Dietro le quinte di Sanremo

©Giulia Greco, Sanremo 2019

Avete presente quando da bambini pensavate che quando sareste diventati grandi avreste fatto una determinata cosa che in quel momento vi affascinava? Come “da grande conoscerò Michael Jackson, lo vedrò” lo pensai a 10 anni immaginandomi a 20 anni – beh dai, noi credevamo di essere grandi a soli 20 anni – ad un suo concerto, ad intervistarlo!! Bene, tre anni dopo scomparve. Ma se c’è uno di quegli infantili desideri che ho realizzato è stata di certo questa esperienza a Sanremo. Si, lo so cari lettori, forse è arrivato il momento di smetterla di parlarne, però questa volta è diverso!!

Non posso spiegare cosa ho vissuto, non riuscirei a farlo capire ad altri. A Sanremo anche la confusione è musica, per questo ricorderò ogni singolo istante, ogni via, ogni occasione ed esperienza con una canzone diversa… ognuna farà parte del concerto della mia vita. – Marta Frangella, Speaker di Radio UniVersoMe

Teatro Ariston – ©Giulia Greco, Sanremo 2019

Pensandoci a mente fredda sicuramente sarà stata la Giulia di 10 anni a spingermi ad andare, senza pensarci due volte: lo dico perché mi sono ritrovata in un vortice di eventi che solo adesso riesco a delineare. Tutta la mia avventura è iniziata con un messaggio di Cristina di domenica pomeriggio, alle 18.20 per l’esattezza, io ho pensato “oddio ma che vuole mo’, lo sa che non posso andare”. Ma il senso di colpa si è fatto sentire subito, e nel giro di qualche minuto ho saputo che dovevo sostituire la fotografa che doveva partire. Da un momento all’altro i miei programmi della settimana successiva si sono stravolti, per ritrovarmi alle 4.00 del mattino di lunedì su un pullman diretto all’aeroporto. La scimmietta che batteva i piatti nella mia testa si è fermata incredula per tutto quel che stava accadendo. Stavo andando a Sanremo e ancora non avevo la più pallida idea di come raggiungerlo, di dove avrei dormito e tutto il resto, ecco.

Il cuore di San Remo durante il festival va al ritmo delle canzoni che in quei giorni diventano i tormentoni di tutta Italia e non si può fare altro che lasciarsi coinvolgere. – Elena Perrone, Speaker di Radio UniVersoMe

Da sinistra: Marta, Cristina, Giulia ed Elena

Sanremo è una cittadina che senza il festival ha ben poco da dare, e forse questo era appurato, ma è talmente curata, che le palazzine bianche e perfettamente armoniche rendono l’ambiente un’evasione… solo per i turisti: chi sta dietro alla rassegna canora ha una crisi di nervi dopo l’altra. Casa Sanremo era l’headquarter dei giornalisti, luogo dove si trova la sala stampa Lucio Dalla, fonte di non poche polemiche per l’ultima edizione. In questo luogo un po’ mistico ed un po’ tanto improbabile, i soggetti erano i più disparati: aspiranti cantanti, aspiranti modelli, aspiranti giornalisti, gente piena di speranza insomma, che cerca di acchiappare il vip di turno per una qualsiasi opportunità. Il motto che aleggiava per la struttura era “o la va o la spacca”, la dignità aveva fatto posto alla sfrontatezza. Solo così si riesce ad ottenere quel che si vuole, a Sanremo. Francesco Renga in un’intervista ha detto <<qui è concentrato in una settimana tutto il lavoro che facciamo in un anno>> e la stessa cosa vale per chi sta dietro le quinte. Corri da una parte all’altra, appostamenti coordinati come militari in tempo di guerra, la strategia è fondamentale.

Statua di Mike Bongiorno – ©Giulia Greco, Sanremo 2019

Ma quanto è stato utile conoscere questo mondo? In ambito giornalistico sicuramente manna dal cielo: per chi vuole intraprendere questa carriera deve interfacciarsi da subito con situazioni così complicate. Quel che accade in una città dimenticata e poco meritocratica come Messina, non è nemmeno una palestra per la vita di un reporter. Lì bisognava crearsi le opportunità ed accettare anche le porte in faccia dei manager. Soprattutto quando, nella gerarchia delle emittenti, puoi essere paragonato al portaborse. La formazione di una settimana che vale per un anno intero, con i suoi pro ed i suoi contro. È stato un po’ come il primo giorno di liceo: vedi i grandi dell’ultimo anno che ti sembrano irraggiungibili, quelli già “studiati” all’adolescenza che frequentano le classi di mezzo, ed infine ci sei tu, novellino del primo anno carico come pochi perché finalmente sei entrato nel periodo più confusionario della tua vita.

 

 

L’aria che si respira nella città di Sanremo è fresca e colorata come i fiori che offre.  Un attimo prendi un caffè e l’attimo dopo hai accanto chi fino alla sera prima guardavi in tv. Animata da milioni di persone, la città riesce ad unire i pensieri di tutti, grazie alla sua musica. Da 69 anni a questa parte, ogni anno. Magia, no? – Cristina Geraci, responsabile della Radio UniVersoMe

Comprendi che esistono tanti meccanismi da dover imparare, ed è di più il lavoro di tutti quelli che popolano quel pezzo di terra ligure in 7 giorni che il programma che vediamo in tv e rende poco partecipativo il pubblico.

Forse è una lacuna dei palinsesti tv italiani? Del modo di operare? La politica economia è di gran lunga superiore della politica sociale. Sanremo si riempie di produttori, talent scout, discografici, che regolano buona parte dell’andamento della rassegna. È nell’indole dell’italiano politicizzare ogni cosa di dominio pubblico, ma è anche nella sua indole nascondere tutto ciò che è possibile per indirizzare lo spettatore verso uno scopo ben preciso.

Le ragazze “giudici” di The Voice

Non sto insinuando che il risultato finale sia stato deciso a priori, ma che si tende a monitorare l’opinione pubblica (voi direte “grazie Giulia hai scoperto l’acqua calda”) secondo le tendenze del momento ed intanto i pecoroni ci cascano, ancora più triste è che di mezzo ci sia la musica. Ah, la musica, rifugio per tanti, riscoperta per altri, ogni singolo essere umano ha la propria melodia. Perché macchiarla?

Sanremo è tradizione, Sanremo è quella settimana di festival per l’intero popolo italiano, unione sotto una bandiera strappata e ricucita innumerevoli volte.

P.S. ho visto pochi fiori. Ci sono rimasta molto male.

 

 

Giulia Greco

 

Addio Lorenzo, morto il giovane medico affetto da linfoma che aveva raccolto i fondi per fare l’immunoterapia negli Stati Uniti

La speranza è l’ultima a morire e questo ragazzo, in tal senso, rappresenta un gran esempio.

Lorenzo Farinelli era un giovane medico di Ancona, che a poco più di 30 anni ha dovuto fare i conti con una diagnosi: linfoma diffuso a grandi cellule di tipo B. Lo scorso 1 Febbraio ci ha raccontato brevemente la sua storia in un video registrato dopo “tanta chemioterapia, radioterapia, e immunoterapia“, le quali si sono rivelate inutili per un tumore che si è mostrato resistente. Il suo appello è stato condiviso da associazioni, sportivi e politici di tutti i colori. Nonostante avesse “cominciato a perdere l’autonomia, l’uso delle gambe parzialmente, la capacità di andare in bagno da solo” il messaggio appariva ben chiaro: “Non è finita finché non è finita“. Lorenzo ha continuato a sperare e lottare fino alla fine, tanto da chiedere, attraverso il video, un supporto economico per viaggiare negli Stati Uniti ed accedere ad una terapia chiamata CAR (Chimeric Antigen Receptor) T Cell Therapy.

La metodica, che rientra nell’immunoterapia cellulare, è stata approvata nel 2017 negli Stati Uniti per il trattamento di tumori resistenti come quello di Lorenzo, e rappresenta, al momento, l’ultima speranza per tutte le persone nella sua condizione. Si sfruttano delle cellule citotossiche (linfociti T) del sistema immunitario del paziente stesso, le quali vengono estratte, modificate e reimmesse nel paziente. Queste cellule sono capaci attraverso un recettore “chimerico” di riconoscere dei segnali sulla superficie delle cellule tumorali e ucciderle selettivamente. Gli studi hanno mostrato, per la condizione di Lorenzo, una sopravvivenza a 5 anni del 60% dei pazienti sottoposti al trattamento, che altrimenti avrebbero avuto una prognosi molto sfavorevole. Si tratta comunque di una possibilità, molto costosa, ristretta a pazienti che non hanno beneficiato delle terapie classiche che al momento risulta approvata solo per due tipi di tumori. Dallo scorso anno esiste la possibilità teorica di somministrare la terapia anche in Europa nonostante la situazione sia burocraticamente nebulosa e i costi, particolarmente alti, a carico dei pazienti; ma questi sono comunque solo i primi passi.

Tuttavia dopo essere tornato a casa dall’ospedale in previsione della partenza, mentre erano in preparazione tutti i documenti per volare negli Stati Uniti, Lorenzo è morto l’11 Febbraio a causa di alcune complicanze legate alla sua condizione.

Nella lotta contro il tempo, questa volta, ha vinto il tempo. Piange la famiglia, piange Ancona, piange chiunque fosse a sostegno della causa, anche solo moralmente.

Come dichiarato nella pagina raccolta fondi, i soldi donati verranno devoluti in beneficenza per promuovere la ricerca o per supportare cause parallele a quella di Lorenzo. Perché, comunque, non si deve mai smettere di lottare e di sperare.

Ciao Lorenzo.

Antonino Micari

Il paradosso della felicità

Materialismo, possesso e conseguente felicità da sempre costituiscono per l’uomo l’apparente soluzione ai problemi esistenziali che il quotidiano pone.

Lo studio ventennale del Dr. Thomas Gilovich, professore di psicologia alla Cornell University, ha raggiunto una conclusione certa: non spendere soldi in beni materiali poichè l’appagamento che forniscono sfuma rapidamente.

Ci abituiamo prestissimo ai nuovi oggetti che possediamo; per questo ciò che prima pareva essere eccitante e rapprensentare una novità nella nostra vita finisce per diventare parte della monotonia antagonista della felicità.

I nuovi acquisti generano nuove aspettative che ci pongono in continua ricerca di qualcosa.

“Uno dei nemici della felicità è l’adattamento”, ha detto Gilovich. “Compriamo cose per renderci felici e ci riusciamo. Ma solo per un po’. All’inizio le cose nuove sono eccitanti, ma poi ci adattiamo a loro”.

Il possesso, per natura, favorisce i confronti con ciò che l’altro ha.

La condivisone, l’empatia ed il dono , ormai fuori moda, rimangono le chiavi per il raggiungimento di una felicità piena.

Gilovich e altri ricercatori hanno evidenziato nel loro studio che le esperienze, per quanto possano essere fugaci, offrono felicità più duratura del possesso materiale.

Le esperienze plasmano la nostra identità; non siamo quello che possediamo, siamo tutto ciò che abbiamo visto, tutto ciò che emozionandoci ci ha comunicato qualcosa, tutto ciò che ci arricchisce: un film, un tramonto, una lettura, un sorriso, uno sguardo, un’amicizia, un amore.

Gilovich, continuando, ha effermato: “Le nostre esperienze sono una parte più grande di noi stessi rispetto ai nostri beni materiali”.

“Puoi davvero apprezzare le tue cose materiali, puoi persino pensare che parte della tua identità sia connessa a quelle cose, ma rimangono comunque separate da te, al contrario, le tue esperienze sono davvero parte di te.

Siamo la somma totale delle nostre esperienze”.

Gilovich ha anche analizzato l’attesa e ha scoperto che un’esperienza suscita eccitazione e divertimento, mentre l’attesa di ottenere un possesso di un bene provoca impazienza.

Le esperienze sono piacevoli dai primi momenti della pianificazione fino ai ricordi che amerai per sempre.

La felicità materiale effimera e fugace evapora velocemente lasciandoci vuoti.

Per essere felici riempiamo la nostra vita di momenti ed esperienze che rapiscano il nostro cuore, che ci facciano stupire della vita e producano ricordi emotivi facendoci brillare gli occhi.

Smettiamola di esistere, viviamo!

Antonio Mulone

Antibiotico-resistenza, un’emergenza che potrebbe diventare più pericolosa del cancro

 

Il ventesimo secolo merita di essere ricordato per la scoperta di una delle sostanze che più contribuì ad aumentare l’aspettativa di vita della popolazione: la penicillina, il capostipite dei moderni antibiotici.

A partire dalla metà del secolo scorso, infezioni che generalmente si concludevano nel peggiore dei modi, divennero improvvisamente controllabili e ben curabili; malattie come polmoniti e meningiti fecero sempre meno paura e non furono più sinonimo di una morte preannunciata.

Il progresso scientifico portò alla scoperta di sempre più tollerabili ed efficienti antibiotici tanto che, nel decennio compreso tra il 1983 e il 1992, la FDA (Food and Drug Administration, ente statunitense che si occupa della regolamentazione dei farmaci) approvò più di 30 nuove molecole per l’uso clinico.

Sir Alexander Fleming, inventore della penicillina, tuttavia, in una intervista successiva alla vincita del Premio Nobel nel 1945, ci lasciò un messaggio molto importante:

Chiunque giochi con la penicillina senza pensare alle conseguenze, è moralmente responsabile del decesso di chi morirà per una infezione sostenuta da un microrganismo resistente alla penicillina

anticipando quello che sarebbe stato uno dei più gravi e pericolosi problemi del ventunesimo secolo: l’antibiotico-resistenza.

Secondo una review del 2017 infatti, in Europa, i batteri resistenti sono responsabili di circa 33 mila morti ogni anno. Emerge un dato drammatico in Italia dove, nel 2015, si sono verificate ben 10762 morti, tanto che il nostro, insieme alla Grecia, rappresenta il peggior paese per rischio infettivo in Europa. Si stima che le infezioni resistenti provochino lo stesso numero di morti dovute a tubercolosi, HIV ed influenza messe assieme.

In particolare, in un recente lavoro pubblicato su The Lancet Infectious Diseases è stata eseguita un’analisi su otto specie batteriche più frequentemente rinvenute in liquidi biologici, tra cui: Pseudomonas aeruginosa multifarmaco-resistente; Klebsiella pneumoniae carbapenemi e cefalosporine di terza generazione-resistente; Pneumococco penicilline e macrolidi-resistente; Stafilococco aureus meticillino-resistente. Tutti batteri responsabili di infezioni diffuse alle vie urinarie, apparato respiratorio, apparato digerente e dei siti chirurgici che, nei peggiori casi, possono portare a setticemia (condizione grave caratterizzata dalla presenza di batteri nel sangue).

Abbiamo infatti indotto i batteri ad adattarsi ai nostri tentativi volti a combatterli, tanto che alcune popolazioni batteriche, come riportato, risultano completamente immuni alle terapie. La causa di questo fenomeno si deve ricercare nell’uso sregolato di questi farmaci: spesso vengono utilizzati antibiotici “di ultima generazione” per infezioni banali o anche lì dove non sarebbero necessari.

Occorre infatti precisare che numerose malattie stagionali quali raffreddori ed influenze, non sono generalmente causate da batteri (cellule viventi a tutti gli effetti) ma da virus (macromolecole incapaci di riprodursi fuori dall’organismo ospite), sui quali gli antibiotici non hanno alcuna efficacia e quindi, vanno evitati ad ogni costo. Numerosi studi confermano tra l’altro che l’uso di antibiotici in caso di alcune patologie delle alte vie respiratorie non migliora significativamente né la sintomatologia né la clinica dell’infezione che si risolve nello stesso periodo di tempo, rischiando però di provocare, ovviamente, maggiori effetti collaterali. Quindi, alla prossima influenza, bisogna rifletterci un po’ prima di chiedere l’antibiotico.

La situazione in ospedale non è dissimile: a causa della comparsa di specie sempre più resistenti gli infettivologi sono obbligati ad utilizzare potenti antibiotici di nuova generazione che per adesso danno ottimi risultati, ma ai quali i batteri, in futuro, potrebbero diventare immuni per lo stesso principio. La colpa non è comunque solo di medici e pazienti, infatti più del 65% del consumo di antibiotici annuo è destinato agli allevamenti animali e nell’agricoltura, ambienti nei quali si creano facilmente dei batteri super-resistenti che talvolta possono essere trasmessi all’uomo.

Complessivamente, stando agli ultimi dati, il fenomeno dell’antibiotico-resistenza nel 2018 continua ad essere in crescita. Da poco si è conclusa la settimana dedicata all’antibiotico-resistenza (12-18 Novembre) in cui, oltre ad iniziative mediche, sono state avanzate iniziative sociali e politiche al fine di migliorare la gestione dei farmaci a disposizione. L’obiettivo è quello di promuovere l’uso di linee guida standardizzate per la prescrizione e un servizio attivo di monitoraggio per l’eventuale comparsa di altre specie multi-resistenti.

Purtroppo, nonostante ciò, l’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che, senza adeguate misure di prevenzione, da qui al 2050 i super-batteri killer saranno la prima causa di decesso a livello mondiale, superando cancro, diabete ed infarti.

Il cambiamento dovrà quindi comunque partire da medici e pazienti e da una reciproca fiducia per i farmaci prescritti in quanto, come detto prima, contrariamente alle credenze, l’antibiotico non è comunque il rimedio a tutti i mali. Con l’augurio di trovare meno spesso “mostri” come questo:


Antonino Micari

Sulla nostra pelle: a Messina il film-evento su Stefano Cucchi

È agghiacciante pensare a quanto male immotivato venga giornalmente perpetuato dagli esseri umani a danno di altri esseri umani, ma è ancor più tremendo riflettere sulle modalità con cui questa inflizione di dolore venga concepita dalla collettività circostante. In un’atmosfera di apatia generale, il danneggiamento fisico e morale viene spesso meccanicamente inglobato in quella spirale di noncuranza e indifferenza a cui ormai l’intera società sembra essersi assuefatta. E proprio per combattere questo mostro crudele che è l’indifferenza, l’Università di Messina ha deciso di prendere parte all’iniziativa che ormai da qualche mese anima le città italiane: la proiezione del film Netflix di Alessio Cremonini “Sulla mia pelle, gli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi”. L’evento, a cura delle docenti Paola di Mauro e Domenica Bruni, presentato dal Cospecs e dall’Associazione Stefano Cucchi Onlus, si è svolto martedì 20 novembre 2018 presso l’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Cognitive Psicologiche Pedagogiche e degli Studi culturali dell’Università di Messina. Moltissimi sono stati gli studenti universitari coinvolti, tra i circa 200 spettatori presenti. L’iniziativa infatti, come precisa il Direttore del Cospecs Pietro Perconti, si pone innanzitutto come occasione educativa per discutere non esclusivamente di un fatto di attualità, ma di un intero sistema evidentemente imperfetto. Si sono confrontati con il pubblico i relatori Stefania Mazzone, insegnante di Storia delle Dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Catania, Pierpaolo Montalto, avvocato penalista e Pietro Saitta, docente di Sociologia del Cospecs.

La proiezione del film è stata preceduta dalla visione di un breve video, inviato dall’attore Alessandro Borghi, che nel film interpreta Stefano in una maniera giudicata impeccabile dagli stessi famigliari. Borghi non nasconde la grande soddisfazione provata nel lavorare per questo film, afferma emozionato: “Dico grazie alla famiglia Cucchi per essersi fidata di me, per avermi permesso di interpretare Stefano.” Famiglia che ha tratto dal film, uscito lo scorso 12 settembre 2018 e presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, la forza di continuare strenuamente quella lotta iniziata ben nove anni fa e volta a restituire  verità e dignità all’uomo Stefano Cucchi, vittima di quella che la prof.ssa Mazzone ha definito “società carcerata”, dominata dal proibizionismo e dall’assoluto monopolio della violenza da parte dei più forti a danno dei più deboli. Da un tale contesto, che si riflette in misura ristretta nel meccanismo carcerario, nessuno di noi può dirsi escluso, né come vittima, né come carnefice. In questa dimensione di sopraffazione emerge chiaramente la volontà, insita in ogni uomo, di abusare ingiustamente del proprio potere, simboleggiato da una divisa che perde inevitabilmente di valore se di essa si abusa. È quanto testimonia il caso Cucchi che purtroppo, come ricorda l’avvocato Montalto, non rappresenta un’eccezione nell’odierno panorama giudiziario, ma una “drammatica regola”.

da sin. Di Mauro, Mazzone, Montalto, Saitta

Tutto ha inizio il 15 ottobre 2009, quando il ragioniere romano Stefano Cucchi, dopo essere stato fermato dai carabinieri, viene perquisito e trovato in possesso di 12 confezioni di hashish, 3 confezioni di cocaina e una pasticca di un medicinale per l’epilessia di cui soffriva. Dopo sette giorni di custodia cautelare, trascorsi tra il carcere Regina Coeli di Roma e il reparto di Medicina protetta dell’Ospedale Sandro Pertini, il 22 ottobre 2009 Stefano Cucchi muore. Già dalla mattina dell’udienza immediatamente successiva all’arresto Stefano presenta evidenti segni di percosse sul viso, mostra di avere difficoltà a camminare, ha un respiro affannato, presenta malessere e dolori evidenti dovuti alla rottura in due punti della colonna vertebrale. Nei successivi sei giorni di agonia Stefano entra in contatto con 150 pubblici ufficiali, ma tutti sembrano preoccuparsi più di se stessi che delle condizioni del ragazzo. Come sottolinea il prof. Saitta, la storia di Cucchi diviene in tal senso “storia di consegna”, in cui ognuno sembra curarsi esclusivamente dell’atto immediatamente precedente a quello in cui Stefano viene posto sotto nuova custodia. Tuttavia, nessuno sembra andare oltre quel gretto sostrato di pregiudizi che impedisce di vedere l’uomo Stefano, debole, spaventato e bisognoso di aiuto che urla silenziosamente nel tentativo, purtroppo fallimentare, di sovrastare il Cucchi carcerato. Tutto questo è il risultato di un “processo di disumanizzazione della relazione”, dettato dal dominio incontrastato della “violenza strutturale” operata da parte dell’intera società a danno della vittima Stefano. Essa, come spiega il prof. Saitta, è quel tipo di violenza che viene esercitata in modo indiretto, che non ha bisogno di un attore per essere eseguita perché prodotta dall’organizzazione sociale stessa. Tale definizione non giustifica tuttavia l’assenza di carnefici, quasi come se si volesse attribuire ogni responsabilità all’astratto paradigma sociale vigente. Al contrario, come chiarisce l’avvocato Montalto, “il responsabile della morte di Stefano è lo Stato”, rivelatosi incapace di custodire un cittadino nel momento in cui questo viene posto sotto la sua tutela. Ma la verità, così evidente agli occhi di tutti e contestualmente tanto celata, è stata confessata solo lo scorso 11 ottobre, dopo nove anni  di estenuante lotta condotta dalla famiglia Cucchi, a cui non sono state risparmiate pesanti critiche, insulti, diffamazioni. È stato il carabiniere Francesco Tedesco a confessare quanto accaduto la notte del 15 ottobre nella caserma di Roma Casilina, dove Stefano era stato condotto immediatamente dopo l’arresto. Il pestaggio è avvenuto ad opera dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, imputati insieme a Tedesco per omicidio preterintenzionale. Il contenuto della deposizione, spaventosamente agghiacciante nella sua veridicità, è stato letto dalla docente Paola Di Mauro:

«Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano. Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro, poi ci fu una spinta di Di Bernardo in senso contrario, che lo fece cadere violentemente sul bacino. […] Io spinsi via Di Bernardo, ma prima che potessi intervenire D’Alessandro colpì Cucchi con un calcio in faccia (o in testa) mentre era sdraiato in terra».

La sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, che non sarebbe eccessivo definire l’Antigone dei tempi moderni, ha definito questa testimonianza il tassello mancante in grado di sgretolare quel muro di indifferenza costruito fino a quel momento dagli assassini di Stefano. Il film di Alessio Cremonini sembra conferire ancor più vigore a quel vento distruttivo che sta irruentemente intaccando questa fortificazione di omertà. Tale possibilità è offerta dalla spiazzante ma veritiera brutalità che caratterizza la pellicola definita da un esponente dell’Associazione Stefano Cucchi Onlus “vera, basata interamente sugli atti processuali”, ma soprattutto in grado di far emergere “la solitudine e la paura provate da Stefano e, dall’altro lato, l’indifferenza altrui”.

Questo film turba lo spettatore, lo destabilizza totalmente, lo colpisce con la stessa violenza usata contro Stefano. Durante la visione è impossibile non avvertire su di sé la crudeltà delle botte, l’impassibilità degli sguardi, la pressoché costante assenza di cura nei confronti di un essere umano privato della propria dignità. È impossibile, cioè, non avvertire sulla propria pelle ciò che Stefano ha provato e subito in ben sei giorni di agonia, condensati negli intensissimi 200 minuti che Alessio Cremonini e Alessandro Borghi ci regalano. Ma la sensazione di ossa rotte, la rabbia mista ad impotenza e il senso di colpa non devono sparire immediatamente dopo la visione del film, come si disperdessero nuovamente in quell’usuale noncuranza quotidiana. È necessario ricordare che, purtroppo, questo film è la trasposizione cinematografica di una triste realtà. È necessario assumere su di sé la consapevolezza che la pelle di Stefano è anche la nostra pelle, che la sua morte è la morte di ognuno di noi, che il lutto della famiglia Cucchi è un nostro lutto. Ogni singolo spettatore non può fare altro che provare la dovuta indignazione nel constatare che Stefano, ancor prima che dalle botte, è stato ucciso dall’omertà, da quel devastante silenzio avente in sé la carica distruttiva di un esplosione. È evidente allora che questo tragico epilogo non è stato conseguenza di eventi casuali o di giustificabile superficialità, bensì della volontà di rimanere sordi e mostrarsi cechi dinnanzi all’animalesco esercizio della violenza. Perché anche di essere indifferenti si è sempre pienamente responsabili.

©GIULIAGRECO per UniVersoMe – 2018

Giusy Mantarro

L’istruzione in discussione: il valore della laurea negli atenei del sud

Con voce tonante Matteo Salvini ha annunciato di volere rimettere mano a una questione che riguarda da vicino il futuro e l’inserimento nel mondo lavorativo dei giovani neolaureati o in procinto di laurearsi. Nella fattispecie la proposta in materia non rappresenta uno scenario nuovo; si tratta di dare avvio a una riforma, già discussa in passato, che intende abolire il valore legale della laurea e dei titoli di studio. Alla Scuola di Formazione Politica della Lega, lo scorso 12 novembre, il vicepremier ha usato queste parole: “Negli ultimi decenni sia la scuola che l’università sono stati considerati serbatoi elettorali e sindacali, semplici fornitori di documenti”. In spiccioli, il Ministro dell’Interno, ha detto che i luoghi in cui viene impartita l’istruzione sono dei vacui erogatori di titoli, degli spazi adatti a incastrare consensi politici. L’appello non è scivolato in basso, come le foto che Matteo Salvini posta su Instagram mentre si trova a cena (per fare un giro nei suoi social, dai un’occhiata qui), ma ha ricevuto una replica da Marco Bussetti, Ministro dell’istruzione: “È un tema di cui si dibatte da tanti anni, per adesso non è in programma, ma non è detto che in futuro non possa essere analizzato”. Almeno per ora la faccenda pare essersi sciolta in un grande nulla di fatto, l’ennesima misura grossolana e azzardata che attrae e incanta chi è in attesa di un forte scossone da parte della coalizione gialloverde.

Non è senz’altro la prima volta che la Lega si incammina su questa strada. La messa in discussione del titolo di studio è un tema che aveva già appassionato Umberto Bossi, e non senza però una valida e maliziosa attenuante, se ricordiamo la lunga trafila del figlio Renzo per ottenere il diploma, ma anche le più recenti notizie riguardo una laurea che avrebbe conseguito in Albania (link). Anche Maria Stella Gelmini aveva sollevato la questione che ha continuato in seguito a stare a cuore alla squadra del Prof. Mario Monti. I pentastellati, Beppe Grillo in primis, sono fautori di analoghe opinioni sulla faccenda, tanto che il 31 luglio scorso Maria Pallini, deputata del Movimento 5 Stelle ha depositato una proposta di legge che prevede «il divieto di inserire il requisito del voto di laurea nei bandi dei concorsi pubblici».

Ma prima di analizzare i motivi di questa posizione, chiariamo subito cosa si intende per valore legale della laurea:

Il principio del valore legale dei titoli universitari è sintetizzato nel Testo unico delle leggi sull’istruzione superiore (R.D. 31.8.1933, n.1592, art. 167). La riforma universitaria in Italia (DM 509/1999) che ha introdotto i nuovi titoli accademici di ‘laurea’ e di ‘laurea specialistica’, ha voluto confermare esplicitamente il principio del valore legale affermando che i titoli conseguiti al termine dei corsi di studio dello stesso livello, appartenenti alla stessa classe, hanno identico valore legale (art. 4.3) (fonte Wikipedia)

Quindi, il valore legale del titolo di studio indica il grado di ufficialità riconosciuto ai sensi della legge a un determinato certificato ottenuto in una Università. Abolire questo principio consente di mettere sullo stesso piano due lauree conseguite in due branche differenti, attribuendo un maggiore rilievo a caratteristiche diverse che non rientrano nelle conoscenze e nelle nozioni acquisite nel piano del corso universitario. In un documento, risalente al 2013, che si può trovare sul sito della Lega (link), ci sono alcuni dei motivi che hanno orientato questa scelta: “Oggi una laurea presa in una qualsiasi Università italiana ha lo stesso identico valore, ma sappiamo bene che diversi Atenei, soprattutto meridionali, offrono un servizio nettamente inferiore alla media. Questo squilibrio provoca la mancanza di concorrenza tra Atenei, ma soprattutto si ripercuote sul meccanismo dei concorsi pubblici che penalizza sistematicamente chi proviene dalle Università del Nord”. Nel libero mercato rappresenterebbe un progresso, secondo i fautori, perché in questo modo le università, chiamate a puntare sulla concorrenza e sulla qualità, farebbero a gara tra loro per primeggiare sulle altre in materia di formazione, accelerando così un processo virtuoso che porterebbe a uno sviluppo del sistema dell’istruzione superiore.

Peccato che Matteo Renzi aveva gridato che ci sono di fatto in Italia università di serie A e serie B già alcuni anni fa all’inaugurazione dell’anno accademico al Politecnico di Torino (link). Le differenze tra gli atenei verrebbero ad aumentare a dismisura, e ciò comporterebbe una ulteriore svalutazione delle università del sud, vessate da problemi reali e presunti, sulla scia anche di luoghi comuni non sempre fondati. Come avviene negli USA sarebbero valutati positivamente, nelle assunzioni ai concorsi, non tutti i laureati in una disciplina che hanno il massimo dei voti, ma solo coloro che provengono da conclamate istituzioni accademiche, collocate quasi tutte al nord. Questo porterebbe a un netto divario tra i ceti, fornendo “un’istruzione all’altezza” soltanto a chi può permettersela. Una soluzione quindi che ha poco di equilibrato, considerato anche il fattore discrezionale per stabilire quali sono i parametri che definiscono un’istruzione di qualità, e che, se diventasse una possibilità concreta, provocherebbe un ulteriore declino di un sud già penalizzato.

Eulalia Cambria

 

Su Marte scoperto ossigeno nell’acqua

Finora si era sempre supposto che su Marte potessero vivere solo microrganismi ed entità biologiche monocellulari simili ai batteri presenti sulla Terra, tipici degli ambienti privi di ossigeno.

In realtà la scoperta scientifica dell’ossigeno contenuto nell’acqua salata presente nel sottosuolo del pianeta aprirebbe scenari di vita e sopravvivenza inediti e sorprendenti.

L’acqua riuscirebbe a catturare l’ossigeno dalla’atmosfera circostante “il pianeta rosso” all’interno della quale il gas sarebbe presente in piccole tracce.

L’ossigeno, certamente sinonimo di vita, potrebbe trovarsi anche all’interno dell’acqua ricca di minerali del lago scoperto dal radar italiano “Marsis” sulla sonda spaziale europea “Mars Express”, a condizione che vi possano essere delle contaminazioni di gas con l’atmosfera.

Queste le novità scientifiche ed i dati emersi dagli studi scrupolosissimi condotti dal “California Institute of Technology”.

Le analisi indicano che la presenza d’ossigeno potrebbe garantire la vita sia di piccolissimi microrganismi che di animali più complessi come le spugne.

“Non siamo sicuri se Marte abbia mai ospitato la vita”, affermano i ricercatori, ma “i risultati dei nostri studi sicuramente estendono le possibilità di cercarla”.

Per le forme di vita, che basano la loro esistenza sulla presenza imprescindibile dell’ossigeno nell’aria, Marte aveva rappresentato fin qui una condizione biologica impossibile, data la scarsa presenza di questo gas nella sottilissima atmosfera del pianeta rosso.

Gli aggiornamenti scientifici dunque mostrano orizzonti biologici nuovi ed inaspettati: il gas fondamentale per la vita dall’acqua salata potrebbe entrare in contatto con le altre sostanze aeriformi dell’atmosfera attraverso fessure della crosta, come fanno i “mari terrestri”, evidenzia E. Pettinelli dell’Università Roma Tre.

Quanto sostenuto dall’astrobiologa di Tor Vergata D. Billi, “i nuovi dati allargano la gamma delle possibili forme di vita che Marte potrebbe ospitare”.

Spiega infatti la Dottoressa che, “nel tempo i livelli di presenza di ossigeno nell’atmosfera potrebbero essere diventati tali da supportare organismi dal metabolismo basato sull’ossigeno.

La scienza dunque, ancora una volta come magico luogo di scoperte per la vita e di nuove possibilità di esistenza per l’uomo anche su altri pianeti, dettate forse dall’istinto di sopravvivenza.

Antonio Mulone

“Polizia predittiva” arriva anche in Italia?

Potrebbe presto sbarcare in alcune città italiane, ma di certo non a livelli di Minority Report.

 

Il futuro più inquietante dell’Intelligenza Artificiale potrebbe scaturire da un pezzo di cervello di un topo attaccato a dei micro elettrodi. È studiandone le sue reazioni agli stimoli che gli scienziati del Cnr fiorentino insieme ai colleghi dell’”Università di Tel Aviv” hanno scoperto che gran parte dell’attività cerebrale è controllata da pochi neuroni organizzati in unità funzionali denominate clique, in grado di categorizzare e generalizzare l’informazione in concetti.

Quel funzionamento è stato tradotto successivamente in un algoritmo e usato per l’intelligenza artificiale dagli scienziati dell’azienda israeliana Cortica, che hanno creato un sistema in grado di percepire le intenzioni di un soggetto osservando le sue espressioni e i suoi comportamenti.

Cortica entrerà in funzione in India grazie ad una partnership con il Best Group per analizzare il grande flusso di dati delle telecamere a circuito chiuso nelle aree pubbliche. Questo è l’ultimo sviluppo della Crime Prediction, che seppur lontana dalle visioni della Minority Report, è già realtà.

La tecnologia sta facendo passi da gigante per difendere le future Smart City metropolitane.

Le smart city si dovranno difendere dagli attacchi fisici ma anche e soprattutto da quelli informatici grazie alla presenza del sistema IoT, capace di regalare passatempi ingegnosi ad Haker maliziosi. Ecco perché al concetto di smart city si affianca quello di Safe City., con soluzioni di Business Intelligence e Predictive analytics, indirizzate alla sicurezza pubblica che hanno lo scopo di predire calamità naturali, azioni terroristiche o criminali, e incidenti. Tra le aziende leader del settore c’è la svedese Hexagon safety & infrastructure con il suo Intergraph Business Intelligence per la sicurezza pubblica, in grado di monitorare e analizzare un’enorme quantità di dati per prevedere l’evoluzione di uno scenario.

    

  

Angelo Gazzoni, country manager per l’Italia di Hexagon, ci spiega che il loro obiettivo è un’ecosistema autonomo connesso (Ace), cioè un insieme di sistemi che si connettono in maniera autonoma sfruttando l’intelligenza artificiale e la tecnologia edge computing che permette di spostare verso i sensori la capacità analitica, convogliando così nell’elaborazione centrale solo l’informazione raffinata. Nel caso delle forze dell’ordine- continua Angelo gazzoni-  ciò consente di portare nel centro decisionale di una sala di gestione delle emergenze informazioni utili per la salvaguardia delle persone, permettendo di agire in anticipo, predire un crimine o una catastrofe.

 

Come si può predire un crimine?

Integrando dati che arrivano dall’esterno, informazioni dei sensori, sentiment analysis, lo storico delle chiamate; è possibile intercettare la fase nascente di qualcosa che sta accadendo. Analizzare l’incidenza di un determinato tipo di reato in una specifica zona della città può permettere da un lato di migliorare l’analisi e dall’altro di gestire meglio determinate zone. Per esempio, un quartiere in cui si riscontrano molti casi di infrazione stradale potrebbe essere legato a un nascente spaccio di droga. E il sistema centrale permette anche di utilizzare sensori mobili come Robot e Droni di pattugliamento

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Uno dei maggiori problemi riscontrati è quello della Privacy. Tra i sensori che avranno il compito di trasmettere l’informazione ci sono le telecamere, implementate con tecnologie di “face-detecting” e “face-recognition” per incrociare i volti con quelli presenti nel database.

In Italia, Hexagon aveva già intavolato discorsi con esponenti di realtà regionali per fornire i suoi sistemi alle forze di polizia locale, interessate al dispatching di risorse, all’analisi di incidenti e ai reati. Attualmente sono in lavorazione dei progetti con grandi infrastrutture, di cui però non si sa ancora niente di preciso. Secondo Gazzoni è solo questione di tempo prima che questi sistemi diventeranno realtà almeno nelle grandi città.

L’ultima conferenza del Security Summit di Roma sull’intelligenza artificiale e si è conclusa con un appello corale degli scienziati: “non chiamatela intelligenza”.

Magari tra dieci anni avremo macchine che prenderanno le decisioni da sole. Sarebbe un ottimo modo per scaricare responsabilità e sensi di colpa.

 

 

 

 

Selina Nicita

Continua l’emergenza migranti: Il caso Malta

I 450 migranti presenti sul barcone partito, probabilmente, da Zuara sono stati trasbordati su due navi militari questa mattina.
Il ministro Salvini mantiene ferma la sua posizione e insiste perché vengano mandati a Malta o tornino in Libia, poiché come ha spiegato in un colloquio con il premier Conte:

“In Italia si arriva solo con mezzi legali. Occorre un atto di giustizia, rispetto e coraggio per contrastare i trafficanti di esseri umani e stimolare un intervento europeo. I migranti si nutrono e si curano tutti a bordo, mettendo in salvo donne incinte e bambini. Non possiamo cedere, la nostra fermezza salverà tante vite e garantirà sicurezza a tutti. Da quando siamo al governo, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, ci sono stati oltre 27.000 sbarchi in meno. Se vogliamo mantenere questi risultati positivi, non possiamo mostrare debolezze”

Il trasbordo dei 450 migranti è avvenuto questa mattina a Linosa: 176 persone sono state messe sul pattugliatore inglese “Protector” inserito nel dispositivo Frontex, e altre 266 sul “Monte Sperone” della Guardia di Finanza.
Alcune donne e bambini sono stati trasportati a Lampedusa per motivi sanitari.
Le condizioni di salute sono infatti particolarmente gravi per alcuni di loro, dopo estenuanti giorni di viaggio.

Le due navi militari sono ancora in attesa di conoscere il Pos, cioè il porto dove approdare e sbarcare. La Capitaneria di porto di Porto Empedocle sta attendendo notizie dal Centro di coordinamento di Roma.

Dopo lunghe trattative con Malta, che si era occupata coordinamento del soccorso senza però mandare navi e senza dare disponibilità per l’accoglienza sull’isola dei migranti, il governo italiano ha fatto intervenire il pattugliatore della finanza e la capitaneria per scortare il peschereccio.

Benedetta Sisinni

Alluvione in Giappone, sale il numero dei morti

Era da anni che le piogge non causavano danni catastrofici e decine di morti; l’ultimo disastro di notevoli proporzioni che registrò numeri elevati di morti  fu a Hiroshima, nel 2014; ma in questi giorni, durante uno dei mesi più piovosi, il Giappone è sopraffatto da un’ondata di maltempo che fino a ora ha causato oltre 126 morti e bloccato il paese, specialmente nella zona occidentale e centrale, con vie di comunicazione impraticabili e fabbriche costrette a fermare la produzione.

Gli sfollati sono decine di migliaia, mentre gli ultimi bilanci  segnano più di 100 dispersi.  Le autorità hanno ordinato l’evacuazione di circa 5 milioni di persone nelle regioni sud-occidentali del Paese contando 30mila persone ospitate da giorni in centri di accoglienza, allestiti per gestire l’emergenza. Mentre le operazioni di ricerca dei dispersi proseguono, oggi le piogge sono calate d’intensità , ma decine di persone mancano ancora all’appello da quando ha avuto inizio l’ondata di maltempo. Tra forze di difesa e sicurezza, vigili del fuoco e altri agenti sono al lavoro circa 50mila persone per le attività di salvataggio e la ricerca dei dispersi.

Il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha spiegato, nonostante la costanza e la determinazione dei soccorritori che il salvataggio delle persone ancora rimaste isolate sta diventando “una corsa contro il tempo”.

E ha annunciato la cancellazione del viaggio già pianificato in Europa e in Medio Oriente, per coordinare al meglio le operazioni di soccorso dopo l’emergenza che ha devastato il versante centro occidentale del Paese.

Il premier sarebbe dovuto partire questo mercoledì per volare prima a Bruxelles, dove era stata concordata la firma per il trattato di libero scambio con l’Unione Europea, e successivamente in visita in Francia, per spostarsi poi in Arabia Saudita ed Egitto, prevedendo il ritorno in Giappone per il 18 luglio.

Tale situazione ha suscitato l’appoggio da parte di tutti; in particolar modo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha twittato “Profonda solidarietà al Primo Ministro Abe Shinzo e al popolo giapponese, impegnati in queste ore contro piogge torrenziali che funestano il Paese. Cordoglio per le vittime e i dispersi, Italia è al fianco del Giappone ed è pronta a prestare tutto l’aiuto necessario” .

Anche l’Unione Europea ha espresso la sua piena solidarietà e vicinanza al popolo e alle autorità giapponesi  attraverso una nota dell’alto rappresentante Ue per la politica estera, Federica Mogherini e del commissario per gli aiuti umanitari Christos Stylianides “Esprimiamo le nostre condoglianze a tutti coloro che hanno perso i loro caro” continuando “In questo momento i nostri pensieri sono rivolti ai coraggiosi primi soccorritori, ai servizi di emergenza e ai volontari impegnati nelle operazioni di soccorso che stanno facendo tutto il possibile per salvare vite e aiutare le persone bisognose. L’Unione Europea è pronta a fornire assistenza ai nostri amici giapponesi”.

Francesca Grasso