverno che rappresenta la depressione (infatti  vedremo Martha e Sean ormai lontani e freddi fra di loro), infine ci sarà la primavera che rappresenta l’accettazione e, come i germogli della mela, Martha sarà pronta ad andare avanti.

L’arte si intreccia con questo film: Martha sfrutta dei simboli per superare il proprio dolore, giacché è sola e si rifugia all’interno di questi oggetti inanimati, redendoli vivi.

Questo film non ha niente che vedere con la resilienza, ma tutto il contrario. Ci mostra come il dolore delle volte ci trascini fino allo sfinimento, rendendoci degli esseri alienati. Vanessa Kirby è riuscita a far immedesimare il pubblico e renderlo partecipe del dolore di Martha.

                                                                                                                                       Alessia Orsa

Aspettando gli oscar 2021: i migliori premi oscar degli ultimi dieci anni

L’attesa ormai è quasi finita: manca solamente un mese a gli Oscar 2021! La premiazione, inizialmente programmata per il 28 Febbraio,  si terrà il 25 Aprile (notte del 25/26 in Italia). La cerimonia assume un significato molto importante quest’anno: il mondo dello spettacolo e del cinema è uno dei settori messi maggiormente in difficoltà dall’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, quindi gli Oscar simbolizzano la ripresa della settima arte e magari anche una piccola boccata di normalità.

In ogni caso in attesa degli Oscar 2021, in questo articolo andremo a volgere un occhio alle passate edizioni, presentando i migliori film e artisti che sono stati onorati con la statuetta negli ultimi dieci anni.

 Miglior film

Il discorso del re: locandina. Fonte: mediasetplay.it

La categoria più importante e rinomata nella cerimonia degli Oscar è senza dubbio la categoria miglior film. Negli ultimi dieci anni grandi capolavori del cinema contemporaneo hanno vinto questa statuetta, tutti con un messaggio o una scintilla in più di altri.

Tra questi uno che merita una particolare attenzione è Il Discorso del re (The King’s speech), presentato a gli Oscar nell’edizione del 2011. Il film conta ben dodici candidature e altre tre vittorie: miglior attore protagonista a Colin Firth nei panni di re Giorgio VI, miglior sceneggiatura originale e miglior regia a Tom Hooper.

Il discorso del re racconta i problemi di balbuzie di Giorgio VI, re d’Inghilterra durante la Seconda guerra mondiale, e l’aiuto  datogli dal logopedista Lionel Logue, interpretato dall’attore Geoffrey Rush. Tale aiuto permetterà a re Giorgio di pronunciare a tutta la nazione la dichiarazione di guerra alla Germania e la conseguente entrata nel secondo conflitto mondiale.

 Miglior attore protagonista

Una scena del film La Teoria Del Tutto. Fonte MYmovies.it

La categoria miglior attore protagonista è stata costellata negli ultimi dieci anni principalmente da nuove star emergenti, ma anche da attori già affermati che magari attendevano un bell’Oscar da qualche anno (come Leonardo Di Caprio).

In ogni caso una performance che brilla più di altre è l’interpretazione del noto scienziato Stephen Hawking da parte dell’attore Eddie Redmayne ne La Teoria Del Tutto (The Theory of Everything), presentato e premiato a gli Oscar nel 2015. Oltre ad essere un’enorme responsabilità portare sul grande schermo una così importante figura della fisica e astrofisica contemporanea, questo ruolo è molto impegnativo anche per il dover riprodurre l’avanzare della malattia da cui lo scienziato era affetto: la SLA.

Per questo motivo, Eddie Redmayne, per rendere la sua performance più realistica possibile, ha incontrato lo stesso Hawking e decine di pazienti affetti da SLA, per emularne l’aspetto e la mimica al meglio.

Lo stesso scienziato successivamente si complimenterà con lui per la sua interpretazione tanto precisa e veritiera.

 

 Miglior attrice protagonista

Mildred (Frances McDormand) davanti ai suoi manifesti. Fonte milanoweekend.it

Adesso passiamo al premio per miglior attrice protagonista. Questa categoria è senza dubbio caratterizzata dalle grandi interpretazioni di donne forti e determinate.

Tra queste, l’attrice che ha maggiormente meritato il premio Oscar è Frances McDormand per la sua performance in Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri) nel 2018. Il film, scritto e diretto da Martin McDonagh, racconta le vicende di una madre, Mildred Hayes (Frances McDormand) che chiede giustizia per la morte della figlia, violentata e uccisa. Mildred si schiera con forza contro la polizia locale e lo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson) per non essere riusciti ad agire in nessun modo e, affittando dei manifesti pubblicitari, ne denuncia pubblicamente la negligenza.

Il personaggio della Mcdormand spicca per la sua forza, per la determinazione nell’opporsi a tutto e tutti affinché la sua voce venga ascoltata . Il film inoltre ottenne altre cinque candidature: l’attore Sam Rockwell vinse l’Oscar come migliore attore non protagonista nel ruolo di Jason Dixon, poliziotto nemico di Mildred con radicali idee razziste.

A conferma della sua grande capacità e passione, la McDormand è stata ricandidata quest’anno alla medesima statuetta per il film Nomadland. 

Per concludere

Con questo articolo abbiamo voluto presentare alcune delle grandi pellicole e dei grandi artisti premi Oscar di questo ultimo decennio anche per sfatare una visione comune: si tende generalmente a pensare che il grande cinema si basi solamente sui cari e vecchi cult… ma il cinema è un’arte in continua evoluzione, che tende a rispecchiare la nostra realtà che cambia. Quindi per quanto i cult siano la storia del cinema, certamente le pellicole contemporanee ne sono delle degne eredi.

Ilaria Denaro

 

La stella polare del cinema: Stanley Kubrick

Oggi 22 anni fa ci lasciava colui che – dalla maggior parte degli amanti del cinema – è considerato il miglior regista di sempre.

Genio e sregolatezza, gentile ma maniacale, imprevedibile e audace, Stanley Kubrick ha incantato il pubblico e la critica mediante i suoi film.

Noi di UniVersoMe vogliamo rendergli omaggio andando ad analizzare tre dei suoi più grandi lavori.

Stanley Kubrick – Fonte: greenme.it

Arancia Meccanica (1971)

Kubrick in questa pellicola non ha fatto sconti a nessuno, infatti se c’era qualcosa di violento da mostrare lui lo ha enfatizzato.

Concentriamoci ad esempio sull’agghiacciante scena dello stupro.

Una delle azioni di per sé più vili che un individuo possa mai commettere, nel film viene rappresentata con tutta la brutalità tipica di questo malsano gesto e viene resa esponenzialmente ancor più disturbante dalle note di Singing in the rain cantate dal protagonista Alex DeLarge (Malcolm McDowell).

Originariamente l’attrice di questa scena era un’altra, la quale fortemente provata dall’intensità della scena e stremata dagli infiniti ciak girati dal regista (famoso per arrivare a girare una medesima scena anche 150 volte) decise di lasciare il ruolo ad Adrienne Corri.

La maniacalità di Stanley sul set per poter ottenere il massimo anche nei dettagli è una caratteristica che di certo lo contraddistingue dagli altri colleghi.

Dagli antefatti che precedono la scena dello stupro però emerge un altro elemento fondamentale del genio di Kubrick, ovvero il saper ascoltare il proprio istinto. Da copione infatti Alex non doveva cantare nulla inizialmente, poi proprio sul set al regista venne in mente di accompagnare musicalmente la scena dandole una vena maggiormente inquietante.

L’attore iniziò ad improvvisare la prima canzone che gli passò per la testa e così nacque una delle scene più iconiche della storia del cinema: il drugo stupra una donna mentre canticchia con disinvoltura come se fosse un’azione normale della sua quotidianità.

Il capo dei drughi Alex DeLarge (Malcolm McDowell) – Fonte: leitmovie.it

Il regista era solito  avere dei contrasti con gli attori sia perché cambiava continuamente i copioni (come in Shining) sia perché li costringeva ad effettuare gesta particolarmente pericolose.

Durante le sedute della cura Ludovico, Alex era obbligato a guardare scene di film assai violente sotto le note della sua amatissima Nona Sinfonia di Beethoven con gli occhi tenuti dolorosamente aperti da uno strano marchingegno.

L’attore è stato sottoposto realmente a quel trattamento ed il dottore che si vede nel film era un vero e proprio medico incaricato di inumidirgli i bulbi oculari mediante delle gocce, altrimenti sarebbe divenuto cieco (l’interprete comunque si ferì ad un occhio e perse la vista momentaneamente).

Il metodo è discutibile ma il risultato è certo: la sofferenza del personaggio non viene solo rappresentata ma viene anche provata dallo spettatore. Infine il montaggio di Arancia Meccanica, che da un punto di vista tecnico è impeccabile, permette di risaltare la comicità e l’enfasi in alcuni momenti cruciali della pellicola.

Shining (1980)

Alcuni elementi del lavoro di Kubrick in Shining li abbiamo già analizzati qui.

Molto spesso al giorno d’oggi purtroppo la pellicola viene declassata con la semplice motivazione che “non faccia così paura”.

Mettiamo subito in chiaro che non è un film ideato per spaventare, come un qualsiasi horror moderno pieno zeppo di jumpscare disseminati a caso ogni 2 minuti, ma è una pellicola basata sulla pazzia di un uomo che pian piano emerge fuori.

Ci sono certamente elementi paranormali e scene che comunque – tenendo conto dell’epoca in cui uscì la pellicola – hanno traumatizzato il pubblico, ma non è questo il tema centrale.

Jack Torrance (Jack Nicholson) leggermente indispettito – Fonte: lindiependente.it

Il regista con questo film ha creato un’opera d’arte della tensione. Le sequenze mostrate all’interno del film rappresentano perfettamente un’atmosfera carica di ansia e di imminente pericolo che, scena dopo scena, crescono sempre di più fino a culminare con lo sfogo violento del protagonista.

La scelta dei primi piani di un incredibile Jack Nicholson, le musiche ed i campi totali (una tipologia di inquadratura) costituiscono un patrimonio della cinematografia lasciatoci dal regista.

Full Metal Jacket (1987)

Penultima pellicola della breve filmografia di Kubrick.

Il film, basato sulla guerra del Vietnam, si articola in due parti: nella prima assistiamo agli esercizi ed ai metodi adottati dai marines americani per addestrare le truppe; nella seconda, ambientata sul fronte asiatico, viene rappresentata la crudeltà della guerra in sé per sé.

Il celebre sergente Hartman (Ronald Lee Ermey) mentre istruisce le nuove reclute – Fonte: gildavenezia.it

Accanto agli aspetti della vita militare, nel film vengono trattate tematiche psicologiche e viene lasciato ampio spazio a critiche sociali enormemente rilevanti soprattutto per l’epoca in cui venne proiettata la pellicola.

Kubrick tramite il film ha voluto esprimere la propria opinione sulla guerra, comunicandola con forte ironia mediante l’utilizzo del controsenso e proprio questo è uno dei punti di forza della pellicola.

Ad esempio la spilla raffigurante il simbolo della pace indossata dal protagonista Joker (Matthew Modine)  sulla propria uniforme mentre si trova al fronte, e la scelta delle musiche come Surfin Bird, che accompagna una sequenza di scene dopo una battaglia in cui vengono trasportati feriti, o la Marcia di Topolino, che i soldati cantano orgogliosamente alla fine del film.

 

Stanley Kubrick, per quanto possa essere stato particolare nei rapporti interpersonali, è riuscito a lavorare straordinariamente nel cinema basandosi su uno dei principi più rilevanti della civiltà: la libertà individuale.

Quando finiscono le pratiche burocratiche, per dar vita ad un progetto cinematografico bisogna necessariamente lasciare tutto lo spazio al regista senza interferire se non solo per fornire consigli. Solo in questo modo un cineasta può svolgere il suo lavoro e quindi concretamente raccontare una storia dal suo punto di vista.

Kubrick lo ha fatto e si è visto.

Vincenzo Barbera