Recensione ”Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti

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Piantala con questi mostri, Michele. I mostri non esistono. I fantasmi, i lupi mannari, le streghe sono fesserie inventate per mettere paura ai creduloni, come te. Devi avere paura degli uomini, non dei mostri.”

 

Michele, 9 anni, è uno dei tanti bambini del libro che sente la naturale necessità di avventurarsi, di sperimentare, di conoscere, di esplorare i territori nelle campagne del paesino in sud Italia dove vive. A causa di una penitenza durante un gioco, finirà per scoprire un ragazzino nascosto in un buco.

Tutto sarà un mistero per lui, un mistero che a poco a poco verrà svelato, facendo scoprire a Michele il mondo dei grandi che sognano di diventare ricchi e andarsene via di lì.

Quando diventi grande te ne devi andare da qui e non ci devi tornare mai più.”

 

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Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti è un romanzo duro e crudo ma tutto filtrato dalla mente di un bambino che conosce appena il male, è un libro commovente, anche se a tratti straziante, ma pieno di quella purezza e innocenza tipicamente infantile.

Serena Votano

Scusate il Disordine!

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La musica non la si prendeva. Mai!”

 

 

 

In “Scusate il disordine” Luciano Ligabue lascia di nuovo, dopo “Il rumore dei baci a vuoto”, senza parole. Una raccolta di racconti che lascia sempre incompleti e liberi di interpretare a modo proprio quello che succederà dopo. Una chiave di lettura: la musica. Presente in tutte le sue inclinazioni, con diversi amore verso di essa ma racchiusa tutta in uno spartito che ha proprio il sapore di Ligabue.

Ogni racconto si concentra sulla musica e sul rapporto che il personaggio ha con essa, fama o non fama, portandoci realtà che conosciamo ma spesso ignoriamo. Come Anchise che, nonostante la sua età, pur di continuare a suonare paga i componenti della sua band di tasca propria e si lega le bacchette alla mano a causa dell’artrosi; o un rapper che raggiunto il successo crede di potersi permettere una qualsiasi azione, probabilmente l’aspetto più raccapricciante dell’essere famosi.

Durante il primo pezzo ti hanno mitragliato di foto. Poi hai chiesto se adesso potevano mettere via macchinette e telefonini. Non c’è stato verso, hanno continuato a scattare ininterrottamente. Sei lì. È inevitabile. Per un attimo ti chiedi se non sanno, ma poi ti dici che sanno, sanno

Ligabue usa un linguaggio semplice e diretto, cambiando spesso registro a seconda del messaggio che vuole trasmettere. Consigliato a chi non ha paura di mostrare il disordine dei pensieri dentro di sé, le proprie emozioni e i propri dolori. A chi non nega il disordine della propria vita perché, per quanto si cerchi di regolarla, di dirigerla, non ci riusciamo e dobbiamo ammetterne l’impotenza. Non si può controllare.

Recentemente, il 24 e il 25 settembre, il ritorno live di Ligabue al Parco di Monza.

 

Serena Votano

Cafè Society: leggerezza e ironia amara nel nuovo film di Woody Allen

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Se l’autunno che avanza diffonde sulle nostre vite una ventata malinconica in grado di allontanare i ricordi briosi e dolci dell’estate, l’avvio della nuova annata di cinema offre un efficace antidoto capace di risollevarci, o almeno di incanalare nel giusto cantuccio le emozioni che erano rimaste a lungo assopite sotto l’ombrellone. Il ritorno di Woody Allen, regolare come quello delle stagioni, rischiara i sentimenti con tocco soave, riconducendoli al proprio ordine naturale. Appaiono vivaci i riferimenti consueti del cineasta in un’opera che racconta l’amore non senza sganciarsi dagli aspetti beffardi dell’esistenza. E che ancora attraversa con nostalgia le lancette del tempo.

 

Siamo nei colorati anni ’30 dello star system di Hollywood. Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) è un giovane ebreo di New York figlio di un orefice per nulla attratto dalla prospettiva desolante e noiosa che la permanenza in città e il lavoro del padre paiono offrirgli. Con l’ambizione di inserirsi nell’industria del cinema si rivolge allo zio Phil (Steve Carell) manager di attori famosi, presenza attiva alle feste eleganti a bordo piscina. Il rapporto coi divi e la società frivola di Los Angeles si impadroniscono della sua nuova vita e sarà così, alla fine, l’incontro con la disinvolta e magnetica Vonnie (Kristen Stewart), segretaria di Phil, a stravolgere ogni suo progetto. Il triangolo amoroso che coinvolge i tre protagonisti scaverà con intensità il dubbio della scelta dell’amata. La delusione al ritorno nella città natale farà crescere Bobby senza inibizioni e lo spingerà a fondare un locale notturno frequentato da alcune teste coronate d’Europa, da signori mondani e altolocati della società dell’epoca, nonché da esponenti della malavita italo-americana.

 

In Cafè Society, frutto delle 80 candeline spente dal regista lo scorso dicembre, i temi dei film di Woody Allen ricorrono senza esclusione di colpi: l’umorismo corale dei personaggi brulicanti e caratterizzati di Radio Days, il fascino fiabesco verso altre epoche, i due poli in antitesi di New York e Los Angeles alla maniera di Annie Hall, il sempre eterno ritorno alle proprie origini newyorkesi e quel senso di attesa e di oscuro presagio rappresentato dal futuro che incombe. Non sono nuovi gli argomenti cari al regista, affrontati senza dubbio con ben diverso spessore e profondità che in altre storiche pellicole precedenti. Eppure l’apparente giocosità e mancanza di pesantezza di questa nuova brillante amara commedia romantica lascia posto a espedienti tecnici e a una rinnovata cura del dettaglio, specialmente visivo, realmente sorprendenti.

cafesocietIl peso di Vittorio Storaro alla fotografia (premio oscar per Apocalypse Now) si palesa su una storia semplice, priva di novità clamorose, nel solco di una rappresentazione tipica e prevedibile, ma accompagnata da immagini e sensazioni che lasciano il segno. A catturare lo schermo è l’eccezionale bellezza di Kristen Stewart, vera nuova musa di Woody. Ma è anche l’ironia, cifra del suo cinema, che non subisce increspature, incrinature, segni del tempo. L’esito finale è quello di un regista che dopo ben 47 film mantiene ancora in piedi la sua freschezza. Cafè Society è un film imperfetto, così come lo sono talvolta le opere che arrivano a sedimentarsi nel nostro immaginario per arricchirlo e costruirci intorno altre storie. E questo proprio perché, come uno dei personaggi afferma in una scena, la vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo. Il film scorre veloce e a tratti con passaggi frettolosi, ma non perde di vista la sua efficace unità espressiva fortemente inquieta e drammatica dietro la patina di leggerezza.

 

Messo da parte il tono sarcastico delle origini, la verve comica cerebrale e nevrotica dei primi film, Cafè Society è un’opera della piena maturità, formalmente riuscita, in buona misura riassuntiva e emblematica (immancabile la colonna sonora jazz nei titoli di coda e la magia che l’avvolge). Un film che vale la pena andare a vedere nelle sale, e che, alla fine della proiezione, accantonate le incertezze e le riserve sulla sceneggiatura, rimane come puro esempio di cinema.

Eulalia Cambria

Il Movimento E’ Fermo, un romanzo d’Amore e Libertà (ma non troppo)

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Il movimento è fermo, così si intitola il nuovo e primo libro di Lo Stato Sociale. Questo gruppo di cantautori, di poeti moderni, è incisivo fin dall’inizio con un titolo creato su un ossimoro.

Zeno e Genio sono due amici e sono i protagonisti della storia, anzi, delle storie. Tra le pagine di questo romanzo troveremo, infatti, tante storie che, in un modo o nell’altro, si intrecciano tra di loro.

Partono tutte da questi due ragazzi: due 30enni che ancora non hanno ben capito cosa vogliono dalla vita, che sanno cosa vorrebbero fare ma, forse, quello che vorrebbero fare è qualcosa di troppo utopico.

Sono due amici assolutamente diversi, che si divertono ad avere dibattiti filosofici davanti un calice di vino o una birra, che seguono il calcio e cercano (o forse no, non lo sanno nemmeno loro) la ragazza della propria vita.

In una Bologna rossa, quasi anarchica, se ne vanno in giro con un motorino e un furgone un po’ vecchi e, se volete, potete andarvene in giro con loro e vedere se riescono a trovare quello che stanno cercando. Perché tra le strade di Bologna, in effetti, si può incontrare una ragazza bellissima e insicura: Eleonora. Eleonora che, come un fulmine a ciel sereno, cambia tutti i piani di Zeno.

Parallelamente, si svolge un’altra storia: la storia di Michelle, giovane giornalista che vuole cambiare il mondo. Ed il mondo si può cambiare, lei ci riesce… Ma a quale prezzo? E cosa c’entra Michelle con gli altri ragazzi, che si arrangiano come possono ogni giorno della loro vita? Lo scoprirete voi perché, credetemi, non vedrete l’ora di saperlo.

Come tutti i testi e le parole di Lo Stato Sociale, questo romanzo è un continuo di sorprese, un’altalena di parti lente e velocissime. Le pagine si sfogliano da sole, difficile darsi un freno. E, tra una imprecazione e l’altra, si becca la frase della vita: classico del loro stile, troverete dentro questo scritto delle perle che vi si infileranno nel cuore.

Che poi la cosa davvero importante è: il movimento è fermo?

Elena Anna Andronico

La mia Taormina, il mio festival, il mio cinema

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Se nella vita hai una passione allora hai il dovere verso te stesso di coltivarla al meglio. La mia grande passione è il cinema. Quest’anno, grazie ad UniVersoMe, ho avuto l’occasione, insieme ad alcuni colleghi del giornale, di poter vivere una straordinaria esperienza andando al Taormina Film Fest. Si tratta, per chi non lo sapesse, di uno dei più importanti festival cinematografici d’Italia e d’Europa. Vanta ogni anno migliaia di curiosi e tantissime celebrità del mondo del cinema e non che provengono da tutte le parti del mondo. Non poteva non farmi gola un esperienza del genere.

Personalmente ho avuto l’opportunità di andarci per due giorni (il festival dura una settimana) e di poter assistere ad alcune proiezioni interessanti e di incontrare dal vivo alcune delle personalità più influenti del cinema. Ma l’esperienza non finisce qui. L’aria di cinema che si respira non è l’unico aspetto degno di nota. Il contesto è straordinario. Taormina è uno scenario mozzafiato (in tutti i sensi visto che abbiamo fatto la salita che porta dalla stazione al centro di Taormina a piedi). La vista, il borgo, gli odori, tutto ti fa immergere in un contesto fatto di cultura e arte.

Andiamo ora al festival in sé. Come detto prima gli ospiti sono di altissimo livello. Ho avuto l’immenso piacere di incontrare Harvey Keitel dal vivo che ci ha raccontato Hollywood, un posto lontano per noi, con gli occhi di chi Hollywood l’ha fatta e vissuta. Possiamo ricordare la carriera di Harvey Keitel per essere stato l’attore che ha lanciato la carriera di grandissimi registi come Martin Scorsese e Quentin Tarantino. Su questi due signori ha anche raccontato qualche aneddoto piuttosto interessante. Presente anche il regista Oliver Stone che ha parlato del suo ruolo da produttore nel film documentario Ukraine on Fire. Tra gli ospiti anche grandi personaggi italiani come il divertentissimo Enrico Brignano, la simpaticissima Noemi e Claudio Santamaria che ha parlato del suo ultimo grande successo di critica e di pubblico Lo Chiamavano Jeeg Robot.

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Oltre gli ospiti, il festival offre ai suoi visitatori proiezioni eccellenti. Nella serata di apertura è stato proiettato nel teatro antico l’ultimo film della Pixar Alla ricerca di Dory in anteprima nazionale. Ma non solo le grandi produzioni di Hollywood. Ci sono anche tantissime proiezioni di produzioni minori e nostrane che in questo festival trovano modo di farsi conoscere. Oltre il sopracitato Ukraine on Fire ho avuto anche il piacere di vedere il documentario di Fabio Lovino WeWorld presenta: Mothers.

Quello che voglio trasmettere a te che stai leggendo questo pezzo è un invito. Taormina è un gioiello di città che ospita uno dei festival cinematografici più importanti al mondo. Noi studenti messinesi abbiamo la possibilità di vivere questa magnifica esperienza da protagonisti. Che siate appassionati di cinema o semplici curiosi il mio invito è quello di prendere parte attivamente alla prossima edizione. Abbandonate per qualche giorno gli esami della sessione estiva e perdetevi nella bellezza di Taormina e nella bellezza del cinema.

Nicola Ripepi

Death note: uno sguardo al mondo degli Anime!

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Insoddisfazione, noia, disgusto, verso un mondo distrutto dalla criminalità e dalle ingiustizie: sono questi i sentimenti che dominano l’animo di Light Yagami. Bello, desiderato da tutte le ragazze e il miglior studente della scuola, eppure per nulla contento della sua vita, tanto perfetta quanto vuota. Ben presto, la svolta: un quaderno nero con la scritta “Death Note”. Uno scherzo? Una trovata geniale?  Chissà, nel dubbio Light lo raccoglie ed è così che fa la conoscenza di Ryuk, uno shinigami (dio della morte) che, animato dalla stessa noia del protagonista, ha deciso di far cadere il suo quaderno sulla terra per divertirsi. Un po’ per curiosità, un po’ per mettersi alla prova, Light quindi decide di usare il quaderno della morte per scrivere i nomi dei più grandi criminali del Giappone; di cui deve necessariamente conoscere il nome ed il volto.

Pian piano imparerà a usare sempre meglio questo strumento, sperimenterà nuove regole riguardo le condizioni e le modalità dei suoi omicidi. Quella che inizialmente doveva essere una piccola missione, ovvero ripulire il mondo dai criminali, diventa per Light una vera e propria impresa. Solo lui può eliminare il male dal mondo, solo lui può essere giudice delle ingiustizie, tanto da arrivare a credersi una sorta di divinità.

Tuttavia, il suo lavoro è ostacolato prima dall’intervento della polizia Giapponese, poi dall’istituzione di una squadra speciale incaricata di indicare su Kira (“assassino”, soprannome assunto da Light), di cui fa parte anche il suo stesso padre, Soichiro Yagami, sovrintendente della polizia giapponese ed Elle, giovane detective dalle strabilianti capacità. Proprio Elle si rivela essere l’immagine speculare di Light. Entrambi eccessivamente intelligenti, sicuri di sé, ciascuno con un proprio senso della giustizia ma con un obiettivo comune: battere l’altro per portare avanti il proprio ideale. Light per divenire il giustiziere di questo mondo malato, Elle per combattere proprio ciò che lui giudica il sommo male.

Sarà una lotta assolutamente pari, con colpi bassi, acute rivelazioni e sorprese da parte di entrambi. “Death note” è una serie interessante, complessa oserei dire, perché sdogana il classico concetto di bene e male, di giusto e sbagliato. Riesce a tenere con il fiato sospeso a ogni puntata, nonostante le scene d’azione siano quasi inesistenti, in quanto sono proprio le elucubrazioni, le macchinazioni e l’introspezione psicologica dei protagonisti che tengono le fila della trama e che ci portano a capire ed a immedesimarci nei loro pensieri, fino a giustificare o addirittura a supportare le loro decisioni, non sempre edificabili.

E voi, da che parte state?

Edvige Attivissimo

Misstress America: quando si ha paura di diventare grandi

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Tracy (Lola Kirke) si è appena trasferita a New York per frequentare il college, la vita dello studente nella grande mela non è quello che immaginava, soprattutto nel relazionarsi con i compagni di corso. Sua madre si sta per risposare e le propone di chiamare la figlia del suo futuro marito , la quale abita a New York da tempo. Così ha inizio questa simbiosi fra Tracy e Brooke (Greta Gerwig) , questa donna che incarna l’anima newyorkese : dinamica, entusiasta e fortemente logorroica ai limiti dell’egocentrismo.

Tracy si fa rapire dallo stile di vita di Brooke, che vive la vita “come ogni giovane donna che vuole impiegare bene la propria giovinezza dovrebbe”  ed inoltre la ispira per il racconto che deve scrivere per entrare a far parte di un circolo letterario estremamente esclusivo del college.

Brooke sta per aprire un ristorante, ma il sogno si spezza quando il fidanzato greco la lascia e deve trovare nuovi investitori. Dietro suggerimento di Tracy parte verso Greenwich, Connetticut “dove vivono i ricchi” accompagnata dal compagno di classe di Tracy Tony (Matthew Shear) e dalla sua fidanzata possessiva e paranoica, per andare a chiedere un prestito all’ex migliore amica e al marito.

 

Mistress America potrebbe venire definita una screwball comedy  ma in realtà non evoca il piacere leggero di quel genere, ricorda più il Woody Allen di “Harry a pezzi” ma le cui battute taglienti non sostengono tutto il film.

Brooke è ben incarnata da Greta Gerwig, il personaggio è fuori dai modelli odierni e ricorda alcune delle donne alleniane , il fascino e la bravura della Gerwig è tale che rende Brooke amabile anche quando si comporta volontariamente da naif.

 

La sceneggiatura è scritta a quattro mani da Noah Baumbach e la sua compagna Greta Gerwig, ci sono reminiscenze dei loro precedenti lavori “Frances Ha”  e “Giovani si diventa”, è una commedia piacevole sulle differenze di età e le conseguenti dissonanze ed assonanze, sul desiderio di seguire i propri desideri, quasi a pretenderli, ferendo chi ci sta vicino.

La difficoltà di accettare di essere adulti, le proprie responsabilità e la necessità di avere un posto nel mondo confluiscono nella frase detta da Brooke ,riferendosi a Tracy, al chiaroveggente “Non è così più giovane di me, 10-12 anni, siamo praticamente coetanee!”.

Se la sceneggiatura non è delle più intriganti , vale la pena vederlo per l’interpretazione di Greta Gerwig la quale si pone fra le migliori attrici della sua generazione soprattutto per la naturale indole comica.

Arianna De Arcangelis

Veloce Come Il Vento: Adrenalina e Sensibilità nell’ultimo film di Matteo Rovere

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«Disperati veri si è rimasti in pochi», dice Loris, nell’ultimo film di Matteo Rovere Veloce come il vento, viaggio a tavoletta nel mondo del campionato italiano GT e delle corse clandestine, in sala dal 7 aprile.

E se la disperazione predomina da anni in Italia, tra registi e spettatori, Veloce come il vento, insieme ad altri titoli come Lo chiamavano Jeeg Robot, Suburra o Non essere cattivo, sembra illuminare il fondo di quel vaso di Pandora rimasto aperto dagli anni ’80, in un 2016 insolitamente felice. Sì perché negli anni ’80 inizia forse un gap tra il cinema italiano e quello internazionale, in cui gli Stati Uniti la facevano e la fanno tutt’ora da padrone, grazie all’arrivo della computer grafica e degli effetti speciali ad alto budget.

 

Rovere centra in pieno il problema e affonda le mani, con determinazione e (metaforica) disperazione, nelle risorse, rimaste neglette ma non per questo prive di forza ed impatto visivo(un po’ come la vecchia auto da corsa di Loris), e che appartenevano al nostro cinema di genere, nello specifico quello dei “film di macchine”. Se l’espressione – alquanto infelice, invero – vi fa pensare solo all’ennesimo Fast and Furious o, andando a ritroso nel tempo, a Driver – l’imprendibile, allora dovreste dare un’occhiata a Le Mans – Scorciatoia per l’inferno, Speed Driver e Velocità massima (solo per citarne alcuni), tutti film italiani e tutti, tra i più e meno riusciti, appartenenti al filone in cui Rovere ha deciso, per dichiarata passione personale, di lanciarsi.

 

La trama, vagamente ispirata alla vera storia del pilota Carlo Capone, vede la giovane pilota Giulia (un’esordiente e promettente Matilda de Angelis), gareggiare nel campionato GT per mantenere la casa di famiglia, dopo l’abbandono da parte della madre e la morte del padre. La situazione, già precaria, è complicata dal ritorno del fratello maggiore di Giulia, Loris (Stefano Accorsi), ex pilota tossicodipendente abbandonato a se stesso, che decide di aiutarla.

 

Rovere è qui alle prese con un film completamente diverso dai suoi precedenti, basato su un soggetto verso cui nutre un interesse innegabile, sensibile al fascino del soggetto macchina nelle sue forme, rumori, colori, movimenti. Il rumore e l’immagine diventano di fatti vitali, in un film sulle corse automobilistiche: il montaggio sonoro è eseguito in maniera impeccabile, mentre l’occhio cinematografico del regista mostra un apprezzamento quasi voyeuristico per il rallenty, in svariate inquadrature, che però non mirano alla spettacolarità volgare viziosa americana di una sequenza, quanto piuttosto alla poesia del particolare, al piacere puro di contemplare la ghiaia smossa dagli pneumatici, evitando perciò la morbosità. L’uso dell’effetto digitale rimane marginale, tirato fuori alla sola occorrenza.

Piccole cose, insomma. Nugae di stile, che pure sono parte di una ricetta fatta di ingredienti che funzionano, come le musiche di Andrea Farri (già collaboratore di Rovere), tappeto elettronico sotto impalcatura indie rock, che accompagnano una sceneggiatura atta a fondere (parole del regista) la sensibilità di un dramma familiare ed il rombo dei motori, riuscendovi con perfetta armonia.

Il personaggio di Accorsi è decisamente il punto forte della sceneggiatura, raffigurando un’idea di tossicodipendente lontana dallo stereotipo, una combinazione di realismo sporco e stoner comedy che il pubblico italiano ha potuto vedere raramente, finora. L’attore bolognese si è calato perfettamente nella parte, libero di arricchire il personaggio con regionalismi emiliani spinti e, diete drasticamente hollywoodiane a parte, ha espresso al meglio momenti già promettenti sulla carta, come quelli che lo vedono in cortile con la sorella o in vasca da bagno con la fidanzata – anch’essa tossicodipendente – intento a sciogliere o complicare i nodi della sgangherata matassa familiare; momenti che rendono proprio quella vasca da bagno e quel cortile riconducibili, in qualche modo, da una parte a Paura e delirio a Las Vegas, in cui un lisergico Benicio del Toro delirava con Johnny Depp nel bagno di una camera d’hotel, dall’altra ai letti fassbinderiani, luoghi di riflessione e confronto intimo.

 

Veloce come il vento risulta dunque l’opera più riuscita di Matteo Rovere, presentando una formula che non ha solo gli ottani come carta vincente e che è già pronta per essere esportata nelle sale straniere. Un piccolo successo, squisitamente italiano, in grado di farsi apprezzare anche dai non amanti dei motori (come, del resto, chi scrive).

 

 

Andrea Donato

”Seconda Primavera” di Francesco Calogero: intervista al regista

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Francesco Calogero è nato a Messina nel 1957 ed è uno dei registi che potremmo annoverare nell’ambito underground del cinema italiano, quello cioè che risulta ad oggi più vivo, più interessante e più intenso della sua controparte mainstream, colpevole di avere invece affossato un’industria e un’arte prima valide a livello internazionale.

Il 4 febbraio 2016, a sedici anni dall’ultimo lungometraggio Metronotte, è uscito nelle sale Seconda Primavera, toccante sesta prova della sensibilità da cui la filmografia di Calogero è attraversata. Stato, pochi mesi fa, nelle sale, Seconda Primavera racconta, nell’arco di sei stagioni, le storie incrociate di quattro personaggi, ciascuno rappresentativo di una diversa età della vita.

 

Lo abbiamo intervistato per via telematica per parlare con lui di Seconda Primavera e di cinema.

 

  1. Come nasce l’idea per Seconda Primavera?

 

Credo che tutto sia partito da una visita casuale alla villa che costituisce il set principale del film, in un plumbeo giorno d’autunno. Quel giardino, di cui avevo apprezzato la magnificenza in estate o in primavera, si presentava ostile, il suolo cosparso di foglie secche, i rovi cresciuti a dismisura, quasi a voler impedire l’ingresso ai visitatori, sferzati dal vento e dalla pioggia. In una villa lontana dal centro abitato, a rischio isolamento perché raggiungibile solo attraverso una strada sterrata sulla riva del mare, pronto a inghiottirla, è piacevole stare solo nella bella stagione: col cattivo tempo i suoi occupanti possono passare giorni rinchiusi dentro, in perenne stato di esasperazione. Ho provato a immaginare come potessero cambiare i rapporti tra alcuni personaggi, stagione dopo stagione, confinati in una casa piccola come quella, in una situazione in cui è stata data più importanza al giardino, alla vita all’aria aperta. Da lì, tra vita vissuta e numi tutelari di turno, è cominciata la consueta stratificazione: voci diverse alla Thomas Stearns Eliot, potrei dire, sottolineando così quanto io gli debba in termini distruttura sinfonica, o per le associazioni di temi e simboli. L’inizio dei Quattro quartetti sembra offrirci anche lo scenario, lo specchio d’acqua dove si alzano i fiori del loto alla luce del sole, ed il celebre giardino delle rose, quello a cui si accede attraverso la porta che non abbiamo mai aperto: in Seconda primavera è testimone di un abbraccio, dopo un divertito inseguimento, che nasconde il reciproco turbamento di Andrea e Hikma (due dei personaggi principali). Lo raccontiamo già nel manifesto del film, in cui la grafica Katia Donato rende brillantemente tali temi.

 

  1. Nel tuo film c’è tanto (buon) gusto per la citazione. Non solo T. S. Eliot, come riferisci adesso, ma anche Philip K. Dick, e poi Shakespeare e Bellini… e soprattutto, è impossibile vedere il personaggio di Hikma (interpretata da Desirée Noferini) senza pensare a La donna che visse due volte.Da cosa è derivato il bisogno di questi riferimenti?

 

Non è un vero e proprio bisogno, ma forse solo un desiderio di conforto, necessario per vincere le insicurezze che ti assalgono nel corso della tua ricerca: ti aiuta molto avvertire certe assonanze, rendersi conto che già qualcuno prima di te si è soffermato allo stesso modo sul medesimo dettaglio. Del resto, chi pensa di star creando qualcosa di inedito e rivoluzionario, è un illuso: i grandi libri sono stati scritti, e i grandi detti sono stati pronunciati. Per quanto riguarda Shakespeare, la vicenda del Sogno ci mostra anch’essa coppie che si scompongono e ricompongono, e un andirivieni tra città e campagna. Se seguiamo la suggestione di alcuni critici, e lo guardiamo dal punto di vista di Hikma, questo movimento dalla corte di Atene alla foresta rappresenta il passaggio dall’istintività giovanile alla razionalità della vita adulta: Seconda primavera non è soltanto la storia di una senilità, intesa in senso sveviano, ma anche un coming-of-age movie. In realtà tutto il Sogno, con i suoi continui richiami alla trasformazione – vedi quel che accade a Puck e Bottom, non a caso presenti entrambi nelle due scene esplicitamente citate nel film – rappresenta un’allegoria delle metamorfosi che avvengono nella vita di ognuno: dunque il discorso riguarda anche Andrea, e i ripetuti cambiamenti della sua vita nel teatro del suo giardino, piccola foresta incantata… E come il Sogno, anche Seconda primavera è una storia d’amore in tutte le sue forme, in cui si spazia da un sentimento irrazionale a quello frutto di calcolo; dall’amore platonico, in qualche misura rispettoso delle convenzioni sociali, a quello infedele, disgregatore di equilibri. In questo senso Riccardo è ora costruttore, ora sabotatore di una razionalità in perenne conflitto con la sua parte più oscura. Se si vuol leggere la vicenda in chiave psicoanalitica, c’è infatti un’ulteriore corrispondenza con il Sogno: laddove i due luoghi nei quali si svolge quella storia, la corte di Atene e la foresta, diventano per noi la città con tutte le sue pastoie giornaliere, dove bisogna rispettare le leggi (anche quelle edilizie), e dunque è la ragione a comandare (il Super-Io); e in opposizione c’è il giardino, l’Es, il nostro lato oscuro, la parte subconscia e irrazionale, il luogo notturno e magico dove a regnare sono i desideri e gli istinti. Tutti i personaggi della commedia, allo spuntar del sole, affermano di aver sognato: e in qualche modo lo fa anche Hikma, che sembra voler rinnegare la sua esperienza d’amore in quella notte (chiedendosi, “Forse ero sonnambula”). La citazione belliniana parte da qui, ma non solo. Quando ho messo in scena La sonnambula, alcuni anni fa, già meditando su Seconda primavera, avevo appuntato l’attenzione sul pericoloso percorso finale di Amina, imposto dal libretto, un camminamento alto e infido che da noi era diventato un ponte mobile. Ma prima di allora, ritrovare sul nostro set un ponte simile aveva fatto sì che mi imponessi di utilizzarlo a scopi narrativi. Parliamo di un elemento largamente simbolico: basti pensare all’etimo della parola “pontifex”, i sacerdoti sono coloro che costruiscono il ponte, che aiutano il passaggio tra la terra dei vivi e il regno dei morti. L’idea forte c’era già, il ponte era stato chiesto all’architetto Andrea dalla moglie Sofia, dopo la scoperta quasi casuale della terrazza, da quel giorno diventata il suo regno: così ho immaginato Andrea impossibilitato a tornare in quello spazio, a cui è legato da troppi ricordi dolorosi. Ammesso che non sia soltanto una sua immaginazione, ci riuscirà solo nel finale, come attratto da Sofia, ma anche commosso e suggestionato dal percorso rischioso di Amina, che sta ammirando a teatro. Anche l’eroina belliniana vive una condizione di revenante, quando il conte Rodolfo si turba nel rivedere nei suoi occhi quelli della donna profondamente amata nel passato. In realtà il tema dell’eterno ritorno è certamente più decadente e tardoromantico, e anche più anglosassone – pensiamo, per dire, a tanti personaggi di Edgar Allan Poe – rispetto al milieu in cui agivano il librettista Felice Romani e lo stesso Bellini. La verità è che un libretto dalla genesi tormentata aveva costretto il conte ad atteggiamenti contraddittori: così, caduta l’ipotesi che la fanciulla potesse essere sua figlia, non restava che accettare l’idea del Doppelgänger. E quando Amina, in stato di sonnambulismo, praticamente gli si offre, il conte resiste: insomma, anche lì la soppressione del sentimento erotico, vuoi per la situazione, vuoi per la notevole differenza d’età, vuoi soprattutto per quell’impressionante somiglianza che turba e blocca… Già, siamo giunti a Hitchcock. Ovviamente è un paragone che temo: Vertigo (La donna che visse due volte) è uno dei film più importanti della storia del cinema. In realtà, considerati i punti di contatto tra le due storie, mi sono limitato a mandare leggeri segnali, giocando sul filo dell’ironia. Parlando prima di camminamenti a rischio, di altezze, di equilibri precari, ho già fatto riferimento al tema dell’acrofobia, centrale nell’intrigo hitchcockiano. E così di seguito, mi è venuto naturale chiamare Scottie – utilizzando dunque il nomignolo del personaggio di James Stewart nel film – il nostro Jack Russell Terrier, scelto perché abile a scavare buche nel giardino: un aggancio al delirio di Riccardo, che nota il disappunto di Andrea per l’azione del cagnetto, e lo sospetta di aver occultato il cadavere della moglie (e dunque di temere un’eventuale involontaria riesumazione), infilando una suggestione simile nella revisione del suo romanzo. Se il racconto di un animale che rivela la presenza di un cadavere fa nuovamente pensare a Poe e al suo Gatto nero, in realtà qui ritorniamo alla Terra desolata, al monito rivolto a Stetson – che è un uomo d’affari della City misteriosamente associato alla battaglia navale di Mylae (cioè Capo Milazzo, un luogo molto vicino al nostro set di Acqualadroni) – a badare al cane che vorrebbe dissotterrare il cadavere da lui seppellito in giardino. Anche se il racconto fatto dal cane è verosimilmente rubato da Riccardo a Roog, il primo racconto che Philip K. Dick riuscì a vendere, ispirato dall’animale posseduto dal suo vicino… Tornando a Hitchcock, mi è sembrato pertinente chiamare “La moda che visse due volte” il negozio di abiti vintage appartenuti a Sofia: lo intravediamo nella foto custodita nel baule. Ma certamente i vestiti dell’una che finiscono addosso all’altra è un riferimento non da poco, e la scena dello chignon una citazione diretta, anche se con una netta differenza temporale: Kim Novak/Judy oppone una piccola resistenza a James Stewart sulla richiesta di raccogliere i capelli in uno chignon, esattamente come faceva la defunta Madeleine, perché teme che la macchinazione sia scoperta, ma poi rientra in bagno, e lo accontenta; Hikma si rifiuta recisamente, quasi a muso duro, anche lei impaurita dal fatto che Andrea la stia troppo pericolosamente assimilando a Sofia, ma poi ci pensa su, e la sera dopo decide di sfoggiarlo durante la cena, sente di doverglielo… Andrea appare poi inizialmente depresso perché si sente anche lui responsabile della morte della moglie, e da lì affetto da una sorta di necrofilia “per fedeltà”: esattamente come Scottie Ferguson “vuole andare a letto con una morta” (Hitch dixit). Lo stesso regista chiama “sesso psicologico” questo desiderio di ricreare un’immagine sessuale impossibile: è il sottile crinale su abbiamo deciso di far camminare il personaggio di Andrea, preparando il film con Claudio Botosso, che lo interpreta in maniera assai partecipata. Per quanto riguarda i sensi di colpa, il tormento per il ricordo di Sofia lo avvicina anche al personaggio di Laurence Olivier in Rebecca, la prima moglie, giusto per restare su Hitchcock. Anche per quel sospetto di omicidio che Riccardo getta su di lui…

 

  1. Personalmente ho sempre trovato difficile inquadrare la tua filmografia come quella di un cineasta di genere o d’essai. Alla luce dei dibattiti sulla validità di queste etichette, dobbiamo pensare ad un tuo rifiuto di esse, oppure pensi di farne parte?

Parlare di cineasta d’essai mi suona strano… in fondo, i miei film non sono così estremi, di quelli che piacciono solo ai critici o ai selezionatori dei festival. Anzi, direi che sono addirittura più contento, rispetto alla lettura delle recensioni favorevoli, quando percepisco chiaramente l’emozione provocata nel pubblico delle sale. E per fortuna è accaduto spesso, soprattutto con quest’ultimo film. Se parliamo di generi, l’ambito in cui mi muovo è sempre quello del dramedy, la commedia drammatica, a volte più carica di toni foschi, come accade in Seconda primavera, in altre circostanze più incline alla leggerezza. Un termine che mi fa pensare al mio primo film professionale, La gentilezza del tocco, il cui titolo fu spesso storpiato: erano gli anni della celebre Insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. A questo proposito, ricordo che quando scrisse la prefazione al volume che racchiudeva le mie prime tre sceneggiature – si chiamava appunto anch’esso La gentilezza del tocco, fu pubblicato da Sellerio nel 1994 – Enrico Ghezzi definì i miei film “polizieschi del cuore”. Io mi ci ritrovo, mi accorgo che continuo a scrivere storie in cui il tema della quest, lievemente avvolta nel mistero (come avviene anche in Seconda primavera), è solo un pretesto per un’analisi amorosa, ed esistenziale lato sensu. Uno dei cineasti che ammiro maggiormente,l’americano John Cassavetes, dichiarava in un’intervista che nessuno può vivere senza filosofia. Ma lui attribuiva al termine filosofia un’accezione… come posso dire, rovesciata. L’amore per la saggezza, secondo l’etimo greco, era diventato per lui anche la sapienza, lo studio dell’amore. Come dire, ogni cineasta non può girare film senza analizzare l’amore. Ecco, direi che il mio genere – sempre senza mai perdere di vista il contesto sociale in cui si muovono i personaggi – sono i film filosofici d’amore.

 

  1. Un’ultima domanda.Seconda Primavera è uscito in un anno particolarmente prolifico per il cinema italiano. Oltre ai film di autori già affermati, come Sorrentino o Tornatore, l’opera ultima del compianto Claudio Caligari, Non essere cattivo, sono arrivati nelle sale giovani registi come Gabriele Mainetti ed il suo Lo chiamavano Jeeg Robot, premiato ai David di Donatello e Matteo Rovere, al suo terzo film con Veloce come il vento, che sembrerebbero promettere bene, in un panorama cinematografico da tempo artisticamente sterile. Hai dei nomi, tra i giovani registi nostrani, in cui riponi speranze concrete per risollevare le sorti del cinema nostrano?

 

Ovviamente per me non ha senso qui citare nomi fin troppo conosciuti. Io ripongo speranza nei giovani cineasti che si allontanano dal mainstream, spinti da un’ispirazione autentica, senza mirare ad épater le bourgeois, come si diceva un tempo, ma assumendosi dei rischi, e accettando la loro marginalità nei confronti di un sistema marcio – vedi quel che è successo al succitato Caligari, osteggiato in vita e celebrato solo dopo morto – come il nostro. Se faccio i nomi dei gemelli De Serio, o di Michelangelo Frammartino, sono certo che al grosso pubblico dicano poco, e questo racconta bene come sia irrimediabilmente compromessa la situazione italiana…

 

 

 

 

Angelo Scuderi e Andrea Donato

Civil War, tutto il dolore per un’amicizia distrutta… e Spiderman

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Succede, spesso, che due persone abbiano un incomprensione. Si può litigare, urlare, allontanarsi e nei casi più estremi arrivare alle mani. I motivi per litigare possono essere molteplici: cause esterne alla coppia, cause interne, incomprensioni o fraintendimenti.  Se sei un supereroe con la capacità di distruggere tutto e litighi con un altro supereroe che ha la stessa capacità, beh forse non finirà proprio bene. Sicuramente, sia per quanto riguarda i supereroi che per quanto riguarda le persone normali, tornare ad essere “amici come prima” è dura. Una cosa è sicura: da un litigio si può o uscirne più forti o non uscirne mai.

Captain America: Civil War si presenta proprio così. Un grosso litigio, una grossa incomprensione che non si sa come andrà a finire. Il film, che dovrebbe rappresentare il terzo della saga di Captain America, risulta essere un sequel dei film degli Avengers. I protagonisti assoluti sono Captain America e Iron Man ma il team degli Avengers è quasi al completo. Questo perché non ci troviamo semplicemente all’ennesimo sequel, ma al primo film che inaugura ufficialmente la terza fase cinematografica del Marvel Cinematic Universe. Infatti gli studios, di proprietà della Disney, ci hanno abituato nel corso degli anni a seguire con ansia tutti i film in uscita in quanto tutti collegati tra loro. Una grande scelta di marketing.

Proprio a proposito del marketing di casa Marvel quello che ha preceduto il film parlava piuttosto chiaro: #teamcap o #teamironman, tu da che parte stai? L’intento è stato subito quello di far schierare il pubblico. Sì, proprio come se tu fossi l’amico di una coppia che sta per disfarsi e sei tenuto a scegliere da che parte stare. Questa idea è stata assolutamente vincente facendo scatenare sul web le due fazioni contro, come se si stesse veramente combattendo una guerra civile. Però, fra tutte le guerre, questo tipo di contesa è quella che lascia di più l’amaro in bocca. Siamo sempre stati abituati a vedere i film con i supereroi che combattono il male. Nella guerra civile il male è difficile da identificare, quasi non c’è. Quando vedi due amici che lottano fino alla morte quello che desideri con tutto il cuore è che smettano di lottare e che torni tutto come prima. Ma non torna mai tutto come prima. Ripeto: ottima scelta di marketing, Marvel. Ci troviamo, così, inermi davanti a questa lotta. Le fazioni si sfaldano. Chi tifava per Iron Man o chi tifava per Captain America non ha più importanza: ci importa che tutto finisca.

Non si rimane indifferenti ad un film del genere. Rimaniamo travolti da una trama che prende così una svolta inaspettata e grazie anche al consolidamento e all’introduzione di nuovi personaggi. Molto convincente Black Panther che nel corso della pellicola sembra essere l’ago della bilancia della situazione. Per non parlare dell’entrata in scena mozzafiato. Però c’è da dire che tutti gli occhi erano puntati sul nuovo Spider-Man. Tom Holland, che interpreta il “bimbo-ragno”, si è dimostrato perfetto per la parte. In tutte le scene in cui è presente riesce a strappare un sorriso. È divertentissimo. Bello (magari da approfondire nel film di Spiderman che uscirà nel 2017) il rapporto con Tony Stark che diventa per lui come una figura paterna. Il loro primo incontro ci dà da subito l’impressione che con loro due non ci annoieremo facilmente anche grazie al grande feeling che sembrano avere Tom Holland e Robert Downey Jr.

Per i fan Marvel questo film rappresenta una spaccatura non da poco. I film che seguiranno saranno sicuramente molto interessanti. Ancora una volta la Marvel è riuscita a darci un valido motivo per continuare a guardare i suoi prodotti. Questo rende MOLTO felici loro ma anche a noi non dispiace.

Nicola Ripepi