Fermato il sospettato per l’omicidio di Soumayla Sacko

Era la notte del 2 Giugno quando a San Calogero, in provincia di Vibo ValentiaSoumayla Sacko, ventinovenne maliano, attivista sindacale dell’Usb (Unione sindacale di base), ed altri suoi due compagni di ventisette e trent’anni sono stati colpiti da quattro colpi di fucile mentre cercavano di recuperare delle lamiere dall’ex Fornace, una fabbrica abbandonata, per riparare parte del loro accampamento nella tendopoli di San Ferdinando.

“Si è fermata una Fiat Panda bianca vecchio modello ed è sceso un uomo con un fucile che ci ha sparato contro quattro volte…”

Quattro colpi di fucile di cui uno ha colpito alla testa Sacko che è deceduto poco dopo nonostante il trasporto all’ospedale di Reggio Calabria, dove però non è servito a nulla l’immediato intervento dei medici. L’altro colpo ha ferito alla gamba un altro dei ragazzi, mentre gli altri due non hanno colpito il bersaglio, lasciando illeso il terzo e più giovane di loro che ha così potuto osservare il “cecchino” e informare immediatamente le forze dell’ordine.

Immagine correlataOggi, dopo cinque giorni di indagini sembra essere arrivata la svolta in questo caso con l’arresto da parte dei Carabinieri di Vibo Valentia, di Antonio Pontoriero, 42enne che le autorità avevano immediatamente posto nella lista dei sospettati dopo aver ricevuto la testimonianza dei due amici del sindacalista ucciso, che oltre ad aver fornito il colore ed il modello della macchina dell’assassino, erano stati in grado di dare anche informazioni sui vestiti che l’uomo indossava (una maglia nera ed un pantalone grigio) ed un frammento del numero di targa. È bastato poco, quindi, ai Carabinieri ed al pm Luca Ciro Lotoro individuare il presunto colpevole, nella casa del quale sono stati ritrovati i vestiti pronti per essere lavati e l’automobile indicata dalle vittime. Le manette sono scattate in anticipo proprio per evitare una possibile fuga di Pontoriero che adesso sta aspettando i risultati delle analisi balistiche e dello stub per capire a quale pena potrà andare incontro.

Ma questo è solo l’ultimo di una lunga lista di casi simili che ciclicamente si ripetono nella zona della piana di Gioia Tauro, dove gli immigrati vengono sfruttati nei campi per raccogliere frutta e ortaggi a paghe che non superano l’euro e cinquanta l’ora. Sono circa 3500 quelli che abitano – sopravvivono – nella tendopoli di San Ferdinando, nata nel 2010 dalla protesta degli stessi migranti per le pessime condizioni in cui erano lasciati a vivere; ma la situazione non è cambiata e quella che doveva essere solo una “soluzione temporanea”, per molti si sta  trasformando in una solida e tremenda realtà da portare avanti.  Soumayla Sacko era uno di quelli che però non ci stava, voleva lottare per un futuro che regolarmente gli spettava (sia lui che i suoi 3 compagni erano in possesso di un valido permesso di soggiorno) dopo essere scappati dalla guerra nei loro paesi d’origine, e per questo si era avvicinato all’Usb facendosi portavoce di tutti gli altri che si trovavano nella sua stessa condizione, in una terra sotto il controllo della ‘Ndrangheta.

E dopo parecchi giorni dall’accaduto, a rompere un silenzio che aveva destato scalpore e indignazione, è intervenuto il Premier Conte che, due giorni fa in Senato, ha parlato dell’omicidio del sindacalista malianoRisultati immagini per conte al senato

“Non siamo affatto insensibili. Sacko Soumayla è stato ucciso con un colpo di fucile. Era uno tra i mille braccianti con regolare permesso di soggiorno che ogni giorno nel nostro Paese si recano al lavoro in condizioni che si collocano sotto la soglia di dignità. A loro e ai loro familiari dobbiamo tutti un commosso pensiero […] la politica deve farsi carico del dramma di queste persone e garantire percorsi di legalità, che costituiscono la stella polare del nostro programma di governo”

Ancora nulla, invece, è stato detto dal neo eletto Ministro dell’Interno Matteo Salvini, oggetto di numerose critiche a pochi giorni dalla sua affermazione di voler tagliare 5mld di euro destinati precedentemente proprio alla questione migranti.

Intanto le proteste nella tendopoli continuano giorno dopo giorno, dando luce ad una situazione, già ampiamente conosciuta, ma troppo spesso taciuta a livello nazionale. Risultati immagini per Soumayla Sacko

“Noi siamo qui per lavorare. Ma ci ammazzano come animali, ci picchiano, ci maltrattano solo perché siamo africani”

Giorgio Muzzupappa

Continuano gli sbarchi, la polemica di Salvini

Sono almeno 48 i migranti morti e 68 quelli tratti in salvo dalla Guardia costiera tunisina dopo che un barcone, con a bordo circa 180 persone, è affondato al largo della costa orientale della Tunisia. A fornire i dati è il ministero degli Interni di Tunisi, secondo il quale a bordo dell’imbarcazione viaggiavano un centinaio di tunisini e altri cittadini stranieri. Questo nella giornata in cui il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, a Catania ha detto che il nuovo governo “non terrà una linea dura, ma di buon senso”, pronosticando “più espulsioni” e meno sbarchi, per “salvare delle vite”.

La Tunisia, paese libero e democratico non manda in Italia gentiluomini, ma spesso e volentieri galeotti“, sono le parole pronunciate da Salvini. Parole che non sono state prese bene dalle autorità tunisine che hanno convocato l’ambasciatore italiano Lorenzo Fanara, per esprimergli  “la profonda sorpresa per le dichiarazioni” del neo ministro, “che non riflettono il livello di cooperazione tra i due Paesi nella lotta all’immigrazione irregolare“.

Qualcuno in Tunisia si è offeso sbagliando, perché io ho detto solo che arrivano qui anche persone non perbene“, ha aggiunto Salvini. “Io – ha precisato – non ho detto che chiunque arrivi dalla Tunisia è un galeotto, ma che quel Paese esporta anche galeotti. L’anno scorso in migliaia sono usciti dalla galera, alcuni hanno preso i barconi e sono stati fermati 22 volte nei centri di accoglienza italiani“.

Il ministro dell’interno ha quindi annunciato che la settimana prossima il governo italiano dirà no alla riforma del regolamento di Dublino e a nuove politiche di asilo. Secondo Salvini, infatti, “occorre ricontrattare in Ue” cambiando le regole.

Sulla questione migranti interviene anche il presidente francese: “Il nostro auspicio è di continuare il dialogo con l’Italia, nessun Paese può trovare una soluzione da solo, né isolarsi“, dice Emmanuel Macron sottolineando che sottolineato che “possiamo lottare contro le grandi migrazioni solo se, insieme, ci impegniamo a lottare contro le sue cause profonde come l’insufficienza dello sviluppo in Africa, il terrorismo e i traffici in Sahel e Sahar“.

Francesca Grasso

4 Giugno 1989: 29° anniversario della protesta di piazza Tienanmen

Risultati immagini per tienanmenAccadeva proprio oggi, nella notte tra il 3 e 4 giugno 1989,  la protesta di piazza Tienanmen, nota anche come Primavera democratica cinese, e denominata in Cina “incidente di piazza Tienanmen” o “incidente del 4 giugno”. Questo evento si consumò in una serie di dimostrazioni di massa, che ebbero luogo principalmente in piazza Tienanmen a Pechino.

Nel 1989 due eventi fecero esplodere la protesta studentesca: in aprile la morte dell’esponente riformista Hu YaoBang, costretto anni prima dai conservatori a dimettersi dalla carica di primo ministro per aver appoggiato i movimenti democratici; in maggio la visita a Pechino del presidente russo Gorbačëv, ritenuto il simbolo della democratizzazione dei regimi comunisti.

La visita dell’ultimo segretario generale del PCUS, costituiva per gli studenti l’occasione per rendere visibili le loro richieste al mondo intero. Così, quasi un milione di universitari di Pechino si riversò nella Piazza Tienanmen, davanti alla Città Proibita (l’antica residenza degli imperatori), per chiedere l’abolizione di ogni forma di dispotismo e una maggiore libertà politica. Alle manifestazioni nella piazza, che durarono quaranta giorni, si unirono via via operai, impiegati, giornalisti, imprenditori.

Il 13 maggio 1989, al rifiuto del governo di qualsiasi forma di dialogo, un gruppo di studenti, davanti alle telecamere, proclamò uno sciopero della fame e innalzò nella piazza un’enorme monumento ispirato alla Statua della Libertà statunitense. Una settimana dopo i dirigenti comunisti, sempre più preoccupati per l’estendersi delle proteste ad altre città della Cina, proclamarono la legge marziale e nella Piazza Tienanmen comparvero i carri armati. La dura presa di posizione del regime, tuttavia, non fermò la protesta.

Fu così che si arrivò al tragico  4 giugno 1989,  dove i militari accerchiarono con mezzi blindati la piazza, aprendo il fuoco contro i dimostranti provocando un massacro: molti furono schiacciati dai cingolati, altri furono gravemente feriti durante i violenti scontri con l’esercito.

I dati sulle vittime sono controversi, ma comunque ben diversi da quelli forniti dai dirigenti cinesi: il governo dichiarò la morte di 200 civili e 100 soldati, cifra successivamente ridotta a una decina; la Croce Rossa cinese parlò di 2600 morti e 30.000 feriti, mentre le stime più alte fanno salire a 12.000 il numero delle vittime.

Il governo non solo non ha mai fornito una versione ufficiale, ma censura ogni approfondimento sulla strage e ne proibisce la commemorazione. Simbolo della rivolta rimane l’ormai famoso Rivoltoso Sconosciuto o Tank man, un coraggioso studente che la mattina del 5 giugno 1989 cercò di bloccare l’avanzata di una fila di carri armati, spostandosi a seconda della loro traiettoria.

Diverse ipotesi sono state avanzate sull’identità del ragazzo, ma nessuna è stata mai provata e lo stesso regime non ha mai fornito informazioni sull’accaduto; alcuni ritengono che il ragazzo abbia passato anni nei campi di rieducazione, altri dicono che sia stato ucciso dopo poche ore o giorni. L’unica certezza rimane il suo gesto che, in tutto l’Occidente, è diventato l’emblema della rivolta popolare contro l’autoritarismo del governo cinese e la lotta per la libertà e la dignità della persona.

Santoro Mangeruca

Facebook: solo la metà degli adolescenti lo usa

 Sempre più utenti giovani prendono le distanze dal social network Facebook, da sempre considerato il social più apprezzato e popolare.

I dati della ricerca condotta da Pew Research Center dal titolo ‘Teen, social media e Technology 2018’ mettono in chiaro che i millenials americani preferiscono di gran lunga Youtube, che in fondo è un social anomalo considerato che per guardare clip e video non serve un account, ed è frequentato dall’85% dei teenager. Vanno molto bene anche Instagram frequentato dal 72% e Snapchat  dal 69%, che è in fondo l’applicazione che, negli anni, ha condotto alla rivisitazione di tutte le altre con le recenti Stories e le Lens (filtri e maschere).

Secondo l’indagine, solo il 51% dei teenager statunitensi utilizza Facebook, seguito da Twitter e Tumblr, a loro volta 32% e 14% degli adolescenti.

Il gioco cambia quando viene chiesto “Qual è il social più volte aperto?” e la risposta più gettonata è Snapchat, seguito da Youtube, Instagram e Facebook.

Ci sono social network che ci accompagnano nel corso della giornata, social di cui non riusciamo a fare a meno, accumuliamo notifiche su notifiche e teniamo il cellulare a portata di mano anche quando dormiamo, e quella della sveglia è una scusa bella e buona. I giovani migrano verso altri social meno impegnativi dal punto di vista dei contenuti, questo perché Facebook ha perso la sua esclusività, non è più il luogo naturale di ritrovo.

Fra i giovani il 95% (nel 2015 era il 73%) dice di usare uno smartphone e quasi la metà (45%, il doppio di tre anni fa) di essere online “quasi costantemente”. Un altro 44% rivela di connettersi diverse volte al giorno. Insomma, nove su dieci vivono collegati ma i dati sulle ragazze sono più elevati. I ragazzi non hanno tuttavia un’idea univoca sui possibili effetti dei social su di loro. Il 45% crede per esempio che l’impatto non sia né positivo né negativo. Tre su dieci, invece, si ritengono convinti che le conseguenze siano positive (sottolineando la possibilità di collegarsi agli altri e di fare comunità ma anche di informarsi) e il 24% non è così fiducioso.

Serena Votano

Festa della Repubblica, la Festa di tutti.

2 Giugno 2018. L’Italia oggi celebra il 72° anniversario della nascita della Repubblica Italiana.

A Roma incombono i festeggiamenti in ricordo del referendum istituzionale del 1946.

La città è stati quasi interamente bloccata, le strade chiuse al traffico e la viabilità notevolmente ridotta.

I festeggiamenti dureranno quasi l’intera giornata e hanno già avuto inizio questa mattina alle 9:00.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sulle note della Canzone del Piave, ha deposto all’Altare della Patria una corona di fiori davanti alla tomba del milite ignoto. Il passaggio delle frecce Tricolore ha segnato la conclusione della solenne cerimonia e aperto ufficialmente la celebrazione della Festa della Repubblica.

Successivamente ha avuto luogo la parata militare lungo la via dei Fori Imperiali; dalle 15:00 alle 19:00 i festeggiamenti proseguiranno presso i giardini di Palazzo del Quirinale.

Chi volesse assistere alla celebrazioni, essa viene trasmessa in diretta Tv e streaming dalla Rai.

“I valori di liberta’, giustizia, uguaglianza fra gli uomini e rispetto dei diritti sono il fondamento della nostra societa’ ed i pilastri su cui poggia la costruzione dell’Europa. Dalla condivisione di essi nasce il contributo che il nostro Paese offre alla convivenza pacifica tra i popoli ed allo sviluppo della comunita’ internazionale”.

Cosi’ Mattarella in un messaggio al Capo di Stato Maggiore della Difesa.

Alla cerimonia presenti tutte le cariche dello stato.

Un vero e proprio bagno di folla per il neo presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e per i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

Il palazzo della difesa, gli edifici pubblici e quelli delle società partecipate sono stati imbandierati con il Tricolore. E ancora un immenso Tricolore è stato posto sulla facciata del Colosseo.

I festeggiamenti per questo giorno sembrano essere quest’anno più sentiti del solito, forse proprio in seguito alla  freschissima nascita del governo.

Insomma grande clima di festa a Roma, ma come ha ricordato il neo-premier Conte:

 “Il 2 Giugno è la festa di noi tutti, auguri a tutti!”

Ritorno al futuro: la macchina del tempo giallo-verde e l’Italia che avrà un governo

Fuor da ogni previsione, il “governo del cambiamento” è – quasi – realtà.

Quando l’unica possibilità realizzabile sembrava un governo tecnico a guida Cottarelli e un più o meno prossimo ritorno alle elezioni, si è riavvolta la pellicola.

Si è ritornati a quel pomeriggio di domenica 27 Maggio, quando Conte era lì lì per formare un governo e… se non fosse stato per quell’impasse chiamato Savona.Dopo il no di Mattarella e l’inamovibilità di Di Maio e Salvini – soprattutto di quest’ultimo- sul ministero dell’economia, Conte era ritornato al suo buon ruolo di professore universitario lasciando la staffetta al silenzioso economista Cottarelli.

Tutt’altro che silenziosi, invece, i leader giallo-verdi, che sui social avevano fomentato l’ira dei seguaci italiani sull’onda del disprezzo verso il Presidente Mattarella, incolpato di aver fatto interessi altri alla nazione.

Toni che si erano alzati da parte del leader M5S e sorprendentemente anche dalla Meloni – nonostante la delusione di questa del tradimento leghista – tanto da arrivare a una richiesta plateale-virtuale di impeachment contrastata a suon di hashtag #iostoconMattarella.

Insomma, un’arena bollente, nazionale ed europea, che tutto lasciava pensare tranne che il ritorno sui propri passi degli attori di queste settimane.

Quella che era generalmente condivisibile, comunque, era la delusione per non avere un governo, ancora, dopo quasi 3 mesi.

Il figliol prodigo Di Maio seguito, dopo un’opera di convincimento e una notte di riflessione, da Salvini, hanno ritrattato al Quirinale, hanno fatto prendere un treno a Conte… e poi la fumata bianca.

Poche ore e il neo(-ri) incaricato Presidente del Consiglio giurerà al Colle, insieme alla sua squadra di 18 ministri presentata ieri sera.

A tal proposito, quello che lascia ben sperare è la squadra di governo. Al di là di Salvini e Di Maio – politici di professione- gli incaricati ai vari dicasteri sono personalità per lo più attive e competenti del settore che è stato loro affidato. Al contrario di quanto avvenuto fino all’ultimo esecutivo in carica, quando ministri “fuori posto” e senza alcun titolo di studio erano all’ordine del giorno, o meglio… del governo.

Il nodo Savona, dunque, viene sciolto spostando il professore al dicastero senza portafoglio degli Affari europei. Per l’Economia spunta Tria, preside della facoltà di Economia di Tor Vergata, e “tiepido” sull’Euro e sostenitore della Flat tax anche a costo di aumentare l’Iva. Agli Esteri Enzo Moavero Milanesi, una vita nelle istituzioni europee e già ministro all’Ue con Monti e Letta. Affiancherà Conte a Palazzo Chigi, con il delicato incarico di sottosegretario alla presidenza, il leghista Giancarlo Giorgetti.

Salvini sarà ministro all’Interno, Di Maio prenderà il super-Mise di Lavoro e Sviluppo Economico. Alla Difesa Elisabetta Trenta, alla Giustizia Alfonso Bonafede (M5s), Giulia Grillo (M5s) alla Sanità, Riccardo Fraccaro (M5s) ai Rapporti con il Parlamento, alle Infrastrutture Danilo Toninelli (M5s), Marco Bussetti (M5s) all’Istruzione, Alberto Bonisoli (M5s) ai Beni Culturali e indicata come ministro della Pubblica Amministrazione Giulia Bongiorno.

La squadra dei 18 ministri dell’esecutivo Conte

Intanto quel sintomo di malessere indicato dallo spread, sembra affievolirsi a 214 punti. All’apice della crisi istituzionale, solo tre giorni fa, il differenziale tra il Btp a due anni e il corrispondente titolo tedesco era schizzato a 343 punti base, segnando i massimi dal 2012.

Insomma, quello che gli italiani hanno visto in queste ultime ore ha un po’ dell’incredibile.  Non tanto la formazione di un governo politico quando ormai tutti ci avevano messo una pietra sopra, quanto il riuscire a riportare le lancette indietro.E’ come se il tempo fosse stato cancellato e insieme ad esso gli errori commessi.

E’ come se Di Maio e Salvini avessero costruito la macchina del tempo giallo-verde, ci fossero saliti su, e, indietro di appena 5 giorni, avessero aggiustato quegli errori passati chiamati “impeachment” “impasse” “savona” “spread” e fossero ritornati al futuro.

Il problema è che gli italiani non sono rimasti in stato di “freeze” come nella fantascienza in questi casi avviene e di sicuro non dimenticheranno questi giorni scoppiettanti e, diciamocelo, anche un po’ tragi-comici.

Ma quel che è bene – speriamo – finisce bene.

Se alle 16 il giuramento dell’esecutivo Conte sarà fatto l’Italia avrà un governo. E chi vivrà vedrà.

Martina Galletta

Arkadij Babchenko, la finta morte del reporter russo

Il 29 Maggio scorso, una delle notizie che è passata (ingiustamente) inosservata in mezzo al trambusto generato dalla questione del “Governo si, Governo no” è stata sicuramente quella relativa all’omicidio di Arkadij Babchenko, giornalista russo che da anni raccontava le atrocità che la guerra provocava su Moskovskij KomsomoletsNovaja Gazeta e altre testate nazionali.

Dal 2017 aveva lasciato il suo paese per rifugiarsi prima in Repubblica Ceca e poi in Ucraina, a Kiev, per sfuggire alle numerose minacce di morte che riceveva ormai quotidianamente, specialmente da parte dei sostenitori del governo di Vladimir Putin di cui si era sempre dimostrato un forte critico, pubblicando articoli e post sui propri social denunciando i mali che la Russia stava alimentando con gli interventi in Siria (2015) e nell’Ucraina dell’ Est (2014). E proprio a Kiev, in quella casa dove ormai abitava stabilmente da quasi un anno insieme alla moglie e alla figlia, è stato ritrovato il suo cadavere ricoperto di sangue e con tre fori di proiettile nella schiena. A darne l’allarme è stata proprio la compagna che per prima ha visto il corpo del marito, ormai senza vita. Il pensiero è arrivato spontaneo e l’omicidio è subito stato ricollegato alle numerose minacce di morte indirizzate a Babchenko scatenando così l’indignazione tra i colleghi giornalisti e le autorità locali.

Ma, solo 24 ore dopo l’accaduto, durante una conferenza stampa indetta proprio per dare maggiori spiegazioni sull’argomento, a presiedere l’incontro era presente proprio il giornalista russo che tutti credevano morto. Dopo i primi momenti di comprensibile sbigottimento e di lacrime per un collega che credevano morto, i giornalisti presenti in sala hanno avuto la possibilità di conoscere la realtà che si celava dietro quella tragica notizia.

“Sono ancora vivo. Mi scuso con mia moglie e con i miei colleghi per l’inferno che gli ho fatto passare negli ultimi due giorni”

Vassilij Gritsak, capo dei Servizi segreti ucraini (Sbu), ha spiegato che la sua “morte” era stata inscenata, in accordo con le autorità ucraine, per sventare un omicidio che era stato commissionato al prezzo di 40mila dollari e del quale le autorità erano venute a conoscenza 2 mesi prima. L’uomo che aveva organizzato il vero attentato alla vita di Babchenko, un cittadino ucraino, era stato arrestato proprio quella mattina.

Dopo aver reso pubblica la notizia la reazione dei social è stata duplice, da un lato in molti hanno espresso grande sollievo; dall’altro invece, in molti si sono detti indignati per la strumentalizzazione che gli Sbu hanno compiuto per manipolare l’informazione a loro vantaggio, forte sostenitore di questa tesi è stato Christophe Deloire, segretario di Reporter senza frontiere.

Dello stesso avviso è stata la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova che in un post su Facebook si è detta felice per le reali condizioni del giornalista, criticando però, duramente, il governo ucraino per la speculazione fatta sulla informazioni in loro possesso.

In un lungo articolo pubblicato da Babchenko un anno fa sul sito “The Question“, il giornalista rispondeva così alla domanda “Adesso hai paura di morire“:

“Certo, morire fa paura. Sempre. Se qualcuno dice il contrario, non credetegli. E, per quanto mi riguarda, più si va avanti, più fa paura. Perché non si può sempre avere fortuna. Il limite della fortuna è limitato. Puoi aver fortuna una volta. Due. Cinque. Ma prima o poi arriverà il giorno che…”

Giorgio Muzzupappa

Bari, magistrati ed avvocati a lavoro in tenda

Il sindaco Decaro: “La città di Bari prova un sentimento di vergogna”

Da quando dieci giorni fa una relazione tecnica commissionata dall’Inail, ente proprietario dell’immobile di via Nazariantz che ha ospitato la Procura e il tribunale penale, ha rilevato le gravi criticità strutturali dell’edificio, la città si è mobilitata per trovare una soluzione d’emergenza. Nella consulenza si evidenzia che i problemi di staticità dell’edificio non consentono di continuare a sostenere l’uso intenso e i carichi di un tribunale.

Non si parla di rischio crollo in senso stretto, ma vista la criticità è stato programmato subito lo sgombero e il Comune ha sospeso l’agibilità degli edifici dando il via al trasferimento delle sedi nelle varie tende.

Le tre tende sono state allestite sabato 27 maggio dalla Protezione civile regionale.

Dalla mattinata di lunedì 28 maggio, le tre strutture ospiteranno giudici e avvocati per i rinvii dei processi ordinari, mentre le udienze con imputati detenuti e le convalide degli arresti.

In tutte e tre le tende è stato affisso un cartello, stampato su un semplice foglio bianco A4, riportante la  frase “La legge è uguale per tutti” per testimoniare l’impegno della magistratura e avvocatura anche nella situazione di emergenza.

In segno di protesta, magistrati, avvocati e cancellieri marceranno in un corteo silenzioso con le toghe sul braccio.

Nonostante le circostanze sembrano derivare da un terremoto, le calamità non sono solo quelle naturali; ma ci troviamo di fronte ad una calamità burocratica. Non si parla più di effetti sismici, ma di problemi che sono stati rimandati fin troppo a lungo.

Il sindaco Antonio Decaro, ha spiegato:

“La città di Bari prova un sentimento di vergogna. Prova vergogna nei confronti dei magistrati, degli avvocati, di tutti gli operatori e dei cittadini che attendono giustizia. È assurdo costruire edifici a pericolo crollo. Non bisognava arrivare a tanto”

Da anni sentiamo sempre le condizioni edili peggiorare ritrovandoci così davanti a disastri inconcepibili dove si deve continuare a lavorare fra smembramenti, ritardi, e spazi molto ristretti.

Ma in un paese in irreversibile declino, dove le “stranezze” sono all’ordine del giorno, nel quale poche cose funzionano decentemente, non si capisce per quale ragione dovrebbe salvarsi, tra quelle poche cose, la giustizia e lo stesso concetto di ‘diritto’.

Francesca Grasso

“Prima che la notte”: il ricordo di Giuseppe Fava e Giovanni Falcone

Risultati immagini per strage di capaciIl 23 Maggio del 1992 la mafia uccide il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i 3 uomini della sua scorta (Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro). Il 23 Maggio del 2018, in onore della Festa della Legalità, la Rai presenta “Prima che la notte”.

“Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini. “ Giovanni Falcone

Le idee restano, ma a Palermo è rimasta una ferita aperta. Ventisei anni dopo la strage di Capaci, oggi è il giorno del ricordo, delle celebrazioni, delle iniziative per non disperdere la memoria e gli insegnamenti di chi ha combattuto la mafia, pagando con la vita. Giovanni Falcone e l’amico e collega Paolo Borsellino, nati e cresciuti a contatto diretto con la realtà di questa regione, hanno dedicato la loro vita alla battaglia contro Cosa Nostra, diventando il simbolo di una giustizia concreta che può e deve riuscire a estirpare la radice mafiosa dal nostro Paese.

L’impegno morale del Giudice Falcone e la sua morte così violenta servono più che mai a far comprendere l’importanza della lealtà, dello Stato e della Costituzione, educarci alla legalità. È proprio in onore di questo che la Rai ricorda un’altra vittima della mafia: Giuseppe Fava.

5 Gennaio 1984, da poco sono passate le 21. Pippo esce dalla redazione del giornale e sale sulla sua Renault 5. Arrivato a destinazione non fa in tempo ad aprire lo sportello della macchina che viene freddato con cinque colpi di pistola alla nuca.

Il film racconta proprio di questo giornalista scrittore, nonché direttore del quotidiano Il Giornale del Sud e del mensile I Siciliani, e il suo “pugno di carusi”, un gruppo di ragazzi senza esperienza ma pieni di voglia di raccontare.

“Dovete raccontare quello che vedete divertendovi”

Essere dove accadono le cose, mettersi in gioco e, soprattutto, mettersi in pericolo. In un’epoca in cui il giornalismo doveva farsi spazio tra le pressioni politico-economiche e la voglia di realizzare quella libertà di stampa non ancora completamente attuata, lì ci sta Pippo Fava, non il solito film sulla storia di una morte, ma la storia di una vita .

Frutto di una coproduzione Rai Fiction – IIF, prodotto da Fulvio e Paola Lucisano e scritto da Claudio Fava, Michele Gambino, Monica Zapelli e lo stesso Daniele Vicari, “Prima che la notte” è tratto dall’omonima opera letteraria di Claudio Fava e Michele Gambino (Baldini & Castoldi).

Ancora una volta, come ogni anno ormai da quel fatidico Maggio del 1992, ci ritroviamo a parlare di legalità, giustizia, lotta alla mafia, e non dobbiamo mai stancarci di farlo. Non dobbiamo mai smettere di denunciare, di andare contro la volontà di quelli che si sentono grandi, ma in realtà sono più piccoli degli insetti, non dobbiamo avere paura di farlo, perchè:

“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola.”

 

Serena Votano

Stati Uniti, sparatoria a Santa Fe

Ancora tanta violenza nelle città, ma la situazione non cambia

L’ennesima sparatoria è avvenuta a Santa Fe, in Texas e, come molte altre volte a sparare è stato uno studente, questa volta un ragazzo di 17 anni.

Fin da inizio anno negli Stati uniti si sono verificati molteplici episodi nei paraggi o all’interno di aree scolastiche. In totale, secondo i dati di Everytown for Gun Safety, le armi da fuoco sono state usate già almeno 22 volte, tra cui anche due casi di suicidio.

L’ultimo caso riportato è avvenuto il 19 maggio; colpi di arma da fuoco sono stati sparati all’interno di una scuola superiore, un ragazzo armato avrebbe fatto irruzione nell’edificio e avrebbe aperto il fuoco. Secondo i media locali, gli spari sarebbero iniziati cinque minuti dopo un’esercitazione anti sparatoria.

Nel giro di pochi minuti numerose ambulanze ed elicotteri hanno prestato soccorso; mentre le forze di polizia hanno circondato l’edificio e hanno perquisito gli alunni che erano riusciti a salvarsi scappando.

A rendere ancora più sconcertante il massacro è stata la scoperta nella scuola e nel campus di vari ordigni esplosivi artigianali, tra cui tubi bomba.

Le ripetute tragedie hanno suscitato reazioni contrastanti dividendo in due il popolo americano. Da una parte ci sono i cittadini che chiedono leggi più severe sulla vendita e sulla proprietà delle armi da fuoco, mentre altri, sollecitano la presenza di più guardie armate nelle scuole, o si battono per rendere più facile per gli insegnanti poter portare con sé un’arma.

Indipendentemente dalle idee del popolo americano, secondo gli esperti, i pericoli che bambini e adolescenti corrono per via delle armi, oggi sempre più vendute anche ai giovani, rimangono elevati.Anche il presidente Trump ha espresso le sue idee attraverso dei tweet  promettendo di trovare una soluzione.

Una situazione affine sta avvenendo nel nostro Paese, a Napoli.

Si sa, i luoghi comuni su Napoli sono tanti e non mancano battute sulla legalità cittadina.

Dalla famosa sparatoria di novembre ai baretti, l’amministrazione comunale ha messo in campo sei ordinanze per rendere vivibili e tranquille le notti napoletane avendo come obiettivi la legalità nelle strade evitando ai cittadini la paura di girare dopo una certa ora.

Ordinanze di buone intenzioni ma che all’atto pratico non vengono rispettate.

                                                                                                                   Francesca Grasso