Corsica: proteste e violenza dopo l’aggressione in carcere all’ex leader indipendentista Yvan Colonna

Yvan Colonna è uno storico membro del fronte indipendentista della Corsica condannato all’ergastolo nel 1998 per l’omicidio del prefetto francese Erignac. Pochi giorni fa, all’interno del carcere dove sta scontando la condanna, è stato aggredito in maniera violenta e senza ricevere alcun aiuto da parte degli agenti penitenziari; adesso è in coma. La vicenda sembra aver donato nuova linfa al Fronte di Liberazione Nazionale Corso. Nei giorni seguenti, infatti per le strade di alcune città dell’isola si sono svolti numerosi cortei, diventati molto spesso proteste violente che hanno causato un numero elevato di feriti.

Fonte: “tg24.sky.it”

Il Fronte di Liberazione Nazionale Corso

In Corsica era ormai da parecchio tempo che non si verificavano scenari del genere. Tuttavia, negli ultimi decenni del secolo scorso, si poteva assistere ad una grande quantità di proteste, spesso anche violente. Molti abitanti dell’isola manifestavano un forte desiderio di indipendenza dalla Francia che portò alla formazione del Fronte di Liberazione Nazionale Corso. Nato nel 1976, il gruppo militante indipendentista si è reso protagonista di un numero elevato di cortei violenti in alcune città francesi e di alcuni assalti armati. Il più ricordato è l’attacco alla base NATO a Solenzara (piccolo comune nel sud della Corsica) nel 1978. Nel corso degli anni però il desiderio d’indipendenza è andato via via a scemarsi sempre di più fino al 2014 quando il FLNC ha annunciato la fine della lotta armata.

Il Fronte di Liberazione Nazionale Corso. Fonte: “miglioverrde.eu”

Dopo il 2014 lo scenario in Corsica è divenuto stabile. Le proteste sono diminuite e non si sono più verificati atti di violenza da parte degli indipendentisti. Il contesto però è cambiato drasticamente dopo l’aggressione a Yvan Colonna. Migliaia di cittadini sono scesi nelle piazze delle maggiori città della Corsica a protestare per la mancata difesa da parte degli agenti penitenziari. Tali proteste denotano poca fiducia nella giustizia carceraria ma più in generale nello Stato francese che più volte, a mezzo di slogan, è stato definito “Assassino”.

L’assalto al Palazzo di Giustizia di Ajaccio

Non solo cortei e proteste nelle piazze. Pochi giorni fa è stato preso di mira anche il Palazzo di Giustizia di Ajaccio, una delle città più importanti della Corsica. Alcuni manifestanti in seguito all’attacco hanno anche provato a fare irruzione nella struttura, riuscendoci.

Assalto al Palazzo di Giustizia di Ajaccio. Fonte: “ilfattoquotidiano.it”

La violenta manifestazione a Bastia

“Tutto il popolo corso è mobilitato contro l’ingiustizia, la richiesta di verità e, oltre a ciò, di una vera soluzione politica”

Queste le parole del presidente autonomista del consiglio esecutivo corso Gilles Simeoni facendo riferimento a ciò che è accaduto a Bastia. Forse la manifestazione più violenta tra le tante di questi giorni. Secondo la prefettura le persone scese in piazza erano 7000, anche se gli organizzatori del corteo dichiarano di aver coinvolto un più alto numero di cittadini. I manifestanti erano muniti di molotov e hanno causato parecchi danni, attaccando edifici pubblici e aggredendo gli uomini della polizia. In tutto si contano 67 feriti, di cui 44 delle forze dell’ordine.

La volontà della Francia di calmare la situazione

Il clima teso della Corsica ovviamente preoccupa molto le autorità francesi. Il ministro dell’Interno Gérald Darmanin nei prossimi giorni si recherà sull’isola al fine di risolvere la questione in maniera diplomatica e pacifica. Si dichiara pronto ad “aprire un ciclo di consultazioni”. Il Governo “ha sentito le richieste dei rappresentanti locali della Corsica sul futuro istituzionale, economico sociale o culturale”. Ha però chiarito l’esigenza di un “un immediato ritorno alla calma” al fine di far iniziare la negoziazione. L’isola, dal canto suo, chiede lo statuto speciale autonomo.

Risulta probabile che questa possibile concessione – mai presa in considerazione dalla Francia prima di adesso – sia dovuta alla necessità di annullare ogni tipo di dissidio interno alla nazione per concentrarsi sui problemi riguardanti l’equilibrio mondiale legati alla situazione Russia – Ucraina.

Francesco Pullella

Crisi Ucraina: la Russia corre il rischio di andare in default. Fuga delle multinazionali

Con l’inizio dell’invasione russa in Ucraina, è diventata sempre più concreta la possibilità che la Russia vada in default, cioè che non sia più in grado di ripagare il suo debito. Sarebbe un evento straordinario, le cui conseguenze sono piuttosto difficili da prevedere: per avere un’idea dei suoi effetti – sia sull’economia russa sia sui creditori occidentali – bisognerà aspettare di capire come questo probabile default sarà gestito, e soprattutto se si limiterà ai titoli di stato o si estenderà anche ai bond societari, cioè ai debiti che le imprese russe hanno con i creditori internazionali. In merito alla questione, il Presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che:

La priorità adesso è adattare il sistema economico alle circostanze, dobbiamo sostenere i cittadini e le imprese in questo periodo di turbolenze

 

Banca centrale della Federazione russa (fonte: ansa.it)

 

Cos’è il default

Si definisce “default” lo stato di insolvenza in cui il governo di un Paese non è in grado di pagare in tutto o in parte il proprio debito. Un caso analogo è stato quello della Grecia. Per la Russia, sarebbe il primo default su debiti detenuti da creditori internazionali dagli anni successivi al 1917, quando il governo bolscevico appena istituito si rifiutò di pagare i debiti dello zar. La Russia era andata in default anche nel 1998, ma per 40 miliardi di dollari di debiti detenuti internamente e fu proprio a seguito a quella crisi, peraltro, che il presidente russo Vladimir Putin fu eletto, con la promessa di risollevare l’economia. Allo stato attuale, tecnicamente, la Russia non è ancora in default poiché dall’inizio della guerra, non ha dovuto ripagare scadenze o interessi sul debito. Le cose, però, potrebbero cambiare nel giro di poche settimane. Il 16 marzo scade il termine per il pagamento di 107 milioni di dollari di interessi agli investitori stranieri, anche se per questi pagamenti è concesso un “periodo di grazia” di 30 giorni, nel corso dei quali il debitore non è ancora considerato insolvente. Se però il pagamento non arriverà entro il 15 aprile, allo scadere del “periodo di grazia”, la Russia sarà ufficialmente in default.

 

Cosa è cambiato dopo le sanzioni occidentali

Fino a poche settimane fa, comprare titoli di stato russi era considerato un buon investimento. Il paese ha un debito basso, un eccellente rapporto tra il debito e il PIL e – prima della guerra – più di 640 miliardi di dollari in riserve di oro e valute straniere conservate dalla Banca centrale, che rendevano il pagamento del debito praticamente garantito. Le cose sono cambiate radicalmente con l’invasione e dopo l’imposizione delle durissime sanzioni occidentali. Nel giro di pochi giorni, il governo russo è passato da avere una grande disponibilità teorica di liquidi a esserne a corto: le sanzioni hanno ridotto le disponibilità economiche della Russia sia tagliando varie fonti di ricavo sia bloccando più della metà delle riserve che la Banca centrale russa deteneva in valuta straniera. A seguito di ciò, la Russia non può ottenere prestiti da otto delle dieci più grandi economie mondiali e, anche senza le sanzioni, la guerra e la crisi economica hanno spaventato grandemente i creditori.

La fuga delle multinazionali e le probabili perdite dei creditori internazionali

 

Punto vendita McDonald’s a Mosca (fonte: repubblica.it)

Un altro problema che influisce sul bilancio economico della Russia, è che le sanzioni dei governi sono seguite dalla fuga delle multinazionali. McDonald’s ha chiuso 850 punti vendita su tutto il territorio federale. Amazon ha deciso di terminare le operazioni. L’Oreal, Unilever, Coca Cola e Pepsi hanno fatto lo stesso. Per lo Stato significa meno entrate del fisco e più uscite per politiche sociali. Al riguardo dei creditori internazionali, essi detengono una cifra pari a 40 miliardi di dollari di debito russo denominato in dollari ed euro e una pari a 28 miliardi di dollari denominati in rubli. A seguito di ciò, il Presidente Putin ha emanato un decreto che obbliga a pagare in rubli i creditori che appartengono a paesi “ostili”. Ciò significa che i creditori riceverebbero il pagamento presso la cassa di compensazione russa. Stando a quanto dichiarato sul sito dell’Avvenire, i soldi sarebbero di loro proprietà, ma non sarebbero accessibili, dato che con le sanzioni non è possibile cambiare in dollari o in euro quel denaro. Per i creditori sarebbe una grave perdita, ed è probabile che ci saranno dispute legali sulle questioni.

A fronte di questa situazione, la Russia, senza potersi rifinanziare sui mercati e con una costosa guerra in corso, rischia uno dei peggiori collassi economici degli ultimi decenni. Se spera di reintegrarsi nell’economia globale, dovrà ristabilire la fiducia dei mercati e trovare il modo di pagare i propri debiti.

 

Federico Ferrara

Riprendono i colloqui tra Russia e Ucraina, Mosca stila la lista dei paesi ostili: presente anche l’Italia

Il conflitto tra Russia e Ucraina non tende a placarsi. Nonostante riprenda il confronto diplomatico tra le parti e ci siano dei piccoli miglioramenti per ciò che concerne l’organizzazione logistica dei corridoi umanitari, l’annunciato “cessate il fuoco” temporaneo da parte della Russia, così da poter permettere l’evacuazione da parte dei civili, di fatto non è avvenuto. Giungono inoltre notizie da Mosca di una lista stilata dal Cremlino delle nazioni ostili, ovvero quei Paesi che hanno applicato delle sanzioni nei confronti della Russia. Tra questi, oltre al Regno Unito, agli U.S.A. e ad altri spicca la presenza per la prima volta della Svizzera – che ha interrotto la sua storica neutralità – e dell’Italia.

Il colloquio Russia-Ucraina. Fonte: “avvenire.it”

I provvedimenti da parte dell’Italia

Negli ultimi giorni il tema delle sanzioni è stato ampiamente discusso. Alcune nazioni – citate nella “black list” di Mosca – hanno preso di mira personalità russe di spicco. In Italia questi provvedimenti coincidono con il congelamento di parecchi beni appartenenti a magnati e oligarchi. La Guardia di Finanza ha stimato un valore complessivo di 143 milioni di euro. Quanto tali provvedimenti possano incidere sulla situazione attuale è impossibile da stabilire ma, senza alcun dubbio, le sanzioni amministrative ed economiche rappresentano una delle poche armi diplomatiche a disposizione dell’UE e della NATO per cercare di contrastare la Russia senza imbracciare necessariamente le armi. In Italia il decreto legislativo 22 Giugno 2007 n. 209 chiarisce che per congelamento di risorse economiche si intende:

“il divieto, in virtù dei regolamenti comunitari e della normativa nazionale, di trasferimento, disposizione o, al fine di ottenere in qualsiasi modo fondi, beni o servizi, utilizzo delle risorse economiche, compresi, a titolo meramente esemplificativo, la vendita, la locazione, l’affitto o la costituzione di diritti reali di garanzia”.

 

Putin-Draghi. Fonte: “ilfattoquotidiano.it”

L’esportazione di armi da parte dell’ Italia

Le sanzioni non sono l’unica testimonianza della presa di posizione dello Stato italiano in merito al conflitto. Infatti nei giorni scorsi il Consiglio dei Ministri ha approvato all’unanimità il decreto legislativo per l’invio di armi alle autorità governative ucraine, con la NATO che darà un appoggio logistico e fornirà un ponte aereo. A regolamentare la materia dell’esportazioni di armi letali dall’Italia è la legge n. 185 del 9 Luglio 1990, che dichiara:

“L’esportazione, l’importazione e il transito di materiale di armamento nonché la cessione delle relative licenze di produzione devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia. Tali operazioni vengono regolamentate dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”

Tale legge tuttavia vieta l’esportazione e il transito di armamenti “verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite”.

La domanda dunque è: come possono l’Italia e le altre nazioni inviare armi? Riferendoci appunto all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite:

“nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.

La Russia attaccando l’Ucraina e violando l’articolo 2.4 della Carta dell’Onu fa si che l’esportazione di armi da parte dell’Italia e di altre nazioni sia legittimata e vista come un atto di difesa.

L’Italia invierà missili Stinger antiaerei, missili Spike controcarro, mitragliatrici Browning, mitragliatrici Mg e un alto numero di munizioni.

Mitragliatrice Browning. Fonte: “repubblica.it”

Lo scontro armato continua

La trattativa diplomatica, purtroppo, rappresenta solo una parte del conflitto. Continua infatti la mobilitazione di carri armati russi in direzione della capitale ucraina. Il numero delle vittime non smette di aumentare: a seguito di un bombardamento sulla città di Makariv sono morte 13 persone. Il presidente ucraino Zelensky ha dichiarato:

“Troveremo ogni bastardo che spara alla nostra gente”.

Il terzo round di negoziazioni

Emergono dei miglioramenti – anche se non di grande rilevanza – dopo la conclusione dell’ennesima finestra di dialogo tra Russia e Ucraina. Tuttavia il capo negoziatore russo Vladimir Medinsky non è apparso soddisfatto e sull’incontro ha dichiarato:

“non è stato all’altezza delle aspettative”.

Secondo quanto emerso, inoltre, è stata già concordata la data del quarto confronto, che avverrà a breve.

Francesco Pullella

 

 

Anonymous: il movimento di hacker pronto alla guerra informatica contro Putin

Dopo le pesanti accuse e le successive minacce contenute in un videomessaggio pubblicato pochi giorni fa, il gruppo di hacker Anonymous ha dato il via alla cyber guerra contro la Russia. Tra le azioni più rilevanti attualmente spicca la manomissione del sito del governo russo, sovraccaricato di richieste di accesso e mandato fuori uso.

Anonymous: un movimento di “hacktivisti”

Anonymous non è nuovo a questo tipo di azioni. Il loro movimento ha da sempre cercato di combattere delle battaglie perseguendo ideali di libertà e pace, seppur non sempre attraverso mezzi leciti. Nel 2015 – dopo l’attentato rivendicato dall’Isis al teatro Bataclan di Parigi – il gruppo di hacker si è reso protagonista di una serie di attacchi informatici verso l’organizzazione terroristica. La natura dell’organizzazione è intuibile anche dai vari simboli che utilizzano. Uno su tutti la maschera di Guy Fawkes – resa celebre dal film “V for Vendetta” – che, oltre ad avere un forte significato allegorico, contribuisce a mantenere un certo alone di mistero attorno al movimento.

Maschera di Guy Fawkes. Fonte: corriere.it

Il videomessaggio e la presa di posizione

Già dal 24 febbraio, quando le voci di una possibile invasione da parte della Russia si facevano più insistenti, il gruppo aveva dichiarato che avrebbe considerato tale scenario inaccettabile. A meno di 24 ore dall’attacco poi – tramite Twitter – ha annunciato l’imminente inizio della guerra informatica:

“Anonymous è attualmente coinvolto in operazioni contro la Federazione russa. Le nostre operazioni prendono di mira il governo russo. È inevitabile che anche il settore privato ne risentirà molto”.

Ed ecco che poche ore dopo viene pubblicato il videomessaggio, diventato ormai virale, in cui un individuo mascherato – presumibilmente il leader del movimento – condanna con parole forti l’operato di Putin, accusato di “non avere rispetto per i diritti umani“. Nel messaggio poi non mancano le minacce da parte del movimento, che afferma di godere dell’appoggio da parte di hacker sparsi per tutto il globo. Alcuni di questi – a detta del leader – anche nello stesso territorio russo. Il video si conclude con l’ormai celebre chiusura di ogni messaggio dell’organizzazione:

“Noi siamo Anonymous, siamo una legione”

Anonymous vs Putin. Fonte: ilriformista.it

L’inizio degli attacchi informatici

Dal momento del messaggio sono stati effettuati numerosi attacchi informatici contro la Russia e la Bielorussia (sua alleata). Azioni simboliche come l’aver modificato i dati dello yacht di Putin, che per un breve periodo è apparso sul portale di navigazione “Vesseltracker” – dove vengono tracciate tutte le navi del mondo – con l’appellativo “FCKPTN”, chiaro insulto al presidente russo. Oltre a questo sono stati mossi numerosi attacchi più “concreti” come l’aver bloccato il sito della Gazprom: principale ente russo per l’esportazione di gas. Anche nei confronti della nazione alleata, la Bielorussia, la “furia” degli Anonymous non accenna a placarsi. Recentemente infatti sono stati hackerati i siti web delle ferrovie e delle banche nel tentativo di bloccare un’intera nazione. Ecco la rivendicazione dell’operato tramite un tweet:

Una guerra nella guerra

In un contesto geopolitico che – purtroppo – tende sempre di più ad assomigliare agli scenari bellici del 1900, l’operato degli Anonymous rappresenta una novità. I sistemi informatici ormai sono alla base della vita dell’essere umano. Tutto si appoggia su di essi: governi, banche, trasporti e se qualcuno risulta essere in grado di colpire tali meccanismi rischia realmente di bloccare o rallentare la società. Questo è quanto sta accadendo in Russia e Bielorussia a causa delle azioni del movimento di hacker. Quanto questi attacchi possano essere utili per fermare il conflitto è impossibile stabilirlo con certezza, tuttavia non sono da sottovalutare. Il potere informatico, al di là di quanto grande esso sia, non può sicuramente contrastare da solo la forza politica e bellica dell’armata russa, ma in contesti come questi anche i dettagli possono fare la differenza. La “legione” degli Anonymous ne è consapevole e nel suo piccolo, nella sua personale guerra nella guerra, cerca di fare il possibile sperando in una ritrovata pace.

Francesco Pullella

Legge sulla cittadinanza: in settimana un nuovo tentativo di riforma

Il Presidente della commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia, del Movimento 5 Stelle, depositerà un testo base che prevede il riconoscimento della cittadinanza italiana legato a un percorso scolastico: è stato chiamato ius scholae, ed è molto simile a quello che in passato è stato definito ius culturae. In merito a questa decisione, il Presidente ha dichiarato che:

Sono passati trent’anni dalla legge sulla cittadinanza e credo che un aggiornamento sia necessario mettendo al centro scuola e integrazione. Verificheremo in commissione le condizioni politiche per intraprendere questo percorso.

(fonte: ansa.it)

 

I dettagli della proposta

La proposta espande i criteri per ottenere la cittadinanza italiana. In pratica, il testo, che è composto da tre articoli, introduce un nuovo criterio per ottenere la cittadinanza prima dei 18 anni. Stabilisce che un bambino nato in Italia o arrivato prima di avere compiuto 12 anni, possa fare richiesta di cittadinanza dopo aver fatto un ciclo scolastico di 5 anni, che può essere composto solo dalle elementari o da alcuni anni di elementari e altri di medie o superiori. In merito a ciò, Giuseppe Brescia ha dichiarato:

Credo che il modello dello ius scholae possa trovare un consenso largo, anche perché mette al centro il valore della scuola, il ruolo dei nostri insegnanti. È in classe che si costruisce la cittadinanza, l’appartenenza a una comunità. Ho lavorato su questo testo semplice che può essere approvato già in questa legislatura.

Da ciò si deduce che l’intento sia quello di arrivare a un accordo in tempi più rapidi. In commissione i numeri per l’approvazione di un testo base potrebbero esserci: voterebbero a favore il Movimento 5 Stelle, il Partito Democratico, la sinistra e parti del gruppo misto. Sia Matteo Salvini della Lega sia Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia hanno invece già dichiarato di essere contrari.

L’incipit della legge e i tentativi di riforma

Secondo la legge del 1992, l’ottenimento della cittadinanza italiana è attualmente regolato dal principio dello ius sanguinis (dal latino, “diritto di sangue”), ossia un bambino è italiano se lo è almeno uno dei genitori. Un figlio di  genitori stranieri invece, anche se partorito sul territorio italiano, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se fino a quel momento abbia risieduto in Italia legalmente. Successivamente, nel 2015, venne introdotto il concetto di ius soli, in combinazione con quello di ius sanguinis. Nel dettaglio, questa proposta di riforma prevedeva l’introduzione sia dello ius soli temperato che dello ius culturae: avrebbero potuto ottenere la cittadinanza i minori nati in Italia da genitori stranieri, di cui almeno uno in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo, e anche i bambini e ragazzi nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che abbiano frequentato per almeno cinque anni un corso di studio. La proposta è stata approvata alla Camera il 13 ottobre 2015 e al momento la sua discussione è bloccata in Senato. Nel 2018 sono state avanzate altre tre proposte di riforma, presentate rispettivamente dalla deputata del Partito Democratico Laura Boldrini, dalla senatrice di Forza Italia Renata Polverini, e dal deputato Pd Matteo Orfini.

Dati sull’accoglienza nelle scuole

Questa legge è considerata carente da parecchio tempo, poiché ha escluso e continua a escludere migliaia di bambini, e ragazzi nati e cresciuti in Italia. Di fatto, essi sono subordinati alla condizione dei propri genitori, il cui permesso di soggiorno nel frattempo può scadere, compromettendo perciò la continuità di residenza richiesta dalla legge. Secondo gli ultimi dati del ministero dell’Istruzione, nell’anno scolastico 2019/2020 le scuole italiane hanno accolto complessivamente 8,5 milioni di studenti, di cui poco meno di 877 mila non hanno la cittadinanza italiana (pari dunque al 10,3 per cento del totale). Di questi ultimi, circa 710 mila frequentano la primaria e la secondaria di primo e secondo grado, cioè elementari, medie e superiori. Nel quinquennio 2015/2016 – 2019/2020, inoltre, il numero degli studenti “stranieri” nati in Italia è passato da oltre 478 mila a quasi 574 mila, con un incremento del 20 per cento circa.

 

I favorevoli alla riforma

La Presidente di Arising Africans, Ada Ugo Abara (fonte: avvenire.it)

Per la Presidente dell’associazione Arising Africans, Ada Ugo Abara, e il gruppo di attivisti dell’associazione, i requisiti della legge del 1992 sono considerati eccessivamente restrittivi. A Pagella Politica, Abara ha dichiarato che:

Le persone che nascono e crescono in Italia [da genitori stranieri] trascorrono 18 anni nell’incertezza più assoluta. Ci viene sempre chiesto di dimostrare di essere i cittadini migliori, campioni nel proprio ambito, senza il diritto a essere persone con percorsi ordinari

Di conseguenza, la riforma può rappresentare una svolta, poiché potrebbe «facilitare processi di inclusione sociale, pluralismo e partecipazione. Se anche la legge riconosce il diritto che le  persone hanno, le ultime resistenze e le narrazioni che le legittimano non possono che riconoscere la realtà». Appare chiaro ad Abara, dunque, che la politica:

non dovrebbe perdere l’occasione di fare la differenza sul piano dei diritti. Chiediamo a tutti di impegnarsi per una riforma entro la fine di questa legislatura. Non sarebbe la vittoria di una parte, ma un traguardo per l’intera società.

 

Federico Ferrara

 

Draghi annuncia la fine dello stato di emergenza: verso il ritorno graduale alla normalità

Il Presidente del Consiglio Mario Draghi dichiara che è «intenzione del governo» non prorogare oltre il 31 marzo lo stato di emergenza, introdotto dal Governo Conte II il 31 gennaio 2020, venti giorni prima della scoperta del paziente 1 a Codogno. L’obiettivo è quello di «riaprire del tutto, al più presto», ha affermato il Premier durante il suo intervento al Teatro del Maggio musicale ieri pomeriggio a Firenze. La notizia è stata accolta da un lungo applauso della platea, costituita da rappresentanti delle istituzioni e da categorie economiche.

Le dichiarazioni di Draghi

In apertura, il Premier ha tenuto a sottolineare che:

Il governo è consapevole del fatto che la solidità della ripresa dipende prima di tutto dalla capacità di superare le emergenze del momento

Quest’ultima frase è significativa, considerato l’andamento della campagna vaccinale. In virtù di ciò, il Presidente ha anche sostenuto che:

La situazione epidemiologica è in forte miglioramento, grazie al successo della campagna vaccinale, e ci offre margini per rimuovere le restrizioni residue alla vita di cittadini e imprese

È stato questo il momento che ha preceduto l’annuncio dello stop della proroga. Dopodiché, Draghi ha chiarito quali saranno i cambiamenti successivi: dal 1° aprile, dunque, non sarà più in vigore il sistema delle zone colorate, già abbondantemente svuotate delle loro funzioni negli scorsi mesi e ormai senza alcuna differenza dal bianco all’arancione per chi è vaccinato. Inoltre, le scuole resteranno sempre aperte per tutti, poiché «saranno eliminate le quarantene da contatto». E ancora: cesserà ovunque l’obbligo delle mascherine all’aperto e quello delle mascherine FFP2 in classe.

Rimozione graduale del Super Green Pass

(fonte: ilfattoquotidiano.it)

Un passaggio importante del discorso del Premier Draghi è stato quello inerente all’utilizzo del Super Green Pass (o Green Pass rafforzato):

Metteremo gradualmente fine all’obbligo di utilizzo del certificato verde rafforzato, a partire dalle attività all’aperto tra cui fiere, sport, feste e spettacoli

Aggiungendo, inoltre, che l’esecutivo continuerà a monitorare «con attenzione la situazione pandemica, pronti a intervenire in caso di recrudescenze». Da ciò si può dedurre come, sotto il profilo organizzativo, il governo dovrà mettere mano a diversi aspetti nella gestione delle strutture che da oltre due anni hanno gestito la pandemia. E avrà un’influenza anche sulla gestione dello smartworking, che dovrà essere definito con accordi individuali tra azienda e lavoratori.

Come cambia la gestione sanitaria

Il Generale Francesco Paolo Figliuolo (fonte: openpolis.it)

Il generale Francesco Figliuolo e Fabrizio Curcio, rispettivamente Commissario per l’emergenza e Capo della Protezione civile, dovranno predisporre gli interventi per il ritorno alla normalità. In concreto significa che alcune competenze, come la gestione dell’acquisto dei vaccini, resteranno in capo al Ministero della Salute, la cui competenza dovrebbe estendersi anche agli acquisti di farmaci per la lotta al virus (Il Fatto Quotidiano). Da riorganizzare anche logistica e distribuzione di farmaci e vaccini ora in carico a Figliuolo, compresi mascherine e ventilatori polmonari.

Dichiarazioni sulla situazione economica

Il premier ha approfittato anche per chiarire le intenzioni sulla situazione economica: «Nel più recente decreto ristori – ha detto –stanziamo altri 100 milioni per il Fondo Unico Nazionale del Turismo, che si aggiungono ai 120 milioni stanziati con la Legge di Bilancio. Sempre nello stesso decreto aiutiamo gli operatori del settore con la decontribuzione per i lavoratori stagionali e un credito d’imposta per gli affitti di immobili». E sull’energia, ha aggiunto che:

Il Governo è intervenuto più volte per aiutare imprese e famiglie e per trovare soluzioni strutturali perché questo problema non si riproponga in futuro. La settimana scorsa abbiamo stanziato quasi 6 miliardi di euro, che si aggiungono agli oltre 10 miliardi che abbiamo già impiegato a partire dallo scorso anno, Incrementiamo la produzione nazionale di energia rinnovabile e di gas, che potrà essere venduto a prezzi più contenuti di quello importato

Sul finire della conferenza, Draghi ha voluto ribadire l’importanza del Pnrr in questa fase della gestione della pandemia, dicendo che:

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è un’opportunità storica per affrontare i problemi che sono rimasti irrisolti per decenni, come la carenza di infrastrutture o le diseguaglianze generazionali e di genere

L’attuazione del piano dovrà avvenire infatti «a stretto contatto con associazioni ed enti locali, perché non esiste una sola ricetta per tutto il Paese, ma dobbiamo adattarci alle esigenze e alle caratteristiche di ogni territorio».

La reazione della politica

La fine dello stato di emergenza era richiesta da mesi da molte forze politiche, e in particolare dal centrodestra. Si tratterebbe, per queste alee politiche, di un importante passaggio per il ritorno a una normalità post-pandemica, di convivenza con i contagi e con i problemi sanitari che ne derivano. Il segretario della Lega Matteo Salvini si è espresso a proposito in un tweet:

Grazie a Pres. Draghi per aver confermato che #statodiemergenza non sarà prorogato. Un’altra buona notizia per Italia, fortemente auspicata dalla Lega.

Anche l’ex Premier Giuseppe Conte si è espresso a riguardo:

 

Federico Ferrara

Possibile svolta negli Stati Uniti per il caso QAnon: scoperta l’identità dei fondatori

Paul Furber, cinquantacinquenne sudafricano sviluppatore di software e Ron Watkins, trentacinquenne dell’Arizona e imprenditore informatico: sembrano esserci loro dietro la misteriosa figura di mister “Q”, leader della setta complottista e negazionista QAnon. Si è arrivati a questa conclusione grazie a due modalità di indagine diverse e separate: una condotta dalla startup svizzera OrphaAnalytics, l’altra da linguisti computazionali francesi. Entrambi concordano – con un range di probabilità che va dal 93% al 99% – che dietro alle attività di mister “Q” si celi una doppia figura.

Manifestazione legata al movimento QAnon. Fonte: wired.it

QAnon: movimento politico o setta complottista?

Nel 2017, quando un utente col nome di Mister “Q” pubblicò il suo primo post su 4chan – noto sito internet di discussione libera parallelo ai social più usati – si faceva molta fatica a prenderlo sul serio. Le sue affermazioni apparivano talmente tanto estreme e surreali che l’idea di un movimento basato su di esse risultava insensata. La sensazione che si trattasse di una corrente degna di nota si iniziò a percepire durante il periodo elettorale negli Stati Uniti nel 2020. In breve, la setta QAnon vedeva – e vede ancora – in Donald Trump l’unica figura in grado di sconfiggere il male che alberga nella società attuale. Il “nemico” da abbattere per il movimento QAnon ha un nome: Cabal. Tale appellativo, usato spesso dai membri della setta, indica un insieme di personaggi – politici e non – che governano il mondo contemporaneo. Secondo i membri della QAnon, le attività preferite della Cabal sarebbero la pedofilia e il rapimento di bambini al fine di ottenere una “miracolosa sostanza” che permetterebbe l’eterna giovinezza: l’adenocromo. Inutile sottolineare che si tratta di teorie complottiste e senza nessuna evidenza scientifica alla base.

Fotomontaggio di Trump versione arcangelo da parte di un membro di QAnon. Fonte: open.online

Dalle teorie complottiste alle manifestazioni politiche: l’evoluzioni di QAnon

Dopo la vittoria di Biden alle elezioni non si può dimenticare la manifestazione di protesta da parte dei sostenitori di Trump, sfociata poi nell’attacco a Capitol Hill. Una delle figure chiave in quella circostanza fu lo Sciamano, fiero sostenitore e seguace del movimento QAnon. La manifestazione no-vax in Canada, nota come “Freedom Convoy“, è stata organizzata da James Bauder: uomo molto vicino alla setta. Basterebbero questi due esempi per capire come ormai non si tratti più di una serie di casi isolati, confinati nel loro piccolo angolo di mondo virtuale, bensì di un vero e proprio movimento politico estremo che gode di una discreta visibilità e di molto potere sulle masse.

È questo il motivo per cui la cattura dei loro leader assumerebbe un’enorme rilevanza.

Lo Sciamano dell’attacco a Capitol Hill. Fonte: occhionotizie.it

Indagine diversa, stessi risultati

Le autorità americane dopo i vari avvenimenti si erano mobilitate ed indagando avevano ristretto il campo a 13 nomi di possibili leader della setta. Da lì l’indagine è passata nelle mani di due team di ricerca distinti che hanno operato in maniera metodologicamente diversa. L’OrphaAnalytics ha prediletto l’analisi dettagliata dei post di mister “Q” cercando di trovare delle similitudini e delle congruenze con i post dei 13 sospettati; i linguisti computazionali francesi hanno invece addestrato un sistema basato su un’intelligenza artificiale atto a riconoscere i tratti in comune. L’identità dei risultati delle due ricerche dà ancor più credito all’indagine che a questo punto rappresenta un grande passo avanti nella lotta a QAnon.

I 2 possibili mister “Q”. Fonte: open.online

QAnon: ennesima dimostrazione del potere dei media

Tutto è partito con un post su una pagina web semi-sconosciuta ed è arrivato a diventare un vero e proprio movimento politico deviante seguito da migliaia di persone; in grado persino di condizionare gli individui e convincerli a scendere in piazza per ideali a dir poco estremi e surreali. Il caso QAnon non è altro che l’ulteriore dimostrazione del potere dei media che, se usati in maniera errata o a scopi violenti rappresentano una minaccia. Ma fino a che punto un semplice strumento di comunicazione può essere considerato una minaccia? Anche un martello nelle mani di un individuo violento diventa un’arma mortale, ma la colpa non è sicuramente dello strumento, bensì dell’individuo che lo usa.

Francesco Pullella

 

No al referendum sulla cannabis. Per la Corte Costituzionale è “inammissibile”

La Corte Costituzionale ha respinto il referendum sulla Cannabis legale, dopo che la stessa ha respinto nella giornata di martedì il quesito sull’eutanasia. Il presidente Giuliano Amato, nel corso di una conferenza stampa, ha dichiarato che «il referendum non era sulla cannabis, ma sulle sostanze stupefacenti». Un’affermazione che ha destato molto scalpore tra i firmatari del referendum, in particolare una delle associazioni promotrici del referendum, Meglio Legale, sui social ha scritto che:

«Questa non è una sconfitta nostra e delle centinaia di migliaia di cittadini e cittadine che hanno firmato per la cannabis legale. È il fallimento di una Corte che non riesce a garantire agli italiani un diritto costituzionale, di un Parlamento che da trent’anni non riesce a mandare in fumo gli affari delle mafie.

Giuliano Amato durante la conferenza stampa (fonte: ansa.it)

Le considerazioni della Corte Costituzionale

Secondo la Corte, l’approvazione del referendum avrebbe portato a una «violazione degli obblighi internazionali dell’Italia», perché avrebbe consentito la coltivazione anche di «droghe pesanti». Il Presidente Amato ha dichiarato che

«Il quesito è articolato in tre sotto quesiti ed il primo prevede che scompaia tra le attività penalmente punite la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3, che non includono neppure la cannabis ma includono il papavero, la coca, le cosiddette droghe pesanti.».

 

La seconda ragione della bocciatura del referendum, è che il quesito aveva problemi di formulazione, poiché non avrebbe consentito una depenalizzazione completa. Durissima la replica del presidente del comitato, Marco Perduca, che dice

«Non c’è stato alcun errore nella formulazione del quesito. Il quesito non viola nessuna convenzione internazionale, tanto è vero che la coltivazione è stata decriminalizzata da molti Paesi, ultimo tra questi Malta. Il riferimento del presidente alle tabelle è fattualmente errato, dall’anno della bocciatura della Legge Fini-Giovanardi (2014) il comma 4 è tornato a riferirsi alle condotte del comma 1, comprendendo così la cannabis.».

Inoltre, nella stessa giornata, la Corte Costituzionale ha approvato cinque quesiti della riforma della giustizia, ossia l’abrogazione delle disposizioni in materia di insindacabilità (comunemente nota come legge Severino), la limitazione delle misure cautelari, la separazione delle funzioni dei magistrati, l’eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati del Csm, il voto degli avvocati sui magistrati.

Gli obiettivi del referendum

Scendendo nel dettaglio del referendum, come si apprende dal sito del comitato, il quesito propone «di depenalizzare la condotta di coltivazione di qualsiasi pianta», specificando che «la detenzione di piante, foglie e fiori a fini di spaccio e le attività di fabbricazione, estrazione e raffinazione, necessarie ad esempio alla cocaina e l’eroina» avrebbero continuato «a essere punite», dimostrando a detta dei promotori il contrario di quanto affermato dalla Corte Costituzionale.

Inoltre, il referendum prevedeva anche di eliminare il carcere per qualsiasi condotta illecita relativa alla cannabis, con eccezione dell’associazione finalizzata al traffico illecito. L’intento più importante infatti, era quello di togliere potere alle mafie. Stando alla Relazione annuale del Parlamento sulle tossicodipendenze del 2021,  il mercato delle sostanze stupefacenti  muove attività economiche per 16,2 miliardi di euro, di cui circa il 39% attribuibile al mercato nero dei cannabinoidi, all’incirca pari a 6,3 miliardi di euro.

La cannabis in Europa

In alcuni stati dell’Unione Europea, la cannabis è legalizzata sia dal punto di vista della produzione, che del consumo. In Germania è stato depenalizzato il possesso entro i 10 grammi. Nei Paesi Bassi non è presa in considerazione la vendita di quantità sotto ai 5 grammi per persona al giorno nei coffee-shop autorizzati, mentre in Repubblica Ceca è consentito coltivarla per uso personale ma non per la vendita.

Le reazioni dei firmatari e della politica

 

Riccardo Magi e Marco Cappato (fonte: ilfattoquotidiano.it)

 

Il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, commenta la decisione della Corte su Twitter, scrivendo:

 

E sulle tabelle, ha affermato in un’intervista rilasciata ai microfoni del Fatto Quotidiano:

«Errore sulle tabelle? No, il clamoroso errore è di Giuliano Amato. Ha affermato il falso. Non sono stati nemmeno in grado di connettere correttamente i commi della legge sulle droghe. Non è stato letto correttamente il combinato disposto degli articoli che invece secondo noi riguarda esattamente la cannabis.».

Un giudizio decisamente negativo che vede il sostegno anche di alcuni esponenti politici, come il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni:

«Emerge un’idea conservatrice del Paese, molto lontana dalla vita reale, che quei due referendum volevano superare e che la Consulta con le sue scelte e con molti peli nell’uovo, ha consolidato.».

 

Tuttavia, in molti ritengono che il quesito presentava molte contraddizioni. Vero o no, rimane l’amarezza per quel numero esorbitante di firme raccolte in questi mesi, a cui si aggiunge l’indignazione per la promozione del quesito che abroga la legge Severino, la quale nello specifico vieta l’incandidabilità, ineleggibilità e decadenza dei parlamentari, membri del governo, sindaci e amministratori locali in caso di condanna definitiva per reati di mafia, terrorismo e corruzione. C’è da chiedersi se la democrazia in Italia esiste ancora, e se a trent’anni da Mani Pulite è cambiato qualcosa. La risposta è nella coscienza della nostra onestà intellettuale.

 

Federico Ferrara

Pechino 2022: quando lo sport diventa un fattore politico

Che non si sarebbe trattato di un “normale” evento sportivo lo si intuiva già dalle premesse. Quella che poteva sembrare una solita cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali, infatti, nasconde numerosi retroscena di natura politica.

L’assenza di alcune nazioni

I rappresentanti di alcune nazioni (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda) non si sono presentati alla cerimonia in segno di protesta ordinato dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che poco prima dell’inizio dell’evento aveva dichiarato:

«Stiamo valutando di boicottare le Olimpiadi invernali di Pechino»

Il Presidente americano Biden. Fonte: open.online

Il motivo sarebbe da ricercare nelle presunte violazioni dei diritti umani da parte delle autorità cinesi contro la minoranza di fede musulmana degli Uiguri. Risulta però plausibile pensare che un tale attacco simbolico si possa basare anche sulle tensioni tra Occidente e Cina, a causa della crescente vicinanza di quest’ultima con la Russia di Putin.

Le repliche di Pechino non si sono fatte attendere con il portavoce del Ministero degli Esteri che ha etichettato la protesta come:

«Una violazione della neutralità politica nello sport»

Eileen Gu e Zhu Yi, per la Cina un unicum storico

Le controversie e gli intrecci tra mondo politico e sportivo per la Cina non si fermano alla cerimonia di apertura. Infatti, l’atleta cinese Eileen (Ailing) Gu si è distinta nella disciplina speciale del Big air dello sci freestyle, riuscendo a conquistare la medaglia d’oro. La particolarità? Eileen Gu non è nata in Cina bensì in California, da genitori cinesi. Se si pensa ad un contesto sportivo come quello italiano risulterà usuale, ma per la Cina si tratta della prima volta che atlete nate al di fuori dei confini rappresentino la nazione.

Eileen Gu. Fonte: repubblica.it

La vittoria ha goduto di un clamore mediatico senza pari, soprattutto sui social dove critici, giornalisti e pubblico si sono immediatamente complimentati con Eileen, che con una prestazione degna di nota ha fatto esaltare una nazione intera. Addirittura, gli alti vertici di Pechino si sono congratulati per il risultato ottenuto, descrivendo la sua impresa come:

«Una preziosa medaglia d’oro per lo sport cinese»

La campionessa dello sci freestyle non è un caso unico all’interno di questa edizione dei giochi olimpici. Zhu Yi, come Eileen, nasce in California, a Los Angeles, da padre cinese. Ma, a differenza della sua connazionale, Zhu non si è espressa al meglio nella sua disciplina, il pattinaggio artistico. A causa di una brutta caduta durante l’esibizione ha fatto “scivolare” il suo team da un parziale terzo posizionamento ad un definitivo quinto posto.

Il caso Zhu Yi: quando la cittadinanza dipende da una sconfitta

Il mondo dei social è un mondo controverso. Si è capaci di divinizzare una persona con la stessa rapidità con cui se ne distrugge un’altra. Risulta plausibile che un’atleta professionista come Zhu Yi, nel momento della gara, metta in conto la possibilità di errore; non è strano che dopo un errore arrivino delle critiche, da cui l’atleta potrebbe addirittura trarre forza e usarle come stimolo per migliorare. Tuttavia, se la vittoria di Eileen – grazie alla particolarità della vicenda – ha generato clamore mediatico positivo, la sconfitta di Zhu rischia di diventare un vero e proprio caso politico: gli utenti social, infatti, non si sono limitati a criticare la prestazione, ma hanno continuato ad infierire sulla sfera personale, basandosi appunto sul luogo di nascita e sfociando nella xenofobia. Si va quasi a ricadere in espressioni estreme che, purtroppo, a noi del “Belpaese” non risultano del tutto insolite.

Zhu Yi. Fonte: tag24.it

Dal momento in cui si decide di esprimere un pensiero ci si dovrebbe autoimporre dei confini da non superare assolutamente: il confine tra critica e insulto, tra sfera pubblica e sfera privata. Quest’ultima, qualunque sia l’esposizione mediatica della persona in questione, dovrebbe rimanere isolata da tutto. Il superamento di questi confini spesso finisce per aprire le porte a scenari atroci, come in questo caso.

Francesco Pullella

Bruxelles trattiene i fondi europei destinati alla Polonia. Decisione storica dell’UE

Da diversi mesi circolavano degli attriti tra l’UE e la Polonia, iniziati a settembre 2021 con l‘ammenda da parte della Corte di Giustizia pari a 500 mila euro per ogni giorno che avrebbe tenuto aperta la miniera e le centrali di carbone a Turow, nei pressi del confine con la Repubblica Ceca, poiché viola gli standard ambientali europei. È la prima volta nella storia che la Commissione utilizza questo strumento a sua disposizione, creando così un precedente che si allinea con altre irregolarità commesse dalla Polonia.

 

(fonte: la Repubblica)

I dettagli della decisione

Secondo quanto stabilito dalla Corte di Giustizia europea, la Polonia avrebbe dovuto pagare il primo mese di multe – in tutto 15 milioni di euro più gli interessi per un periodo che va dal 20 settembre 2021 al 19 ottobre 2021 – entro 60 giorni. Varsavia però, da allora, non ha chiuso né la miniera né versato un centesimo alla Commissione europea, poiché il governo ha ritenuto che tali risorse fossero indispensabili per fornire energia al Paese, soddisfano infatti il 7% della domanda domestica. Questo ha provocato un importante aumento della multa che ha raggiunto circa 60 milioni di euro, e può aumentare ancora se la Polonia non decide di chiudere gli impianti. Nonostante un portavoce della Commissione europea abbia dichiarato che decurteranno entro dieci giorni lavorativi la prima rata, da Varsavia il portavoce del governo Piotr Müller fa sapere che presenteranno ricorso utilizzando:

tutti i mezzi legali

ricordando inoltre che il 3 febbraio era stato firmato un accordo tra Varsavia e Praga per porre fine alla loro disputa (la Polonia dovrà versare 45 milioni di euro come risarcimento). Questo accordo amichevole comporterà l’interruzione del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia, che deve ancora emettere un’ordinanza per chiudere il caso.

Altri casi emblematici in contrasto con l’Unione Europea

La Polonia si era resa già protagonista in negativo agli occhi della Commissione Europea in un caso separato. La Commissione europea aveva infatti aperto una procedura d’infrazione per le così dette “LGBT-free zones”, ossia le aeree del paese libere dalle persone LGBT istituite da vari enti locali, limitando la libertà d’espressione e il diritto a manifestare per il pride, provocando una pesante discriminazione nei territori. La procedura consisteva nel rimuovere dei fondi destinati alle regioni di Cracovia, Rzeszow e Lublino, ed infatti ha ottenuto il suo obiettivo poiché queste ultime hanno revocato le disposizioni. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nell’informativa aveva rincarato la dose dichiarando che l’Unione Europea è fondata:

sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze

 

(Marcia per l’uguaglianza a sostegno dei diritti delle comunità LGBT. Fonte: euractiv.it)

 

Un altro caso decisamente grave risale ad ottobre 2021, quando la Corte di Giustizia europea decise di condannare la Polonia a una multa di un milione di euro al giorno per non aver sospeso l’attività della Sezione disciplinare della Corte Suprema polacca, cioè un organo che secondo la Corte limita l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, e che quindi non garantisce il rispetto dello stato di diritto in Polonia. Questo atteggiamento decisamente anti-europeo infatti, mina i valori dell’Unione che si basano su una forte collaborazione e coesione tra gli Stati membri, e ha posto seri dubbi in merito all’adesione della Polonia all’UE. Al momento questa multa ha raggiunto circa 100 milioni di euro: non è chiaro se e quando la Commissione intenderà iniziare a riscuoterla trattenendo ulteriori fondi che spettano alla Polonia.

L’importanza dei fondi e l’equilibrio instabile della Polonia

La Polonia è uno dei paesi più poveri dell’Unione, e come tale uno dei maggiori beneficiari dei fondi del bilancio europeo: fra il 2021 e il 2027 infatti dovrebbe ricevere in tutto circa 78 miliardi di euro, fondamentali per alcuni settori della propria economia e per la gestione delle tratte migratorie. Per l’analista del New York Times George Riekeles:

Nel lungo termine questa situazione non è sostenibile. La Polonia sarà costretta a prendere una decisione politica.

Si spera che questa situazione possa migliorare, anche perché lo scenario politico europeo non naviga in acque tranquille. Da molto tempo la Russia minaccia di invadere l’Ucraina e più i giorni passano, più le trattative si fanno sempre più difficili. In merito alla situazione il presidente polacco Duda ha dichiarato:

Ciò di cui ha bisogno la Polonia in questo momento è la calma. Davanti a tutte le minacce esistenti sulla scena internazionale servono un dialogo pacato e l’unità

La Polonia, dal canto suo, si trova paradossalmente in una posizione di equilibrio instabile. Geograficamente vicina alle zone minacciate dal conflitto e guidata da una classe politica sempre più vicina alle posizioni di Vladimir Putin corre il rischio di vestire i panni, suo malgrado, di attore principale negli equilibri della nuova “cortina di ferro”.  Urge dunque un dialogo costruttivo con l’Unione Europea e soprattutto un’azione che metta da parte gli interessi politici per ristabilire l’equilibrio dello scacchiere politico europeo.

 

Federico Ferrara