Intervista a Marco Bellocchio: maestro del cinema italiano moderno

Dagli studi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, alla sua attenzione sul vasto promontorio
della narratività intermediale. È una lunga storia quella del regista italiano Marco Bellocchio che lo scorso 7 dicembre ‘23 ha ricevuto, nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università degli Studi di Messina, il Dottorato Honoris Causa in Scienze Cognitive, curriculum “Teorie e tecnologie sociali, territoriali, dei media e delle arti performative”. Durante la cerimonia, la laudatio tenuta dal professore di Storia del cinema, Federico Vitella, si è rivelata un ottimo modo per ripercorrere nel dettaglio la lunga ed affascinante carriera del regista:

“Abbiamo l’onore di consegnare il dottorato al più grande regista italiano vivente. Esponente del nuovo cinema italiano degli anni Sessanta ha saputo rinnovare l’arte cinematografica, svecchiandone la narrazione e spalancando le porte al cinema moderno”.

Sono state queste alcune delle parole pronunciate dal professore nel presentare minuziosamente la figura di Bellocchio. Difatti, per quanto il cinema moderno abbia provato a sottrarsi alla narratività, l’ha solamente resa più multiforme, ramificata e complessa. E la filmografia di Marco Bellocchio ne è la prova. Proprio lui che nel corso della sua carriera si è spesso trovato a fare i conti con la letteratura, in particolar modo con quella del ‘900, è stato capace di coniugare organicamente, nella sua cinematografia, i due modi del racconto scritturale: il mostrare e il raccontare. Un vero e proprio rinnovatore della forma, proprio come i suoi maestri. E noi di UniVersoMe non potevamo farci scappare l’occasione di conoscere un po’ più da vicino uno dei più grandi autori della storia del cinema italiano!

Bellocchio
Domenico Leonello intervista il regista italiano Marco Bellocchio. @ Ilaria Denaro


Dott. Marco Bellocchio, durante la sua Lectio Doctoralis ha citato autori che, come lei, hanno fatto la
storia del cinema. Ha parlato di espressionismo tedesco, di realismo francese. Ma da quale corrente cinematografica o, meglio, da quale autore lei sente di aver appreso di più?

È passato molto tempo. Io parlo della mia formazione. A quei tempi l’espressionismo tedesco o il grande
cinema sovietico avevano dei risultati straordinari. Naturalmente da quel momento ad oggi sono passati dei
grandissimi maestri. Si pensi ad Antonioni, a Fellini, a Rossellini o a Ferreri. Tutti grandi registi italiani che mi hanno condizionato. Si pensi anche al rapporto con Bernardo Bertolucci. Insomma, una lunga storia!

Immagino anche i principali autori della Nouvelle Vague: Godard e Truffaut. Come ricordava il professore di Storia del cinema, Federico Vitella, sono stati loro i primi a “tagliare i ponti” con il “cinéma de papa”, il “cinema di papà”.

La Nouvelle Vague è stata molto importante. Erano gli anni in cui io frequentavo il Centro Sperimentale di
Cinematografia di Roma. E loro, Godard, Truffaut, Chabrol e René, erano i grandi rinnovatori della forma!
In questo senso si, anche questi maestri sono stati sicuramente preziosi, utili, nel mio lavoro.

Nella sua laudatio, il professore di Storia del cinema, Federico Vitella, ha ricordato il modo in cui lei si è destreggiato nel mondo dell’intermedialità, della transmedialità e della virtualità. Restando, dunque, sempre nel campo delle “narrazioni espanse”, qual è la sua opinione sugli adattamenti cinematografici?

Sicuramente tutto quello che lei ha citato entra nel cinema e chiunque faccia cinema ne può essere
arricchito. Noi oggi usiamo tutte queste nuove tecniche che, in fondo, entrano naturalmente nella nostra
immaginazione e, di conseguenza, finiamo per ritrovarle anche nelle risposte che noi stessi diamo. In
passato, ad esempio, quando ho iniziato, non esisteva il discorso sul repertorio. Adesso invece i vari tipi di
immagini possono combinarsi, possono fondersi, e diventare un racconto del tutto nuovo.

Cosa consiglia ai giovani che desiderano intraprendere la sua stessa carriera o, comunque, entrare nel fantastico mondo del cinema?

(Sorride) Non so! È impossibile dare una risposta. Potrei farlo con qualcuno che conosco, di cui ho visto
qualcosa. Ma così, genericamente, io non posso dare una risposta poiché sarebbe del tutto superficiale.


Domenico Leonello

Caporedattore UniVersoMe


*Articolo pubblicato il 21/12/2023 sull’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud

Comandante, il nuovo successo di Pierfrancesco Favino

Comandante
Comandante racconta le gesta di Salvatore Todaro, che qui è interpretato da Pierfrancesco Favino ed anche qui, ha fatto centro. Voto UVM: 4/5

Comandante è un film italiano del 2023 diretto da Edoardo De Angelis. È stato presentato in anteprima alla 80° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ed è stato anche il film d’apertura del Festival. L’attore protagonista è Pierfrancesco Favino.

Comandante: trama

Il film si svolge nel 1940, durante la Seconda Guerra Mondiale. Il protagonista è Salvatore Todaro, un uomo nato a Messina nel 1908 e comandante del sommergibile Cappellini. Durante una missione, il sommergibile viene attaccato dai Belgi, ma Todaro e i suoi uomini rispondono al fuoco ed affondano la nave. Dopo la battaglia, Todaro decide di salvare i naufraghi e di portarli in salvo. Per lui, la legge del mare è più importante della legge della guerra.

Comandante
Pierfrancesco Favino in una scena del film. Fonte: Cineuropa.org

Il  miglior film di Edoardo De Angelis?

Più che il miglior film, è più giusto dire che uno dei pilastri più importanti della carriera di Edoardo De Angelis: è senza dubbio il film più ambizioso che abbia mai fatto. La regia qui è piuttosto ben strutturata e le inquadrature mettono a fuoco i vari step della missione di Todaro.

Quando si parla di biopic, si tende sempre a romanzare la vicenda ma ciò che conta non è la vicenda raccontata, ma il modus operandi adottato per la narrazione. Spesso, ci si prende anche una leggera libertà ed a mostrare una visione autoriale, ma Comandante ha un comparto tecnico ben consolidato e permette di raggiungere lo scopo del regista.

Lo stile adottato consiste in un ritmo un po’ prolisso, che non arriva subito ad un punto ben preciso. La lentezza percepita è “necessaria” perché l’obiettivo è quello di coinvolgere lo spettatore e fargli capire bene la psicologia di Todaro e tutte le sfumature della missione, all’interno del sommergibile Cappellini. De Angelis chiede pazienza ed infatti, il vero fulcro della storia emerge durante la seconda parte del film, dopo aver presentato adeguatamente il protagonista e la missione che sta sostenendo.

Tutto questo è accompagnato da una fotografia straordinaria: mette a fuoco le varie situazioni, sia all’interno che all’esterno del sommergibile, con uno stile pittoresco. Nel cercare qualche difetto nel film, si possono notare alcuni stereotipi mostrati.

Comandante
Fonte: Larepubblica.it

Comandante è un film di propaganda?

Oltre a raccontare le gesta di Salvatore Todaro e capire la sua psicologia, Comandante ha anche un altro scopo. Il movente di Comandante è piuttosto chiaro, ma non è forzato perché arriva al momento giusto e senza risultare ingombrante. Anzi, questo è uno dei casi piuttosto contestualizzati e piano piano il messaggio arriva per colpire lo spettatore in un punto preciso, mentre si ritrova coinvolto, insieme ai personaggi, nella missione.

Il film racconta una storia vera per mostrare la rivendicazione del valore del soccorso e portare ad una riflessione su una tematica piuttosto attuale ed abbastanza dibattuta. La visione del film può portare a vedere la tematica del soccorso in mare da un’altra angolazione. Todaro è la storia giusta, perché qui viene presentato come un uomo che vive un dissidio interno, tra il mantenimento di certi principi politici e l’essere un uomo di valori, pronto ad aiutare il prossimo. Oltre tutto, è stato interpretato da un fantastico Pierfrancesco Favino.

Favino ha fatto centro ?

«Una volta c’erano i ruoli, per gli attori. Adesso li fa tutti Favino» diceva l’attore Martellone – sconsolato – nella serie tv «Boris».

 

C’è della verità forse in questa frase satirica, però il fatto che Favino sia quasi ovunque (quest’anno si è già visto ne L’Ultima Notte Di Amore ed ora a Dicembre, sarà presente anche in Adagio) non nasconde il fatto che sia un bravissimo attore. Sì, Favino è bravo, ma bravo ad alti livelli ed è difficile che ne sbagli una. Basta pensare ad alcuni ruoli iconici della sua carriera (Il Traditore, Nostalgia, L’Ultima Notte Di Amore, Hammamet, Gli Anni Più Belli, Corro Da Te) in cui ha avuto modo di interpretare personaggi di ogni tipo ed ogni volta dimostra di essere perfettamente capaci di ricoprire qualsiasi ruolo.

In Comandante interpreta un uomo che va contro certi principi, per abbracciare poi il valore più importante. Ricorda che, al di là di tutto, lui è pur sempre un uomo e lo sono anche i naufraghi e i suoi nemici.

Giorgio Maria Aloi

Gina Lollobrigida, addio!

Gina Lollobrigida ci lascia alla veneranda età di 95 anni. Nata nella periferia di Roma, classe 1927, icona di un mondo perduto ed ormai ben lontano dalla nostra realtà. All’anagrafe Luigia Lollobrigida fu attrice, cantante, scultrice e negli ultimi anni persino fotografa. Espressione di un’Italia diversa, più corale e più vera, il mondo del cinema piange una star di calibro internazionale. 

“Nel cinema dei giorni nostri c’è meno sentimento. Ci sono delle storie che vanno avanti in un insieme di futurismo assoluto, che io quando le vedo, cambio canale. Nel cinema italiano, quando era il numero uno nel mondo, ed era quello che fortunatamente ho fatto io, c’era più sentimento, la gente si vedeva un film e si immedesimava, piangeva e si emozionava. Nei film c’era un qualcosa che toccava il nostro sentimento.”

Gina Lollobrigida / Dove tutto iniziò

Una donna che, durante gli anni difficili del post guerra, è stata capace di reinventarsi. Tutto inizia nel 1947 a soli 20 anni dove, nel concorso di bellezza Miss Roma si classifica seconda. La competizione verrà vinta da Lucia Bosè. L’arrivare seconda, per la Lollobrigida però, si rivelò un importantissimo trampolino di lancio. Infatti, le diede visibilità e le permise di potersi classificare terza a Miss Italia nel medesimo anno. In poco tempo, quasi da zero, riuscì a diventare una star che il mondo ci invidierà per sempre. Ha lavorato al fianco di moltissimi fuoriclasse come Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Claudia Cardinale e Frank Sinatra.

Tra i suoi primi successi, Campane a martello del 1949 di Luigi Zampa ed Achtung! Banditi! del 1951 di Carlo Lizzani. Conquistò il pubblico con Altri tempi di Alessandro Blasetti, dove nell’episodio de Il processo di Frine venne coniato proprio per lei da De Sica il neologismo di “maggiorata fisica”. La popolarità la otterrà con il film “Pane, amore e fantasia” , commedia italiana del 1953 diretta da Luigi Comencini, recitando accanto a Vittorio De Sica, ove verrà soprannominata la “Bersagliera“.

Una carriera piena di successo

Negli anni ’50 durante il periodo del neorealismo cinematografico, Gina Lollobrigida, soprannominata La Lollo dalla stampa italiana, diventò protagonista di produzioni hollywoodiane. Tra le pellicole più importanti, nel 1953 “Il tesoro dell’Africa” di John Houston, nel 1954 “Il maestro di Don Giovanni” di Milton Krims, con Errol Flynn e l’anno successivo prese parte a “La donna più bella del mondo” con la regia di Robert Z. Leonard, in coppia con l’attore, regista e poi amico Vittorio Gassman, diventando una sex symbol ante litteram.

Ha recitato in più di 60 film e ha lavorato con i più grandi attori di quegli anni da Marcello Mastroianni a Yul Brynner, da Sean Connery e Rock Hudson. Durante gli anni ’70 decise di allontanarsi dal mondo del cinema per dedicarsi alla fotografia, pubblicando più di cinque libri sulle sue foto. Nel corso della sua proficua carriera vinse ben sette David di Donatello. Durante gli anni ’70 sarà celebre anche il suo ruolo di Fata Turchina in “Le avventure di Pinocchio” diretto sempre da Luigi Comencini.

Gina Lollobrigida
Gina Lollobrigida nei panni della fata turchina. Fonte: Picryl.com

 

Gina Lollobrigida, senza alcun dubbio, è stata una delle attrici più rinomate, ammirate e famose del mondo intero, al pari della sua rivale storica per bellezza, talento e fama nei set e nella vita, Sophia Loren. Un successo che inizia dalla periferia romana per arrivare oltre oceano dove continuerà a splendere per sempre la sua stella sulla Walk Of Fame.

Gli ultimi anni

Diva eclettica, carismatica e piena di charme, Gina Lollobrigida fu un grande esempio per la sua generazione, ad oggi decimata. Negli ultimi anni si era ritirata a vita privata dopo una lunga carriera passata sul grande e sul piccolo schermo. Nonostante alcuni problemi in sede giudiziaria di natura civile e qualche incidente domestico negli anni scorsi, ebbe una vecchiaia più o meno serena. Non sono note eventuali complicazioni da un punto di vista di salute né le dinamiche o le circostanze in cui la 95enne si è spenta. Quel che sicuramente permane è il suo talento e la sua professionalità.

Sono stati molti i messaggi di cordoglio, provenienti da personalità italiane e non, nei confronti della dipartita della Lollo. Addio Gina! Che la terra ti sia lieve.

Marta Ferrato

Giorgia Fichera

Ma che razza di isola è? Alla scoperta del nuovo film di Sibilia

Voto UVM 4/5: Una delle migliori commedie degli ultimi tempi. Diverte e fa riflettere senza annoiare

Sbarcato da più di un mese su Netflix, L’incredibile storia dell’isola delle rose ha raccolto parecchie lodi, ma anche diverse critiche. Noi di UniVersoMe non potevamo perdere l’occasione di svelarvi i segreti del suo successo e dirvi cosa ne pensiamo dell’ultimo film di Sidney Sibilia.

Tra realtà e finzione: l’incredibile trama

Bologna, anni ’60. L’ingegner Giorgio Rosa (Elio Germano), appena laureatosi è un ragazzo inventivo e stravagante che sembra vivere in un mondo a parte e ai limiti della legalità. Proprio perché incapace ad adattarsi, decide di fondare una nazione tutta sua servendosi di un’idea geniale: costruire una piattaforma a 12 km dalla costa di Rimini, fuori dalle acque territoriali italiane. Il suo progetto incontrerà le ire del presidente del consiglio Giovanni Leone (Luca Zingaretti) e del ministro degli interni Franco Restivo (Fabrizio Bentivoglio).

L’incredibile storia dell’isola delle Rose: locandina. Fonte: eHabitat.it

Il film di Sibilia prende spunto da una storia vera: quella della Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose, micronazione durata meno di un anno (dal maggio ’68 al febbraio ’69), dotata di propria bandiera, valuta e governo, fondata dall’ingegner Rosa.

Tuttavia anziché dare una ricostruzione fedele dei fatti, il regista preferisce ispirarsi al romanzo di Walter Veltroni: L’isola e le rose;  infatti ritrae la piattaforma di Rosa come una piccola Woodstock dell’Adriatico  laddove nella realtà storica l’ingegnere, sebbene ostacolato dallo Stato, era mosso più da fini commerciali che politici e il suo intento non era quello di dar vita a una sorta di esperimento utopico. Chi si aspetta una lezione di storia degna di un docu-film rimarrà perciò deluso. Resta invece piacevolmente colpito chi vuole ridere, ma anche riflettere su un’avventura breve ma ancora oggi suggestiva.

La vera Isola delle Rose in una foto d’epoca. Fonte: living.corriere.it

Il film pone diversi interrogativi allo spettatore: perchè le autorità sono state così poco tolleranti nei confronti di questa impresa? Era forse il periodo storico particolarmente caldo a giustificare la bocciatura di ogni iniziativa che inneggiasse alla libertà? 

In effetti la pellicola lascia lo spettatore un po’ con l’amaro in bocca e il rimpianto di non aver passato – neanche un giorno – su quella piattaforma che è ignorata da tanti libri di storia. Discoteca balneare o paradiso utopico, non si doveva star poi così male sull’Isola delle Rose. 

Perché ci piace così tanto l’Isola delle Rose?

Nessun uomo è un’isola, ma ognuno di noi in cuor suo lo desidera. In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, in cui il più piccolo errore di un individuo ricade inevitabilmente su tutti gli altri – in una sorta di catena infinita da fiera dell’est – quale rifugio migliore di un’isola-Stato costruita a misura dei nostri desideri? Tanto più adesso che una malattia contagiosa quale il Covid-19 ci mostra come la società umana sia una grande rete che protegge anche se a volte finisce per soffocare.

L’isola colma di turisti in festa. Fonte: agi.it

Ecco perché simpatizziamo con il protagonista, una sorta di moderno Peter Pan pronto a costruirsi da sé la mitica isola che non c’è. Ancora di più si immedesimano tutti quelli più volte riportati sulla retta via perché troppo eccentrici e sbadati e perciò accusati di “vivere in un mondo tutto loro”. Insomma nel protagonista si ritrovano tutti coloro che sono come strumenti incapaci di andare a tempo col ritmo dell’intera orchestra, a cui non resta che la fuga felice – o peggio – il naufragio.

Perché convince il film di Sibilia?

Resta a galla, a differenza del progetto di Rosa, la commedia scritta e diretta da Sibilia: un mix perfetto di realtà storica romanzata, comicità e riflessione politica solo accennata e quel goccio di nostalgia che non manca mai in un film ambientato nei mitici anni ’60. La colonna sonora accompagna degnamente quel vento di libertà che il film fa respirare: il nostro protagonista ha l’illuminazione di costruire una piattaforma sul ruggente sottofondo di Hey Joe di Jimi Hendrix.

Cast del film. Fonte: viaggicorriere.it

Convince anche il cast: su tutti Elio Germano si rivela ancora una volta perfetto nei panni del diverso, dell’ingenuo visionario; anche qui sarà un giovane favoloso che sa credere alle proprie aspirazioni pur di cambiare il mondo o «almeno di provarci». La sua performance vanta poi un bolognese impeccabile. A questo proposito anche la scelta di enfatizzare i dialetti rende lo script ancora più divertente.

Forse possiamo storcere il naso (ma anche ridere) davanti al siciliano – per alcuni caricaturale – del bravissimo Fabrizio Bentivoglio: in alcune scene più gangster che uomo di stato. Ma in ogni caso le diverse parlate dei protagonisti creano un mosaico ancor più vivace e variegato.

Nella squadra dello stravagante ingegnere, desta meno simpatia l’amico Orlandini (Leonardo Lidi), viziato figlio di papà che ruba dalle casse dell’azienda di famiglia e fa ricadere la colpa sugli operai calabresi; qui saranno complici i pregiudizi dell’epoca. Tuttavia anche dietro questo personaggio moralmente discutibile si intravede il tocco di Sibilia (già evidente nella trilogia Smetto quando voglio) che ritrae con pregi e difetti personalità a tutto tondo, allontanandosi dal riduttivo schema buoni vs cattivi da happy-ending comedy.

Sicuramente più simpatico e sui generis invece Rudy Neumann (Tom Wlaschiha): apolide rigettato dalla Germania, perché disertore durante la Seconda Guerra Mondiale, sarà accolto a braccia aperte sull’Isola . Di personaggi tedeschi abbondano le commedie di tutti i tempi, ma raramente si esce dallo stereotipo del rigido intellettuale o del generale super severo pronto a impartire ordini di nazista memoria.

Rudy Neumann (Tom Wlaschiha) anima le feste dell’Isola. Fonte: avgmagazine.it

Chi si aspetterebbe invece un PR ante-litteram, un animatore che grida con accento germanico «Benvenuti sull’isola delle rose!»? Neumann è proprio questo e perciò incarna alla perfezione lo spirito di una commedia che non pretende di essere un film storico o ideologico, ma rimane comunque un inno a tutti i diversi, ai senza patria, ai fuori posto, a coloro al di là di tutte le convenzioni e aspettative altrui.

  Angelica Rocca

100 anni con Alberto Sordi: un italiano dei nostri tempi

Il 15 giugno di cento anni fa nasceva Alberto Sordi, il nostro Albertone, una delle immortali maschere del cinema comico italiano.

Nasceva a Roma, quella Roma che meglio di chiunque altro ha saputo portare sul grande schermo. La Roma della corruzione, del pressappochismo, della rassegnazione, del qualunquismo e del servilismo. Ma anche la Roma degli imperatori, dei Fori e di Cinecittà, la Roma del “chissenefrega”, della gioia di vivere e di far ridere. Se la città eterna ha due facce – proprio come la luna – possiamo dire che Sordi ha saputo indossare a piacimento entrambe le maschere e velare di sorrisi e leggerezza difetti e contraddizioni della sua città … e di tutta l’Italia!

Esordi di un mito

Gli esordi di Albertone parlano da sé: nato in una famiglia in cui si respira aria d’arte (il padre è maestro di musica), non vuole proprio saperne di diventare ragioniere e tenta invece il grande salto nella carriera drammaturgica all’Accademia dei filodrammatici a Milano. Colmo dei colmi, qui verrà espulso per l’ inflessione troppo romanesca, quell’inflessione che darà un’impronta caratteristica e memorabile ai suoi personaggi. Cosa sarebbe l’americano di Steno senza il “mo me te magno!” con cui fa fuori un intero piatto di “maccaroni”?  Il fante Jacovacci senza il suo “Booni”? O il celebre marchese del Grillo senza il suo “Io so’ io e voi non siete un ca**o” simbolo di presunzione aristocratica?

Sordi ne ” Il marchese del grillo” di Monicelli, 1981. Fonte: wikipedia.org

Scartato dall’Accademia, Sordi tenta una scorciatoia per diventare attore: la carriera di doppiatore. Dal 1937 sarà infatti la voce italiana di Oliver Hardy (per intenderci: l’Ollio compagno di Stanlio). La sua caratteristica voce nasale gli darà modo di primeggiare anche a Radio Rai: qui creerà personaggi e macchiette trasposte poi in film di altrettanto successo.

 Albertone al cinema: la maschera dell’italiano medio

Talentuoso doppiatore, attore radiofonico e di teatro, ma anche compositore di memorabili canzoni, Albertone come mito nasce però al cinema e la sua fama è irrimediabilmente legata agli innumerevoli personaggi che ha saputo interpretare con realismo e comicità innata. Se pensiamo al cinema degli anni ’50  e ‘60 ci verranno in mente gli occhi di ghiaccio di Paul Newman, il fascino ribelle di James Dean o- per restare nei confini nazionali- la bellezza composta di un Mastroianni o l’imponenza di Gassman.

Alberto Sordi non era niente di tutto questo! Il faccione largo, il nasone adunco e il sorriso beffardo non rientravano certo nei canoni estetici dell’epoca, ma saranno tratti essenziali di quella maschera dell’italiano medio, signore assoluto della commedia all’italiana. Dopo l’esordio nei film dell’amico Fellini Lo sceicco bianco (1952), poco apprezzato dalla critica e il ben più fortunato I vitelloni  ( qui la nostra recensione in un articolo su Fellini), Albertone, diretto dai più grandi registi italiani, darà corpo e fiato a personaggi che si prendono gioco dei difetti dell’Italia del tempo grazie a una parlata tutta sua: ora piagnucolona e assillante, ora menefreghista e ipocrita nonché a un modo di camminare esemplare (si pensi al celebre saltello con cui entrava in scena anche negli spettacoli televisivi).

La celebre pernacchia ai lavoratori ne “I vitelloni”. Fonte: open. online

Tra i tanti, sarà nullafacente con la passione per l’America  in Un americano a Roma di Steno (1954), scapolo incallito ne Lo scapolo di Antonio Pietrangeli (1955) e poi marito di una tirannica Franca Valeri ne Il vedovo di Risi (1959), medico spregiudicato ne Il medico della mutua (1968) di Luigi Zampa e nel sequel del ’69 diretto da Salce.

Sordi che mangia i maccheroni nella celebre scena di “Un americano a Roma”. Fonte: wikipedia.org

Dalla fine degli anni ’60, affiancherà alla carriera d’attore quella di regista. Sordi regista porterà dietro la macchina da presa quel gusto tutto italiano di far ridere non rinunciando a rappresentare in maniera satirica luci e ombre della realtà sociale. Pellicole come “Fumo di Londra” e “Un italiano in America” (quest’ultima a fianco del grande De Sica) rappresentano realtà estere quali l’Inghilterra e gli States spesso troppo idealizzate dal Bel Paese.

A narrarle lo sguardo di un provinciale come tutti noi: incantato e stordito dalle insegne luminose e dal caos delle cities, scoprirà presto che Londra non è più capitale di gentleman in bombetta e il sogno americano di gloria e ricchezza è in realtà un incubo da cui ti svegli presto, pieno di debiti fino al collo e con gli strozzini alle calcagna.

Un italiano in America, locandina. Fonte: raiplay.it

L’eroe di Monicelli

È però la collaborazione con Mario Monicelli a rappresentare in maniera esemplare la splendente parabola comico-drammatica di Sordi. Soffermiamoci su due film celebri.

In  Un eroe dei nostri tempi  (1955) Alberto Sordi è tutt’altro che un eroe, anzi un classico antieroe proprio come lo è il Paperino dei fumetti. Adulatore dei superiori, infantile e petulante, Alberto Menichetti è un impiegato d’azienda che si dimostra vile in qualsiasi situazione quotidiana: sfugge alle botte dei più forti, non prende mai parte agli scioperi e per di più ha la fobia di rimanere incastrato nei fatti di cronaca più gravi.

Sordi che si dà per malato col proprio capo in “Un eroe dei nostri tempi”. Fonte: cristaldifilm.com

Insomma uno che in guerra se la svignerebbe sempre dalla trincea.

Sembra su questa linea un altro grande personaggio interpretato da Albertone, il fante romano Oreste Jacovacci ne La grande Guerra (1959). Il conflitto gli permetterà alla fine di sfoggiare doti di buon cuore e coraggio inaspettate che faranno di lui un vero eroe. È per Sordi la svolta: la sua prova d’attore regge anche in un contesto drammatico. Al suo fianco Vittorio Gassman nei panni del fante Giovanni Busacca, milanese anarchico sprezzante dell’amor patrio, degli ideali bellici e dei suoi commilitoni “da Roma in giù”. Insomma due realtà italiane che Monicelli mette a confronto con pregi e difetti senza far sconti a nessuno.

I due commilitoni Sordi e Gassman ne “La grande guerra”. Fonte: pinterest.it

Perché Sordi rappresenta ancora ognuno di noi?

C’è una comicità d’evasione in cui ci rifuggiamo per sfuggire ai conflitti e alle contraddizioni del quotidiano e c’è una comicità- specchio, che questi conflitti li mette in mostra senza paura. Ognuno di noi si riconosce in una sorta di ritratto buffo e satirico davanti al quale può ridere, ma anche prendere coscienza.

E questa è la comicità di Sordi, attuale come non mai.

Si pensi a Guido Tersilli, il medico della mutua, esempio di una sanità sempre più rivolta al lucro che alla salute dei pazienti. Sanità che – intendiamoci – non esiste soltanto nelle città da Roma in giù! Si pensi poi a Il boom, pellicola del 1963 diretta da De Sica, in cui Sordi interpreta un marito sommerso dai debiti  a causa del tenore di vita da alto-borghese.

Il boom, locandina. Fonte: raicultura.it

“Lei venderebbe un occhio?” si sente rivolgere il protagonista allibito. E’ una domanda che dovremmo trovare in tanti copioni odierni che si vantano di trattare temi politici e impegnati con la stessa franchezza e dove la parola “crisi economica” fa da padrone. Ma sono cambiati i tempi: manca quella disinvoltura, quella fantasia, quello sguardo attento al reale privo di buonismo, mancano i grandi registi della commedia all’italiana. Manca una maschera dalla risata amara. Manca un comico come Alberto Sordi!

 

Angelica Rocca

Allacciate le cinture (2014) di Ferzan Ozpetek

Una storia d’amore raccontata in chiave moderna. Voto UvM: 3/5

 

 

 

 

Lecce, primi anni 2000.

Tre amici, Elena, Fabio e Silvia, lavorano in un bar del centro.

A sconvolgere la loro quotidianità è l’arrivo di Antonio, burbero meccanico palestrato dalle idee poco politically correct, con cui Silvia ha una relazione. Antonio non piace a nessuno, men che mai ad Elena, venticinquenne intelligente e di larghe vedute.

Tra i due tuttavia nasce qualcosa, prima basato solo sull’attrazione fisica, poi un sentimento più profondo.

Dieci anni dopo infatti Antonio è ancora a fianco di Elena; la coppia ha due bambini e procede tra alti e bassi: le continue scappatelle di lui e l’apparente indifferenza di lei che si dedica esclusivamente al lavoro trascurando anche la famiglia.

L’equilibrio si rompe quando Elena scopre di avere un tumore al seno: a sostenerla ci sono madre e zia e Fabio, l’amico di sempre.

Antonio invece innalza altri muri per proteggersi dal dolore.

 

 

Tuttavia la malattia di Elena sarà l’occasione per far riemergere parole non dette, sentimenti sopiti e una passione che in fondo non si era mai spenta.

A un primo sguardo, la decima pellicola di Ferzan Ozpetek non brilla certo di originalità per quanto riguarda dialoghi e trama.

Già lo slogan “Un grande amore non avrà mai fine” lascerebbe presagire la solita storiella melensa in cui c’è spazio solo per le vicende di due protagonisti, niente personaggi di contorno e nessun contesto di sfondo a rendere più pittoresco il tutto.

E invece non è così.

Come altri film del regista italo-turco, Allacciate le cinture può essere definito un film corale. Oltre a Elena (Kasia Smutniak) e Antonio (Francesco Arca),i classici opposti che per caso si conoscono e un po’ meno per caso si attraggono, spiccano personaggi quali quello di Egle Santini ( Paola Minaccioni), malata di cancro ai polmoni che la protagonista incontra in ospedale, la provocante parrucchiera Maricla ( Luisa Ranieri) e l’eccentrica zia di lei interpretata da una bravissima Elena Sofia Ricci.

Ozpetek come al solito cerca di dare voce un po’ ai drammi di tutti e di caratterizzare a tinte definite anche i personaggi secondari con le loro piccole fisse e follie quotidiane, abitudine ormai desueta anche nel panorama del cinema italiano.

Ma il vero tocco da maestro si rivela nel suo saper giocare col tempo.

Dilatato (come nel piano sequenza iniziale che insiste sulle gambe dei passanti sotto la pioggia) o contratto ( la narrazione a un certo punto salta un arco di ben dieci anni lasciando solo intendere gli sviluppi delle vicende dei protagonisti), non è mai il tempo a fare da padrone nella storia, ma è quest’ultima semmai e i suoi personaggi con le loro aspettative, gioie e dolori a dettarne la direzione.

Che è tutt’altro che lineare.

L’apice si raggiunge nella scena in cui Elena e Antonio tornano a mare, il luogo dove anni prima era scoppiata la passione.

 

 

Colpo di scena inaspettato: i piani temporali si intersecano e il racconto ritorna nuovamente alle vicende di dieci anni prima.

In Allacciate le cinture la memoria e il caso o, se si vuole azzardare, il destino mescolano le carte in tavola e passato e presente si confondono ad indicare che quando si tratta di sentimenti anche questi sono solo nomi convenzionali.

Forse anche la parola fine che Ozpetek, non a caso, non ci tiene a raccontare!

 

Angelica Rocca

 

Dogman: il ritorno di Matteo Garrone

Marcello (Marcello Fonte) è proprietario di una bottega di toelettatura per cani, il lavoro lo assorbe completamente, così come l’amore per la figlia Alida (Alida Baldari Calabria) e lo strano rapporto di sudditanza che lo lega a Simoncino (Edoardo Pesce), delinquente del quartiere che terrorizza tutti e tiene in pugno Marcello. Dopo l’ennesimo sopruso la volontà del protagonista di riaffermare la propria dignità prevale e il rapporto prende una piega del tutto inaspettata.

Lo sfondo è quello della degradata periferia romana, la storia è liberamente ispirata ad uno dei casi di cronaca nera più duri, la vicenda a tutti nota del Canaro della Magliana.

Il regista Matteo Garrone, ha chiarito che questo film non vuole essere una narrazione di come avvenne quel delitto ma si tratta di uno spunto per una nuova vicenda, che si basa principalmente su una riflessione a riguardo delle vite dei personaggi, dei loro pensieri, della genesi della vendetta che verrà progettata da Marcello. E’ il lato psicologico a venir messo a fuoco.

Marcello è un uomo buono, inoffensivo, vittima di soprusi da parte di Simoncino ma al tempo stesso benvoluto dalla gente del quartiere, innamorato dei cani, del suo lavoro, della figlia, ma non di se stesso. La sua esasperazione nasce da questo odio verso la propria condizione, condizione in cui però è lui stesso a mettersi ogni giorno subendo ancora e ancora. Ed è allora che esplode tutta la sua brutalità, violenta e crudele ma che non porterà a nulla, non risolve i suoi conflitti interiori.

L’interpretazione di Marcello Fonte è indecrivibile: il suo volto, la fisicità, l’espressione buona ma triste non avrebbero potuto rendere giustizia migliore al protagonista; Garrone come sempre si concentra sui volti e come sempre la scelta è stata impeccabile. Non per nulla il reggino Fonte si è aggiudicato il premio come migliore attore al Festival di Cannes 2018. E’ un film reale ma al tempo stesso astratto, come fosse atemporale, fuori da tutto. Le ambientazioni sono quasi sempre buie, l’atmosfera triste e violenta, il tutto accompagnato da un sentimento di paura e una malinconia lacerante.

Al tempo stesso una carica di suspence ti fa rimanere con gli occhi incollati allo schermo, il cuore che ogni nuova scena ha un balzo perche sai che qualunque cosa potrebbe accadere. Che dire? Garrone con questo suo ultimo lavoro si è superato, è pefetto sotto tutti i punti di vista. Anche la violenza che pervade viene raccontata e descritta con una tale bravura da renderla assolutamente indispensabile alla buona riuscita del racconto.

 

Benedetta Sisinni

Continuano le giornate di cinema2day

Grande successo di pubblico per questa settima edizione di Cinema2day che giorno 9 marzo ha registrato quasi novecentomila spettatori, con una particolare affluenza nelle sale del Sud e nelle periferie delle grandi città.

Grazie alla promozione che il Ministero ha lanciato lo scorso settembre, in collaborazione con le associazioni di categoria Anica, Anem e Anec, la giornata di mercoledì 8 marzo, ha registrato 896.847 presenze, con un aumento in picchiata rispetto al mercoledì precedente (1° marzo) che ne aveva registrate 234.737.

“È stata un’altra grande giornata di festa per i ragazzi e le famiglie” ha dichiarato il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini, commentando i dati.

È Logan – the Wolverine a continuare a dominare la classifica. Seconda posizione per Beata Ignoranza di Massimiliano Bruno col duo rodato Giallini-Gassmann. Al terzo posto risale Omicidio all’Italiana di Maccio Capatonda . Al quarto posto debutta Il Diritto di Contare con Taraji P. Henson , Octavia Spencer e Janelle Monae.

Le prossime date in cui si potrà godere della iniziativa sono : il 12/4 e il 10/5.

(fonte cinematografo.it)

Arianna De Arcangelis

 

In Guerra per Amore, un film di PIF

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A tre anni da “La mafia uccide solo d’estate”, di cui riprende protagonisti principali e tema, Pif torna dietro la cinepresa con il suo secondo film che lo vede nuovamente anche protagonista.

Seconda guerra mondiale come sfondo. Arturo Giammarresi (Pif) di origini siciliane ma trapiantato in America, è pronto a tutto pur di ottenere la mano della sua amata Flora (Miriam Leone), già promessa sposa di un altro uomo, anche ad arruolarsi con gli Americani e ad approdare di nuovo nella sua terra d’origine.

L’impresa amorosa è il filo conduttore che lega le due realtà presenti nel film: lo sbarco degli Alleati in Sicilia e la presa del potere mafioso nella medesima.

La pellicola racconta con amara ironia una realtà ancora attuale; Pif si mostra all’altezza di affrontare nuovamente tale realtà e tali tematiche conducendo un film con una buona regia, lineare, senza eccessi particolari e senza errori.

Poco presente la linea comica che contraddistingueva invece l’opera precedente, anche se in alcuni punti fa il suo ritorno, come nell’esilarante lotta tra Duce e Madonnina. Buona la recitazione anche se è il protagonista stesso a presentare alle volte piccole sbavature. Ciò che stupisce è la fotografia e l’ottima ricostruzione delle ambientazioni.

Nel complesso è un film che seppur leggero fa riflettere su temi oltremodo importanti e sempre presenti nel nostro paese. Ne è assolutamente consigliata la visione!

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                                                                                                                              Benedetta Sisinni

Veloce Come Il Vento: Adrenalina e Sensibilità nell’ultimo film di Matteo Rovere

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«Disperati veri si è rimasti in pochi», dice Loris, nell’ultimo film di Matteo Rovere Veloce come il vento, viaggio a tavoletta nel mondo del campionato italiano GT e delle corse clandestine, in sala dal 7 aprile.

E se la disperazione predomina da anni in Italia, tra registi e spettatori, Veloce come il vento, insieme ad altri titoli come Lo chiamavano Jeeg Robot, Suburra o Non essere cattivo, sembra illuminare il fondo di quel vaso di Pandora rimasto aperto dagli anni ’80, in un 2016 insolitamente felice. Sì perché negli anni ’80 inizia forse un gap tra il cinema italiano e quello internazionale, in cui gli Stati Uniti la facevano e la fanno tutt’ora da padrone, grazie all’arrivo della computer grafica e degli effetti speciali ad alto budget.

 

Rovere centra in pieno il problema e affonda le mani, con determinazione e (metaforica) disperazione, nelle risorse, rimaste neglette ma non per questo prive di forza ed impatto visivo(un po’ come la vecchia auto da corsa di Loris), e che appartenevano al nostro cinema di genere, nello specifico quello dei “film di macchine”. Se l’espressione – alquanto infelice, invero – vi fa pensare solo all’ennesimo Fast and Furious o, andando a ritroso nel tempo, a Driver – l’imprendibile, allora dovreste dare un’occhiata a Le Mans – Scorciatoia per l’inferno, Speed Driver e Velocità massima (solo per citarne alcuni), tutti film italiani e tutti, tra i più e meno riusciti, appartenenti al filone in cui Rovere ha deciso, per dichiarata passione personale, di lanciarsi.

 

La trama, vagamente ispirata alla vera storia del pilota Carlo Capone, vede la giovane pilota Giulia (un’esordiente e promettente Matilda de Angelis), gareggiare nel campionato GT per mantenere la casa di famiglia, dopo l’abbandono da parte della madre e la morte del padre. La situazione, già precaria, è complicata dal ritorno del fratello maggiore di Giulia, Loris (Stefano Accorsi), ex pilota tossicodipendente abbandonato a se stesso, che decide di aiutarla.

 

Rovere è qui alle prese con un film completamente diverso dai suoi precedenti, basato su un soggetto verso cui nutre un interesse innegabile, sensibile al fascino del soggetto macchina nelle sue forme, rumori, colori, movimenti. Il rumore e l’immagine diventano di fatti vitali, in un film sulle corse automobilistiche: il montaggio sonoro è eseguito in maniera impeccabile, mentre l’occhio cinematografico del regista mostra un apprezzamento quasi voyeuristico per il rallenty, in svariate inquadrature, che però non mirano alla spettacolarità volgare viziosa americana di una sequenza, quanto piuttosto alla poesia del particolare, al piacere puro di contemplare la ghiaia smossa dagli pneumatici, evitando perciò la morbosità. L’uso dell’effetto digitale rimane marginale, tirato fuori alla sola occorrenza.

Piccole cose, insomma. Nugae di stile, che pure sono parte di una ricetta fatta di ingredienti che funzionano, come le musiche di Andrea Farri (già collaboratore di Rovere), tappeto elettronico sotto impalcatura indie rock, che accompagnano una sceneggiatura atta a fondere (parole del regista) la sensibilità di un dramma familiare ed il rombo dei motori, riuscendovi con perfetta armonia.

Il personaggio di Accorsi è decisamente il punto forte della sceneggiatura, raffigurando un’idea di tossicodipendente lontana dallo stereotipo, una combinazione di realismo sporco e stoner comedy che il pubblico italiano ha potuto vedere raramente, finora. L’attore bolognese si è calato perfettamente nella parte, libero di arricchire il personaggio con regionalismi emiliani spinti e, diete drasticamente hollywoodiane a parte, ha espresso al meglio momenti già promettenti sulla carta, come quelli che lo vedono in cortile con la sorella o in vasca da bagno con la fidanzata – anch’essa tossicodipendente – intento a sciogliere o complicare i nodi della sgangherata matassa familiare; momenti che rendono proprio quella vasca da bagno e quel cortile riconducibili, in qualche modo, da una parte a Paura e delirio a Las Vegas, in cui un lisergico Benicio del Toro delirava con Johnny Depp nel bagno di una camera d’hotel, dall’altra ai letti fassbinderiani, luoghi di riflessione e confronto intimo.

 

Veloce come il vento risulta dunque l’opera più riuscita di Matteo Rovere, presentando una formula che non ha solo gli ottani come carta vincente e che è già pronta per essere esportata nelle sale straniere. Un piccolo successo, squisitamente italiano, in grado di farsi apprezzare anche dai non amanti dei motori (come, del resto, chi scrive).

 

 

Andrea Donato