V: Il viaggio apocalittico di Mannarino

Mannarino torna a galla più prepotente che mai in un disco curioso, stimolante, potente. – Voto UVM: 4/5

 

A quattro anni di distanza dal precedente album, il cantautore romano Mannarino torna con un nuovo disco dal titolo “V”, disponibile dal 17 settembre.

Prodotto dallo stesso artista e registrato tra New York, Los Angeles, Città del Messico, Rio De Janeiro, Amazzonia e Italia con il coinvolgimento di produttori internazionali, l’album è un invito ad appellarsi alla saggezza ancestrale degli esseri umani. Un disco che parla le lingue del mondo, intriso di suoni di foresta e voci indigene. Mannarino va alla ricerca della sorgente tribale dell’umanità, proposta come unico e potente antidoto contemporaneo alla brutalità del disumano.

Cover: la Donna Guerriera di Mannarino

La cover del disco raffigura una donna combattente, guerriera. L’immagine è l’unione di due elementi: la donna e la resistenza indigena fusi insieme in un’azione: quella di calarsi il passamontagna, o forse di toglierlo, immagine evocativa di un’entrata in azione, un’azione che è difesa non violenta, poetica e ispiratrice. Calarsi il passamontagna per andare in guerra o toglierlo per mostrare e difendere la propria identità? Un’immagine contemporanea che trova la sua forza in una nuova tribalità, allo stesso tempo antica e futura.

La voce delle canzoni

Ad anticipare l’album è stato il singolo Africa, con un arrangiamento ricco di strumenti etnici e cori dal gusto africano. Mannarino canta quasi sussurrando le parole che si rivolgono in maniera diretta a quella che lo stesso artista definisce un “richiamo all’irrazionalità misteriosa”.

In Congo, invece, la poesia si fa irriverente e affilata. Con i tratti di una favola moderna, l’artista romano racconta della paura dell’altro, dell’ultimo ricercato e dell’ultima principessa, in un paesino fotografato alla vigilia di Natale. Attraverso un sound tribale alternato ad alcuni accordi di chitarra, si crea una visione apocalittica, a tratti biblica che parte dai bassifondi per arrivare al cielo a smascherare la bugia di Dio.

Vengono nell’oblio e, mentre vengono, chiamano Dio
E Dio è solo un pezzo di carne legata allo spago
Fra la bocca dell’affamato e la mano del mago.

Canti di rabbia, di rivolta, di resistenza, d’amore sono lo strumento per superare l’idea di impossibilità, ingiustizia e delusione. La voce debole e isolata trova la forza di trasformarsi in grido di battaglia, di riscatto e speranza. È questo il significato di Cantaré: un inno alla voce per chi non ha voce!

Fiume Nero è una dichiarazione d’amore “alternativa”. Qui, ci si addentra nella giungla, nella carne viva dell’album: un luogo al di fuori delle leggi dello spazio e del tempo, dove l’umano si fa Dio e mischia l’acqua con la lava. Due corpi, due esistenze, due mondi si uniscono nell’infinito, fuori da qualsiasi tipo di convenzione.

In Agua e Amazònica, entrambe registrate nella regione del Tapajos, la voce delle donne indigene combattenti “As Karuanas” accompagna quella di Mannarino. La canzone è un grido calmo, bagnato di pianto, che vuole essere una chiamata al mondo ad aprire gli occhi, ricordando che l’attacco alla terra indigena e alle risorse naturali dell’Amazzonia si sta trasformando in un vero e proprio genocidio.

Mannarino: giocoliere di parole

Chiunque ascolti il cantautore romano è sicuramente a conoscenza della sua versatilità e del suo modo di giocare con le canzoni. Questa volta lo fa con Banca De New York, un esperimento ironico e allucinato, registrata tra Roma e Città del Messico. In questo pezzo l’artista è riuscito ad unire il registro più romanesco e radicale con un mondo sonoro acido e “trippy”, ispirato al Mississippi e ai campi di cotone. Originale anche se purtroppo, per tutta la durata della canzone – a tratti ridondante – ci si aspetta un exploit che sembra non arrivare mai.

Man mano che il disco scorre, si sente serpeggiare la crisi di un uomo e simultaneamente apparire l’immagine di una donna: la Dea ipnotica. In Vagabunda questa immagine esce fuori in maniera potente. Parla di un uomo che cerca rifugio e salvezza dalle sbarre del logos occidentale in una donna, personificazione dell’“eros”.

Romantica, Eretica, Erotica

È una giungla carnosa e ipnotica questa, dove la salvezza passa per il corpo e la sensualità viene dalla ribellione.

Cantare è una mossa politica!

Il viaggio continua con la canzone cosmopolita Ballabylonia, la storia di una donna Iracema, contemporanea e futura, che dalla giungla viene attirata dalle luci della grande città, della metropoli immersa in un nuovo villaggio: quello “globale”, come direbbe il sociologo McLuhan. Si accorge così di essere in un altro tipo di giungla, ma molto più pericolosa. Musicalmente Mannarino abbandona quasi del tutto i suoni ancestrali della natura, dando più spazio all’elettronica, rafforzando l’idea del passaggio della donna Iracema dal suo tranquillo villaggio alla nostra giungla post-moderna.

Con Bandida, ereditiera della patchanka di Manu Chao, ci ritroviamo davanti alla Donna indigena, ancestrale, forte, guerriera per natura, e ribelle per cultura. Questa immagine di donna è un’immagine umana che trova la sua corrispondenza più intima nel mistero della giungla: sono crollati i monoteismi, resta il mistero, l’animismo e la spinta vitale che ci porta tutti avanti. In testa, a guidare questa folla, c’è lei, colorata e furiosa.

La libertà che guida il popolo…

Lei è la fine del viaggio, l’epilogo ideale del disco. La crisi di un uomo di fronte all’immagine della donna rappresenta una crisi storica e sociale e la lotta di lei diventa un messaggio alle generazioni future.

Lei lasciò solo una scritta sul muro:                                                                                              “pagheranno caro, pagheranno tutto”                                                                                                voi picchiate duro                                                                                                                                aprite una breccia e vedrete il futuro

Adesso che il viaggio è finito e “Lei” non c’è più, ci restano i titoli di coda: Luna, una ballata struggente sulla separazione, sulla solitudine, e Paura, che rappresenta la presa di coscienza e il ritorno alla realtà. Due brani completamente in acustico, di estrema semplicità ma pieni di emotività, dalla voce calda, sicura e sussurrata.

Che io non ho paura alcuna, che io non ho paura.

È con queste semplici e struggenti parole che l’in-cantautore romano chiude il suo Viaggio. Un viaggio alla riscoperta della semplicità, della natura, della riconnessione con il proprio io, quello primordiale. Un viaggio fatto di storie: di battaglie babiloniche, fughe rivoluzionarie e amori fuorilegge, alla riscoperta di che cos’è davvero la paura.

Domenico Leonello

NextGenerationME: Marco Germanotta, la musica per sentirsi vivo

Nuovo appuntamento con la rubrica “NextgenerationMe”: l’ospite di oggi è Marco Germanotta, giovane cantautore messinese classe 96’.

La musica invade la vita di Marco prestissimo. Già all’età di 5 anni studia chitarra classica per poi entrare nella relativa classe presso il conservatorio “A.Corelli” di Messina. Qui, nel 2019, riesce a conseguire la Laurea Magistrale proprio in chitarra classica.

Per esprimere la sua arte e il suo talento, però, la sola chitarra non è sufficiente, così decide di dar sfogo alla sua voce e pubblica nel suo canale Youtube, nel 2009, la sua prima cover “Gotta find you”.  Marco prosegue pubblicando numerose cover, sia da solista sia con le band “Noi4” e “Last5”.

Il supporto dei suoi fratelli è molto importante, soprattutto la collaborazione con Stefano (in arte “Syzer”).

Nel 2012 i suoi primi inediti riscuotono un buon successo e nel 2015 partecipa alle selezioni di X-Factor, arrivando fino ai boot camp. Nel 2016 ottiene un importante riconoscimento: il testo di un suo brano “L’agonia è di chi ancora non sente” viene pubblicato nella raccolta “CET scuola autori di Mogol”.

La sua attività musicale continua negli anni tra inediti e cover e il 27 Aprile pubblica il suo ultimo pezzo “Sentirmi vivo”, disponibile su tutte le piattaforme digitali. Marco sta attualmente lavorando al suo primo album.

Fin da bambino la musica ha fatto parte di te, ma quando hai capito che era il momento di dar sfogo alla tua voce?

Ho capito di dover dare sfogo alla mia voce quando le frustrazioni per varie vicissitudini nella mia vita si facevano più intense e l’unica cosa che mi venisse naturale fare era prendere una chitarra e cominciare a raccontare, aggiungendo delle note, quello che succedeva dentro di me.

Cosa rappresenta per te la musica?

 Per me la musica rappresenta quanto di più brutto e di più bello allo stesso tempo. È un mondo a cui mi affaccio principalmente per poter esprimermi; è un   mezzo per condividere, comunicare, sentirmi vivo.

Qual è il tuo rapporto con Messina?

Con Messina ho avuto un legame viscerale sin dall’infanzia. Tutto ciò viene fuori dal fatto di averne conosciuto le strade molto presto, probabilmente. Ho sempre voluto di conseguenza puntare a migliorarne tutto ciò che avrei potuto migliorare -entro i miei limiti-, ma non nascondo che ho sentito tantissime volte l’esigenza di “cancellarla” dalla mia memoria, in tutte le occasioni in cui percepivo il suo essere “poco accogliente” con gli artisti, cosa che mi faceva sentire un po’ solo.

Marco durante le riprese della cover “Superclassico”

Pensi che gli artisti del Sud abbiano meno opportunità di emergere? O l’avvento di internet, grazie a Youtube e ai social network, è riuscito a colmare questo gap?

L’avvento di internet non è riuscito sicuramente a colmare questo gap. Sicuramente però è uno strumento in più, di cui i ragazzi delle generazioni precedenti alla mia, non potevano far uso. Io, detto onestamente, collaboro con le persone con cui sto producendo musica attualmente proprio grazie al fatto di essere stato “scovato su Youtube”.

Poco più di 11 anni fa hai pubblicato il tuo primo video su Youtube e da quel momento hai maturato diverse esperienze: svariate cover, sia da solita sia con le band “Last5” e “Noi4”, i brani con tuo fratello Stefano “Syzer”, gli inediti e l’avventura ad X-Factor. Cosa ti hanno insegnato queste esperienze?

Queste esperienze mi hanno insegnato che c’è sempre da imparare, che ogni piccolo passo che muovi ha l’unica valenza di portarti verso la direzione, la dimensione, che ti è più congeniale. Sicuramente ho avuto tante e tante delusioni. Ma allo stesso tempo, devo dire, che ognuna di queste esperienze mi ha forgiato e mi ha indirizzato verso una forma, seppur ancora grezza, di autenticità.

“Sentirmi vivo”, il nuovo singolo di Marco, disponibile su tutte le piattaforme digitali

Poche settimane fa è uscito il tuo nuovo singolo “Sentirmi vivo”, com’è nato questo nuovo pezzo?

Questo pezzo è nato dalla voglia di esplodere, dopo i tanti e tanti mesi passati dentro casa a causa del Covid. Avevo voglia di catapultarmi in una dimensione caotica, in un palco enorme con tanta gente sotto. Così ho scritto “Sentirmi vivo”, per sognare un po’.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Al momento, l’unica cosa su cui sono concentrato, è il mio primo album. Ebbene sì, sto lavorando a quello.

 

 

Francesco Benedetto Micalizzi

 

Marco sui social:

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Il nuovo singolo “Sentirmi vivo”: www.youtube.com/

 

Tutte le foto sono state fornite dall’artista

80 anni Bob Dylan: le canzoni più “pop” del premio Nobel

Cosa si dice in tanti casi? L’abito non fa il monaco e non è facile trovare una bella mente in un bel corpo e viceversa. Così i grandi amori totalizzanti, quelli che travolgono corpo e anima si riducono a eventi statisticamente rari, miracoli indicibili, fenomeni paranormali. «Guarda al contenuto, non alla forma» è quello che ci ripetono più volte i nostri genitori. «Non ti appigliare alle note, quello che conta sono le parole» ci ripetono invece gli estimatori di musica cantautoriale ritraendo spesso i grandi capolavori come inaccessibili mondi di nicchia e lagne inascoltabili.

Cosa si dice di Bob Dylan, il menestrello d’America, il “poeta laureato” dei nostri giorni, il premio Nobel per la letteratura, colui che ha portato la canzone ai livelli di un dramma shakespeariano? Di tutto si può dire, tranne che non abbia saputo coniugare profondità e leggerezza, grinta e raffinatezza, testi elevati e melodie estremamente orecchiabili.

Bob Dylan sulla cover del suo primo album. Author: Brett Jordan. Fonte: flickr.com, creativecommons.org

Forma e contenuto, musica e parole non fanno a botte nei versi eterni di Dylan, ma uno valorizza l’altra in un’armonia indescrivibile ma evidente soprattutto nelle sue prime canzoni, quelle dei mitici anni ’60. Anni in cui Dylan è stato il cantautore folk impegnato, l’idolo del mondo in protesta, ma anche una voce “pop” che risuonava nelle cuffie di un comune adolescente immerso nel relax o tra le corde di chitarra durante una festa in spiaggia. In occasione dei suoi ottant’anni, ecco a voi una manciata di canzoni che lo dimostra!

1) I want you  (1966)

Il becchino zingaro piange
The gypsy undertaker cries

Il solitario suonatore d’organo sospira
The lonesome organ grinder sighs

I sassofoni argentati dicono che dovrei rifiutarti
The silver saxophones say I should refuse you

Traccia più famosa dell’album Blonde on Blonde ( 1966) e rivisitata persino dai Nomadi in una versione italiana, I want you è un must per chi si vuole approcciare all’immensa discografia dylaniana.

Il concetto è chiaro: l’universo mi invia diecimila segnali contrari, il mondo canta una canzone ostile e mi dice di lasciar perdere, ma “io ti voglio di brutto e non sono nato per perderti”. Insomma quello che griderebbe ciascuno di noi a squarciagola sotto il balcone della propria “crush”, solo che Bob Dylan è un poeta e utilizza immagini dallo straordinario potere evocativo accompagnate da un celebre riff destinato a rimanere nella storia.

2) Just like a woman (1966)

Appartiene sempre a Blonde on Blonde, l’album della maturità, questo “classicone” della discografia dylaniana che tanto fece infuriare le femministe dell’epoca per il verso etichettante «fa l’amore proprio come una donna».

Che Bob Dylan non fosse uno stinco di santo con le donne è scritto e riscritto in mille biografie, ma in questa folk ballad dai toni amari, soprattutto nel malinconico verso «but when we meet again, introduced as friends», non ci vedo nulla di misogino o maschilista. Emerge solo una figura di donna, forse un po’ femme fatal, che sfugge e si confonde nei ricordi sbiaditi dell’artista. Chi fosse la musa ispiratrice non è ancora chiaro, certo è che nonostante le critiche Just like a woman rimane una delle più belle canzoni d’amore mai composte.

Fonte: internopoesia.com

3) Mr. Tambourine Man (1964)

Ehi, signor Tambourine Man, suona una canzone per me
Hey, Mr. Tambourine Man, play a song for me

Un Dylan ancora più folk e visionario quello di questo brano, uno dei più celebri e allo stesso tempo più enigmatici e chiacchierati del menestrello. Chi è Mr Tambourine a cui il cantautore chiede con una dolcissima preghiera di suonargli una canzone? Di «portarlo in viaggio sulla sua magica nave vorticosa», di «fargli dimenticare l’oggi fino a domani», di farlo evadere nel sogno da una realtà buia e dolorosa?

Leggenda vuole che il “mister tamburino” nominato anche dal compianto Battiato nella sua celebre Bandiera Bianca, non sia altro che un comune epiteto dello slang new yorkese per riferirsi allo spacciatore di droghe, il “venditore di sogni” in quartieri come il Greenwich Village. Ad ogni modo il sound acustico è così puro e delicato da poter diventare una ninna nanna per bambini.

4) Like a rolling stone (1965)

Prima in classifica nella celebre top 500 songs of all times della rivista Rolling Stone, il brano in questione è quello della svolta, la terra di confine tra il primo Dylan, erede di Woodie Guthrie, chitarra acustica, armonica a bocca, berretto e folk,  e il Dylan “elettrico”, aperto ad altre sonorità, pronto a confrontarsi con un altro genere che in quegli anni viveva una “golden age”: il rock.

In Like a Rolling Stone tutto questo è evidente, come anche il senso di libertà che il giro d’organo fa respirare, sensazione racchiusa tra l’altro nell’immagine della pietra che rotola libera. Un’altra grande di quel periodo, Janis Joplin, dirà: «la libertà è solo un’altra parola per indicare niente da perdere» e la stessa cosa anticipa Dylan in questi celebri versi

Quando non hai niente, non hai niente da perdere
When you ain’t got nothing, you got nothing to lose

Ora sei invisibile, non hai segreti da nascondere
You’re invisible now, you’ve got no secrets to conceal

5) Subterranean Homesick Blues ( 1965)

Dylan precursore di Eminem? E’ questo che ravvisano molti critici musicali in questo pezzo tratto da Bringing all back home, altro album della cosiddetta “trilogia elettrica”. Un cantato che è più parlato veloce, rime incalzanti e giochi di parole anticipano di qualche decennio lo stile hip hop. Le immagini evocate da Dylan si susseguono in maniera così rapida e concisa che l’ascoltatore fa fatica a stare dietro, ma riesce a cogliere sicuramente la vena provocatoria del brano.

Accenditi una candela
Light yourself a candle

Non indossare sandali
Don’t wear sandals

Cerca di evitare gli scandali
Try to avoid the scandals

5+1) Changing of the guards ( 1978)

Pezzo decisamente meno osannato e anche meno noto ai più, Changing of the guards non appartiene al Dylan degli esordi, ma è anch’esso un’esplosione d’energia condensata in un mix di classic rock e gospel in ben 6 minuti di canzone. In questo caso il testo non è di facile decifrazione (come tanti altri del nostro): scene trionfali si alternano ad altre più apocalittiche in quello che sembra un vero e proprio trip lisergico. L’ascolto tuttavia è easy: i fiati e il ritmo infondono voglia di vivere e il cantato di Dylan si alterna a quello delle coriste in un vero e proprio botta e risposta coinvolgente.

Author: Xavier Badosa. Fonte: flickr.com, creativecommons.org. 

In fatto di arte e cultura, spesso facciamo distinzioni troppo nette e affrettate tra ciò che è “mainstream” e ciò che è di qualità, tra ciò che è “pop” e ciò che è d’autore. I grandi come Dylan vanno oltre queste etichette e per questo rimarranno sempre “classici”.

Angelica Rocca

Battiato, il signore della musica e delle parole

Il mondo della musica – e non solo – dà il suo addio a Franco Battiato. Al Maestro – anche se non amava essere definito tale – che della poliedricità ha fatto il suo marchio di fabbrica. Il musicista, cantautore, compositore che, con un’insaziabile e spiccata curiosità, ha abbracciato vari generi: dal pop alla musica leggera, dalla lirica al rock progressivo, passando per la musica etnica. Al poeta e paroliere che, con un’innata raffinatezza e una spiccata intelligenza, ha indagato l’intimità dell’essere umano cogliendone tutte le sfaccettature. A quell’amico che, come hanno sottolineato tutti coloro che lo hanno conosciuto, rimarrà per sempre non solo il “signore della musica e delle parole” ma anche il signore dell’animo (e dall’animo) umano.

Ciao Franco!

La carriera del Maestro ha inizio a Milano nel 1964. Precisamente in un cabaret, il “Club 64”, allora frequentato da alcuni dei futuri rappresentanti della canzone d’autore italiana: Enzo Jannacci, Renato Pozzetto e Bruno Lauzi.

Sarà l’incontro con Giorgio Gaber che segnerà una svolta decisiva nella sua carriera, facendogli firmare un contratto con la casa discografica Jolly che inserirà l’artista in quel filone di “protesta”. All’epoca assai in voga e presente in molte produzioni cantautorali.

Il primo singolo inciso ufficialmente, La torre, accompagnerà la sua prima apparizione televisiva nel programma Diamoci del tu, condotto dallo stesso Gaber e da Caterina Caselli. Sarà proprio in quell’occasione che l’artista milanese proporrà a Battiato di cambiare il nome da Francesco a Franco, per non confondersi con quello di un altro giovane cantautore che quella sera si sarebbe dovuto esibire: Francesco Guccini.

Da quel giorno in poi tutti mi chiamarono Franco, persino mia madre.

Qualche anno più tardi Battiato decise di abbandonare il genere di protesta per convertirsi inizialmente alla “canzone romantica” per poi arrivare ad identificarsi con una forma d’avanguardia ancora più intellettuale e intimista rispetto al suo esordio. Nel 1973 pubblica Sulle Corde di Aries: un album in cui musica minimale e una musica acustica di tradizione araba, convergono perfettamente, lasciando ampio spazio all’elettronica. Già da allora il cantautore si è spinto a concepire le note come atti di purificazione, qualcosa che ci innalza verso la bellezza.

Un viaggio attraverso le note

L’approccio di Franco alla musica deve essere dunque visto un po’ come un viaggio in cui ogni tappa corrisponde ad un genere diverso. La sua virtù di cantautore è sempre stata quella di saper far combaciare molteplici stili musicali, combinandoli tra loro in un approccio eclettico, originale e sperimentale.

La poesia e la letteratura, come ci ha insegnato il buon Sartre, vivono grazie a chi le legge e chi attribuisce loro un significato. E ognuno interpreta a suo modo un testo, in base a quello che sente, a quello che sa, alla sua esperienza di vita.

Il cantautore siciliano, infatti, oltre ad aver contrassegnato molte delle sue canzoni con un ampio uso di citazioni letterarie che richiamano poeti e scrittori quali Marcel Proust, Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli e Giosuè Carducci, realizza una vera e propria trilogia (Fleurs – Fleurs 3 – Fleurs 2) che raccoglie cover di autori prevalentemente italiani e francesi.

In Fleurs oltre a cover di artisti del calibro di De André, Gino Paoli, Mick Jagger e Keith Richards, Battiato inserisce alcune sue composizioni, tra cui Invito al viaggio. In questa canzone l’autore cita Baudelaire fin dal titolo, parlando dell’omonima poesia che fa parte dei Fiori del male . Il brano, con i testi del filosofo catanese Manlio Sgalambaro e le musiche di Battiato, inneggia al viaggio “in quel paese che ti somiglia tanto”, un viaggio nel quale c’è libertà e rispecchiamento, perché partendo scopriremo il mondo e impareremo a conoscere meglio noi stessi. Un po’ come ha fatto il maestro con le sue canzoni, alleviando le nostre difficoltà con veri e propri balsami per l’anima. Non semplici canzoni ma oasi nelle quali ritrovarsi, momenti nei quali la sua voce come una carezza ci solleva dalle pesantezze e ci rende più leggeri.

 Credo, al contrario di quelli che non hanno capito niente dei miei testi e li giudicano una accozzaglia di parole in libertà, che in essi ci sia sempre qualcosa dietro, qualcosa di più profondo. Quando si intende adattare un testo alla musica si scopre che non è sempre possibile. Finché non si fa ricorso a quel genere di frasi che hanno solo una funzione sonora. Se si prova allora ad ascoltare e non a leggere, perché il testo di una canzone non va mai letto ma ascoltato, diventa chiaro il senso di quella parola, il perché di quella e non di un’altra. Per capire bisogna ascoltare, serve animo sgombro: abbandonarsi, immergersi. E chi pretende di sapere già rimane sordo.

Torneremo ancora…

Nel 2019 esce Torneremo ancora. L’inedito, che dà il titolo all’album, è frutto dell’assemblaggio della voce di Battiato incisa nel 2017 e della musica scritta e suonata dallo stesso. I versi risuonano oggi come un profetico arrivederci:

La vita non finisce, è come il sogno, la nascita è come il risveglio finché non saremo liberi. Torneremo ancora e ancora e ancora

A noi piace pensare che questo è stato il dono d’addio che un uomo d’altri tempi, com’era il nostro Franco, ha voluto donarci prima di vivere un’ultima avventurosa trasformazione.

Franco Battiato è stato un esempio unico e irraggiungibile di metamorfosi verso quella ricerca bramosa di “qualcos’altro”, di cambiamento ed esplorazione che appartiene solo ai veri artisti. E se noi pensiamo a un artista, Battiato è uno di loro. C’è tutta la ricerca di una vita dentro le parole e le opere di Battiato. Parole e opere che, per oltre cinquant’anni, hanno accompagnato l’inizio e la fine delle nostre storie e che, per almeno altri cinquant’anni, rimarranno scolpite dentro ognuno di noi.

E come lo stesso cantava: “perché sei un essere speciale ed io, avrò cura di te”, noi tutti promettiamo di curare il ricordo di quest’uomo, artista dell’arte della vita e non solo dell’arte dello spettacolo.

Ciao, Franco. Ci vedremo al prossimo passaggio.

Domenico Leonello, Angelica Terranova

Mio caro e vecchio amico Faber

 

“E come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno come le rose”

Dimmi Faber, come ti sentivi quel 18 Febbraio del lontano 1940? Come ti sei sentito quando sei venuto al mondo? Eri consapevole del fatto che saresti diventato uno dei più grandi  poeti e cantautori del ‘900? Ancora adesso, la tua musica e le tue parole continuano ad accompagnare  il popolo. Non è forse vero che la tua musica l’hai scritta per tutti noi?

Fabrizio De André in concerto. Fonte: giornalettismo

Fabrizio De André nasce il 18 Febbraio a Genova, città piena di culture diverse e paesaggi che hanno ispirato l’indole musicale del cantastorie, rendendolo uno tra i personaggi più famosi della musica italiana.

“Genova per me è come una madre. E’ dove ho imparato a vivere. Mi ha partorito e allevato fino al trentacinquesimo anno di età: e non è poco, anzi, forse è quasi tutto.”

De André è sempre stato ispirato dalla musica, ma la sua indole ribelle lo allontana per un periodo da questa strada; il punto di incontro arriva con l’ascolto di Georges Brassens (cantautore francese), di cui tradurrà alcune canzoni e le inserirà nel proprio lavoro discografico.  Ma solo nell’Ottobre del ’61 viene pubblicato il suo primo album e nel ’63 avviene il suo approdo nel mondo della televisione nel programma Rendez-Vous. Per il cantautore si aprono le porte del successo, le sue canzoni vengono trasmesse in radio ed è sulla bocca di tutti. De Andrè rivela al popolo il suo talento, ma allo stesso tempo la sua penna e la sua chitarra divengono un nemico per il potere.

Sono tante e sono troppe le canzoni del nostro cantautore, ma non temete ora vedremo assieme due album in cui si intravede un velo della sua anima.

Crêuza de mä (1984)

Crêuza de mä ,pubblicato nel 1984, è l’undicesimo album , realizzato assieme a Mauro Pagani (compositore italiano). È interamente cantato in dialetto genovese. Il disco è considerato come uno degli album più importanti degli anni ottanta, tanto che David Byrne (musicista e cantautore statunitense), ha dichiarato alla rivista Rolling Stone che Crêuza de mä è uno dei dieci album più importanti della musica non solo italiana ma anche internazionale.

L’album è composto da sei canzoni; De Andrè dedicò questo CD ai pescatori, come si evince da  Crêuza de mä che è il primo componimento, ed è stata pure la colonna sonora per l’inaugurazione del nuovo ponte Morandi, quindi una canzone che parla di un nuovo inizio, qualcosa di nuovo.

“Umbre de muri, muri de mainé
Dunde ne vegnì, duve l’è ch’ané
Da ‘n scitu duve a l’ûn-a se mustra nûa
E a nuette a n’à puntou u cutellu ä gua”

Crêuza de mä, è un capolavoro dell’arte e dopo anni rimane ancora uno tra i dischi migliori mai creati.

Crêuza de mä: cover. Fonte: fabriziodeandrè.it

 

Storia di un impiegato (1972)

“La “Storia di un impiegato” l’abbiamo scritta, io, Bentivoglio, Piovani, in un anno e mezzo tormentatissimo e quando è uscita volevo bruciare il disco. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile, so di non essere riuscito a spiegarmi.”

E’ il sesto album del cantautore, ed è composto da nove canzoni: quest’ultime sono legate tutte da un tema ben preciso che è quello della rivolta giovanile. L’album contiene tante storie diverse fra di loro ma tutte con lo stesso ideale.

Uno tra i brani più significativi è “Verranno a chiederti del nostro amore che è l’ottava traccia. Il brano racconta dell’impiegato che all’interno del carcere vede la sua donna intervistata dai mass-media e vedendola ripensa alla loro storia; a dividere i due innamorati è proprio quel muro del carcere ed essa è lontana da lui che spera possa diventare una donna autonoma e forte.

Storia di un impiegato: cover. Fonte: musica-bazaar.com             

 

La musica di Faber non rientra nel concetto di “banalismo”: la sua arte si spostava dalla canzone d’autore al folk, le sue sinfonie erano sempre accompagnate dalla sua vecchia amica a sei corde, diventato un simbolo dello stesso cantastorie. E ora mi rivolgo a voi lettori, quando pensate a De Andrè non lo vedete sempre con una chitarra in mano?

Ma tornando a noi, i testi di De Andrè sono considerati dei veri e propri capolavori non solo della musica italiana ma anche della poesia: i suoi racconti parlano degli ultimi e dei dimenticati, i suoi testi possono essere letti anche prima di andare a dormire o mentre si aspetta l’autobus, perché Faber è tutti noi.

“Se fossi stato al vostro posto… ma al vostro posto non ci so stare.”

 

Alessia Orsa

Intervista a CIMINI per la tappa al Perditempo Cafè

Una sorpresa speciale per uno dei locali più avanti musicalmente della provincia di Messina.
Stiamo parlando del PerditempoSito presso l’Ex Pescheria di Barcellona, è attivo ormai da qualche anno e propone con cadenza settimanale musica dal vivo con artisti internazionali.

Domenica abbiamo avuto l’immenso piacere di ascoltare il cantautore CIMINI che con Anime Impazzite è tra i 69 finalisti di Sanremo Giovani 2018. Autore calabrese da anni trasferito a Bologna, è riuscito ad inserirsi nella scena musicale indipendente italiana pubblicando due dischi: L’importanza di chiamarsi Michele (2013) e Pereira (2015).

Dopo una pausa, pubblica il singolo virale La legge di Murphy (2017) e presenta a marzo il suo ultimo album Ancora Meglio. Prodotto da Garrincha dischi è un disco diverso da quelli precedenti con sonorità e stili vicini al panorama indie italiano. Si distingue l’originalità di scrittura dei testi, nei quali racconta la quotidianità e le sue emozioni.

 

Ciao CIMINI, come va?
Sto passando un bel periodo che è iniziato un anno fa con La Legge di Murphy, una canzone che mi ha cambiato la vita. Avevo bisogno di affetto e piano piano questo affetto mi viene ricambiato proprio dal pubblico. Fare un disco, fare canzoni e pubblicarle è un mestiere che mi piace. Avere contatto con le persone, capire, far capire ciò che ho da dire è bello. Ciò mi consente di creare empatia e di farmi sentire uno di voi, tra il pubblico.

Dai primi due album a questo è passato un po‘ di tempo, e anche musicalmente sei cambiato, più vicino alla scena indie italiana. Cosa ti ha portato a fare questa scelta?
Non è stata una scelta di vetrina, sicuramente. Ho sempre scritto canzoni per conto mio, ma ci sono vari motivi per questa scelta. Uno è molto tecnico perché mi sono ritrovato ad arrangiare questo  disco con un nuovo gruppo di lavoro: i ragazzi che suonano con me e Carota degli Stato Sociale. Quindi c’è stata una mano diversa. Rispetto a quello che facevo prima, ho deciso di creare uno stacco perché lo considero un ciclo della mia vita chiuso, che non mi appartiene più.

Il tuo nuovo disco si chiama Ancora meglio.
Sì, è un titolo ironico perché quando lo scrivevo allo stesso tempo vedevo un sacco di gruppi e persone che scrivevano delle canzoni, che si proponevano e cercavano di fare meglio degli altri creando una competizione esagerata. Al pubblico non interessa la concorrenza, ma ascoltare delle canzoni in cui ci si può ritrovare

Vivi a Bologna da un po’ di tempo, com’è lì l’ambiente musicale?
Vivo a Bologna da più di dieci anni. Sono andato in questa città con la scusa di studiare e piano piano ho fatto un sacco di amici che con il tempo sono diventati miei fratelli. Crescendo e conoscendo sempre nuove persone mi sono ritrovato anche nell’ambiente musicale ed è bello perché a Bologna questo ambiente è fatto dai ragazzi dello Stato Sociale, da Calcutta con il quale ci troviamo sempre in giro e da altri ragazzi che fanno gli artisti. 

Si conclude così la serata con un’ottima affluenza di pubblico, il quale si è lasciato trasportare “tra le luci provocate da esplosioni, meteoriti e scie di gas” con le note di Sabato Sera.

 

Marina Fulco