Inaugurata a Gerusalemme l’ambasciata USA

Si è svolta il 14 Maggio a Gerusalemme la cerimonia di apertura della nuova ambasciata Usa.

La decisione del presidente americano, Donald Trump, di trasferire l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme è avvenuta in concomitanza con le celebrazioni per il 70esimo anniversario della nascita dello stato di Israele.

Alla cerimonia di insediamento della nuova ambasciata americana hanno preso parte la figlia del presidente americano Donald Trump, Ivanka, e il genero, Jared Kushner, oltre al segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, e al vice segretario di Stato, John Sullivan.

E’ stata proprio Ivanka Trump a togliere il velo alla targa dell’ambasciata Usa a Gerusalemme.

Il presidente non essendo fisicamente partecipe alla cerimonia è intervenuto con un video messaggio pre-registrato, nel quale afferma che:

“La capitale di Israele è Gerusalemme. Israele, come ogni stato sovrano, ha il diritto di determinare la sua capitale (…) la nostra speranza è per la pace e gli Stati Uniti restano impegnati per un accordo di pace”.

Scrivendo subito dopo un tweet nel quale ribadisce esultando “Un grande giorno per Israele. Congratulazioni!”.

 

Sebbene alla cerimonia di inaugurazione la presenza era solo di quattro delegazioni europee: Repubblica Ceca, Romania, Austria e Ungheria; dopo gli Stati Uniti, altri paesi hanno affermato di avere in programma il trasferimento della loro ambasciata a Gerusalemme.

Dopo aver annunciato lo spostamento dell’ambasciata, lo scorso 6 dicembre, la situazione in Medio Oriente può essere riassunta con una sola parola: “massacro“.  Questa notizia scatenò e continua a scatenare un forte conflitto a tal punto che le manifestazioni, alle quali la partecipazione si è presentata in massa, prendono il nome de “La marcia del ritorno“.

Purtroppo anche l’inaugurazione è stata circondata da un clima di tensioni: violentissimi e sanguinosi scontri tra manifestanti palestinesi e l’esercito israeliano, hanno avuto luogo sia per le strade sia lungo il confine tra Israele e la Striscia di Gaza, dove secondo alcuni dati dimostrati, il bilancio è salito almeno a 52 morti e altri duemila feriti.

Nonostante tutti i paesi si dichiarino preoccupati, le loro reazioni di condanna volte sia verso la decisione del presidente americano sia verso l’incessante massacro, non sono sufficienti per fermare la catastrofe.

                                                                                                                                                                         Francesca Grasso

Festival di Cannes 2018: poche “stars” e molte polemiche

Come ogni anno, con l’arrivo di Maggio, ritorna il più importante evento cinematografico dopo gli Oscar hollywoodiani:  il Festival di Cannes, la splendida passerella che ha portato al trionfo pellicole cult come Miracolo a Milano di De SicaLa dolce vita di Fellini e Pulp Fiction di Tarantino (solo per citarne alcuni).

Ma, a soli 8 mesi dallo scoppio del “Caso Weinstein” e, con il ricordo ancora vivido delle bellissime parole pronunciate durante la serata degli Oscar dall’attrice Francis McDormand, è stato facile prevedere la forte ondata di polemiche e manifestazioni che sta colpendo giorno dopo giorno l’evento di punta della stupenda città della Costa Azzurra. È stata, infatti, assordante la marcia silenziosa portata avanti sul red carpet del Palais des Festivals et des Congrès, da parte di 82 donne del cinema tra cui registe, attrici, produttrici, manager che hanno sfilato per manifestare contro le violenze sessuali e spingere verso una più netta e concreta equiparazione dei sessi all’interno dell’industria cinematografica e non solo. In testa al corteo la presidente della giuria, Cate Blanchett, e la regista belga, neo-vincitrice di un Oscar alla carriera, Agnés Varda, hanno sottolineato l’importanza di questo gesto con la lettura di un significativo discorso sulle scale d’ingresso del Grand théâtre Lumière:

“Le donne non sono una minoranza nel mondo, ma la rappresentanza che abbiamo nell’industria sembra dire ancora altro… affrontiamo ovunque ognuna le proprie sfide, ma oggi siamo qui insieme per dare un segnale della nostra determinazione e del nostro impegno al progresso. Queste scale devono essere accessibili a tutte. Scaliamole!”

Ad organizzare la marcia è stato il nuovo movimento femminile francese 5050×2020” che, insieme ai già noti Time’s up , Dissenso comune e MeToo, si sta impegnando in questa dura battaglia.

E, se da un lato spiccano in senso positivo questi gesti di ribellione e invito al progresso, dall’altro destano scalpore e danno adito ad altre polemiche, le decisioni prese dal delegato generale del Festival di Cannes 2018, Thierry Fremaux.

Il cinquantottenne critico cinematografico francese e direttore dell’Istituto Lumière di Lione, si è fatto notare proprio per le restrizioni a cui ha sottoposto questa 71esima edizione della kermesse, negando, in primis, la partecipazione alla corsa alla Palma d’oro, dei film prodotti dal colosso statunitense Netflix, denunciando l’incompatibilità dei metodi di distribuzione delle pellicole da parte della piattaforma web, con le regole del Festival:

“Il loro modello (di Netflix, ndr) è incompatibile con quello francese, a Venezia non hanno lo stesso problema (…) Noi per questa edizione avremmo voluto il film di Cuarón, Roma, in Concorso, e il film inedito e restaurato di Orson Welles, The Other Side of the Wind, fuori concorso. Per il primo non c’era possibilità di accordo, perché il Concorso comporta il passaggio in sala, ma per il secondo non ci sarebbero stati problemi, è una loro scelta”

Risultati immagini per Thierry Fremaux

A queste polemiche si sono accompagnate quelle relative alla cancellazione delle anticipate stampa (le proiezioni in anteprima dei film destinate ai soli giornalisti che permettevano loro di scrivere gli articoli per tempo), decisione che ha completamente stravolto il piano di copertura informativa di Tv e carta stampata, scatenando le ire dei giornalisti. Le motivazioni espresse da Fremaux sono da ricollegare alla volontà di evitare spoiler ed anticipazioni sui social network o sulle testate online:

Volevamo che la proiezione di gala fosse una vera première, un vero evento, il primo passaggio in assoluto del film. Non è un provvedimento contro la stampa.”

Infine, l’ultima e forse più bizzarra presa di posizione del delegato generale, è stata quella di negare la possibilità a tutti di fare selfie sul red carpet, scelta che giustifica con la questione della sicurezza :

Siamo l’unico grande festival che consente l’accesso sul red carpet a tutti. Capitava che la gente cadesse sulle scale per fare una foto.”

Ciò ha fatto molto arrabbiare i fan che aspettavano con ansia di immortalare il loro volto accanto a quello dei loro attori e registi preferiti e che invece potranno solo guardare da lontano.

Sarà, dunque, un Festival dai pochi likes sui social e dalle molte facce serie quello del 2018, in cui le polemiche stanno avendo un ruolo di punta. Ma ciò che ci auguriamo è che si riesca a mantenere tutto questo lontano da quello che realmente conta: la bellezza dei film in concorso e le storie che questi vogliono raccontare al pubblico.

Che vinca il migliore!

Giorgio Muzzupappa

Coraggio e libertà di informazione. Ricordo di Peppino Impastato

Quaranta anni dopo il sole ricopre la campagna brulla che circonda il casolare alle porte di Cinisi. In quello stesso spazio in cui, nella solitudine, si compì la tragica mattanza per mano dei sicari di Cosa Nostra, ieri si è riversata una moltitudine di ragazzi e studenti provenienti da tutte le parti di Italia che ha portato con sé striscioni colorati e intonato canzoni per ricordarlo.

Speaker alla radio, giornalista, nonchè militante di Democrazia Proletaria, Peppino Impastato pagò con la vita, ad appena 30 anni, la sua ostinata volontà di eliminare il velo di omertà in cui viveva. Con Danilo Sulis, impegnato oggi nell’associazione Rete 100 Passi e nell’omonima webradio, fondò negli anni ‘70 il Circolo Musica e Cultura, che si trasformò rapidamente in un punto di incontro per tutto il circondario. A questo progetto seguì l’idea di aprire le porte anche ad altri temi di interesse sociale e civile; presero quindi le mosse il collettivo femminile e quello antinucleare, mentre Radio Aut iniziò a trasmettere in FM da Terrasini la rubrica satirica Onda Pazza.

Al presidio al casolare, nel giorno della sua uccisione, ci sono gli amici di un tempo, come Faro Sclafani, c’è Umberto Santino, fondatore del centro Impastato; i volontari di varie associazioni, e l’auto bianca di Peppino, un simbolo al pari della Renault 4 in cui venne ritrovato il corpo di Aldo Moro, qualche ora dopo, in via Caetani a Roma. Giovanni Impastato, il fratello, nel sostenere la necessità di passare ormai il testimone della memoria alle giovani generazioni, sottolinea:

 “vogliamo coinvolgere la Meglio Gioventù con l’impegno, ma anche con l’aggregazione”

Durante il pomeriggio le celebrazioni sono proseguite con un corteo, dove era presente Giovanna Camusso e, tra gli altri, il gruppo 44 di Amnesty International, le Agende Rosse di Salvatore Borsellino e Legambiente, per fare da ponte tra la sede della radio a Terrasini e Casa memoria Felicia e Peppino Impastato a Cinisi, distante cento passi dalla casa di Badalamenti, bene confiscato alla mafia dove sono state poste le attrezzature della radio che trasmette oggi sul web. In serata c’è stato infine un collegamento con la famiglia Regeni.  Luisa Impastato, nipote di Peppino, ha messo in evidenza il legame ideale tra i due giovani, morti entrambi per una causa di verità. Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera in un suo discorso ha parlato soprattutto di giovani e desiderio di legalità:

“combattere la mafia dissacrandola, questa è stata la grande intuizione di Peppino Impastato. Invece di abbassare la testa al potere corrotto, insieme agli altri ragazzi alzavano il volume della radio. Oggi c’è bisogno di Onda Pazza, oggi c’è bisogno di più coraggio, più impegno. Il nome di Impastato significa per noi giustizia, bellezza, sogno, libertà. ”

Il casolare, con la collaborazione del Centro Regionale per l’Inventariazione, la Catalogazione e la Documentazione dell’assessorato regionale ai Beni culturali e il Comune di Cinisi, resterà aperto fino a venerdì sera, quando si terrà la pièce teatrale “Lamentu per la morte di Peppino Impastato”.

 

                                                                                                                                                     Eulalia Cambria 

                                                                                                              Ph: Vanessa Rosano e Liliana Blanda

Ruby bis, l’esito della sentenza

Nel pomeriggio del 7 maggio la Corte d’Appello ha emesso la sentenza: condanne lievemente ridotte per Fede e Minetti, ora rispettivamente a 4 anni e 7 mesi e a 2 anni e 10 mesi.

L’avvocato di Nicole MinettiPasquale Pantano, ha esordito così davanti alla Corte d’Appello di Milano: “Come nel caso di dj Fabo, morto in Svizzera con il suicidio assistito, Marco Cappato ha solo aiutato quell’uomo nell’esercizio di un diritto, anche Nicole Minetti, ex consigliera lombarda, ha solo dato un aiuto alle giovani ospiti alle serate di Silvio Berlusconi ad Arcore “nell’esercizio libero della prostituzione”. Una pratica che rientrerebbe in una generica libertà di autodeterminazione.” 

 

Il legale, sostenendo questo scioccante e forzato parallelismo ha scatenato nell’opinione pubblica una massiccia indignazione: nonostante si trovi giusto che ogni imputato abbia diritto ad essere difeso dal punto di vista della libertà, non è accettabile che un avvocato possa porre sullo stesso piano suicidio assistito e prostituzione.

Per sostenere la tesi, Pantano, richiamando l’ordinanza nel processo a Cappato «sulla libertà di decidere della propria vita» , afferma:

«Non si comprende come possa essere criminologicamente rilevante aiutare qualcuno nell’esercizio libero della prostituzione, in una società che si è evoluta rispetto alla prostituzione degli anni ’40 a cui si riferisce la legge Merlin. All’epoca – ha aggiunto – non c’erano le escort che oggi si offrono liberamente». E ancora: «Se non c’è violazione della sfera di libertà, come avviene invece nella tratta delle prostitute ‘schiave’, non c’è reato».

La difesa della Minetti, così come quella di Emilio Fede – anch’egli sotto processo – ha chiesto prima l’assoluzione, per poi sollevare la questione del favoreggiamento alla prostituzione «quando non c’è costrizione ma libero esercizio».

Per questo motivo nella scorsa udienza il sostituto procuratore generale, Daniela Meliota, ha insistito sulla tesi del “sistema prostitutivo” per chiedere: sia di respingere la questione di illegittimità costituzionale sia la conferma delle condanne per l’ex direttore del Tg4 e per l’ex consigliera lombarda, affermando che:

“Oggi non è possibile pensare a un’attività di libera prostituzione”

Ciò che più indigna e lascia sconcertati è il mancato rispetto mostrato verso la questione etica, per cui un avvocato ha rischiato la galera autodenunciandosi per un caso che seppur difeso dalla rimarrà sempre sporco.

Francesca Grasso

Cristina Geraci

 

 

 

Violenza nelle strade, uno sguardo sul fenomeno

Cresce sempre più il tasso di omicidi violenti nelle maggiori capitali mondiali. In una sola notte, prima a Londra e subito dopo a Liverpool, sono stati rinvenuti i cadaveri di due giovani ragazzi  di età compresa tra i 17 ed i 20 anni, entrambi morti per mano di coetanei e per futili motivi. Molte le forze dell’ordine impiegate nel tentativo di ridurre un fenomeno che si sta facendo, giorno dopo giorno, più serio e al centro del dibattito politico.

È proprio alla luce di questi fatti che, durante il suo intervento alla “National Rifle Association”, si è espresso il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump evidenziando ancora una volta il suo forte sostegno all’uso libero delle armi da fuoco da parte dei cittadini. Ha poi rincarato la dose usando parole dure nel ricordare i fatti del Bataclan di Parigi:

“Se i cittadini fossero stati armati, sarebbe stata una storia completamente diversa…”

scatenando le risposte indignate di opinione pubblica ed autorità, politiche e non, di tutto il mondo, tra le quali quella dello stesso ex presidente fracese Francois Hollande che si è detto “disgustato” da queste affermazioni del Tycoon.

Ma, se da un lato troviamo chi continua a dare adito a discorsi che esaltano l’uso della violenza a scopi di difesa, e a flebili tentativi di denuncia dei fatti; dall’altro ci sono coloro che vivono quotidianamente il pericolo di strade sempre più macchiate di sangue. E anche in Italia il discorso non cambia.

Negli ultimi due giorni sono stati quattro i casi di violenza e tentato omicidio nel nostro paese, tre dei quali ad opera di giovani ragazzi e, se a questi si aggiungono i sempre più frequenti casi di bullismo e violenza sulle donne, i dati salgono vertiginosamente presentando un quadro estremamente preoccupante.

E in una situazione politica tanto incerta quanto quella italiana attuale, il tema della sicurezza diventa uno degli argomenti caldi della discussione tra i vari partiti in cerca di un accordo di governo, con M5S e Centrodestra favorevoli ad una massiccia campagna di assunzioni nelle forze dell’ordine e nell’estendere l’uso dell’esercito a supporto della polizia; ed il Centrosinistra che punta a ridurre questi fenomeni incentivando la cultura e puntando alla riqualificazione delle periferie urbane.

È una situazione difficile da affrontare che divide in due la società tutta, rendendo impossibile il raggiungimento di una soluzione comune e funzionale alla riduzione di questi casi. Ciò che però resta sicuramente chiaro a tutti – o forse sarebbe meglio dire, a molti – è che l’uso delle armi per cercare di combattere la violenza nelle strade è qualcosa di ridicolo anche solo da pensare, ma, forse, ci toccherà aspettare ancora un po’ prima che tutti riescano a capirlo.

Giorgio Muzzupappa

Social networks e politica: il caso Facebook

“Più sono grossi, più fanno rumore quando cadono” diceva nel 1900 il pugile britannico Bob Fitzsimmons prima di salire sul ring per affrontare il suo prossimo match e credo non ci sia frase più azzeccata per sintetizzare l’enorme clamore provocato, negli ultimi giorni, dallo scandalo del social network americano Facebook.

Nel 2007, anno del lancio della piattaforma in Internet, il trentatreenne CEO del colosso di Menlo Park, Mark Zuckerberg, si era detto favorevole alla collaborazione con varie applicazioni che avrebbero reso maggiormente interattivo e dinamico il rapporto tra users – si vedano in merito: l’inserimento delle date dei compleanni degli amici sul calendario, la sincronizzazione tra rubrica telefonica e lista dei contatti, fino ad arrivare all’uso della geolocalizzazione per creare una mappa digitale delle abitazioni dei propri followers -. Tutto questo e molto altro venne introdotto dagli sviluppatori dando la possibilità ad ogni singolo utente di condividere con Facebook ed altre app abilitate nel farlo, alcuni dei propri dati personali e la propria lista amici, garantendo sempre il rispetto della privacy del sottoscrivente. Il sistema funziona, il “social in blu” guadagna sempre più in popolarità e ricchezza e gli iscritti si dicono contenti delle nuove migliorie.

Ma è nel 2013 che tutto cambia. Facebook è sulla cresta dell’onda, e alle applicazioni che vi collaborano è garantita una larga libertà per quel che concerne l’uso e l’archiviazione delle informazioni di utenti ed amici. È in questo panorama che nasce thisisyourdigitallife” app creata da Aleksandr Kogan, ricercatore russo-americano della prestigiosa Università di Cambridge, esperto di big-data e comunicazioni. Si trattava, sostanzialmente, di un semplice quiz di 61 domande destinato ad individuare a quale livello fossero diffusi i tratti della Triade oscura” (narcisismo, machiavellismo e psicopatia) sulla popolazione del web e quanto questi fossero importanti per comprendere i sempre più numerosi comportamenti violenti su Internet. A scaricarla furono circa 270mila persone che, involontariamente, hanno contribuito in maniera significativa ad influenzare i risultati di due eventi fondamentali per il panorama socio-politico mondiale: il referendum per la Brexit e le elezioni presidenziali americane del 2016. Secondo quanto rivelato da un’inchiesta del New York Times, questi utenti, scaricando il questionario online di Kogan, davano il loro consenso alla società produttrice dell’applicazione di entrare in possesso della loro lista contatti, un “patrimonio umano” di circa 51 milioni di profili che, se analizzati da professionisti del campo politico, potevano essere facilmente utilizzati per indirizzare gli elettori verso una scelta ben definita, mediante l’uso di messaggi mirati e banner pubblicitari costruiti ad hoc.

Mark Zuckerberg presso la sede di Facebook, in Menlo Park, California, il 27 settembre 2017.
foto: STEPHEN LAM/REUTERS

Solo un anno dopo, alla luce di una serie di attività sospette mosse da applicazioni abusive nei confronti del colosso social, Zuckerberg decise di rivoluzionare la propria piattaforma per garantire un maggiore controllo ed una più ampia sicurezza per i dati personali dei propri iscritti; ma è nel 2015 che, a detta dello stesso Zuckerberg, Facebook viene a conoscenza del fatto che Kogan avesse condiviso i dati ottenuti da “thisisyourdigitallife” con la società “Cambridge Analytica” specializzata nel supporto di grosse campagne elettorali mediante i social networks. 

Ciò che risulta essere veramente interessante in tutta questa vicenda lo si apprende, però, leggendo due dei nomi a capo di “Cambridge Analytica”: Steve Bannon, ex capo stratega del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, vice presidente della società in questione e grande amico di Nigel Farage, leader del partito Ukip che ha guidato il movimento per la Brexit; e Bob Mercer, miliardario, esperto di informatica, padre di Rebekah Mercer che è alla testa del più importante comitato elettorale dei repubblicani, nonché head funder di “CA”.

Dallo scoppio dello scandalo, Facebook ha già perso 7 punti percentuali in borsa, circa 40 miliardi di dollari in pochi giorni ed il fenomeno non sembra essere in calo. Zuckerberg si è prontamente scusato con un lungo e dettagliato post sul proprio profilo personale, cercando di spiegare meglio la situazione e di limitare, almeno in parte, le forti critiche che migliaia di utenti gli stanno quotidianamente recapitando; contemporaneamente in molti si sono mobilitati a favore della campagna #DeleteFacebook, nata su Twitter con il solo scopo di boicottare il gigante social colpevole di aver violato la fiducia di milioni di utenti.

Sembra essere un duro colpo quello che ha incassato il più importante social network del mondo, ma difficilmente sarà quello del K.O.

 

 

Giorgio Muzzupappa

 

”Muoviti in libertà” – un’app contro le catene della disabilità 

E’ Tiziana De Maria, la progettista di Muoviti in Libertà, un’app  e piattaforma web che consente a persone con disabilità di trovare un assistente quando e dove serve. 

Un vero e proprio sogno che si realizza per Tiziana, che in prima persona vive in una condizione di disabilità. 

Si tratta di un’iniziativa che dà una risposta concreta al bisogno delle persone con disabilità di vivere il proprio quotidiano con la stessa libertà di scelta delle altre persone. 

Nasce come idea nel 2015, a termine di un percorso di ricerca iniziato nel 2010 con lo studio di processi di innovazione sociale, networking e modelli di governance dell’impresa sociale, svolto nell’ambito di un Dottorato in Management presso l’Università Cà Foscari di Venezia 

Nel Luglio dello scorso anno, col sostegno dell’associazione Nuovi Orizzonti, “Muoviti in Libertà” è stato selezionato tra oltre 500 applications nell’ambito del Premio Gaetano Marzotto, tra i progetti tecnologici da sostenere con un processo di incubazione. 

Il meccanismo è semplice e veloce: 

  1. la persona con disabilità inserisce in piattaforma la propria richiesta di assistenza, specificando il tipo di servizio richiesto; 
  1. gli assistenti personali si candidano per la “presa in carico” del servizio; 
  1. la persona con disabilità sceglie l’assistente personale che fa al caso suo. 

 

Da lunedì 5 Marzo, si è aperta una campagna di raccolta fondi online a sostegno del progetto MUOVITI IN LIBERTA‘ sulla piattaforma di crowdfunding Produzioni Dal Basso: l’obiettivo è raggiungere in 60 giorni la somma di 20.000 €. 

I fondi raccolti verranno utilizzati per realizzare la piattaforma web e l’app e per la sperimentazione di un “progetto pilota” in alcune città italiane, tra cui Messina. 

Per scoprire come partecipare alla donazione, visitate la pagina Facebook, Instagram e Twitter di MUOVITI IN LIBERTA’. 

 

Jessica Cardullo

Terrabruciata: tra fotografia e presa di coscienza

Quando il 9 Luglio scorso i colli messinesi hanno smesso di ardere, il paesaggio si è stravolto. Ettari di macchia mediterranea sono andati letteralmente in fumo, cumuli di macerie, scheletri di alberi e cenere governavano lo scenario.

 

 

 

Giusi Venuti, filosofa eclettica, e Gerri Gambino, fotografo per abitudine, hanno deciso di percorrere quei sentieri un po’ sbiaditi, arrivando fino al monte San Jachiddu attraverso il Sentiero dei cinghiali.

Dodici fotografie in bianco e nero che sono una presa di coscienza della situazione presentatasi subito dopo l’inferno che la natura ha subìto. Dodici fotografie che mostrano la follia dell’uomo dinanzi la bellezza estrema che non comprende e, senza ragione, distrugge. La mostra, infatti, non è un reportage, non vi è denuncia da parte degli artisti: è il riscontro della constatazione di circostanze antropologiche, culturali e territoriali, di cui tutti siamo complici.

“Non c’è stata alcuna progettazione”, dicono gli artisti, “è come se fossimo stati chiamati dalla natura. Il suo è stato un grido di disperazione, di aiuto.”

La mostra è strutturata come la narrazione della storia di questa vegetazione che è stata deturpata dalla follia e dal delirio dei suoi figli, gli uomini. Anche se si devasta c’è sempre qualcosa di più grande, e Giusi l’ha percepito nell’accarezzare una sughereta (vi sono infatti 4 foto dedicate a questo toccante momento) “Inutile che ragioniamo, c’è sempre qualcosa che ci sfugge. Credevo quell’albero fosse morto, ed invece ho sentito da dentro il tronco una forza di vita devastante e travolgente”.

Gli scatti si concentrano su contrasti tra bianco e nero, poche luci e poche ombre, il movimento era essenziale per trasmettere la realtà che vedevano i loro occhi. “Spesso dico per dispetto a Giusi che sono state eliminate le più belle, ma nel momento dello sviluppo dell’allestimento la scelta è ricaduta su queste 12 fotografie che vedete: un messaggio diretto e scarno, profondo e reale”.

Si dice che la bellezza generi benessere, ed io ne sono fermamente convinta. A volte, però, la stessa bellezza genera un benessere che non riesce a rendere personale per gli occhi che la mirano e, si sa, l’uomo quando non comprende qualcosa dice che è sbagliata. Le sensazioni e le emozioni che si provano osservando quegli attimi congelati variano in base ai movimenti raffigurati: il volto verso l’alto e così anche i rami spogli degli arbusti nello sfondo ricreano quella complicità che si era persa nell’odio e nella rabbia dell’uomo; il tocco delicato della mano di una donna sul sughero poroso rassomiglia alla dolcezza con cui una madre accarezza il frutto nato da lei; il cammino in vesti nere attraverso le sterpaglie rappresentano il percorso vitale di ognuno di noi, che sfortunatamente, molto spesso, esclude Madre Terra.

“Terrabruciata” sarà visitabile (gratuitamente) presso lo Studio Galbo-Marabello, via Ghibellina 96 b a Messina, fino al 5 novembre 2017. Orari: feriali 17-19; sabato, domenica e 1° novembre 10-13 e 17-19.

 

 

Giulia Greco

 

 

Je suis Charlie

Charlie Gard.  Ha solo 10 mesi, ma tutto il mondo già lo conosce, tutti i mezzi di comunicazione ed i social networks, non hanno fatto altro che parlare di lui in questi giorni. Perché?

Perché la vita di questo bimbo, nella sua particolarissima forma, è segno di contraddizione per la società del nostro tempo che, pronta a legittimare anche i desideri più improbabili, priva della propria libertà chiunque non dovesse essere allineato con i “trend” del pensiero forte.

Chris Gard e Connie Yates, genitori del piccolo Charlie, hanno solo chiesto la vita, mentre medici e corti d’appello sentenziano morte. Morte per soffocamento ( sono filantropi, loro!) dal momento che “staccando la spina”,  Charlie non sarà più in grado di respirare autonomamente. E’ una malattia rara la sua, deplezione del DNA mitocondriale (16.ooo base paires che vengono, normalmente, tradotte in proteine funzionali, fondamentali per consentire all’organulo di adempiere alla sua funzione), si contano solo altri 16 casi del genere in tutto il mondo.

E’ senz’altro una situazione complessa ed estremamente delicata, però una cosa risulta incomprensibile: anche se  il bimbo non può essere portato negli Stati Uniti per tentare una cura sperimentale bocciata dai medici del Great Ormond Street Hospital di Londra, perché deve essere ucciso attraverso la rimozione del respiratore?

I genitori, infatti, fin dal primo giorno insistono nel dire che il bambino non soffre («se fosse così saremmo i primi a lasciarlo andare»). E che Charlie possa continuare a vivere è dimostrato proprio dal fatto che, da aprile a oggi, cioè da quando è iniziata la causa giudiziaria, il suo stato di salute non è peggiorato.

Di questo, i medici non sanno bene che rispondere. La decisione di staccare la spina è stata presa, dicono, “nel migliore interesse del bambino”, ma non è facile comprendere come la vita possa non essere nell’interesse di Charlie. E rimane, ancora, il nodo cruciale: secondo gli stessi operatori sanitari  “Non è possibile sapere se Charlie provi dolore o meno. Nessuno può esserne certo”. Quindi, non si può stabilire se ci sia o no accanimento terapeutico.

Però mi chiedo, quale medico e quale giudice può arrogarsi il diritto di porre fine alla vita di un bambino sulla base di qualcosa che non sa?

Poiché ammettono di essere nel dubbio, i dottori dovrebbero assisterlo fino alla fine e fare un passo indietro davanti a una vita che, per quanto fragile e sofferente, c’è.

L’emergenza di Charlie è l’emergenza di ogni uomo, perché la sua malattia coinvolge la fase vita in cui l’uomo è più debole e indifeso e ha bisogno di accoglienza, ancora di più se affetto da una malattia genetica o malformativa. Alla sua sofferenza non si è data una risposta concreta, si è negata la base minima della pietà umana decretando che se sofferenti non vale la pena vivere.

Concludo prendendo in prestito le parole di un pediatra e genetista francese (nonché scopritore della trisomia 21, più nota come “Sindrome di Down ed altre malattie cromosomiche), vissuto nel secolo scorso, Jérôme Lejeune:

«Se si volesse eliminare il paziente per sradicare il male, si avrebbe la negazione della medicina. Ma difendere ogni paziente, prendersi cura di ogni uomo, implica che ciascuno di noi debba essere considerato unico e insostituibile».

Dobbiamo servirci della medicina in modo etico per salvare vite, altrimenti essa rischia di diventare mero tecnicismo applicato, ma non al servizio dell’uomo. Charlie forse non può guarire, ma non per questo dev’essere ucciso da una scienza che si illude di essere onnipotente.

Ivana Bringheli

Sartoria Casarchè

Si chiama Atélier ed è un laboratorio di sartoria che, nel quartiere di Quarto Oggiaro (Milano), partendo dal cucito, guida le mamme ad un percorso di formazione ed autonomia economica.

 Archè è un’onlus che ospita donne e bambini che provengono da situazioni di abusi e maltrattamenti, o che sono immigrati nel nostro paese: sono persone a cui serve sostegno, ma che hanno anche bisogno di ricominciare la loro vita.

Così, le neo sarte si sono messe all’opera, imparando come prendere le misure, come mettere bottoni, cerniere, come fare imbastitura, orli e come utilizzare una macchina da cucire: grazie ad una donazione di varie attrezzature del mestiere, la prima formazione è partita a marzo con un gruppo di mamme che, da zero, hanno iniziato a comprendere il mondo della sartoria e, nel giro di due anni, si pensa di raggiungere l’obiettivo di diventare delle vere e proprie sarte.

Il primo incarico è stato creare dei foulard venduti per il musical Grease, e, adesso, stanno lavorando per riparazioni sartoriali.

Ma chi è l’ideatrice e coordinatrice di questo progetto? E’ l’arte-terapista e volontaria di Archè, Donatella De Clemente, una donna con un certo training in questi settori: si parla, infatti, di una formazione scolastica in moda ma anche di volontariato nel carcere di Bollate dove si occupava, appunto, di terapia artistica nella sezione femminile; è fondatrice dell’associazione ”Arte in tasca” ed ora è promotrice della sartoria.

Il sogno più grande per chi ha fondato il progetto e per le lavoratrici stesse, sarebbe la creazione di una linea d’abbigliamento esclusiva, con tessuti africani comprati in Ghana, da trasformare in abiti all’occidentale. Intanto, le sarte si stanno facendo conoscere e puntano ad offrire riparazioni a domicilio agli anziani del quartiere, per poi arrivare alle aziende del territorio, e dedicarsi alla riparazione degli abiti dei dipendenti.

La finalità è quella di accompagnare queste persone verso una piena autonomia, tramite la creazione di questo impiego stabile che, non solo fornisce sicurezza economica, ma restituisce fiducia e dignità a queste donne; dona un futuro a chi non pensava di averne uno.

 

 

Jessica Cardullo