Cinema rompicapo: 5 film che metteranno a dura prova la vostra mente

Spesso un buon film è un’ottima occasione per evadere un po’ dai pensieri della nostra routine che ci schiaccia. A questo scopo, quale film migliore se non uno che ci arrovella così tanto il cervello da costringerci a spremere ogni nostro neurone per venire a capo di enigmi e controverse meccaniche presenti nella storia che stiamo guardando?

Eccovi dunque cinque film la cui visione potrebbe tenervi svegli tutta la notte nel tentativo di capire cosa abbiate appena visto.

1) Fight Club (David Fincher, 1999)

Tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, il film si pone come una forte critica alla società contemporanea volta al consumismo più sfrenato.

Il protagonista è un impiegato in una società di assicurazioni interpretato da Edward Norton che, durante un viaggio di lavoro, incontra Tyler Durden (Brad Pitt) il quale conduce uno stile di vita diametralmente opposto al suo e rappresenta tutto ciò che l’impiegato vorrebbe essere. I due fondano un club dove gli uomini danno sfogo ai loro istinti violenti in combattimenti clandestini a mani nude, che ben presto comincia a mutare diventando un’organizzazione dalle proporzioni più grandi volta alla messa in atto di veri e propri attacchi terroristici contro le principali sedi del potere economico della città, sfuggendo al controllo del protagonista.

La nostra mente però può giocarci brutti scherzi e a volte la realtà che vediamo può rivelarsi ingannevole.

Edward Norton e Brad Pitt in una scena del film. Fonte: movieplayer.it

2) Donnie Darko (Richard Kelly, 2001)

Film che non ha bisogno di presentazioni in cui un giovanissimo Jake Gyllenhaal, ancora agli albori della sua carriera attoriale, interpreta Donnie, un liceale che sembra essere affetto da schizofrenia, poiché è l’unico a poter vedere Frank: quest’ultimo è un uomo con un vestito da coniglio che lo invoglia a compiere azioni sempre più drammatiche, senza che Donnie riesca ad opporsi al suo volere.

Tutto ha inizio con un incidente aereo che distrugge la camera del protagonista, il quale miracolosamente si salva per un attacco di sonnambulismo a causa del quale si sveglia nel bel mezzo di un campo da golf. La storia si snoda quindi tra paradossi temporali e wormhole fino ad arrivare a un finale che tuttora divide gli spettatori offrendo varie interpretazioni.

Donnie, la sua fidanzata Gretchen e Frank al cinema. Fonte: thevision.com

3) Mr. Nobody (Jaco Van Dormael, 2009)

All’interno di questa surreale pellicola veniamo catapultati in un futuro in cui l’uomo ha scoperto un trattamento che permette di vivere per sempre. Ma Nemo Nobody, interpretato da Jared Leto, ha 118 anni ed è l’ultimo uomo a non essersi sottoposto al suddetto trattamento e – di conseguenza – sarà l’ultimo uomo sulla Terra a morire.

Giunto quasi alla fine dei suoi giorni viene intervistato da un giornalista che gli chiede di raccontargli la sua vita. Inizia così un viaggio a ritroso nelle memorie dell’anziano che analizza tutte le scelte che l’hanno condotto fino a quel momento, ripercorrendo tre età fondamentali della sua vita. Si scoprirà che non sempre l’inizio e la fine del concetto che chiamiamo “tempo” sono come ce li aspettavamo.

Nemo Nobody (Jared Leto) a visita dal suo medico. Fonte: filmpost.it

4) Inception (Christopher Nolan, 2010)

Vincitore di 4 premi Oscar vanta anche un cast di tutto rispetto tra cui Leonardo Di Caprio e l’inseparabile coppia Tom Hardy/Cillian Murphy.

Cosa accadrebbe se un estraneo prendesse il controllo dei nostri sogni? Questo è possibile in Inception grazie a un macchinario che permette di entrare nei sogni delle persone e impiantare delle idee nella mente dei sognatori. Questa pratica è, tuttavia, molto pericolosa: stare troppo dentro un sogno ed entrare sempre più a fondo nella mente di qualcun altro può far perdere il contatto con la realtà. Una continua alternanza di sequenze tra sogno e realtà che conduce a un finale ricco di incertezze e che spinge ogni spettatore a chiedersi se il protagonista stia ancora sognando o sia sveglio.

Il totem di Dom Cobb (Leonardo Di Caprio). Fonte: auralcrave.com

5) Madre! (Darren Aronofsky, 2017)

Madre! rappresenta probabilmente la più grande sfida che il regista ha lanciato alla critica cinematografica, essendo il film un concentrato di metafore e simbolismi spinti spesso anche all’eccesso.

Il film è avvolto da un alone di mistero, complice anche la mancanza di nomi dei personaggi: ad esempio, i due protagonisti, interpretati da Jennifer Lawrence e Javier Bardem, sono chiamati semplicemente “madre” o “Lui”. All’inizio della storia veniamo introdotti alla tranquilla vita della giovane coppia che vive in una bella casa isolata dal resto del mondo, anche se non lo rimarrà a lungo: assisteremo infatti all’arrivo di uno straniero che si è perso e viene invitato dal padrone di casa a fermarsi per la notte. Da questo momento la coppia verrà travolta da una serie di eventi che porteranno alla distruzione della loro realtà.

Jennifer Lawrence in una scena nella casa. Fonte: movieplayer.it

Viene da chiedersi come questi registi possano partorire delle storie così intricate, ma in fondo sono pur sempre degli artisti e si sa che per esserlo bisogna essere un po’ strani. Anche se, come ci insegna Donnie Darko, “strano” può essere anche un complimento.

Davide Attardo

Sergio Leone: il regista che ha presentato l’Italia agli americani

Oggi avrebbe compiuto 92 anni uno dei più grandi registi della storia del cinema. Sergio Leone, considerato un trait d’union tra il cinema italiano e quello americano, ha diretto pellicole che non solo hanno stupito il grande pubblico, ma hanno influenzato registi d’altissimo calibro come Quentin Tarantino.

Noi di UniVersoMe andremo a comprendere come questo regista sia stato capace di dar vita ad un nuovo genere cinematografico e come abbia fatto a conquistare il pubblico internazionale.

Sergio Leone all’opera – Fonte: pinterest.com

La Trilogia del dollaro

La cosiddetta Trilogia del dollaro comprende i primi 3 film western del regista: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966).

Le tre pellicole narrano tre storie diverse tra loro. L’unico motivo per il quale vengono considerate parte di una trilogia è grazie alla presenza dell’Uomo senza nome (Clint Eastwood).

Per interpretare il ruolo del protagonista in Per un pugno di dollari, Sergio Leone aveva pensato ad attori del calibro di Henry Fonda e Cliff Robertson, ma in seguito ai loro rifiuti decise di ingaggiare un giovane – ed ancora sconosciuto – Clint Eastwood.

L’attore si rivelò uno dei punti di forza per il successo del film. Artefice di un’interpretazione magistrale caratterizzata da movimenti lenti e da un’unica espressione che rappresenta tutta la virilità del genere maschile, è diventato un’icona del western al pari di John Wayne.

Da qui cominciò la meravigliosa carriera di Clint Eastwood, star americana vincitrice di 5 premi Oscar scoperta e lanciata proprio da Sergio Leone.

Il regista decise di confermare l’attore anche per gli altri due film, facendogli interpretare lo stesso identico personaggio, ma introdusse altri protagonisti che condivisero alla pari la scena con Clint Eastwood. In Per qualche dollaro in più spicca il personaggio di Douglas Mortimer (Lee Van Cleef) che probabilmente è il cacciatore di taglie più elegante della storia.

Clint Eastwood e Lee Van Cleef in Per qualche dollaro in più – Fonte: comingsoon.it

Ne Il buono, il brutto, il cattivo vengono riconfermati i due interpreti precedenti e Leone ne aggiunge un terzo: Eli Wallach nei panni di Tuco Ramirez (il brutto) che incarna perfettamente il ruolo di un astuto farabutto sempre pronto a tradire dinnanzi al dio denaro, ma che in fondo al proprio animo nasconde una sensibilità infantile.

Le interpretazioni di questi attori restano celebri, ma il tocco da maestro di Leone sta proprio nell’aver saputo bilanciarle tra loro perfettamente, riuscendo a creare un equilibrio grazie al quale nessuno degli attori prevale sull’altro rubando la scena. Da segnalare anche la partecipazione di grandi attori italiani nei panni dei cattivi come Gian Maria Volontè e Mario Brega (forse il miglior caratterista italiano).

 

Spaghetti-western

La trilogia diede vita allo spaghetti-western, un genere cinematografico che ebbe molto successo in Italia tra gli 60 e 70, riportando il western in auge dopo un periodo di decadenza.

Tra gli elementi distintivi del genere spicca la figura dell’antieroe: un uomo privo degli attributi tradizionalmente riconosciuti agli eroi, ma protagonista di imprese portentose con atteggiamenti spesso rozzi e violenti.

Un altro elemento proprio di questo genere è sicuramente lo stallo alla messicana. Consiste in una situazione nella quale due o più persone (solitamente tre) si tengono sotto tiro a vicenda con delle armi, in modo che nessuno possa attaccare un avversario senza essere a propria volta attaccato.

Locandina del film Il buono, il brutto, il cattivo – Fonte: lacooltura.com

Sergio Leone lo ha introdotto per la prima volta nel cinema con Il buono, il brutto, il cattivo e da lì in poi numerosi registi lo hanno riproposto nelle proprie pellicole. Quentin Tarantino più volte ha dichiarato che proprio questo film fosse il suo preferito ed in numerosi film lui stesso ha messo in scena il famoso stallo alla messicana (ad esempio Le iene).

Stile

Sergio Leone – con delle inquadrature straordinarie – ci ha raccontato storie dalla trama non di certo innovativa nell’immaginario del vecchio West, ma che hanno riscosso un successo gigantesco grazie ai dettagli.

Il sigaro messo in bocca a Clint Eastwood è un tocco di classe che solo Leone poteva apporre.

L’attore non era un fumatore e non amava ovviamente tenerlo tra i denti; infatti, quando venne chiamato per girare il secondo film disse a Sergio: “Leggerò il copione, verrò a fare il film, ma per favore ti imploro solo una cosa, non mi rimettere in bocca quel sigaro!” ed il regista rispose: “E che vuoi lasciare a casa il protagonista?”. Geniale.

Clint Eastwood con il protagonista del film – Fonte: grossetonotizie.com

Il regista ha trasformato elementi inanimati in accessori che arricchiscono vertiginosamente la qualità dei personaggi e che hanno un ruolo centrale nelle storie (oltre al sigaro ricordiamo anche l’orologio con carillon in Per qualche dollaro in più).

C’era una volta in America (1984)

Dopo i film C’era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971), Leone decise di prendersi una pausa dalla regia per dedicarsi all’attività di produttore.

Per 12 anni produsse diversi film: tra questi, anche molte commedie mediante le quali fece spopolare un giovanissimo Carlo Verdone con il quale stringerà una relazione profondissima, quasi come un rapporto padre-figlio. In questo arco di tempo Sergio Leone si dedica anche ad un progetto al quale pensava da tutta la vita: C’era una volta in America. Il film ha ricevuto il massimo dell’impegno da parte del regista (più di 10 anni solo per la fase di pre-produzione) anche se alla fine purtroppo non è stato apprezzato dal pubblico americano. Semplicemente perché non è stato ben compreso, dato che la produzione impose di ridurre la durata del film a soli 139 minuti; alla fine del primo montaggio si contavano ben 10 ore (oggi si sarebbe fatta una serie televisiva).

Robert De Niro in una scena del film – Fonte: umbria24.it

La pellicola non è classificabile all’interno di un genere cinematografico perché si trova di tutto: gangster, dramma, biografie, realismo, noir, ecc.

L’estro di Sergio Leone alla regia si identifica nel modo in cui ha rappresentato la virtuosità del tempo. Il regista gioca molto con gli sbalzi temporali ricorrendo all’uso dell’analessi e dell’ellissi, così da spiegarli senza annoiare lo spettatore.

Un altro punto di forza di questo capolavoro è sicuramente Robert De Niro, autore di un’interpretazione degna del suo nome. Grazie alle direttive di Sergio Leone, l’attore è riuscito ad incarnare il ruolo di Noodles, che può essere considerato da un punto di vista metaforico la personificazione della memoria: tutto il film si concentra sui ricordi di questo personaggio, il quale ci trasporta dentro il racconto esclusivamente con i suoi pensieri.

 

Sergio Leone ha fatto conoscere la nostra identità italiana agli americani. Con la Trilogia del dollaro ha riesaminato delle tematiche già trattate e ritrattate dalla vecchia Hollywood e le ha ripresentate secondo il suo punto di vista, innalzandone esponenzialmente la qualità. Con C’era una volta in America ha raccontato il senso del tempo ripercorrendo 40 anni di storia americana. Dai dettagli e dai particolari dei suoi film si coglie quel tocco in più che solo lui poteva dare e che lo rende unico nel suo stile.

Vincenzo Barbera

5 film da vedere di Al Pacino, l’attore di origini siciliane che ha conquistato Hollywood

Ad 80 anni appena compiuti, Al Pacino è a tutti gli effetti un mostro sacro della recitazione. Ha dato vita a personaggi rimasti impressi nella storia del cinema che, grazie alle sue prestazioni, hanno affascinato il pubblico di diverse generazioni. Noi di UniVersoMe vogliamo rendere omaggio a questo grande interprete ricordando 5 dei suoi più grandi capolavori.

Al Pacino vince il premio Oscar nel 1993 per Scent of a Woman – Fonte: cinemaclassico.com

Scarface di Brian De Palma (1983)

Il film diretto da Brian De Palma è una pietra miliare del genere gangster. La pellicola racconta la storia di Tony Montana (interpretato da Al Pacino), criminale cubano che cerca di imporsi nel mondo della malavita grazie alla propria tenacia ed alla propria furbizia.

Scarface è un film che indubbiamente rimane impresso nella memoria di tutti gli amanti del cinema grazie principalmente alla splendida performance di Al Pacino.

Al Pacino nei panni di Tony Montana in una scena di Scarface -Fonte: artphotolimited.com

L’attore infatti ha potuto dare sfoggio di tutte le sue doti teatrali riuscendo a creare un personaggio in parte schizoide, dotato di un grande carisma e – tramite una mimica marcata – ne ha rappresentato perfettamente la personalità sbruffona.

Il film costituisce un elemento di primaria importanza per la filmografia di Al Pacino in quanto ci permette di osservare come egli sia stato capace di ricoprire magnificamente il ruolo di un mafioso seguendo due chiavi di lettura completamente diverse tra loro: Michael Corleone ne Il padrino si presenta come un uomo calmo e sofisticato, Tony Montana invece appare come rude e spregiudicato.

Donnie Brasco di Mike Newell (1997)

Ispirata alla vera storia del poliziotto Joe Pistone (interpretato nel film da Johnny Depp), la pellicola di Mike Newell narra le vicende di un agente FBI infiltrato all’interno di un’organizzazione mafiosa tra gli anni ’70 e ’80. Nel contempo il film si concentra sul rapporto di amicizia che nasce tra Joe ed il suo mentore Benjamin “Lefty” Ruggiero (Al Pacino) il quale lo farà entrare nel clan di cui fa parte ed in seguito gli insegnerà tutti i meccanismi ed i segreti della malavita.

L’interpretazione degli attori è magistrale.

Grazie alla chimica instauratasi tra i due, la narrazione scorre meravigliosamente coinvolgendo e mantenendo alta l’attenzione dello spettatore.

Johnny Depp e Al Pacino nel film Donnie Brasco – Fonte: pinterest.it

Al Pacino si ritrova nuovamente a vestire i panni di un mafioso, al quale stavolta dona tramite i gesti, gli sguardi e le espressioni una forte venatura di malinconia e di rassegnazione, che viene però attenuata dalla voglia di riscatto quando Lefty conosce Joe. Egli infatti lo considera un figlio acquisito al quale vuole insegnare tutto ciò che ha imparato ed al tempo stesso proteggerlo dalle molteplici insidie. Si assiste quindi ad una vera e propria rinascita del personaggio interpretato da Al Pacino che mette in atto una delle sue migliori performance insieme a Johnny Depp.

Il padrino di Francis Ford Coppola (1972)

Non è stato il film di debutto del nostro attore come molti invece pensano, ma sicuramente il gangster movie che l’ha fatto entrare a buon diritto nell’ Olimpo dei grandi del cinema.

In realtà tanti erano i numi avversi all’ingaggio di Al Pacino come protagonista della celeberrima trilogia tratta dal romanzo di Mario Puzo e diretta da Francis Ford Coppola. La Paramount, per il ruolo di Michael Corleone, inizialmente innocuo pesce fuor d’acqua in una losca famiglia d’italo-americani nella New York degli anni Cinquanta e poi il “padrino” che prende in mano le redini dell’organizzazione mafiosa, aveva pensato a Dustin Hoffman o Robert Redford, già più affermati ad Hollywood e dintorni.

 

Michael Corleone (Al Pacino) con i suoi scagnozzi in Sicilia. Fonte: La voce di New York.

L’occhio da buon regista di Coppola, nell’immaginare le scene di Michael che vagava per la campagna siciliana ne Il padrino (1972) vide invece il viso di Pacino, dai tratti decisamente più siciliani. Non dimentichiamoci infatti che nelle vene di Alfredo James Pacino (così all’anagrafe) scorre sangue siculo: i suoi nonni paterni erano di San Fratello, mentre quelli materni proprio di Corleone!

In definitva Pacino convince tutti soprattutto quando si siede per la prima volta sulla poltrona di Don Vito (Marlon Brando) e la metamorfosi da bravo ragazzo a criminale è compiuta. Il suo è un personaggio fuori dai canoni del boss violento stile old mafia: Michael Corleone è posata spregiudicatezza, astuzia calcolata e sangue freddo resi da una mimica perfetta e da uno sguardo glaciale.

Michael Corleone ormai diventato “il padrino”. Fonte: sorrisi.com

La scelta di Coppola si rivela azzeccata : l’attore è così bravo  che lo spettatore finisce per stare dalla parte del cattivo.

 

L’avvocato del diavolo di Taylor Hackford (1997)

Spregiudicatezza e mistero caratterizzano sempre un altro ruolo di Al: quello di John Milton, affermato avvocato newyorkese che prende sotto la sua ala protettiva un giovane e talentuoso legale di provincia Kevin Lomax (Keaneau Reeves). Lo sprovveduto Lomax appena entrato “come pecora tra i lupi” nella società di Milton, sarà coinvolto in un giro di corruzione e degrado morale che lo porterà a perdere i suoi legami più cari, in una trama surreale e a tratti horror che molti critici hanno trovato esagerata.

John Milton ( Al Pacino) nel celebre monologo. Fonte: ciakclub

Per niente esagerata è invece la performance di Pacino: solo un attore del suo calibro poteva dare così tanto pathos al monologo in cui Milton rivela la propria identità. Chi è davvero il più potente avvocato di New York?

Profumo di donna di Martin Brest (1992)

Personaggio sicuramente più complesso è invece quello che gli valse l’oscar come miglior attore protagonista nel 1993: Frank Slade, colonnello rimasto cieco in un incidente militare che decide di farsi accompagnare in un “viaggio di piacere” a New York da Charlie Simms (Chris O’ Donnel), liceale a corto di quattrini e con qualche problema di integrazione in una scuola esclusiva del New England.

Il viaggio rivelerà parecchie sorprese, ma a sorprenderci ancor di più (anche sul finale) è proprio il colonnello Slade, uomo mai statico e in continua evoluzione: ora cinico, ora paterno nei confronti del suo accompagnatore, a volte sfrenato edonista a caccia di donne e nuove emozioni, altre volte uomo profondamente scosso e depresso.

Al Pacino e Chris O’ Donnel per le strade di New York.  Fonte: nospoiler.it

 

Il dinamismo di Pacino incarna perfettamente il personaggio! Ma la migliore prova d’attore è ancora una volta lo sguardo: spento come quello di un uomo che non trova più alcun senso nel vivere.

Curiosità on topic: quello di Martin Brest è il remake più fortunato dell’omonimo film del 1974 di Dino Risi con protagonista Vittorio Gassman. Pare che Pacino, per interpretare il protagonista, non solo abbia preso contatti con delle associazioni americane di non vedenti, ma abbia anche incontrato il nostro Mattatore.

Al Pacino. Fonte: lascimmiapensa.com

La carriera di Al Pacino parla da sé e rivela un professionista della recitazione che si ispira alla realtà per interpretare personaggi di fantasia e non ha mai rinnegato le sue umili origini.

“Mi sento più vivo in un teatro che in qualunque altro posto, ma quello che faccio a teatro l’ho preso dalla strada.”

Angelica Rocca, Vincenzo Barbera

“Un drive-in alla cittadella universitaria”. La proposta dell’Associazione Chirone

Dopo il 4 maggio, in Italia si ricomincerà (un pezzo alla volta) a tornare alla “normalità”. Il regime di distanziamento sociale tuttavia, resta l’unica soluzione utilizzabile per essere certi di non mettere a repentaglio la salute pubblica. In questa direzione si staglia la proposta presentata dall’Associazione studentesca Chirone, che suona un po’ come ritorno al passato: realizzare un drive-in alla cittadella universitaria. Il campus di zona Annunziata pensato come luogo di incontro “sicuro”, dove organizzare una rassegna all’aperto negli ampi spazi del parcheggio del Cus Unime.

Chiediamo che – si legge nella richiesta protocollata – una volta che l’avvio della cosiddetta “Fase Due” sia considerato rodato e la suddetta ampiamente sperimentata, si possa allestire nei parcheggi del plesso sportivo universitario un cinema all’aperto,  fruibile attraverso i propri mezzi di trasporto, rispettando le misure di distanziamento sociale e di contenimento dei contagi, previste dalle normative vigenti. 

L’evento, pensato come un ciclo di incontri in cui proiettare una serie pellicola relativa ad un tema attuale, ha visto da subito la collaborazione dei destinatari della proposta, che in questi giorni si riuniranno per deliberare, come affermato dal Presidente dell’associazione Giuseppe Mangiapane: «La nostra idea nasce dalla volontà di ripartire promuovendo delle occasioni di vita in comune, nel pieno rispetto delle norme previste dal distanziamento sociale. Da qui l’idea di un drive-in, ovverosia l’allestimento di un cinema all’aperto, da realizzare all’interno della cittadella universitaria, dove ognuno potrà recarsi con la propria auto e seguire il film rimanendo all’interno della propria vettura. Abbiamo così proposto la nostra idea all’amministrazione universitaria ed ai vertici del CUS».  

«Considerata la funzione sociale che ha assunto l’Ateneo durante questa fase emergianziale – ha detto Ludovico Irrera, rappresentante allo C.S.A.S.U. – abbiamo ritenuto opportuno presentare questa proposta. Siamo convinti che si debba ripartire dalla cultura e quale miglior posto dell’università per farlo». All’interno della proposta, viene inoltre chiesto di tenere in considerazione la possibilità di prevedere un riconoscimento di CFU ai partecipanti. 

 

3 film che ci hanno mostrato la genialità di Jack Nicholson

Oggi Jack Nicholson compie 83 anni. Considerato come uno dei più grandi attori della storia del cinema, ha incantato il pubblico di tutto il mondo con delle interpretazioni magistrali. Ha lavorato con registi di altissimo calibro come Stanley Kubrick, Martin Scorsese, Tim Burton, Roman Polanski ed altri, i quali hanno saputo valorizzarlo e grazie al suo estro sono riusciti a girare delle pellicole che ad oggi sono dei tesori del patrimonio cinematografico.

Andiamo vedere e ad analizzare quelle che secondo noi di UniVersoMe sono le 3 migliori interpretazioni di Jack Nicholson.

Jack Nicholson da giovane – Fonte: blog.filmamo.it

Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975)

Il film è sicuramente uno dei migliori della sua filmografia personale. L’attore interpreta un delinquente che viene rinchiuso in un manicomio per verificare se la sua aggressività nasca da un disturbo mentale o meno. In poco tempo riuscirà a conquistarsi la fiducia e la simpatia degli altri pazienti ponendo in essere comportamenti fuori dalla norma e creando scompiglio. Tutto ciò non verrà visto di buon occhio dalla capo-reparto (interpretata da Louise Fletcher) la quale adotterà metodi ancor più crudeli ed illogici nei confronti dei degenti: durante le sedute collettive non mostra un reale interesse circa il loro stato d’animo, li imbottisce di medicine senza senso, li sottopone ad elettro-shock.

Jack Nicholson in una scena del film Qualcuno volò sul nido del cuculo – Fonte: imdb.com

La prova d’attore di Jack Nicholson è a dir poco strabiliante. Riesce ad interpretare il ruolo in maniera realistica senza eccedere mai, nonostante l’alta carica emotiva richiesta per questo personaggio. Non solo: ci fa addirittura ridere in un film dove la risata non era minimamente contemplata, nemmeno in caso di errori sulle battute sul set.

Non a caso, per questo film l’Academy assegnò l’Oscar per il miglior attore protagonista e per la miglior attrice protagonista a Jack Nicholson e a Louise Fletcher.

Shining (1980)

Il film è ispirato al romanzo Shining (1977) di Stephen King. La pellicola del più grande regista di tutti i tempi (Stanley Kubrick) deve moltissimo sicuramente al lavoro svolto dal suo attore principale.

Per il ruolo del protagonista Jack Torrance, il regista inizialmente aveva pensato ad altri attori oltre che a Nicholson.

Robert De Niro rifiutò il film visto che, a detta sua, la semplice lettura del copione lo aveva così tanto turbato da causargli incubi per un mese intero.

Robin Williams ed Harrison Ford incontrarono invece la disapprovazione di King.

Sul set vi furono molteplici scontri soprattutto tra Kubrick e l’attrice protagonista Shelley Duvall (nel film interpreta la moglie di Jack, Wendy Torrance) che sicuramente non permettevano di lavorare in un clima sereno. In seguito al film l’attrice cadde in un profondissimo stato di depressione ed ancora oggi purtroppo non è riuscita ad uscirne.

Tra le varie problematiche poi vi erano anche: le continue proteste dello scrittore Stephen King, che accusava il regista di stravolgere radicalmente il racconto;  varie sequenze che venivano girate e rigirate fino a contare addirittura 150 ciak per una singola scena, stremando logicamente gli attori; Kubrick cambiava così tante volte le battute che Jack Nicholson si rifiutava di impararle a memoria perché sapeva che dopo 15 minuti sarebbero state modificate.

Nonostante tutte le avversità, ci troviamo di fronte alla miglior interpretazione attoriale della storia del cinema. Jack Nicholson ha creato un personaggio tanto folle quanto affascinante, che tramite le sue azioni non fa staccare gli occhi dello spettatore dallo schermo qualsiasi cosa egli faccia.

Durante i suoi deliri – con i quali dà voce alla follia del personaggio – lo si ascolta come se fosse una poesia di Leopardi. Mentre sta in silenzio sul letto con lo sguardo perso nel vuoto lo si ammira come se fosse un dipinto di Michelangelo.

Tutto questo è reso possibile grazie alla grandissima tecnica posseduta dall’attore.

Jack Nicholson nei panni di Jack Torrence mentre fissa il vuoto nel film Shining – Fonte: repubblica.it

Innanzitutto, egli entra nel personaggio comprendendone i pensieri e gli atteggiamenti per poi riproporli in scena in maniera spettacolare. Il termine “spettacolare” non è sinonimo in questo caso di “meraviglioso” ma è inteso nel senso di rappresentare una determinata emozione enfatizzandone minuziosamente ogni minimo aspetto, con il fine ovvio poi di ottenere una reazione specifica da parte dello spettatore. Mentre De Niro e Marlon Brando recitano partendo dall’istinto, immedesimandosi totalmente nella parte e senza sapere realmente dove si possa andare a finire, Jack Nicholson prende per un istante le distanze dal proprio personaggio.

La sua interpretazione è frutto di un’operazione matematica prestabilita che deve in qualche modo fungere da tramite per manifestare poi un sentimento; ma preliminarmente egli sa benissimo dove si andrà a parare, perciò conosce gli attimi precisi in cui può forzare eventualmente un’espressione facciale o effettuare un determinato gesto.

In Shining l’attore ha dato libero sfogo a tutte quelle che sono le sue capacità attoriali, divenendo un’icona per tutti gli amanti del cinema. E poi diciamocelo: lo sguardo da folle lo ha di natura.

The Departed – Il bene e il male (2006)

Un gangster movie di Scorsese ambientato ai giorni nostri. Con un cast d’eccezione ed uno dei migliori registi della storia del cinema il risultato non può che non essere strepitoso.

Leonardo Di Caprio e Jack Nicholson durante una scena di The Departed – Fonte: it.wikipedia.org

Qui la particolarità della prova d’attore di Nicholson risiede nel fatto che apparentemente sembra non recitare.

Se vedete il film noterete un signore che parla, minaccia, ride e uccide con una normalità disarmante. Essendo abituati a vedere Jack “strafare” nelle sue interpretazioni, guardando questo film si resta attoniti. Egli è entrato talmente tanto nella parte che lo spettatore può benissimo pensare di avere davanti a sé una persona reale e non un personaggio interpretato da un attore. Scorsese comprese questo fatto, infatti gran parte delle scene di Nicholson sono del tutto improvvisate.

 

Non è sufficiente solo un articolo per parlare di un’icona del cinema come Jack Nicholson. Ciò che l’attore ha donato al cinema è qualcosa di veramente strabiliante. Nel corso della sua carriera ha vinto ben 3 premi Oscar, ma per attori del genere dovrebbero istituire un riconoscimento a parte.

Se dopo 130 anni di storia il cinema ancora oggi esiste, è grazie a persone e ad artisti come Jack Nicholson.

Vincenzo Barbera

Docuserie Netflix, l’ibrido che funziona

Quando la narrazione incontra lo stile, il ritmo avvincente ed il linguaggio tipici dei contenuti seriali, avviene la magia: le docuserie.

Genere, che per anni è stato (ingiustamente) snobbato dalle piattaforme di streaming e dai grandi network, negli ultimi tempi ha fatto registrare (non con poca sorpresa) un exploit – in termini di views, di investimenti, ed di attenzione – che ha portato in auge il fenomeno “docuserie originali Netflix”.

Titoli, proposte ed idee originali, che hanno conquistato anche gli spettatori più reticenti e indisposti, si sono ritagliati uno spazio rilevante nel catalogo internazionale di Netflix.

Proprio per queste ragioni il colosso dello streaming made in Usa, ha deciso di investire sempre di più in questi prodotti, aprendo l’orizzonte persino a collaborazioni inedite con la rivista scientifica Vox ed il celebre NewYork Times.

Si sa, gli ibridi, che hanno sempre avuto l’incompiutezza come colpa piuttosto che come caratteristica, nono convincono mai a pieno.

L’idea (ardita) di mescolare il documentario e la serialità è un azzardo: due dimensioni antitetiche – apparentemente – non avrebbero dovuto trovare un equilibrio sul piano della novità e del coinvolgimento.

Il progetto delle docuserie, costato a Netflix diversi milioni di dollari, si è dimostrato tutto fuorché utopico.

Netflix, come sempre ha dimostrato comprensione e lungimiranza prima di qualsiasi altro competitor.

Eccovi una lista di sette titoli che vi orienterà nell’infinito catalogo di Netflix.
Mettetevi comodi, ce n’è davvero per tutti i gusti.

1) Making a Murderer

Fonte: Netflixseries.com

Firmata e scritta da Laura Ricciardi e Moira Demos, ed insignita di quattro Emmy, Making a Murderer racconta le controverse vicende giudiziarie del 57enne americano Steven Avery.
La sua è una storia a limite della fantascienza, così assurda e paradossale da trascinare lo spettatore in vortice tra dubbi e mezze verità che lo terranno incollato allo schermo.

Dopo 18 anni di carcere per un’ingiusta accusa di stupro, Avery viene nuovamente sbattuto dietro le sbarre con l’accusa di aver freddato una giovane donna i cui resti erano stati recuperati proprio nel suo giardino.
La prima stagione della docuserie parte da qui e segue con occhio attento le disavventure che hanno portato l’americano all’ergastolo.

L’avvocatessa Kathleen Zellner, protagonista indiscussa della seconda stagione, tenterà di dimostrare l’innocenza di Avery, vittima di un gioco fatto di inganni e sotterfugi mirati a incastrarlo.
Una maestosa docuserie giornalistica fatta per chi ama la suspense.

2) In poche parole

Fonte: Skycinema.it

Abitiamo una contemporaneità che corre veloce e che, spesso, fagocita chi non regge il passo di questo ritmo così frenetico.

Questo prodotto originale Netflix realizzato in collaborazione con la testata scientifica Vox, propone risposte e chiarimenti su una selezione di argomenti che più disparati non si può.

Ogni episodio, infatti, è dedicato a un tema specifico: dall’economia alla fisica, dalla musica alla matematica.

Una voce narrante femminile chiara e lineare, supportata da un’impostazione grafica accattivante e da un archivio di immagini e filmati straordinariamente ricco: una sorta di enciclopedia 4.0 che arricchisce il nostro bagaglio personale.
Se siete curiosi e rompiscatole (un po’ come me) è perfetta per voi.

3) Diagnosis

Fonte: Ciakclub.it

Sette affascinanti episodi, basati sulla storica rubrica che la dottoressa Lisa Sanders tiene da anni sul più celebre quotidiano d’America, ci portano in un viaggio scientifico tra malattie misteriose e storie irrimediabilmente strappate alla vita.

Non si tratta di infotainment, le vicende sono reali, ma mai trattate con un occhio morboso, con le lacrime e la frustrazione (che sarebbero legittime) di chi non riesce a comprendere cos’abbia di male il proprio corpo.

I medici, protagonisti della scena come meriterebbe, mostrano quanto il lavoro di team e la determinazione possano, spesso, restituire speranza e luce a chi è stato costretto ad abituarsi al buio.

Tra i casi presi in esame, c’è anche quello di una giovane infermiera americana affetta da gravi crisi muscolari: un rompicapo medico brillantemente risolto da una laureanda dell’Università di Torino, la 26enne Marta Busso.

Se avete amato Dr. House e le sue stravaganti diagnosi, adorerete questa docuserie nata dalla partnership tra Netflix e il New York Times.

4) La nostra storia

Fonte: Perugiaonline.it

Nel caso in cui Morgan Freeman non fosse già un’ottima ragione per guardare La nostra storia, eccovene qualche altra.

In un’era in cui le differenze vengono demonizzate,le culture diverse dalla nostra ghettizzate, il viaggio dell’attore americano in giro per il mondo dimostra quanto la diversità (presunta) non sia altro che una leggenda metropolitana, sconfessata dalle abitudini incredibilmente comuni dei popoli che si pongono le stesse domande e che si lasciano guidare dalle stesse forze.
Dinamiche emotive essenziali come la fede, l’amore, la ribellione, la libertà e la sete di potere abbattono muri e barriere, accomunando tutti gli uomini.

La forza narrativa de “La nostra storia” sta nella sua semplicità, che convince lo spettatore ad analizzare la realtà da prospettive inedite, ad accantonare i pregiudizi e rimettersi in discussione.

5) Conversazioni con un killer: Il caso Ted Bundy

Fonte: Crimecinema.com

L’intuizione di un giornalista, una conversazione, un libro ed infine una docuserie Netflix.

È da questi presupposti concettuali che nasce Conversazioni con un killer: Il caso Ted Bundy.

Un prodotto che inizia già col piede giusto: il primo episodio, infatti, si apre con la voce di Stephen G. Michaud, il reporter che, nel 1977, inaugurò un lungo ciclo di interviste a Ted Bundy, il serial killer per eccellenza, accusato di aver commesso più di trenta omicidi tra il 1974 e il 1978.

Una parabola inquietante, rievocata anche dalla voce dello stesso protagonista che, spesso, sembra parlare delle proprie imprese con una tranquillità e un’ironia in grado di far accapponare la pelle.

I nastri originali delle conversazioni, fotogrammi di repertorio e gli interventi del braccio destro di Michaud, Hugh Aynesworth, regalano rigore ed attendibilità allo show.
Potrebbe urtare la vostra sensibilità.

6) Seven Days Out

Fonte: Movietime.com

Le lancette si muovono, le ore (impietose) passano e non c’è tempo da perdere.
Questo il mantra di 7 Days Out, la docuserie che ci porta a scoprire cosa accade nei sette giorni che precedono sette grandi eventi live del mondo della moda, del food, dello spazio e dello sport.

Ad aprire la docuserie Netflix, lo show primavera-estate 2018 della maison Chanel e dell’iconico Karl Lagerfeld, purtroppo defunto. La serie ci porta nel backstage, dalla preparazione dell’imponente collezione fino alla sfilata al Grand Palais, trasformato per l’occasione in un meraviglioso giardino botanico.
Quel che incuriosisce di più di questo format è, sicuramente, avere l’opportunità di vedere da vicino, dotando lo spettatore di una lente d’ingrandimento, la macchina organizzativa che porta allo sviluppo del prodotto finito.

Lo show enfatizza l’estro di chi è sempre un passo avanti, di chi non ha paura di alzare la posta in gioco e superare il limite.

7) Chef’s Table

Fonte: Newseries,com

Nata nel 2015 ed ancora in produzione, Chef’s Table porta una ventata d’aria fresca nell’infinito palinsesto di programmi dedicati alla cucina.
Rimodulando tutte le caratteristiche del racconto sul cibo, la docuserie interseca l’intervista principale allo chef protagonista dell’episodio con una serie di interventi di critici culinari di fama internazionale.

Una duplice prospettiva, che pone quasi una dimensione competitiva, alla quale si integrano le immagini dei piatti e degli ingredienti necessari per assemblarli.

Quello che ha reso il format di successo è stata la scelta di guardare allo chef come persona e non come personaggio.

Il risultato è un racconto emotivo delicatissimo, arricchito da paesaggi mozzafiato e piatti da mangiare, anche se soltanto con gli occhi.

Antonio Mulone

Eli Roth ed Hostel: l’orrore peggiore è nel mondo reale

Compie oggi 48 anni uno dei maestri che hanno innovato il genere dell’orrore e dello splatter in maniera significativa. Eli Roth, conosciuto per aver diretto Cabin Fever  (2002) ed aver recitato in Bastardi senza gloria (2009) di Quentin Tarantino, deve il suo successo in gran parte ad Hostel (2005), un film che ha sconvolto l’America per la sua violenza e ad oggi risulta essere ancor più inquietante visti i temi trattati.

Eli Roth nei panni dell’Orso Ebreo in Bastardi senza gloria – Fonte: inglouriousbasterds.fandom.com

Hostel

Il film narra la storia di 2 ragazzi americani, Paxton e Josh, che fanno un Interrail in Europa. Qui conoscono Oli, un ragazzo islandese che si unirà al loro viaggio. Durante una nottata a base di sesso e droga, i tre rimangono chiusi fuori dal proprio bed&breakfast. Vengono ospitati quindi da un ragazzo che li informa circa l’opportunità di recarsi in Slovacchia dove c’è un ostello abitualmente frequentato da bellissime ragazze.

I 3 partono alla volta di Bratislava ed il soggiorno presto si rivelerà un vero e proprio incubo. Uno ad uno vengono rapiti per poi essere torturati brutalmente da alcuni uomini vestiti da macellai in delle piccole e cupe stanze.

Paxton mentre viene seviziato dal suo aguzzino – Fonte: filmjunk.com

Paxton riesce a liberarsi e si ritrova nello spogliatoio dei torturatori dove incontra uno dei boia, il quale lo scambia per uno di loro ed iniziano a dialogare. Da quell’uomo viene a conoscenza di una società segreta nella quale i membri pagano grosse somme di denaro per seviziare i turisti.

Il film, prodotto da Quentin Tarantino, con un budget di appena 4 milioni di dollari ne incassò 80 ottenendo un grandissimo successo a livello economico, ma opinioni contrastanti da parte della critica. In seguito vennero girati anche due sequel: Hostel Part II (2007), diretto sempre da Eli Roth, ed Hostel Part III (2011), che venne invece venne diretto da Scott Spiegel. 

È sicuramente un film che apre un nuovo sottogenere dell’orrore, principalmente basato sulla rappresentazione di una violenza nuda e cruda, fortemente disturbante.

Ciò che colpisce nel profondo è che la pellicola – come lo stesso regista ha dichiarato – è basata su casi reali identificati dalla polizia di New Dehli in India. Dalle indagini è emersa l’esistenza di un club segreto dove uomini ricchi e potenti di tutto il mondo “compravano” persone per soddisfare i propri desideri malati.

Eli Roth, forse senza volerlo, aveva girato un film che denunciava l’allora sconosciuto deep web.

Deep e Dark Web

Il Deep Web è la parte di Internet che non è indicizzata dai motori di ricerca. Per spiegare facilmente questo concetto si utilizza spesso l’immagine di un iceberg: la parte che fuoriesce rappresenta l’Internet al quale accediamo ogni giorno, mentre la parte sommersa corrisponde a tutti i siti non indicizzati.

L’iceberg è un esempio perfetto per comprendere lo schema del Web nel suo complesso – Fonte: pattayatoday.net

Il Dark Web invece è un sottoinsieme del Deep Web ancora più oscuro e misterioso.

Vi si può accedere esclusivamente tramite dei software particolari, visto che gli indirizzi IP cambiano continuamente e non restano uguali come nel Surface Web (la parte conosciuta del Web). Ciò implica che è maggiormente complesso risalire eventualmente ad identificare un soggetto operante all’interno di questo ambito. È proprio per questo motivo che dentro il Dark Web sono attivi numerosi mercati illegali dove si commercia di tutto: droga, armi, credenziali aziendali e bancarie, organi, ecc.

Purtroppo è molto diffuso anche lo scambio dei cosiddetti snuff movie, cioè quei film in cui vi sono delle persone che vengono sottoposte a violenze.

Il fenomeno del Deep Web è emerso solo negli ultimi anni; fino a poco tempo fa, quasi nessuno ne era a conoscenza.

Eli Roth, con Hostel, ha praticamente spiegato per filo e per segno uno degli aspetti più orridi ed inquietanti della parte oscura di Internet. Conoscendo oggi cosa c’è dietro il Dark Web possiamo vedere questa pellicola in chiave diversa rispetto al passato, perché sappiamo che tutto quello che accade nel film potrebbe accadere in qualsiasi parte del mondo;  ciò amplifica notevolmente la sensazione di ansia e angoscia durante la visione della pellicola.

Tutto ciò deve farci riflettere sulle capacità possedute dal cinema: ancora una volta, una pellicola è stata capace di mettere in luce tematiche che sarebbero venute a galla approfonditamente solo diversi anni più tardi.

Vincenzo Barbera

 

Quando l’attore diventa il personaggio

Ha da pochi giorni compiuto 47 anni il protagonista di una delle interpretazioni più realistiche della storia del cinema.

Adrien Brody dagli inizi degli anni 2000 è considerato uno dei migliori interpreti a livello internazionale. Durante la sua carriera ha lavorato con grandi registi ed ha preso parte a numerosi film di successo come La sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick, Il Pianista (2002) di Roman Polanski, The village (2004) di M. Night Shyamalan, King Kong (2005) di Peter Jackson, The Experiment (2010) di Paul Scheuring, Midnight in Paris (2011) di Woody Allen (cameo), Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson.

Adrien Brody – Fonte: livingadamis.it

Gli inizi

Adrien Brody nasce il 14 aprile 1973 a New York. Incoraggiato dalla madre si iscrive alla scuola d’Arte drammatica e debutta giovanissimo nella sit-com televisiva Annie McGuire.

Trasferitosi a Los Angeles prende parte ad una serie di film indipendenti grazie ai quali inizia a farsi conoscere.

La svolta per la sua carriera cinematografica arriva nel 1997 quando entra a far parte del ricchissimo cast del film  La sottile linea rossa (1998), seppur gran parte delle sue scene vennero tagliate in fase di montaggio.

Ma la consacrazione di Brody a stella del cinema avviene nel 2002 con l’uscita nelle sale del film Il Pianista di Roman Polanski.

Adrien Brody in una scena del film Il Pianista – Fonte: wyborcza.pl

Il Pianista

La pellicola narra la vera storia del pianista polacco Wladyslaw Szpilman durante gli anni dell’occupazione nazista e del ghetto di Varsavia.

Molte scene prendono spunto dalle esperienze personali del regista Roman Polanski, il quale essendo ebreo e polacco le ha vissute sulla sua pelle da ragazzo.

Non a caso lo stesso Adrien Brody ha dichiarato:” Il film racconta la storia di un sopravvissuto raccontata da un sopravvissuto”.

Per interpretare al meglio il ruolo di un ebreo al quale pian piano viene tolta qualsiasi cosa, l’attore ha deciso di lasciare il suo appartamento, vendere la sua macchina e di smettere di utilizzare i cellulari. Ciò non fu sufficiente per Brody, infatti per entrare maggiormente nel personaggio di Wladyslaw è partito per l’Europa, dove in poco tempo ha perso 15 kg ed ha imparato a suonare il pianoforte.

Grazie a quest’ardua preparazione è riuscito a mettere in scena una delle interpretazioni più realistiche della storia del cinema. Nel momento in cui l’attore ha deciso di spogliarsi dei suoi averi è stato capace di trasmettere questa sensazione di vacuità al suo personaggio, plasmandola in un vuoto ancora più profondo alimentato da tutta la tristezza e la disperazione che un ebreo poteva provare in quel tragico periodo.

Adrien Brody tra le rovine di Varsavia nel film Il Pianista – Fonte: cinelapsus.com

Il film è stato girato in ordine cronologico inverso, dalla fine all’inizio; quindi l’attore ha dovuto ripercorrere il percorso psicologico del proprio personaggio al contrario, partendo dalla fine, cioè dal momento sicuramente più intenso della storia.

Già di per sé risulta abbastanza complicato dover  interpretare un ruolo del genere, se in più lo si deve fare partendo dalla conclusione, ovviamente la difficoltà si alza notevolemente. Nonostante ciò comunque la prova d’attore di Adrien Brody è stata magistrale, infatti l’Academy lo ha premiato con l’Oscar per il miglior attore protagonista nell’edizione del 2003.

 

L’interpretazione di Adrien Brody nel film Il pianista costituisce un tesoro preziosissimo nel mondo del cinema. Anche se ha lavorato in altri grandi film ed ha dato prova del suo talento senza mai tirare il freno, in nessuno di questi ha raggiunto il livello ottenuto nella pellicola di Polanski: ma forse questo è impossibile.

Vincenzo Barbera

 

Come Francis Ford Coppola salvò il cinema

Compie oggi 81 anni uno dei più grandi cineasti della storia.

Francis Ford Coppola è uno dei fondatori della New Hollywood: infatti insieme a Martin Scorsese, George Lucas, Steven Spielberg, Brian De Palma, Woody Allen e Roman Polanski ha riempito di spettatori le sale in seguito alla crisi degli anni 60, quando aveva preso piede la televisione e la gente preferiva restare in casa piuttosto che recarsi nei cinema.

Dato che il cinema stava per estinguersi, dobbiamo molto ai registi precedentemente elencati ed in particolare proprio a Francis, il quale è considerato come un sorta di “Che Guevara” negli ambienti hollywoodiani.

Francis Ford Coppola – Fonte: wikipedia.org

Filmografia

La lista di film diretti dal regista è lunga e piena di pellicole d’altissime qualità: Il padrino (1972), Il padrino parte 2 (1974), Apocalypse Now (1979), Il padrino parte 3 (1990), Dracula di Bram Stoker (1992), Jack (1996).

Il primo film del padrino è stato posizionato al secondo posto nella classifica dei “migliori film della storia” dall’American Film Institute (preceduto da Quarto potere del 1942 diretto da Orson Welles). Francis ebbe delle profondi divergenze con la produzione durante le riprese. La Paramount infatti cercò in tutti i modi di convincere il regista affinché escludesse dal cast Marlon Brando e Al Pacino.

Il primo era considerato un astro discendente e non era visto di buon occhio nemmeno dall’Academy; infatti, l’attore non aveva preso parte all’ultima cerimonia degli Oscar per protestare contro le mancate nomination degli attori nativi americani. Brando inoltre aveva la fama di avere un caratteraccio sul set, dato che non voleva imparare le battute a memoria. Al Pacino invece era considerato come non adatto per ricoprire il ruolo di un mafioso e, sempre secondo la produzione, non era conosciuto dal grande pubblico.

Si contestò a Coppola anche la decisione di girare gran parte delle scene in Sicilia, visti i costi troppo elevati.

Il regista continuò comunque sulla sua strada senza scendere a compromessi, ed il risultato fu grandioso: 3 Oscar, successo planetario, 2° miglior film della storia e la Paramount ha sanato i suoi debiti finanziari grazie ai guadagni del padrino.

Francis Ford Coppola e Marlon Brando sul set de Il padrino (1972) – Fonte: pinterest.ca

Apocalypse Now: le difficoltà sul set

Anche per girare Apocalypse Now Francis ha passato letteralmente l’inferno.

Il film venne girato nelle Filippine per scelta del regista stesso.

La pellicola doveva essere ultimata in 12 settimane, ma a causa dei temporali tropicali e di altre gravissime difficoltà ce ne vollero 68.

Sul set giravano fiumi di alcol e sostanze stupefacenti che vennero assunti da gran parte del cast.

Pare che il regista fece ubriacare pesantemente l’attore Martin Sheen per girare una scena dove effettivamente il personaggio da lui interpretato era in stato d’ebbrezza. A causa dell’abuso di alcolici l’attore venne colpito da un infarto e ciò complicò notevolmente la situazione.

Nel frattempo parte della crew venne contagiata da malattie tropicali e il tempo delle riprese non faceva altro che allungarsi. Per coprire parte dei costi il regista stesso ipotecò la sua casa.

Francis Ford Coppola durante le riprese di Apocalypse Now (1979) – Fonte: moviemag.it

In ansia per il ritardo delle riprese, per il senso di colpa dell’infarto di Martin Sheen e per l’imminente divorzio dalla moglie, Francis Ford Coppola entrò in uno stato di profonda depressione: perse 30 kg in poco tempo e tentò addirittura il suicidio.

Nonostante tutte le avversità, il film è uno dei capisaldi della filmografia del regista: si aggiudicò 2 Oscar ed incassò la cifra di 150 milioni di dollari.

Stile

È considerato uno dei fondatori della Nuova Hollywood in quanto ha diretto film che trattavano tematiche del tutto innovative e lo ha fatto seguendo i suoi canoni cinematografici.

Coppola si è imposto grazie alla sua maniacale voglia di rappresentare nel profondo gli aspetti più interessanti dei suoi personaggi. Se nel Padrino e in Apocalypse Now ha raccontato storie che prima di lui non erano state quasi mai menzionate, con Dracula di Bram Stoker riprende in esame la figura del vampiro e la ripropone in chiave del tutto innovativa.

Nella Vecchia Hollwood queste creature venivano rappresentate come degli orridi demoni che rivestivano i ruoli dell’antagonista. Francis invece ha deciso di rendere il conte Dracula (Gary Oldman) il protagonista della storia mostrandolo come un uomo affascinante, approfondendone la poetica del cattivo ed esaltandone l’umanità.

Nei suoi film inoltre si spinge sempre oltre le aspettative e descrive ciò che accade tramite dialoghi ed immagini sontuose che destano stupore tra gli spettatori.

Francis Ford Coppola e Gary Oldman sul set di Dracula di Bram Stoker (1992) – Fonte: iprigionieridelloschermo.wordpress.com

 

Francis Ford Coppola è un guerriero con la sensibilità di un bambino. Ricco di conoscenze tecniche, è riuscito davvero ad attuare una riforma nel cinema degli anni 70, scontrandosi con le produzioni e con la natura stessa. Un regista capace di esternare la sua celebre arte anche se dovesse avere una pistola puntata alla tempia. Non a caso ha vinto 5 premi Oscar e l’Academy gliene ha assegnato uno onorario, quindi gode di un totale di ben 6 statuette personali. Mica male.

Vincenzo Barbera

 

Il governatore della follia

Oggi il compianto Heath Ledger avrebbe compiuto 41 anni. Uno degli attori più promettenti della sua generazione ci ha lasciato troppo presto, scioccandoci con una morte improvvisa che ha spento tutte le aspettative createsi dal suo enorme potenziale attoriale.

Oggi l’attore viene ricordato principalmente per la sua magistrale interpretazione del Joker nel film Il cavaliere oscuro (2008) di Cristopher Nolan.

Andiamo a scoprire come è stato creato uno dei personaggi più iconici e discussi del cinema contemporaneo.

Heath Ledger – Fonte: tg24.sky.it

Le basi

Per prepararsi al ruolo è risaputo che Heath Ledger abbia trascoso 6 settimane rinchiuso in una stanza d’albergo, dove guardava film horror ed annotava il suo lavoro all’interno di un diario.

Essere isolati dal mondo crea indubbiamente una mutazione nella natura dell’individuo (lo notiamo in piccola parte anche noi che siamo – da poco più di 20 giorni – in quarantena).

Stare un mese e mezzo in una singola stanza, senza mai uscire, crea già di per sé un nucleo centrale di sentimenti negativi che sorgono spontaneamente nella psiche dell’uomo.

Se a ciò si aggiunge la visione di film e la lettura di libri e fumetti grotteschi e dell’orrore, attorno al nucleo i sentimenti si tramutano in vere e proprie emozioni più complesse che destabilizzano il carattere umano.

Una volta creata questa sorgente di oscurità emotiva, l’attore ha potuto concentrarsi per costruire la mentalità del personaggio.

Heath Ledger completamente immerso nei panni di Joker – Fonte: pinterest.it

La formazione del carattere

Una delle principali fonti d’ispirazione per la nascita del Joker, è stata la figura del drugo Alex DeLarge del film Arancia Meccanica (1971) diretto da Stanley Kubrick.

Heath Ledger da quel personaggio ha prelevato tutta la violenza che il drugo sfogava per le strade di Londra ed al posto di esternala l’ha immagazzinata dentro sé stesso. Associando la violenza a quel nucleo di emozioni fortemente negative, Heath ha ottenuto la formula per far emergere  il male peggiore che può affliggere un uomo: la pazzia.

L’attore non è andato a visitare manicomi o centri per la riabilitazione di soggetti affetti da forme di malattie psichiatriche, ma lui stesso ha creato la pazzia dentro di sé e così ha ottenuto l’elemento che governa l’essenza del Joker, il suo principio cardine.

Joker in procinto di farsi saltare in aria in una scena del film Il cavaliere oscuro – Fonte: youtube.com

Jack Nicholson che in precedenza aveva già interpretato il ruolo del Joker nel film Batman (1989), lo ammonì facendogli presente di porre attenzione a quel ruolo; infatti, disse: “il Joker ti divora da dentro”.

Ma sfatiamo immediatamente il mito secondo il quale il personaggio del Joker sarebbe stato l’unico responsabile della prematura scomparsa dell’attore.

Sul set del cavaliere oscuro a detta dei suoi colleghi e del regista stesso, nella pause tra una scena e l’altra l’attore non rimaneva dentro il personaggio, anzi scherzava e sorrideva assieme agli altri membri del cast; che poi dopo le riprese Heath abbia affrontato un periodo segnato da depressione è comprensibile, data l’intensità e lo sforzo emotivo a cui è andato incontro.

Non a caso, ha ricevuto la regolare prescrizione di alcuni farmaci ansiolitici, analgesici e sedativi: proprio alcuni di essi sono stati ritrovati in circolo dopo l’autopsia e l’effetto combinato sarebbe stato responsabile della morte, e non un overdose a scopo suicida, come molti pensano.

Affermare che Heath sia impazzito a causa del suo Joker è semplicemente del becero gossip ed un vero e proprio insulto al lavoro svolto dall’attore, in quanto così viene messo in secondo piano quello che è stato il principale merito di Heath Ledger: di richiamare a sé tutta la follia del personaggio ed esternarla completamente quando le telecamere erano accese.

Concretamente l’attore è stato capace di governare a proprio piacimento l’indomabile pazzia.

Aspetti esteriori

Una volta terminato questo dettagliatissimo processo di introspezione, Heath Ledger si è potuto concentrare sugli altri aspetti del proprio personaggio.

La postura del Joker appare leggermente ingobbita, il quanto basta per rendere ancor più raccapricciante la sua figura.

Per quanto concerne la voce, l’attore ha deciso di ricrearne una caratterizzata da una lieve tonalità nasale che suscita timore nei suoi interlocutori.

I discorsi effettuati dal personaggio vengono spesso interrotti da alcune risate deliranti e da momenti in cui mastica il nulla in maniera palese (e questo della masticazione forse è il dettaglio che più contraddistingue il Joker di Heath Ledger, dato che evidenzia un palese disturbo psichiatrico).

Una delle risate disturbanti del Joker di Heath Ledger – Fonte: sylg1.wordpress.com

Tutti questi fattori hanno contribuito a creare uno dei personaggi migliori della storia del cinema.

Heath Ledger è riuscito ad interpretare un uomo esuberante, privo d’empatia, altamente megalomane ed eccessivamente violento in maniera magistrale, tanto che è stato premiato con l’Oscar per il miglior attore non protagonista nel 2009. Purtroppo alla cerimonia non era presente data la sua prematura scomparsa avvenuta nel gennaio del 2008.

 

Un interprete incredibile, pieno di talento e dall’incredibile forza di volontà. Attori così dediti al proprio lavoro di rado se ne trovano ed Heath Ledger era una pietra preziosa, non solo per Hollywood, ma per il cinema mondiale.

Chissà cosa sarebbe stato capace di fare quest’uomo se non se ne fosse andato così presto. Resta un grande vuoto ed un profondo rammarico per tutti gli amanti della settima arte.

Vincenzo Barbera