Buffalo: odio razziale e suprematismo bianco. Un ragazzo uccide 10 persone in un supermercato

Nel pomeriggio di sabato 14 Maggio, un ragazzo di 18 anni, armato di fucile AR-15, ha ucciso 10 persone nei pressi di un supermercato a Buffalo, negli Stati Uniti. Catturato dal corpo di polizia locale si è successivamente dichiarato non colpevole di omicidio. Il giudice non ha concesso alcuna cauzione, il ragazzo è attualmente detenuto in una struttura penitenziaria in attesa del processo.

Gli sviluppi della vicenda

Payton Gendron – autore della strage – vive a Conklin, una città della contea di Broome dello Stato di New York. Per raggiungere il luogo del delitto ha viaggiato per 300 kilometri con la sua auto munito di un giubbotto antiproiettile e di un fucile. Una volta arrivato nei pressi del supermercato di Buffalo, Tops Friendly Market, ha prima sparato a 4 persone nel parcheggio antistante, uccidendone 3. Una volta entrato all’interno, ha continuato la sparatoria, colpito gravemente altri 9 civili, di cui 7 sono morti e 2 sono rimasti feriti. Una volta uscito dal supermercato le autorità locali erano sopraggiunte sul posto, Gendron si è inginocchiato ed ha puntato l’arma sul suo mento, poi, però, l’ha lasciata cadere al suolo.

Immagine del supermercato dove è avvenuta la sparatoria. Fonte: ilfattoquotidiano.it

Il presidente Biden: “Atto di terrorismo interno”

La notizia, ovviamente, sin da subito, ha raggiunto ogni angolo degli Stati Uniti. Il presidente Joe Biden in merito a quanto accaduto ha dichiarato:

«Un crimine ripugnante e motivato dall’odio razziale perpetrato in nome della disgustosa ideologia del nazionalismo bianco. Un atto di terrorismo antitetico a ogni cosa che rappresenta l’America. Dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per porre fine a questo terrore alimentato dall’odio.»

Dietro ad un’azione del genere ci sarebbe dell’immotivato razzismo, è chiaro ed evidente. Il ragazzo, poco prima della strage, aveva pubblicato unmanifesto” delle proprie idee e intenzioni sui social. All’interno dello scritto – lungo addirittura 180 pagine – vi sono delle parti che rimandano ad una “filosofia” che si sta propagando all’interno di movimenti di estrema destra negli Stati Uniti. Si tratta della cosiddetta teoria dellaSostituzione dei bianchi“. Secondo questo pensiero cospirazionista negli Usa il tasso di persone dalla pelle chiara si sta radicalmente abbassando e tenderà ad estinguersi in favore della popolazione afro-americana.

Ecco spiegato il perché dei già citati 300 kilometri per raggiungere proprio quel supermercato, che generalmente gode di una clientela principalmente composta da persone di colore. Tra i frequentatori più assidui del supermercato in questione spicca proprio il sindaco di Buffalo, Byron Brown che amareggiato dalla vicenda ha dichiarato:

«Questa persona è venuta qui con l’obiettivo esplicito di uccidere il numero più alto possibile di neri.»

Le polemiche sulla vendita delle armi da fuoco e sull’utilizzo dei social

«E’ stata un’esecuzione stile militare su innocenti che volevano solo fare la spesa. Basta con la violenza delle armi da fuoco

Questa la dichiarazione del governatore dello stato di New York, Kathy Hochul. Parole che lasciano trasparire molta rabbia e che indirizzano l’attenzione su un argomento che negli ultimi anni è stato al centro di molti dibattiti negli USA: la vendita relativamente libera di armi da fuoco. Non si ha l’assoluta certezza riguardo l’acquisto del fucile semiautomatico da parte di Gendron. Molte sono però le indiscrezioni che sostengono l’acquisto illegale e la successiva modifica dell’arma in modo da renderla più “efficace”.

La particolarità della strage di Buffalo risiede anche nella body-cam attraverso il quale il 18enne ha trasmesso una diretta dell’attacco su un noto social – twitch – successivamente rimossa. Anche riguardo l’utilizzo sconsiderato dei social si sentono spesso opinioni, anche opposte le une dalle altre. C’è chi ne critica l’aspetto troppo “aperto” per ciò che riguarda la libertà di espressione dei creator che molto spesso dato il loro grande seguito sono in grado di influenzare – nel bene e nel male – il grande pubblico. Sembra essere di questo avviso lo stesso governatore Hochul che ha dichiarato:

«Le piattaforme devono essere responsabili di monitorare e sorvegliare i contenuti. consapevoli, in casi come questo, di poter essere ritenute complici. Forse non legalmente ma almeno moralmente

C’è chi invece si pone in una posizione contrastante rispetto a quest’ultima. Chi sostiene quindi che gli utenti dei social non debbano necessariamente avere una limitazione nel linguaggio o nei comportamenti. In questo modo si liberano dalla responsabilità sostenendo che i social non debbano avere un ruolo educativo. Di fronte a casi come questi quindi chi sostiene tale pensiero potrebbe lasciar ricadere la colpa su quelle istituzioni sociali che probabilmente non sono state capaci di formare la persona, istituzioni come la famiglia o gli ambienti dell’istruzione.

Francesco Pullella

 

 

Incontro a Washington tra Joe Biden e Mario Draghi: Italia e USA più vicine di fronte alle nuove sfide

Un dialogo durato circa un’ora e quaranta minuti quello tra Mario Draghi e Joe Biden in cui viene ribadita la vicinanza tra Italia e USA soprattutto riguardo gli argomenti più caldi di questo periodo storico. Nella conferenza stampa che si è svolta a Washington, in occasione della prima visita ufficiale del Presidente del consiglio italiano alla Casa Bianca, i due leader hanno comunicato la volontà di continuare ad aiutare l’Ucraina al fine di raggiungere la tanto desiderata pace.

“Non c’è più un golia” Draghi propone il percorso per arrivare alla pace

«La guerra ha cambiato fisionomia: inizialmente si pensava ci fosse un Golia e un Davide, era un’impresa disperata che sembrava non riuscire. Oggi il panorama si è completamente capovolto. Non c’è più un Golia. La parte che sembrava invincibile non lo è più.»

Queste le parole di Mario Draghi nella conferenza di Washington. A distanza ormai di mesi dall’inizio del conflitto secondo il presidente del Consiglio lo scenario è totalmente diverso. Riferimento alla grande tenacia che l’Ucraina ha dimostrato nel difendere il proprio territorio, anche grazie alle armi inviate dall’occidente. l’Ucraina a questo punto sembra aver guadagnato una posizione negoziale sufficiente – secondo Mario Draghi – per arrivare alla pace seguendo la via diplomatica. Risolvere il conflitto però non è semplice ed è necessario uno sforzo:

«Tutte la parti, e in particolare Russia e Stati Uniti, devono fare lo sforzo di sedersi a un tavolo

La possibile risoluzione delle ostilità dipende anche dalla volontà delle due superpotenze. Tuttavia sia Draghi sia successivamente Biden hanno ribadito:

«Deve essere una pace che vuole l’Ucraina, non una pace imposta da altri né tantomeno dagli alleati. Kiev deve essere l’attore principale, altrimenti sarà un disastro.»

Quindi per quanto gli Stati Uniti e le altre nazioni alleate possano svolgere un ruolo rilevante la pace deve essere ottenuta principalmente dall’Ucraina.

Incontro Draghi-Biden. Fonte: tg24.sky.it

“Evitare una crisi alimentare” il primo passo per il riavvicinamento delle parti in conflitto

«Come possiamo mettere fine a queste atrocità? Come possiamo arrivare a un cessate il fuoco? Come possiamo promuovere dei negoziati credibili per costruire una pace duratura? Al momento è difficile avere risposte, ma dobbiamo interrogarci seriamente su queste domande.»

Per Mario Draghi la diplomazia è la via prediletta per il raggiungimento della pace ma egli riconosce anche che è una via ancora difficilmente percorribile. Una delle soluzioni potrebbe essere spingere le parti in conflitto ad avvicinarsi, a piccoli passi. Raggiungere degli accordi su alcuni temi di uno spessore molto ampio, come ad esempio il permettere l’esportazione di grano dall’Ucraina ai paesi più poveri del mondo. Queste le dichiarazioni del presidente del Consiglio:

«Lo sblocco dei porti dell’Ucraina da parte delle forze russe per lasciar partire le navi cariche di grano verso i Paesi più poveri del mondo, scongiurando così una crisi umanitaria causata dalla scarsità alimentare può essere un primo esempio di dialogo che si costruisce tra le due parti in conflitto per salvare decine di milioni di persone.»

La questione energetica, possibile tetto al prezzo del petrolio e del gas

Tra i temi più importanti del dialogo tra Biden e Draghi c’è sicuramente la questione energetica.

«Il tetto al prezzo del gas ridurrebbe in parte i finanziamenti che l’Europa dà a Putin per la guerra. Stesso discorso per il petrolio a livello mondiale, si potrebbe creare un cartello dei compratori. Oppure, più preferibile per il petrolio, persuadere l’Opec e i grandi produttori ad aumentare la produzione, su entrambe le strade bisogna lavorare molto.»

Stando alle parole del presidente del Consiglio in conferenza stampa il presidente degli Stati Uniti avrebbe “accolto con favore” l’ipotesi di un tetto al prezzo del gas. Anche se gli USA sembrerebbero indirizzati più verso il tetto al prezzo del petrolio.

Per Draghi inoltre il problema energetico esiste indipendentemente dalla guerra in corso. In particolare la questione

«si è venuta ad aggravare un anno e mezzo prima della guerra. L’attuale funzionamento dei mercati non va, perché i prezzi non hanno alcuna relazione con la domanda e l’offerta. E’ una situazione che va affrontata insieme, l’Italia è molto attiva nel diminuire la dipendenza da gas.»

Italia e Stati Uniti, una vicinanza solida e necessaria

Riguardo l’incontro con il presidente USA, Draghi ha dichiarato:

«L’incontro è andato molto bene. Biden ha ringraziato l’Italia come partner forte, alleato affidabile, interlocutore, credibile e io l’ho ringraziato per il ruolo di leadership in questa crisi e la grande collaborazione che c’è stata con tutti gli alleati.»

Le parole, i gesti, gli atteggiamenti da parte dei due leader fanno emergere un’importante realtà: l’alleanza tra Italia e Stati Uniti è salda come mai lo è stata negli ultimi anni. Alcuni però tendono a criticare questo atteggiamento da parte del governo, accusandolo di essere troppo omologato, soprattutto per le scelte riguardo la guerra, agli USA. Non vi è però alcun dubbio che riguardi l’importanza di incontri come quello appena accaduto. Il dialogo, soprattutto se svolto in termini pacifici e non conflittuali, porta ad un confronto di idee e di conseguenza ad una crescita.

Francesco Pullella

Cresce la preoccupazione per le mosse di Putin: Svezia e Finlandia potrebbero entrare nella Nato

L’attacco russo in Ucraina, oltre ad aver generato un numero enorme di vittime, ha gettato il mondo in un clima di caos e preoccupazione. Molti paesi si sono ritrovati davanti ad un bivio, “costretti” a prendere una posizione in merito al conflitto. Ne è conseguita una distinzione in termini geopolitici tra nazioni filo-russe e stati facenti parte o vicini ideologicamente e politicamente alla NATO, duopolio che ricorda sempre di più i contrasti tra blocco occidentale e blocco sovietico in epoca di guerra fredda.

La situazione attuale appare tuttavia più complessa. Basti pensare che, secondo un sondaggio condotto poche settimane fa in Svizzera, più della metà dei cittadini sarebbe favorevole ad intensificare i rapporti della nazione con la NATO. Un “unicum” storico per uno stato che da sempre viene considerato il simbolo della neutralità e che per secoli ha seguito una linea di politica estera basata sul “non schieramento“.

Bandiera della Svizzera. Fonte: tg24.sky.it

Svezia e Finlandia: cenni storici

La Svizzera non è l’unico paese la cui neutralità vacilla. I paesi del mar baltico, tra cui Svezia e Finlandia, godono da sempre di grandi vantaggi dal punto di vista geografico. In particolare la Svezia, i cui confini di terra sono adiacenti a quelli di Norvegia e Finlandia del nord, e che durante la guerra fredda è arrivata fino al punto di rappresentare un’alternativa (per quanto minima) al bipolarismo Stati Uniti – Unione Sovietica nella zona.

Per quanto si cerchi di trovare delle similitudini tra i territori del mar Baltico, la situazione della Finlandia è per molti aspetti ben diversa dalle altre. Infatti essa confina direttamente con la Russia e la sua storia è legata quasi indissolubilmente in un primo momento all’impero zarista, del quale faceva parte come ducato, e successivamente ai bolschevichi che ne riconobbero per primi l’indipendenza. Quindi sebbene il governo Finlandese si autoproclami neutrale ha da sempre mantenuto dei legami con l’Unione Sovietica prima e con la Russia poi. Particolarmente indicativa è la decisione negli anni della guerra fredda di rifiutare aiuti economici degli Stati Uniti derivanti dal piano Marshall per non intaccare i rapporti con l’URSS.

Entrare nella NATO come garanzia di sicurezza

Risulta chiaro quindi come, al netto di posizioni e storie diverse, anche le motivazioni dietro alla volontà di entrare nella NATO differiscono. Se da una parte la Svezia vede in tale mossa un modo per ottenere un vantaggio sia in termini politici che economici, in Finlandia la preoccupazione di un possibile attacco da parte della Russia nel futuro prossimo cresce con il trascorrere dei giorni.

Sebbene le occupazioni rispettivamente della Georgia nel 2008 e della Crimea nel 2014 avevano rappresentato un forte campanello d’allarme, Finlandia e Svezia non sono mai arrivate a prendere in considerazione l’eventuale ingresso nella NATO, almeno fino al 24 Febbraio. L’invasione dell’Ucraina ha inevitabilmente spinto le due nazioni a cercare di salvaguardare la loro sicurezza. In un primo momento i governi hanno pensato di chiedere man forte all’Unione Europea (della quale fanno parte dal 1995) in virtù del concetto di mutuo soccorso stabilito dall’art.42.7 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), ma si è fin da subito capito che al fine di godere di una protezione militare adeguata è necessario far parte degli stati che aderiscono Patto Atlantico.

La complicata procedura di annessione

Dall’annessione di territori così vicini geograficamente alla Russia l’occidente ne trarrebbe un vantaggio non indifferente. Ne è consapevole anche Jens Stoltenberg, segretario della NATO che in merito alla questione ha dichiarato:

«Se decideranno di presentare domanda, Finlandia e Svezia saranno accolte a braccia aperte e mi aspetto che il processo proceda rapidamente. Appena prendiamo la decisione di invitarle – ad entrare nell’alleanza – manderemo anche il forte messaggio politico che la sicurezza della Finlandia e della Svezia è importante per tutti gli alleati»

La procedura di annessione alla NATO però è tutt’altro che semplice essendo necessaria, tra i numerosi passaggi richiesti, anche la ratifica di tutti gli stati membri.

Jens Stoltenberg. Fonte: travely.biz

Il disappunto della Croazia

Le parole di Stoltenberg fanno trasparire una totale apertura da parte della NATO all’annessione di Svezia e Finlandia ma in realtà non tutti i membri sono convinti che si tratti di una scelta corretta. Di sicuro non lo è per Zoran Milanovic, presidente croato, che si è detto molto preoccupato per le possibili reazioni di Putin a seguito di una mossa così diretta. Ha anche affermato che secondo lui in questo momento avrebbe più senso concentrarsi su problemi più “vicini” come il non riconoscimento del Kosovo o la questione complicatissima dell’ingresso nell’UE di Macedonia del nord e Albania.

Zoran Milanovic. Fonte: worldlifeo.com

Francesco Pullella

 

 

Conflitto in Ucraina: la Transnistria rischia di essere coinvolta dai piani di Putin

Lunedì 25 aprile a Tiraspol, città più importante della Transnistria – regione moldava filorussa autoproclamatasi indipendente – si sono verificate due esplosioni di granate in prossimità dell’edificio del Ministero della sicurezza. Il giorno seguente un’altra esplosione ha colpito un’emittente radiofonica russa.

La Transnistria: la storia

La Repubblica indipendente della Transnistria forse è la nazione che più si avvicina per ideologia alla Russia di Putin. In origine faceva parte dell’URSS ma nel 1990 dichiarò la propria indipendenza e scelse come nome “Repubblica moldava di Pridnestrovie“, appellativo che continua a mantenere anche adesso. Nel 1991, dopo la caduta dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, nacque la Moldavia, il cui territorio comprende la Transnistria. Tra le due nazioni scoppiò un conflitto durato circa un anno che tuttavia non si rivelò utile per definire i confini politici e territoriali. Ad oggi la Repubblica moldava di Pridnestrovie continua a non essere riconosciuta né della Moldavia né dall’ONU.

Cartina che illustra la posizione della Transnistria.
Fonte: ansa.it

Un territorio estremamente delicato

Basterebbe osservare la posizione geografica della Transnistria per capire l’importanza strategica del territorio. Confinante con Odessa – da sempre riconosciuto come un obbiettivo importante di Putin – una sua eventuale conquista rappresenterebbe un canale di accesso facilitato verso l’Ucraina. Come se non bastasse la Repubblica moldava di Pridnestrovie risente molto dell’antica influenza sovietica, basti pensare al fatto che è l’unica nazione a conservare nella bandiera il simbolo della falce e martello (rimando alla tradizione comunista). Di fronte al parlamento regionale figura una statua di Lenin, e alcuni tratti della politica rimandano in maniera chiara al marxismo-leninismo. Inoltre la nazionalità degli abitanti  della Repubblica di Pridnestrovie è ad oggi ripartita in percentuali simili tra moldavi, russi e ucraini (moldavi 31,9%,  russi 30,3%, ucraini 28,8%)

I rapporti con il Cremlino sono sempre stati complicati dalla posizione geografica del territorio, tuttavia dopo la conquista della Crimea da parte di Putin le alte cariche della Transnistria hanno a più riprese manifestato la volontà di un’annessione alla Russia, mai concretizzatasi.

Bandiera della Repubblica moldava di Pridnestrovie. Fonte: it.wikipedia.org

La preoccupazione della Moldavia

Le esplosioni avvenute a Tiraspol secondo le autorità locali sarebbero da ricondurre a uomini ucraini. Se questa possibilità si verificasse essere vera potrebbe rappresentare per Putin il giusto pretesto per annettere alla Russia il territorio della Transnistria. Questa idea risulta essere poco gradita dalle alte cariche della Moldavia, in particolare alla presidentessa Maia Sandu che, davanti alla possibilità di un conflitto che coinvolga anche la sua nazione, ha deciso di convocare un consiglio di sicurezza nazionale.

La Repubblica moldava di Pridnestrovie accetterebbe di buon grado l’annessione alla Russia con quest’ultima che potrebbe considerare di assediare Odessa oppure di allargare ulteriormente il conflitto puntando ad altri territori che in origine appartenevano all’URSS.

L’intervento del segretario della difesa USA a Kiev

Mentre la dimensione della guerra tende sempre di più a crescere, il conflitto primario non accenna a placarsi. Il segretario della difesa degli Stati Uniti , Austin, si è recato a Kiev e dopo un incontro con i vertici dell’Ucraina ha rilasciato le seguenti dichiarazioni:

«Vogliamo vedere l’Ucraina rimanere un paese sovrano, un paese democratico in grado di proteggere il suo territorio sovrano, e vogliamo vedere la Russia indebolita al punto in cui non potrà fare cose come invadere l’Ucraina»

Anche il segretario di stato USA, Antony Blinken, si è nuovamente espresso riguardo il conflitto dichiarando:

«Mosca sta fallendo i suoi obiettivi»

Parole che lasciano trasparire tutta la sicurezza e convinzione da parte del governo statunitense.

Intanto però il ministro degli affari esteri russo, Sergej Lavrov, minaccia lo scoppio di un conflitto su scala globale.

L’incontro tra Putin e il segretario delle Nazioni Unite a Mosca

Continuano gli scambi diplomatici nella capitale della Russia. Questa volta i protagonisti sono stati Vladimir Putin e Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. L’obbiettivo principale del discorso era garantire aiuti umanitari alle vittime della guerra in Ucraina. Il presidente russo sembrerebbe aver acconsentito ad un intervento delle Nazioni Unite per favorire l’evacuazione dei rifugiati di Mariupol. Putin si è infine espresso su uno degli argomenti più discussi nell’ultimo periodo:

«Sappiamo chi ha messo in scena questa provocazione a Bucha. L’esercito russo non ha nulla a che fare con quello che è avvenuto».

Dopo 63 giorni esatti dall’inizio del conflitto non si discute nemmeno su un’eventuale fine di esso bensì si preannuncia la “creazione” di nuovi fronti di guerra. La possibilità di una risoluzione diplomatica risulta essere sempre più remota e la sensazione è che le parti più che tentare di avvicinarsi si stiano allontanando sempre di più.

Francesco Pullella

Afghanistan: esplosioni nelle vicinanze di una scuola di Kabul. Diverse le vittime

Nella mattina di martedì 19 aprile, a Kabul, diverse persone sono rimaste vittime a causa di esplosioni nei pressi di due scuole superiori situate nella parte occidentale della città. Secondo i principali media locali e l’Ong Afghanistan Rights Watch, i morti sarebbero 25.

Il ruolo delle Ong

L’Afghanistan, in particolar modo dopo essere tornato sotto il controllo dei talebani, è un territorio delicato. Purtroppo, non è la prima volta che si assiste a situazioni orribili come questa. Impossibile non cogliere i tratti in comune con la strage dello scorso 8 Maggio, dove persero la vita 68 persone.

In zone come queste in cui, per motivi di vario genere, il governo è distante dalla popolazione, risulta quanto mai necessaria e fondamentale la presenza di Organizzazioni non governative – come la già citata Afghanistan Rights Watch – che cercano per quanto loro possibile di offrire rifugio, aiuto e trattamento sanitario a chi ne ha bisogno. Attraverso un tweet l’Ong Emergency ha comunicato di aver ricevuto nell’ospedale a Kabul 10 feriti, tutti tra i 16 e i 19 anni, un altro ragazzo era già morto una volta arrivato lì.

Il direttore di Save the Children Afghanistan, Chris Nyamandi, colmo di amarezza per l’accaduto, ha rilasciato una lunga dichiarazione:

«Siamo indignati e condanniamo fermamente l’attacco a una scuola superiore che si è verificato oggi a Kabul. Siamo profondamente addolorati dall’aver appreso che dei ragazzi sono stati feriti e potrebbero perdere la vita nelle esplosioni. Tutti i bambini hanno il diritto di accedere a un’istruzione sicura. Nessuna scuola dovrebbe essere deliberatamente presa di mira e nessun minore dovrebbe temere per la sua incolumità mentre è a scuole o mentre vi si reca. I bambini in Afghanistan hanno sopportato anni di violenza. Le esplosioni di oggi seguono gli attacchi del fine settimana in cui cinque di loro hanno perso la vita. L’uccisione o la mutilazione di minori, così come gli attacchi alle scuole, sono semplicemente inaccettabili, sempre, e sono proibiti dal diritto internazionale»

La possibile presenza dell’Isis dietro l’attentato

Nessuna rivendicazione immediata, ma le circostanze fanno pensare ad un attacco di matrice religiosa. La zona occidentale di Kabul, dov’è situata la Abdurahim Shahid High School – luogo delle esplosioni – è popolata dalla comunità Hazara: una minoranza etnica sciita che è spesso presa di mira da organizzazioni terroristiche di matrice islamica sunnita come, appunto, l’Isis. L’attacco sembrerebbe non far piacere neanche ai talebani che quando si sono insediati al governo avevano promesso pace e stabilità in Afghanistan. Emblematiche le parole del capo del corpo di polizia talebano di Kabul Khalid Zadran che si è mostrato dispiaciuto per i «fratelli sciiti» coinvolti nell’attentato.

Immagine di un ferito a seguito dell’esplosione. Fonte: tg24.sky.it

La situazione dell’Afghanistan sotto il controllo dei talebani

Era il 31 Agosto 2021, quando il ritiro delle ultime truppe statunitensi dal territorio afghano sanciva la completa resa dell’Occidente, che di fatto ha lasciato lo stato sotto il totale controllo dei talebani. Il gruppo di matrice sunnita ha, sin da subito, preso posizione su alcune questioni per loro nevralgiche: annullamento quasi totale dei diritti femminili, applicazione della sharia in una versione totalmente radicalizzata. Tali provvedimenti nei mesi successivi hanno fatto sprofondare l’Afghanistan  in una situazione, sia sociale che economica, a dir poco disastrosa. La rigidità con la quale i ribelli jihadisti controllano il territorio non ha fatto altro che causare un’impennata rilevante nel numero di crimini: rapimenti, furti per fame, rapine a mano armata fino ad arrivare a veri e propri attentati di organizzazioni terroristiche come l’Isis. L’ultimo attacco a Kabul quindi risulta essere l’ennesima testimonianza della terribile scia di sangue che caratterizza l’oppressione talebana in Afghanistan.

La prima immagine dei talebani al palazzo presidenziale subito dopo aver preso controllo dell’Afghanistan. Fonte: fanpage.it

Francesco Pullella

Caso Giulio Regeni: sospeso il procedimento a causa della non-collaborazione delle autorità egiziane

Rinviata al 10 Ottobre l’udienza che vede quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati di aver rapito, torturato ed infine ucciso Giulio Regeni.

L’omicidio di Giulio Regeni: la storia

Era il 25 gennaio 2016 ed un giovane dottorando dell’università di Cambridge si trovava in Egitto, al Cairo, per svolgere degli studi sui sindacati indipendenti egiziani.

L’ultima traccia di Giulio Regeni risale esattamente al tardo pomeriggio di quel lunedì, quando, alle 19:41, ha inviato un messaggio alla sua fidanzata. Da quel momento in poi buio totale per circa una settimana, fino al ritrovamento del cadavere il 3 Febbraio. Il corpo, apparso su un tratto di autostrada poco distante dal Cairo, appariva mutilato e con evidenti segni di tortura: molte ossa rotte, diversi segni di coltellate e segni di bruciatura da sigaretta.

Giulio Regeni. Fonte: it.blastingnews.com

Le indagini che portano a molti “nulla di fatto”

I casi di reati a danno di italiani all’estero sono notoriamente tra i più controversi da risolvere, soprattutto se, come spesso accade, l’altra nazione non sia del tutto disponibile alla condivisione di documenti che potrebbero risultare prove determinanti al fine di trovare i colpevoli.

Sebbene in un primo momento le autorità egiziane si erano mostrate attive e volenterose di indagare sulla terribile vicenda, collaborando con la Procura di Roma, tale aiuto con il tempo è diventato secondo alcune fonti un vero e proprio tentativo di depistaggio. Le ipotesi scaturite dalle indagini della polizia egiziana erano di fatto tre: incidente casuale in autostrada, omicidio dovuto a motivi personali legati ad una relazione omosessuale e per ultima l’ipotesi che fosse stato ucciso a causa degli ambienti frequentati dallo studente in Egitto, dove spacciava e faceva uso di sostanza stupefacenti. Ovviamente, ognuna di queste possibilità si è rivelata errata.

Fonte: huffingtonpost.it

L’Egitto non collabora, sospeso il processo

Nonostante la carenza di materiale su cui indagare, la Procura di Roma è riuscita ad avviare un procedimento giudiziario nei confronti di quattro 007 egiziani. Un procedimento che però è stato rimandato al 10 Ottobre a causa – come si legge dalla nota del Ministero della Giustizia – del “rifiuto dell’Egitto di collaborare nell’attività di notifica degli atti“. Negata anche la possibilità di incontro tra il ministro Marta Cartabia e il suo omologo egiziano. La reale difficoltà per le autorità italiane sta nel rintracciare il domicilio degli indagati. Il corpo dei Carabinieri del Ros è riuscito a ricavare fino ad ora solo l’indirizzo dei luoghi di lavoro.

Fonte: thesocialpost.it

Il legale della famiglia Regeni chiede a gran voce l’intervento di Mario Draghi

«Prendiamo atto dei tentativi falliti del Ministero della Giustizia di ottenere concreta collaborazione da parte delle autorità egiziane e siamo amareggiati e indignati dalla risposta della procura del regime di al-Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto. Chiediamo che il presidente Draghi condividendo la nostra indignazione pretenda, senza se e senza ma, l’elezione di domicilio dei 4 imputati dal presidente al-Sisi e ci consenta lo svolgimento del processo per ottenere giustizia riguardo il sequestro le torture e l’omicidio di Giulio»

Queste le parole dell’avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni. Dito puntato contro il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, ma anche parole forti al fine di convincere il premier Mario Draghi a mobilitarsi. Nel corso di questi sei anni, numerose sono state le critiche nei confronti dello Stato italiano che – secondo molti – sarebbe dovuto intervenire con il “pugno duro“. Vi è infatti la possibilità di appellarsi alla convenzione dell’ONU contro la tortura che impone di consegnare i responsabili, processarli e punirli.

L’Italia scende in piazza e non si arrende

In questi anni di profonda incertezza riguardo il caso Regeni, il popolo italiano non è rimasto indifferente. Molte le manifestazioni nelle più grandi città d’Italia. Per ultimo, il sit-in davanti al tribunale il giorno dell’udienza preliminare (poi rimandata) a cui erano presenti i genitori di Giulio e altri manifestanti tra cui il noto presentatore televisivo Flavio Insinna che ha risposto ad alcune domande dei giornalisti lì presenti dichiarando:

«Perché sono qui? La domanda è da porre al contrario. Perché non esserci? Bisogna esserci. Come ha detto la mamma di Giulio su quel viso ha visto tutto il dolore del mondo, non dobbiamo darci pace fino a quando non si arriverà alla verità. Lo dobbiamo alla famiglia, alla parte buona di questo Paese. Voglio vivere in un Paese, come dice il Papa, che ritrovi un senso di fraternità, dove il tuo dolore diventa il mio. Questa famiglia sta facendo un’opera straordinaria con una compostezza unica al mondo. Dal primo minuto mi sono legato a questa storia. Non si può fare tutto in nome dei rapporti, del petrolio, c’è una persona che è stata torturato in maniera indicibile. Mi interessa che ci sia la volontà politica di andare avanti, spero che l’alta politica faccia il bene delle persone che amministra. A questa famiglia l’alta politica deve dare la verità»

Manifestazione per i 2 anni dalla morte di Giulio Regeni. Fonte: cultura.biografieonline.it

Francesco Pullella

 

 

Elezioni in Ungheria e Serbia: confermati i governi filo-Putin di Orban e Vucic

Il 3 aprile è stato un giorno particolarmente significativo per lo scenario politico europeo. Si sono svolte quasi in contemporanea le elezioni parlamentari in Ungheria e l’elezioni presidenziali in Serbia. Ed in momenti particolarmente concitati come quelli che stiamo vivendo il popolo tende a ricercare stabilità e sicurezza. Lo testimoniano le scelte dei cittadini in entrambe le nazioni: in Ungheria sarà il quarto mandato per Viktor Orban, in Serbia viene riconfermato il presidente uscente Aleksandar Vučić.

La guerra Russia-Ucraina domina il dibattito politico

Pace e stabilità“, questo lo slogan di Vucic. Scelta propagandistica vincente dato che gli ha permesso di ottenere un consenso del 58,56%. La campagna elettorale del presidente serbo tuttavia era partita con presupposti diversi: lotta alla criminalità – molto diffusa nella nazione – difesa ambientale e rafforzamento dei diritti civili. Temi che hanno inevitabilmente ceduto il passo al conflitto tra Russia e Ucraina. Il collocamento geografico dei territori balcanici non permette alla Serbia di “dormire sonni tranquilli” e la paura che le mire espansionistiche di Putin finiscano con il coinvolgerla diviene sempre più presente nella mente dei cittadini.

«Per il futuro la cosa più importante è mantenere pace e stabilità e garantire la prosecuzione del progresso economico»

Queste le parole del neo-eletto presidente che punta a collocare la nazione in uno stato mediano: se da una parte condanna il conflitto e invoca la pace, dall’altra cerca di mantenere attivo il canale commerciale con il Cremlino. La Serbia infatti non ha aderito alle sanzioni nei confronti della Russia così da mantenere intatte le forniture energetiche e i prezzi scontati su di esse. Chiaro però che permane la possibilità che, alla lunga, questa mancata presa di posizione possa arrivare ad incrinare i rapporti – già non del tutto idilliaci – con l’UE.

Aleksandar Vučić, Presidente serbo. Fonte: ilfattoquotidiano.it

Viktor Orban vince ancora, l’Ungheria lo conferma per la quarta volta

«E’ una vittoria così grande che si vede dalla Luna e di certo da Bruxelles»

Traspare molto entusiasmo dalle dichiarazioni del riconfermato presidente dell’Ungheria Viktor Orban. Non manca inoltre il riferimento all’Unione Europea che sicuramente non è entusiasta di vederlo trionfare per l’ennesima volta. Chi invece non ha esitato a congratularsi con lui tramite Twitter è l’ex ministro degli interni Matteo Salvini.

Tra gli oppositori di Orban troviamo inoltre Zelensky. Il presidente dell’Ucraina nei giorni scorsi aveva speso parole di forte disappunto nei confronti dell’ungherese accusato di essere l’«unico in Europa a sostenere apertamente Putin». Di fatto se Vucic, pur mantenendo saldi i rapporti commerciali con Putin, ha in qualche modo condannato il conflitto, Orban ha manifestato la totale neutralità dichiarando:

«Questa non è la nostra guerra, dobbiamo restarne fuori»

così facendo ovviamente si assicura un trattamento economico di favoreggiamento per ciò che riguarda l’importazione di gas e petroli russi. Resta il fatto che mostrare indifferenza nei confronti di una situazione così oscura e delicata potrebbe non giovare all’immagine del presidente dell’Ungheria. Tuttavia il consenso ottenuto è inopinabile. Infatti nonostante per la prima volta dal 2006 l’opposizione si era riuscita a coalizzare e a formare un alleanza, il partito Fidesz ha comunque vinto assicurandosi una percentuale di consenso pari al 54,6%. Il leader dell’opposizione Peter Marki-Zay ha dichiarato:

«In questo sistema ingiusto e disonesto non potevamo fare di più»

parole che fanno riferimento al presunto controllo esercitato da Orban sui mezzi di comunicazione. Purtroppo è ormai da tempo che si considerano le votazioni in Ungheria «libere ma controllate».

Viktor Orbán, presidente dell’Ungheria. Fonte: europa.today.it

Non solo vittorie per Orban

Nello stesso giorno delle elezioni parlamentari in Ungheria si è andati al voto per l’approvazione della legge che vieta la “promozione dell’omosessualità” ai minori. La consultazione non ha raggiunto il quorum. Ciò si tramuta in una sconfitta per il presidente ungherese che puntava molto sulla conferma di tale legge. Festeggiano invece le associazioni per i diritti umani come Amnesty Ungheria. Il portavoce dell’organizzazione, Áron Demeter, pochi giorni prima del referendum aveva dichiarato:

«Credo ci siano buone possibilità che il referendum sia invalidato, l’Ungheria è molto più progressista di quanto possa apparire in superficie»

Non solo le associazioni per i diritti umani ma anche Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea, aveva definito tale legge «vergognosa».

Dopo le elezioni del 3 Aprile lo scenario politico europeo rimane invariato ed il fatto che molte nazioni ancora facciano fatica a “schierarsi” contro Putin per paura di perdere canali di commercio è nient’altro che l’ennesima dimostrazione di quanto potere economico e contrattuale detenga la Russia in questo momento.

Francesco Pullella

 

 

Il ruolo degli oligarchi russi alla corte di Putin, dallo smantellamento dell’URSS all’opera di mediazione con l’Ucraina

La guerra tra Russia e Ucraina non è semplicemente un conflitto armato. Dietro ai missili, alle sparatorie, agli assedi si celano interessi che coinvolgono molti settori. Uno degli aspetti che mette a dura prova l’ equilibrio della Russia è la possibile recessione economica ed infatti l’occidente ha avuto chiare sin dall’inizio le potenzialità di uno strumento come quello delle sanzioni. Sebbene Putin sembra non risentirne particolarmente, altre personalità vicine allo “zar”  finite nella “lista nera” si sono ritrovate di fronte a numerosissimi sequestri di beni e soprattutto all’impossibilità di muoversi e di fare affari all’interno dell’UE. Molti oligarchi russi fino a questo momento hanno investito e possiedono capitale principalmente all’estero e non nella loro terra natale. Data la loro vicinanza a Putin e la loro importanza al fine di mantenere la stabilità – sia politica che economica – in Russia, colpire loro potrebbe significare fare un passo avanti al fine di ristabilire il clima di pace.

Da dove deriva la ricchezza degli oligarchi?

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica la federazione russa visse un periodo di forte crisi. Si vide costretta a privatizzare le enormi imprese che fino a quel momento erano state sotto il controllo degli enti pubblici. Borís Él’cin – in quel momento presidente della Russia – dovette prendere una decisione cruciale: provare a vendere le aziende statali al miglior offerente correndo il rischio di cederle a grandi compratori esteri oppure abbassare i prezzi così da permettere ad un gruppo di investitori russi, giovani e “vicini” a lui di poterle acquistare.

Borís Nikoláevič Él’cin, ex presidente russo. Fonte: wikipedia.org

Il predecessore di Putin preferì la seconda opzione. Gli imprenditori smembrarono le imprese in loro possesso e le rivendettero, creandosi un patrimonio che verrà poi reinvestito in diversi settori, dall’energia allo sport. Dopo l’avvento di Vladimir Putin come presidente alcuni di loro vennero agevolati e altri fortemente contrastati. Lo “zar” ristabilì le gerarchie assicurandosi il supporto di coloro che, da quel momento in poi, grazie alla ricchezza e alla caratura politica acquisita in breve tempo, vennero riconosciuti con l’appellativo di “oligarchi“.

Putin diventa presidente, nel 1999. Fonte: dinovalle.it

Sospetto avvelenamento a Roman Abramovich

Roman Abramovich è sicuramente tra i magnati russi più celebri nel mondo occidentale. Dopo l’invasione dell’Ucraina ha tentato di sfuggire dalla morsa delle sanzioni rendendo pubblica la volontà di vendere il Chelsea, club di calcio britannico da lui acquistato nel 2003. Tuttavia, data la sua stretta vicinanza con Putin in passato, rientra anch’egli nella “black list”. Tutte le sue attività finanziare all’interno del Regno Unito e dell’Unione Europea sono state bloccate. Nei giorni scorsi però ha tentato di rimediare offrendosi come possibile punto di mediazione tra Russia e Ucraina partecipando ad un incontro diplomatico con il primo ministro ucraino Zelensky. La particolarità è che dopo questo incontro lui, un suo collaboratore e alcuni componenti della delegazione ucraina avrebbero accusato sintomi di avvelenamento, in particolare occhi rossi, irritati, parziale perdita della vista, desquamazione della pelle sul viso e sulle mani.

Roman Abramovich. Fonte: tg24.sky.it

Non solo lui ma anche altre personalità di spicco dell’economia russa si sono schierate contro la guerra a causa delle perdite economiche da essa causate. Secondo alcune fonti il valore dei beni confiscati ai componenti della lista nera dell’UE ammonta a circa 93,18 miliardi di dollari.

Gli oligarchi rimasti fedeli a Putin

Esistono però alcuni oligarchi rimasti dalla parte del presidente della federazione russa. Alcuni di loro sono considerati i “fedelissimi” e hanno condiviso con Putin gli anni di militanza nel KGB, l’agenzia dei servizi segreti russi. Un nome di spicco è Dmitry Peskov, addetto stampa e responsabile della comunicazione del Cremlino che di recente ha ribadito le sue posizioni in un’intervista alla CNN. Tra chi si è dichiarato favorevole all’invasione vi è anche Ališer Usmanov, imprenditore nell’ambito minerario e da poco tempo proprietario del quotidiano Kommersant per mezzo del quale sembrerebbe contribuire alla propaganda russa.

Francesco Pullella

 

 

 

 

Polemica per l’editoriale del New York Times contro la “cancel culture”, ritenuto di scarsa “carità interpretativa”

Nonostante tutta la tolleranza e la ragione affermate dalla società moderna, gli americani stanno perdendo il controllo di un diritto fondamentale come cittadini di un paese libero: il diritto di dire ciò che pensano e di esprimere le proprie opinioni in pubblico senza paura di essere infamati o isolati.

Si apre così l’editoriale del New York Times, in un’epoca in cui le informazioni filtrano in modo capillare in tutto il mondo, dove molto spesso si misurano interessi e sensibilità molto diversi tra loro, ma in cui tendono a prevalere e a essere più visibili toni aggressivi o intimidatori e sentimenti di indignazione e intolleranza. Da questo si potrebbe pensare che trova origine il dibattito sulla cosiddetta “cancel culture“, il target principale dell’editoriale, che è stato oggetto di grandi attenzioni e molte critiche.

 

Che cos’è la cancel culture

 

(fonte: ilpuntoquotidiano.it)

Per “cancel culture”, traducibile con “cultura della cancellazione”, si intende oggi quel fenomeno per cui gruppi più o meno organizzati di persone esercitano pressioni su un datore di lavoro, committente, collaboratore o socio perché punisca o interrompa i rapporti con un dipendente o un partner professionale per via di certe cose che ha fatto, detto o scritto. Non è detto che queste pressioni vengano necessariamente esercitate sui social network, ma è molto spesso così.

 

I dettagli dell’editoriale

L’editoriale attribuisce sia alla destra che alla sinistra la responsabilità di aver generato questa situazione di «silenziamento sociale» e «de-pluralizzazione» dell’opinione pubblica. Molte persone a sinistra, secondo il New York Times, ritengono che la cancel culture, sia soltanto un argomento strumentale e vittimistico utilizzato dalle destre, in una sorta di complesso di persecuzione, per difendere l’uso di espressioni di odio e intolleranza nei confronti di ciò che non è conforme ai loro valori. Allo stesso tempo, molte persone a destra che protestano contro la cancel culture appoggiano severe misure conservatrici e di censura, come quella di proibire determinati libri nelle scuole e biblioteche pubbliche limitando la circolazione delle idee ritenute divisive, tra cui quelle che riguardano minoranze etniche e persone LGBTQ+. Su questioni controverse e su cui la società si interroga, secondo il New York Times:

Le persone dovrebbero poter presentare punti di vista, porre domande e commettere errori, e assumere posizioni impopolari ma in buona fede

senza timore di alcuna «cancellazione». Un rischio che, al netto delle divergenze sulla precisa definizione del termine, diversi sondaggi negli Stati Uniti descrivono come una reale percezione sia diffusa: molte persone intervistate affermano, per esempio, di sentirsi meno libere di parlare di politica rispetto a dieci anni fa. Questo, infatti, è un problema per le democrazie secondo l’editoriale: senza un dibattito alimentato da opinioni in contrasto tra loro, espresse senza paura e liberamente, le idee diventano più deboli e fragili. È anche ritenuto significativo, dal New York Times, il fatto che le persone che si dichiarano democratiche e progressiste siano, stando ai risultati del sondaggio, quelle che più spesso delle altre sentono il bisogno di interrompere «discorsi antidemocratici, intolleranti o semplicemente falsi». Eppure, prosegue l’editoriale, «la solida difesa della libertà di parola era un tempo un ideale progressista»: oggi, impegnati nella difesa dei principi di tolleranza, molti progressisti sono invece «diventati intolleranti nei confronti delle persone che non sono d’accordo con loro» o che esprimono opinioni diverse.

Le contestazioni

Secondo un’obiezione molto condivisa nel dibattito, che è stata ripresa e sintetizzata dall’organizzazione americana non profit Press Watch, il New York Times avrebbe frainteso quali siano le minacce reali al diritto fondamentale della libertà di espressione: ovvero quelle del “potere” – e, nello specifico, l’azione del governo – e non le contestazioni da parte di altre persone, benché queste oggi prendano dimensioni che le rendono nei fatti un “potere” a loro volta. Il fondatore e giornalista di Press Watch, Dan Froomkin, ha aggiunto che un conto è la cancel culture e un conto è l’essere ritenuti responsabili di ciò che si dice, e che se davvero il comitato editoriale del New York Times crede «che le persone abbiano un diritto a esprimere le proprie opinioni senza timore di essere screditate», i membri del comitato dovrebbero dimettersi tutti. Anche il giornalista americano Jeff Jarvis, ha accusato duramente il New York Times di farsi portavoce di una forma di vittimismo di destra tipicamente espresso da una classe di maschi bianchi privilegiati, non abituati e infastiditi dall’esercizio del diritto di espressione altrui.

Questo genere di obiezioni, in realtà, non considera una parte importante delle argomentazioni di chi ritiene che la cancel culture sia un fenomeno che esiste e del quale bisognerebbe preoccuparsi. Più che le reazioni di protesta o persino gli insulti, infatti, a essere biasimate e temute sono principalmente le pressioni perché chi è al centro della polemica e delle critiche di turno perda il lavoro, che si tratti di una scrittrice o di un professore universitario o di un regista. O che il timore per questo tipo di conseguenze porti le persone ad auto-censurarsi, impoverendo il livello del dibattito politico, culturale o accademico.

 

Federico Ferrara

Coronavirus, Hong Kong travolta da una grave ondata di contagi. È la peggiore dall’inizio della pandemia

Da diverse settimane, l’ex colonia britannica fa i conti con un importante aumento della curva dei contagi in meno di tre mesi dall’arrivo di Omicron, variante altamente trasmissibile. Gli ospedali sono sotto forte pressione, con i reparti pieni e pazienti lasciati nei corridoi spesso senza la possibilità di ricevere cure adeguate. Gli obitori, inoltre, sono pieni al punto che le autorità hanno fatto ricorso massiccio ai container refrigerati: infatti, l’emergenza riguarda anche la carenza di bare le cui scorte si esauriranno nel weekend. La governatrice Carrie Lam ha riconosciuto il problema, assicurando che due spedizioni di bare arriveranno molto presto dalla Cina.

 

fonte: ilfattoquotidiano.it

Il numero dei casi e dei decessi

In meno di tre mesi dalla circolazione della variante, Hong Kong ha registrato quasi un milione di infezioni e oltre 4.600 decessi, la maggior parte è concentrata nella popolazione anziana non vaccinata. In media, nell’ultima settimana, i casi positivi rilevati a Hong Kong ogni giorno sono stati 2.300 per milione di persone, contro i circa 900 per milione in Italia.

Dall’inizio della nuova ondata, che si era avviata lentamente alla fine di dicembre, sono stati rilevati 740mila casi a Hong Kong, ma secondo analisti e osservatori il dato sottostima grandemente l’entità del contagio. Un altro dato decisamente preoccupante è il numero dei decessi. Infatti, si stima che nell’ultima settimana a Hong Kong sono morte in media circa 285 persone al giorno, uno dei tassi più alti di tutto il mondo. In Italia i decessi sono stati in media 140 al giorno negli ultimi sette giorni, anche a causa di un nuovo aumento dei casi positivi da fine febbraio.

 

Grafico che dimostra la differenza tra Hong Kong e l’Italia (fonte: ourworldindata.org)

 

L’Università di Hong Kong ha stimato che l’attuale ondata abbia finora causato almeno 3,6 milioni di infezioni: quasi metà della popolazione è stata quindi contagiata in pochi mesi.

Una situazione premeditata

È apparso già chiaro, a metà del mese di febbraio, che l’impatto sarebbe stato così forte da minacciare di sopraffare il sistema sanitario. Una situazione drammatica che aveva portato la governatrice Carrie Lam a una drastica decisione: ovvero l’obbligo per i 7,5 milioni di residenti della città a essere sottoposti a tre tamponi obbligatori. In merito a ciò, la governatrice disse che:

Coloro che rifiutano saranno ritenuti responsabili

Sul fronte delle restrizioni, invece, era stata decisa la chiusura delle scuole, di diverse attività commerciali come palestre, bar e saloni di bellezza fino alla fine di aprile, e inoltre, sono stati vietati fino al 20 aprile i voli provenienti da nove Paesi, tra cui Gran Bretagna e Stati Uniti.

 

La governatrice Carrie Lam (fonte: ilfattoquotidiano.it)

 

Le accuse dei medici e le informazioni confusionarie del governo

I medici e il resto del personale sanitario attribuiscono l’emergenza sanitaria a una sostanziale impreparazione da parte del governo locale, che non aveva elaborato piani specifici per un eventuale aumento marcato dei casi, dedicando quasi tutti gli sforzi a mantenere le politiche “zero COVID”, un piano che prevedeva un maggiore ricorso ai test per la popolazione e l’apertura di nuove strutture per le quarantene. La scelta aveva del resto pagato in questi due anni di pandemia, con rari focolai che le autorità sanitarie erano riuscite a tenere sotto controllo, seppure imponendo a interi quartieri rigide regole di isolamento per settimane o mesi a seconda dei casi. Per giorni, le informazioni sono state frammentarie e in contraddizione tra loro, portando a una certa confusione e talvolta panico tra la popolazione.

Veduta aerea delle strutture temporanee per l’isolamento delle persone positive al coronavirus, nei pressi di Hong Kong – 11 marzo 2022 (fonte: poynter.org)

 

La soluzione proposta dal governo

A Hong Kong si era finora vaccinato solamente il 35 per cento della popolazione con più di 80 anni, una quota piuttosto bassa se si considera che nella popolazione generale sopra i 12 anni il tasso di completamente vaccinati è intorno all’80 per cento. La scarsa percentuale di grandi anziani con vaccino spiega in parte l’aumento dei decessi nelle ultime settimane, considerato che le persone anziane hanno rischi maggiori di sviluppare forme gravi di COVID che possono causare la morte.

A questo proposito, il governo di Hong Kong confida di cambiare le cose rilanciando la campagna di vaccinazione tra i più anziani, con varie iniziative compreso un aumento delle somministrazioni nelle case di cura e di riposo. L’iniziativa prevede che squadre di vaccinatori le visitino tutte entro la fine di questa settimana.

L’influenza della Cina sulla governance di Hong Kong

Hong Kong è una regione amministrativa speciale e mantiene numerose autonomie, ma subisce comunque un certo controllo da parte della Cina. Infatti, le modifiche alla “zero COVID” e l’intensificazione della campagna vaccinale sono derivate dalle forti pressioni da parte del governo centrale cinese, insoddisfatto sulla recente gestione dell’emergenza coronavirus. Lo stesso governo cinese nelle ultime settimane ha dovuto affrontare un importante aumento dei casi, con il più alto tasso di positivi dalle prime fasi della pandemia nel 2020. La vicina Shenzhen, infatti, è in lockdown con tutti i 17,5 milioni di residenti rinchiusi da lunedì delle proprie abitazioni a causa del riacutizzazione di Omicron nelle fabbriche e nei quartieri collegati all’ex colonia britannica.

 

Federico Ferrara