Singapore e quel sottile confine tra Smart City e ipercontrollo

Singapore, l’isola città-Stato situata a sud della Malesia, è considerata in base a varie classifiche la città più tecnologicamente all’avanguardia, oltre che secondo Paese (dopo l’Islanda) più sicuro al mondo. Si tratta di uno Stato in cui non si vedono poliziotti per strada e dove i reati, oltre a non essere commessi, non vengono neppure immaginati: la trasgressione è infatti percepita come una forma di follia. Eppure, stiamo parlando dello stesso luogo in cui esistono ancora pene corporali e pena di morte, incorrendo in un controsenso tanto inestricabile quanto apparente.

Fonte: We Build Value

L’organizzazione statuale della Singapore post-coloniale è frutto del modello di sperimentazione originale di Lee Kuan Yew, consideratone non per puro caso il fondatore. Esso aderisce ad un criterio di massima valorizzazione delle tecnologie digitali, proponendosi all’avanguardia nel mondo contemporaneo seppur con inevitabili riverberi sulla sfera dei diritti dei cittadini, sottoposti a costante e pervasivo controllo. Un presente, quindi, dove a dominare è la pervasività della tecnologia, che se da un lato assicura una grande efficienza, dall’altro assume forme distopiche inquietanti in cui l’autorità può controllare nel dettaglio il movimento degli individui grazie ad un uso disinvolto di dati personali, i cosiddetti Big Data. Con tutto ciò viene da chiedersi: in che modo lo Stato anticipa comportamenti e reati nel pratico?

Il discredito sociale come deterrente

Quello di Singapore è un regime autocratico poggiato, piuttosto che sull’autoritarismo ruvido delle dittature, sulla pervasività della presenza governativa nella vita dei cittadini, basata sullo scambio tra benessere sociale e adesione conformistica al potere.
Durante un recente servizio del TG1 è stata intervistata una ragazza di nome Crystal Abidin, considerata una delle migliori menti under 30 al mondo nello studio dei comportamenti dei nativi digitali:

“Qui anche le razze sono profilate. In aeroporto un software riconosce i volti: il sistema riconosce l’etnia, e in base alla casistica, alcune razze vengono fermate più spesso di altre. Decide tutto l’algoritmo.”

In foto, la ricercatrice Crystal Abidin. Fonte: WISHCRYS

L’antropologa della Western Australia University continua poi dicendo:

“Nessuno è disturbato dal controllo, la nostra è una società pragmatica: privacy, diritti umani, libertà d’informazione, sorveglianza di massa. Di tutto questo, ancora una volta, non c’è coscienza. Nessuno si pone domande se vive in una società confortevole, ricca e dove a casa il cibo è assicurato.”

Sono affermazioni che fanno di certo riflettere molto, ma la scelta di Singapore del discredito sociale come metodo efficace per combattere l’elusione è ancor più sbalorditivo: dal momento che il PIL pro-capite del Paese è tra i più alti al mondo, se qualcuno getta ad esempio una carta a terra le telecamere lo riconoscono e la polizia, invece dei soldi infliggerà come pena di dover indossare una maglia fosforescente con su scritto ‘litterer’ (colui che sporca) per una settimana. E se lo rifarà, dovrà anche pulire il parco.

Con lo stesso metodo della sorveglianza già nel 2016 è stato arrestato un uomo prima che commettesse uno stupro, dopo che erano stati registrati e filmati comportamenti anomali, e un gruppo di terroristi che preparava un attentato alla vigilia del Gran Premio di Formula 1 di Singapore.

È così che viene portata avanti una società disciplinare: invece di punire a valle i reati si inducono i cittadini a comportarsi bene usando i Big Data. Lo Stato li raccoglie in un super computer e li analizza per creare algoritmi che regolino la vita dei cittadini in modo da anticiparne i bisogni, ancor prima che vengano espressi, approfittandone, tra le altre cose, per orientare dolcemente i comportamenti futuri in modo efficiente per la comunità. Tutto è inquietantemente data-driven, guidato cioè dai dati.

Confucianesimo: il “consenso dietro benessere”

Il filosofo Confucio. Fonte: Scaffale cinese

Singapore è una città-Stato multietnica, con una comunità cinese – suddivisa in diversi gruppi linguistici – rappresentante il 77% della popolazione residente. La seconda comunità, quella malese raggiunge il 14%; gli indiani l’8%, gli euroasiatici ed arabi poco più dell’1%. Venendo a conoscenza di un simile assetto viene forse più semplice immedesimarsi nei panni di chi ha ritenuto indispensabile il rigore per impedire scontri tra etnie e ricostruire un’identità comune al momento della formazione del Paese.

La proiezione verso il ruolo di quarta potenza finanziaria globale e di modello avanzato di Smart City, descrivono la traiettoria di un innegabile successo dell’esperienza singaporiana, se riguardato esclusivamente dal punto di vista efficientistico, all’interno di una cultura ispirata ai valori confuciani.

La base dottrinaria del confucianesimo (che sostiene l’adesione del popolo alle gerarchie) considera le élite al governo alla stregua di civil servants a servizio della comunità. La selezione delle élite avviene per merito e per virtù e la funzione di governo è vocata al conseguimento del benessere collettivo. In questo schema si rende possibile l’attuazione del sinallagma “consenso dietro benessere”.

Ecco, quindi, che i singaporiani neppure si pongono il problema della privacy:

“Tutto funziona, quindi la gente non pensa alla tecnologia separata dalla vita perché ormai è tutt’uno. Da voi in Europa non è ancora così. Noi abbiamo un numero identificativo che ci segue dappertutto, a scuola, a lavoro. Non ci si fa più caso”, ha sottolineato la giovane antropologa Crystal Abidin.

“Smart Cities” sempre più diffuse

Da tempo, il governo di questa città-stato è impegnato nella creazione di una Smart Nation, al fine di migliorare la vita dei propri residenti attraverso l’utilizzo di svariate tecnologie. Ma proprio perché è così avanzata tecnologicamente, è anche un laboratorio per il futuro dei centri urbani. I visionari di WOHA, celebre studio di architettura con sede a Singapore, fondato nel 1994 da Wong Mun Summ e Richard Hassell, hanno realizzato il video Singapore 2100, che presenta questo insediamento come una città 50/50: metà della superficie è destinata alla natura e metà agli spazi urbani. Grazie alla biodiversità che prospera, l’effetto dell’isola di calore si riduce, l’aria è più pulita e la qualità della vita degli abitanti migliora.

Sono realtà che si ripetono, con diverse sfumature, anche in altri Paesi asiatici caratterizzati da megalopoli ipertecnologiche: dal Giappone alla Corea del Sud, passando per l’Arabia Saudita e la Cina, le smart city costituiscono modelli virtuosi di sostenibilità e sono pioniere di progetti suggestivi e rivoluzionari in grado di rafforzare la sicurezza urbana e di garantire una gestione attenta dell’energia. L’idea comune a tutte queste città del futuro è quella di creare un nuovo standard di vita urbana con regole diverse e infrastrutture intelligenti in grado di supportare i cittadini nelle loro attività quotidiane, dalle più banali alle più complesse.

Anche in Italia il processo di cambiamento sta procedendo rapidamente e, nonostante il notevole divario tecnologico rispetto alle metropoli più avanzate, le città italiane stanno diventando sempre più sostenibili e digitalizzate: tra queste Firenze, Milano e Bologna aventi il ruolo di leader.

Il 13% di Singapore sarà milionario entro il 2030

L’Asia ospita attualmente 16 delle 28 megalopoli del mondo e il dato non deve affatto sorprendere: le città asiatiche sono caratterizzate da un’elevata densità di popolazione, tanto che le Nazioni Unite prevedono un raddoppio della loro popolazione urbana entro il 2030. La rapida crescita, alimentata dalla migrazione di massa, porta all’aumento dei redditi e al cambiamento degli stili di vita, il che mette a dura prova le infrastrutture e le risorse urbane, soprattutto nelle aree economicamente emergenti.

Singapore, patria di milionari. Fonte: ItaliaOggi

Un rapporto di HSBC intitolato “The Rise of Asian Wealth” ha indicato con forza che entro il 2030 Singapore vedrà una percentuale più alta della sua popolazione diventare milionaria rispetto a Stati Uniti, Cina e qualsiasi altra nazione dell’Asia Pacifico. Nel 2021 il 7,5% della popolazione dell’avanzata nazione insulare – sia cittadini che residenti permanenti – aveva lo status di milionario, ma si prevede che quel numero salirà al 9,8% nel 2025 e al 13 % nel 2030.

Il rapporto ha spiegato che le economie in più rapida crescita stanno accumulando ricchezza molto più velocemente, evidenziando come paesi quali Vietnam, Filippine e India vedrebbero aumentare coloro con ricchezze superiori a $ 250.000 più del doppio, seguite da vicino anche da Malesia e Indonesia.

Un modello che fa pensare

L’esempio di Singapore fa riflettere sul concetto di datacrazia e sulla costante esigenza di dati da parte di colossi tecnologici e Stati, il che significa principalmente l’inclusione di elementi sempre crescenti di intelligenza artificiale nel mondo umano.
Bisognerebbe poi chiedersi chi vorrà vivere – al di là di chi se lo potrà permettere – in luoghi asettici per quanto “ordinati”, le cui dinamiche che portano le persone a viverci sono molte e incrociano più quel “fascino folle” che un ovattato “ordine”.

In foto, il filosofo Luciano Floridi. Fonte: Il Dubbio

Luciano Floridi, filosofo della Oxford University, sostiene:

”Singapore è un modello che molti hanno in mente con un po’ di invidia, per ragioni di tipo finanziario, educativo e di stabilità sociale. Ma c’è qualcosa di preoccupante in questo modello: una componente di controllo della libertà individuale da parte delle istituzioni. È un luogo che è stato molto criticato da Amnesty International, per esempio, per problematici rapporti con i diritti umani. Singapore è pur sempre un luogo in cui un solo partito ha dominato la scena delle elezioni per gli ultimi 60 anni circa”.

Gaia Cautela

Seul: quando una sera di festa finisce in tragedia

Ci troviamo a Itaewon,  un quartiere simbolo della movida di Seul, in Corea del Sud, dove una serata all’insegna del divertimento e della spensieratezza si è trasformata in una strage.

Più di cento mila giovani presenti, quasi tutti tra i venti ed i trenta anni, che si erano riuniti per festeggiare Halloween, spinti da quel desiderio di libertà da troppo negata per via delle restrizioni dovute al Covid. Ed è in mezzo a quelle strade che più di centocinquanta persone hanno trovato la morte. Le autorità parlano di 153 morti (tra cui 22 studenti stranieri provenienti da Iran, Uzbekistan, Cina e Norvegia), 82 feriti e 355 dispersi ma questi dati potrebbero essere ancora destinati ad aumentare.

Fin da subito la situazione è apparsa critica e ancora i motivi che hanno portato ad un tale disastro sono poco chiari. Sono state diverse le teorie avanzate: la presenza di un gas nocivo nell’aria, droga spacciata per caramelle e ancora, la presenza di una celebrità che avrebbe attirato l’attenzione della folla poi riversatasi nel vicolo. Tuttavia, queste ipotesi, non sono state confermate dal governo che ha preferito non dare spiegazioni.

Fonti del posto rivelano che ad un certo punto qualcosa ha scatenato il panico, come se due masse di persone che provenivano da due direzioni opposte fossero finite per scontrarsi tra loro.

Le persone sono cadute come un domino e l’una sull’altra“, ha raccontato un sopravvissuto.

Come un sabato sera di allegria si è trasformato in una trappola mortale

Le immagini e i video che da ieri hanno fatto il giro dei social sono impressionanti. Descrivono una situazione tragica e quasi irreale. Si vedono persone a terra a cui viene praticato un massaggio cardiaco, gente che si arrampica sugli edifici pur di sfuggire alla folla e purtroppo anche tanti corpi senza vita adagiati sulla strada.

Veduta aerea della folla accalcata in strada, fonte: Notizie.it

Un giornalista della BBC racconta:

“Ho visto le facce sconvolte di centinaia di giovani in maschere e costumi. Ho visto decine di ambulanze, poliziotti e medici chini sui corpi di chi è stato travolto. Ho visto i teli blu sui cadaveri. Ho visto mentre li portavano via, uno alla volta”.

Cronistoria di una strage

Secondo le prime ricostruzioni già alle 20:00 la situazione iniziava ad andare fuori controllo. Ma solo verso le 22:00 arrivano le prime richieste d’aiuto e le segnalazioni alle autorità di “ problemi con la gestione della folla.” Ma la gente continua a festeggiare, la musica è ad alto volume e anche alcuni presenti sembrano non curarsi di quello che sta accadendo. Alle 22:30  però si sparge la notizia di 50 persone morte a causa di arresti cardiaci e poi il panico. A quanto pare migliaia di persone si sono ritrovate ammassate l’una all’altra e tentando la fuga sono state calpestate, immobilizzate e soffocate. Sono state tante le chiamate ai soccorsi da parte di giovani che lamentavano difficoltà respiratorie, più di 140 ambulanze e 400 soccorritori sul posto ma per molti non c’è stato nulla da fare.

Tante le testimonianze che lasciano impietriti, con l’amaro in bocca per tutte quelle vite distrutte troppo presto.

«Tutt’attorno a me c’erano ragazzi che tremavano di paura, altri cadevano per terra. Qualcuno continuava a spingere me e un mio amico: ci siamo persi di vista, ancora non l’ho ritrovato»

«Le persone erano ammucchiate una sopra l’altra» riferisce un vigile del fuoco.

«Stavo camminando in una via, ho sentito uno spintone da dietro e mi sono ritrovato in mezzo alla calca, schiacciato tra sconosciuti. Erano circa le 22.30, non ho potuto muovermi per almeno mezz’ora. Mi sono liberato solo dopo le 23.00». aggiunge un altro superstite.

Sono stati tanti i messaggi di cordoglio per le vittime: da Papa Francesco durante l’Angelus a San Pietro a Biden e a Giorgia Meloni che hanno espresso la loro vicinanza al popolo sudcoreano tramite Twitter.

Il presidente Yoon Suk-yeol  ha dichiarato:

 “La cosa più importante è determinare la causa dell’incidente e prevenire eventi simili, indagheremo a fondo sulla causa e apporteremo miglioramenti fondamentali in modo che incidenti simili non si ripetano in futuro”.

Inoltre lo stesso governo ha proclamato sette giorni di lutto nazionale e tutte le attività saranno posticipate a data da destinarsi. E tra le strade di Itaewon hanno lasciato fiori e biglietti per rendere omaggio a tutte le persone decedute.

Alcuni omaggi alle vittime, fonte: Il Messaggero

Le critiche suscitate dalla mancanza dei dovuti controlli da parte delle autorità competenti

Secondo i cittadini, infatti, la polizia non era preparata a tali circostanze e dunque non era  previsto nessun rafforzamento.  Non vi era personale a sufficienza perché dispiegato altrove.  A detta di molti è stato un grave errore, dato che quel quartiere è da sempre famoso per la forte presenza di giovani per via dei bar e dei locali presenti. A maggior ragione rappresentava il primo evento sociale, dopo due anni di pandemia, ed era quindi prevedibile una vasta affluenza di persone che da tempo speravano in un ritorno alla normalità. Ma invece che essere un giorno di rinascita e leggerezza verrà ricordato con sofferenza e incredulità.

Ma anche con tanta perplessità come dimostra la testimonianza della dirigente Amanda Ferrario dell’Ite Tosi di Busto Arsizio. Il 28 ottobre è rientrata dal viaggio in Corea del Sud con i suoi studenti. Si dice abbastanza turbata perché le immagini che hanno diffuso i media stridono con quello che loro hanno vissuto. Infatti descrivono la città come una città ordinata, dove tutti osservano le regole soprattutto quando sono in fila o quando camminano nelle strade affollate. Infatti sottolinea come solo un avvenimento inatteso e improvviso potesse scatenare un tale terrore.

Nel 2022 non si può morire per la voglia di vivere, non si può festeggiare con la paura di non tornare a casa e non si può rimanere indifferenti di fronte a quanto accaduto. Bisogna essere più responsabili per sé stessi e nei confronti degli altri. Nella calca le persone incoraggiavano gli altri ad andare avanti, a proseguire senza pensare alle conseguenze. Tutti spingevano senza preoccuparsi delle persone che cadevano, di quelle che calpestavano. Non dimentichiamo questi attimi drammatici, perché anche se visti attraverso uno schermo, sono tanto raccapriccianti da diventare un grido di dolore per una tragedia che forse poteva essere evitata.

 

Serena Previti

Cosa sta succedendo nello Yemen, un Paese dimenticato da tutti

Sullo sfondo del conflitto Russo-Ucraino, il concetto di guerra si è insinuato – dirompente come non accadeva da decenni – nell’immaginario comune. L’uomo realizza che la guerra è parte integrante della sua natura, deludendo ogni aspettativa sulla sua limitata localizzazione nel tempo e nello spazio.
Eppure, così come l’attuale guerra in Etiopia, in Tigray, quella yemenita è un tristissimo esempio del famoso adagio “Due pesi e due misure”: 7 lunghi anni di ostilità e scontri violenti nell’area mediorientale, territorio strategico per eccellenza incastonato tra l’Oman e l’Arabia Saudita, sono finiti nel dimenticatoio degli impotenti osservatori e volutamente ignorati dai potenti.

Lo Yemen protagonista di tre crisi nel mezzo di una guerra civile fuori controllo. Fonte: European Affairs Magazine

Dal 2015 in poi (anno ufficiale di inizio del conflitto) lo Yemen ha continuato ad essere un Paese privo di controllo, nonché teatro di un terribile scontro di interessi che vede contrapposti le milizie della minoranza sciita degli Houthi – governante il nord del paese – e l’esercito del legittimo governo in esilio.
Stiamo parlando di quella che l’ONU ha definito come la peggiore catastrofe umanitaria in corso, con oltre 380 mila vittime e 4 milioni di sfollati interni; dove oltre 20 milioni di persone (circa il 70% della popolazione) sopravvivono solamente grazie all’assistenza sanitaria di organizzazioni ed iniziative umanitarie, i cui fondi però non sono mai abbastanza. Ma la cosa più grave è che più della metà degli innocenti colpiti da tale flagello è rappresentata da bambini.

L’origine del conflitto

Lo Yemen è uno dei più antichi luoghi abitati del pianeta, una nazione dalla bellezza paesaggistica sfaccettata, con canyon, deserti, oasi, e lunghe coste incontaminate. Al posto dell’attuale origine semitica del nome odierno, gli antichi romani si riferivano alle regioni più meridionali della penisola arabica con il termine Arabia Felix (Arabia Felice), un’area ricca di spezie, incensi e snodo di scambi commerciali con Africa e India. Tuttavia, considerando quello che accade oggi in Yemen, il termine Felix è decisamente surreale e anacronistico.

Fonte: Documentazione.info

Il conflitto yemenita ha radici relativamente lontane, le quali diventano significativamente serie già a partire dai primi anni ’90, quando nella regione nord-occidentale del Paese, tra Sa’das e la capitale Sana’a, si andò formando un’organizzazione che in origine era più che altro una setta religiosa fondata dal clerico zaidita Hussein al-Houthi. In quanto zaidita sciita, Hussein era molto vicino ideologicamente e politicamente all’Iran e intesseva ottime relazioni con il leader supremo persiano, Ali Khamenei, così come anche l’altra realtà sciita in Medio Oriente, la libanese Hezbollah.

Il movimento di Hussein – inizialmente chiamato “la Gioventù Credente” – ha subito in seguito una radicalizzazione dovuta all’inasprirsi dei rapporti con il governo centrale, pertanto ora definendosi “Ansar Allah” (letteralmente i “partigiani di Dio”), altresì noti con il termine di Houthi. Nel 2014 il movimento ribelle degli Houthi prese il controllo della provincia settentrionale di Sa’ada e delle aree limitrofe, continuando ad attaccare e arrivando a prendere persino la capitale Sana’a, costringendo l’attuale presidente yemenita Hadi all’esilio.

Gruppo di Houthi ribelli. Fonte: The Defense Post

Si tratta quindi di una guerra indiretta tra i rivali regionali Arabia Saudita e Iran (che sostengono rispettivamente il governo riconosciuto e gli Houthi), ma anche la competizione nel fronte anti-houthi fra gruppi e milizie sostenute dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti (es. i secessionisti del Sud).

Chi è Hadi?

Abd Rabbih Mansour Hadi è un politico yemenita, entrato nell’esercito all’inizio degli anni ’70 e schieratosi inizialmente contro gli Houthi al fianco dello storico presidente Ali Abdallah Saleh, che per più di trent’anni era rimasto ai vertici di uno dei regimi più longevi della regione e alla guida di un Paese lacerato da guerre e carestia. Quest’ultimo ha scelto Hadi come vicepresidente dopo la guerra civile scoppiata nel 1994 a causa di un tentativo di golpe da parte di militari e politici di fede marxista, con l’obiettivo di realizzare la secessione del Sud e ricostituire un nuovo governo indipendente (come la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen del Sud del 1967).

Il presidente Hadi. Fonte: Agenzia Nova

Quando il 27 febbraio 2011 Saleh si dimise, Hadi si insediò formalmente alla presidenza della Repubblica, tentando in extremis un accordo con gli Houthi, per una condivisione del potere, concedendo loro una riforma istituzionale che gli avrebbe fatto acquisire un maggior peso politico e modificando l’assetto del paese in sei regioni federali. Gli Houthi, però, si dichiararono insoddisfatti delle proposte e, irritati dell’annunciata decisione governativa di un taglio ai sussidi, nel mese di gennaio 2015, guidati dal generale Abdul-Hafez al-Saqqaf, attuarono un colpo di stato, invocando le dimissioni di Hadi; a questo si aggiungeva la generale crisi economica e sociale del paese – già allora il più povero del mondo arabo – afflitto da gravissimi problemi come disoccupazione e inflazione alle stelle.

Hadi è da anni in esilio in Arabia Saudita e all’età di 77 anni, non godendo di buona salute, ai primi di aprile 2022, ha lasciato i poteri al Consiglio presidenziale, nella speranza di avviare una fase di transizione, accolta con favore da sauditi ed emiratini, che hanno annunciato nuovi aiuti finanziari per la ricostruzione.

Il vero motivo del coinvolgimento di Arabia Saudita

Emirati Arabi Uniti (EAU) e Arabia Saudita hanno, senza ombra di dubbio, contribuito in maniera decisiva alla frammentazione del Sud e del Nord del Paese, cooperando con alcuni alleati nella regione invasa per mantenere la legittimità del governo del presidente Hadi, l’unico riconosciuto a livello internazionale. Ma al di là della questione ufficiale, le vere motivazioni per l’intervento saudita in Yemen erano molte: l’Arabia condivide un confine di migliaia di chilometri con una nazione sull’orlo della guerra civile; una nazione dove chi rischiava di finire al potere era un clan sciita, alleato dell’Iran. E uno Yemen in mano agli Houthi avrebbe significato per i sauditi la rovina: isolamento totale, blocco dello stretto di Bab el-Mandeb oltre a quello di Hormuz e (punti strategici di traffico navale) e addio ai miliardi di barili esportati nel mondo. Niente export, niente petrodollari; niente soldi, niente potere. Ed ecco che l’incubo in versione Yemen – ma più esteso –sarebbe potuto diventare realtà dell’Arabia Saudita.

Il presidente Hadi con il principe saudita bin Salman. Fonte: la Repubblica

L’invio di armi USA e italiane

È intuibile che una guerra che va avanti da anni non potrebbe fare altrimenti senza il coinvolgimento di grandi protagonisti della scacchiera mondiale quali USA e Italia, vergognosamente responsabili dell’invio costante di armi. Chiaramente le denunce alle principali aziende produttrici di armi non sono mancate, ma ciò non decolpevolizza il governo italiano, che secondo l’Osservatorio dei Diritti nel primo semestre 2020 avrebbe inviato armi a sauditi ed emiratini (tra pistole e fucili semiautomatici) per un valore di 5,3 milioni di euro. Senza contare poi le bombe. A gennaio 2021 l’export è stato fortunatamente bloccato dal governo italiano. E ancora, Amnesty International nel 2018, titolava, riprendendo un articolo del Washington Post:

“Gli Stati Uniti non dovrebbero prendere parte ai crimini di guerra in Yemen”.

Il riferimento non era soltanto alla vendita di armi, ma anche all’invio di mercenari attraverso la compagnia militare privata Academi, un tempo nota come Blackwater.

Una pace più che necessaria

Di fronte a tali fatti, diviene quasi superfluo sottolineare l’esasperazione di una popolazione yemenita segnata da anni di sofferenze e privazioni: niente elettricità o acqua potabile, e quindi epidemia di colera; niente carburante per le auto e prezzi del cibo irraggiungibili per il cittadino comune, alcuni dei quali sono arrivati al punto – stando a quanto riportato da Al Jazeera da vendere letteralmente un rene al prezzo di 5-10,000$. Organi che poi sono rivenduti a clienti benestanti degli altri paesi del golfo a prezzi esorbitanti (anche 100,000$):

“La gente che ha un po’ di soldi tira avanti, ma gli altri non hanno nulla, quelli come me non riescono ad avere nemmeno il pane”, ha detto uno dei milioni yemeniti in stato di miseria.

I bambini, in Yemen, non possono andare a scuola. Fonte: Piccole Note

Pacificare l’area è dunque di fondamentale importanza. Anzitutto ristorerebbe parzialmente la sicurezza dei traffici nel mar Rosso: si pensi solo al rischio del formarsi di nuovi Foreign Fighters di matrice integralista, che approfittino del conflitto per dare vita a nuove cellule terroristiche. Inoltre, una possibile ragione a favore della pace – se mai ci fosse bisogno di sottolinearlo – potrebbe discendere dal raffreddamento delle relazioni tra gli stati del Golfo (sauditi e emiratini) dovuta alle guerre ucraina e siriana: le due monarchie assolute, infatti, non hanno voluto assolutamente aderire alle sanzioni contro la Russia e di aumentare la propria produzione di greggio per compensare le mancate forniture di Mosca. Ma forse il beneficio più grande, che la fine di questa guerra avrebbe, è uno in particolare: la fine di una catastrofe senza pari, dopo sette anni di una guerra che però viene raramente menzionata dai media nostrani.
Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia, commentando il conflitto in Yemen, ha parlato di “Una vergogna internazionale” aggiungendo che:

“Quello che continua a succedere in Yemen, nel silenzio dei grandi decisori internazionali, è una vergogna che intacca il senso di umanità”.

Gaia Cautela

Guerra Russia-Ucraina: il punto sulla situazione

Il conflitto tra Russia e Ucraina, iniziato il 24 Febbraio, non accenna a placarsi. Dopo il periodo di apparente stasi, durante le stagioni estive, la tensione è di nuovo altissima a causa degli ultimi avvenimenti. Nel mese di settembre, infatti, le milizie ucraine hanno quasi totalmente ribaltato la situazione, sfondando il muro delle truppe sovietiche in alcune zone precedentemente occupate. Questo ha spinto i vertici del Cremlino a minacciare l’uso di armi nucleari tattiche.

 

L’attacco al ponte tra la Russia e la Crimea

Nel mese di ottobre, seppur appena cominciato, la situazione non fa altro che aggravarsi. Lo scorso 8 ottobre, a seguito di una violentissima esplosione, è crollata una parte del ponte che collega la Russia alla Crimea. Ad oggi vi sono ancora molti dubbi riguardanti le cause e i mandanti dell’attentato. L’autorità antiterrorismo russa ha comunicato che il crollo sarebbe stato conseguente all’esplosione di un camion che trasportava carburante.

Più che cercare di capire chi sia il possibile mandante o interrogarsi sulle difficoltà logistiche dovute al crollo dell’unica strada che collega Russia e Crimea – difficoltà quasi inesistenti dato che è stata completamente riparata in un giorno – occorre comprendere fino in fondo la gravità di un attacco di questo tipo.

Il ponte di Kerč, dopo la sua costruzione nel 2014, è divenuto di fatto il simbolo dell’annessione della Crimea. Particolarmente emblematica fu l’inaugurazione del segmento del trasporto su gomma compiuta da Putin alla guida di un camion nel maggio del 2018.

L’Ucraina non ha rivendicato l’attacco anche se il presidente Volodymyr Zelensky si è mostrato “non troppo dispiaciuto” dell’accaduto. Queste le sue dichiarazioni:

«Oggi è stata una bella giornata, per lo più soleggiata sul nostro territorio. In Crimea era nuvoloso, ma faceva caldo»

Il Ponte subito dopo l’esplosione. Fonte: adnkronos.com

La risposta della Russia: missili su Kiev

Come pronosticabile la replica da parte delle autorità sovietiche è stata repentina ed è stata sia verbale che, purtroppo, militare.

«Questo è un atto terroristico e un sabotaggio commesso dal regime criminale di Kiev. Non ci sono dubbi e non c’erano. Tutti i rapporti e le conclusioni sono chiari. La risposta della Russia a questo crimine può essere solo la distruzione diretta dei terroristi. Questo è ciò che i cittadini russi stanno aspettando»

Sono state queste le parole del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitry Medvedev. Un’uscita che ha lasciato poco spazio ai fraintendimenti e che si è rivelata in seguito tutt’altro che una semplice e innocua minaccia. Dopo circa un giorno dall’esplosione del ponte, infatti, la Russia ha effettuato un attacco missilistico su tutto il territorio ucraino. L’offensiva ha causato diversi morti e altrettanti feriti e che ha destabilizzato notevolmente i cittadini, soprattutto a Kiev. La capitale infatti, dopo mesi di stabilità, è stata la città più colpita.

Si è dimostrato particolarmente scosso dall’attacco anche Zelensky che nelle ore successive ha diffuso un messaggio, carico di frustrazione e ira, tramite Telegram. Questo il testo:

«Vogliono spazzarci via dalla faccia della terra. distruggi la nostra gente che dorme a casa a Zaporizhzhia. Uccidi le persone che vanno a lavorare a Dnipro e Kiev. L’allarme aereo sta continuando a suonare in tutta l’Ucraina. Ci sono missili che colpiscono. Purtroppo ci sono morti e feriti.»

Immagine di un missile caduto su Kiev. Fonte: lastampa.it

Le reazioni degli altri Paesi: convocato un G7 straordinario

Non solo il presidente ucraino, anche gli altri capi di Stato delle forze occidentali sembrano essere preoccupati per i possibili sviluppi legati al conflitto. In particolare, il presidente Joe Biden nei giorni scorsi si era esposto abbastanza duramente riguardo alla possibilità di un’escalation nucleare, da lui definita “un’apocalisse“. Al fine di smorzare la situazione è intervenuto il segretario di stato degli Usa, Antony Blinken, che si è mostrato aperto ad una possibile soluzione diplomatica chiarendo, però, che:

«Mosca sta andando nella direzione opposta. Quando la Russia dimostrerà seriamente di essere disposta a intraprendere la strada del dialogo noi ci saremo.»

Intanto nella giornata di ieri si è tenuto, in modo virtuale, un vertice speciale del G7, in cui le nazioni partecipanti hanno ribadito la volontà di dare appoggio all’Ucraina e di colpire la Russia tramite l’imposizione di ulteriori sanzioni economiche. Collegato anche Zelensky che prima dell’incontro ha dialogato privatamente con Mario Draghi.

Francesco Pullella

Guerra in Ucraina: Nato intransigente sulle annessioni della Russia e le minacce nucleari di Putin

Il conflitto Russia-Ucraina iniziato 7 mesi fa con l’invasione russa del territorio ucraino non intravede al momento una fine, bensì una coltre densa di minacce nucleari e incessanti attacchi incombono sul Paese che continua la sua controffensiva nel nord-est, cercando di riprendersi altri territori occupati dalla Russia. Quest’ultima venerdì scorso ha annunciato l’annessione tramite referendum di quattro regioni ucraine, gesto che la comunità internazionale non ha esitato nel definire illegittimo e assurdo.

Ciononostante, nelle ultime 48 ore le forze ucraine hanno guadagnato terreno significativo nel nord-est dell’Ucraina, intorno a Lyman, e nella regione di Kherson, a sud. Questo significa che la Russia non ha più il pieno controllo di nessuna delle quattro regioni dell’Ucraina che affermava di aver annesso la scorsa settimana.

Referendum annessione. Fonte: Euronews

La condanna dei “referendum farsa”

Lunedì 3 ottobre il Parlamento russo, la Duma, ha ratificato l’annessione delle quattro regioni dell’Ucraina nelle quali si sono svolti quelli che la comunità internazionale ha definito ”referendum farsa”. Lo ha annunciato il presidente della camera bassa del Parlamento russo Vyacheslav Volodin. Le regioni in questione sono Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia, che insieme rappresentano circa il 18 per cento del totale del territorio ucraino.

Di fronte ad un simile risvolto, i capi di Stato di nove Paesi europei membri della Nato (Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Macedonia del Nord, Montenegro, Polonia, Romania e Slovacchia) hanno fermamente sostenuto che non riconosceranno l’assorbimento delle quattro regioni da parte della Russia. Nella stessa dichiarazione congiunta sostengono poi il percorso verso l’adesione dell’Ucraina all’Alleanza Atlantica e invitano tutti i 30 Paesi membri a intensificare gli aiuti militari a Kiev, esprimendo così piena solidarietà all’Ucraina:

“Ribadiamo il nostro sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina e non riconosciamo e non riconosceremo mai i tentativi della Russia di annettere il territorio ucraino”, si legge nella nota congiunta.

Il segretario generale NATO, Stoltenberg. Fonte: Agenzia Nova

A chiarire ulteriormente le posizioni intransigenti della Nato le parole del segretario generale, Jens Stoltenberg, durante una conferenza a Bruxelles:

“Le regioni di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia sono ucraine, così come lo è la Crimea”, ha detto.

“Putin è il principale responsabile di questa guerra e il principale attore che deve fermare il conflitto. Se la Russia fermerà il conflitto, ci sarà la pace, se l’Ucraina si arrenderà, smetterà di esistere come una nazione indipendente”, sottolineando che “la Nato non è in guerra con la Russia, il nostro obiettivo adesso è continuare a sostenere l’Ucraina in ogni modo, per metterla in condizione di difendersi dall’aggressione della Russia”.

Putin minaccia sul nucleare

“Il popolo ha fatto una scelta netta. Ora i loro abitanti diventano nostri cittadini per sempre”, ha esordito Putin al termine dei referendum. Il non riconoscimento del risultato dei referendum, e delle conseguenti annessione, da parte della comunità internazionale potrebbe aumentare il rischio di utilizzo di armi nucleari: quella del presidente Putin è infatti una retorica tanto ripetitiva quanto pericolosa e imprudente. Un qualsiasi uso di armi nucleari avrebbe conseguenze gravi per la Russia e cambierebbe la natura del conflitto, come fatto esplicitamente sapere dal segretario generale della Nato Stoltenberg, nel corso di un’intervista al programma “Meet the press” su Nbc.

Il messaggio che la Nato e gli Alleati della Nato mandano alla Russia è atto a far capire che, nonostante l’organizzazione non faccia parte del conflitto, una guerra nucleare non può essere vinta e mai deve essere combattuta; anche perché l’Ucraina – in quanto nazione indipendente e sovrana in Europa – ha pienamente diritto di difendersi da un’aggressione di guerra. Pertanto, sarebbe impensabile assecondare le minacce di Vladimir Putin sull’impiego di testate atomiche tattiche per proteggere i nuovi confini autoproclamati per mezzo di annessioni stabilite a tavolino.

Numeri da paura nei bilanci di vittime

Dopo aver riconquistato nel fine settimana Lyman, città chiave dell’Ucraina orientale, le forze ucraine hanno continuato la loro controffensiva spingendosi fino alla regione di Luhansk.
Divisioni russe nella regione settentrionale di Kherson e sul fronte di Lyman erano in gran parte composti da unità che erano state considerate tra le principali forze di combattimento convenzionali della Russia prima della guerra, come riportato in precedenza dall’Istituto per lo studio della guerra. Dunque, il fatto che l’esercito russo abbia riconosciuto che le forze di Kiev hanno sfondato le linee di difesa nella regione di Kherson rappresenta la loro più grande svolta nella regione dall’inizio della guerra. Una mappa del Financial Times evidenzia i progressi delle truppe ucraine.

Ma qualche recente successo delle truppe ucraine non basta per chiudere un occhio su un bilancio di vittime, feriti e sfollati che continua a crescere di settimana in settimana: dal 24 febbraio si contavano già ad agosto almeno 5 mila civili uccisi, di cui più di 300 minori e circa 6,6 milioni di rifugiati.

Strage di civili. Fonte: Il Mattino

Sarà un inverno difficile per l’Europa

Lunedì, una settimana dopo le esplosioni e la rottura del gasdotto Nord Stream nel Mar Baltico (causate da almeno due esplosioni con centinaia di chili di esplosivo, secondo i governi di Danimarca e Svezia), la guardia costiera svedese ha dichiarato che la fuoriuscita di gas dal Nord Stream 1 si è interrotta, mentre il gas continua a fuoriuscire in parte dal Nord Stream 2, con il metano che sale in superficie. La multinazionale russa Gazprom ha tuttavia affermato che i flussi di gas potrebbero essere presto ripresi nel filone B del gasdotto Nord Stream 2.

Sabotaggio gasdotto NordStream. Fonte: TGCom24

Ma non basta chiudere una voragine per risolverne un’altra altrettanto seria: secondo David Petraeus, ex direttore della CIA, l’Europa avrà un inverno difficile perché ci saranno pochissimi flussi di gas naturale. Ma ciononostante lo supererà, anche perché il generale statunitense non crede che sulle questioni del sostegno all’Ucraina si creerà una divisione tale da causare scontri interni: la coesione europea è cruciale più che mai.
Intanto Zelensky ha affermato che eventuali negoziati ci saranno solamente in una fase finale, mentre un imminente risultato diplomatico è alquanto improbabile, dal momento che lo stesso presidente ha comunicato venerdì che l’Ucraina avrebbe accettato colloqui di pace solo “con un altro presidente della Russia“. E per ora Putin, nonostante le recenti proteste contro la mobilitazione, risulta essere ben saldo al potere.

Verso la cronicizzazione del conflitto

Il conflitto in Ucraina è solo la punta dell’iceberg in un mare più ampio in cui Stati Uniti e Russia si confrontano per ragioni strategiche vitali: per Washington si tratta di mantenere l’Europa nella sua sfera di influenza a tutti i costi, usando la crisi per recidere quanti più legami economici possibili tra i paesi dell’UE e il suo rivale russo; nel caso di Mosca, i combattimenti alle sue porte si stanno estendendo sempre più verso est da quando, da oltre vent’anni, la NATO minaccia in un modo o nell’altro di inghiottire l’Ucraina.

Tutto ciò indica non la fine imminente del conflitto, bensì una sua cronicizzazione, probabilmente ben oltre il prossimo inverno del 2022-2023. E anche se la mediazione della Turchia potesse portare ad un ormai improbabile cessate il fuoco, si concretizzerebbe piuttosto, nella migliore delle ipotesi, in una fragile tregua, vale a dire senza la firma di una pace veramente duratura.

Gaia Cautela

 

Emergenza siccità: in Italia scende il livello di molti fiumi e cresce la preoccupazione

Domani, mercoledì 22 Giugno si terrà una seduta straordinaria della conferenza delle regioni e delle provincie autonome. Uno dei temi principali della conferenza sicuramente sarà l’emergenza legata alla siccità. Con le temperature che in questo periodo sono in continuo aumento, si sta osservando un preoccupante calo dei raccolti, soprattutto di quelli la cui efficienza è legata alle acque del fiume Po.

Gli effetti dell’emergenza climatica e il livello del Po che scende drasticamente

la maggiore associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana, la Coldiretti (Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti) ha constatato che in una zona di Pavia il livello del Po è diminuito in maniera maggiore rispetto al ferragosto di un anno fa.

Meuccio Berselli, segretario generale di AdBPo (l’autorità di bacino), ha dichiarato:

«La situazione sta diventando drammatica, perché oltre al fatto di avere una portata limitata e le piogge che stanno mancando, abbiamo altri due fattori molto importanti. La temperatura è più alta di 2-3 gradi, in alcuni punti anche quattro gradi, rispetto alla media del periodo. E manca completamente la risorsa della neve, quindi il magazzino e lo stoccaggio in montagna».

Difficile non ricollegare tale situazione all’emergenza climatica che sta colpendo il globo. Nonostante le varie proteste legate al tema da parte di alcuni movimenti (uno su tutti il Fridays for Future) chi sta al potere non sembra ancora intenzionato a compiere azioni incisive. Molto spesso sembra che il tema addirittura non desti interesse. Ciò probabilmente a causa del fatto che gli effetti del cambiamento climatico appaiono lontani dalla nostra realtà, ecco perché nell’osservare la situazione odierna del Po e di altri bacini situati in tutta la penisola molta gente si stupisce.

Nella speranza che si adottino misure su larga scala per cercare di attenuare la crisi climatica e ambientale, è impossibile non focalizzarsi sull’attualità e quindi risulta fondamentale cercare di porre rimedio alla discesa del livello del Po e scongiurare l’ipotesi di un’emergenza che si continui ad allargare coinvolgendo altre fonti di irrigazione. A proposito di ciò il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, sembra avere le idee chiare, ecco le sue parole:

«Dobbiamo chiedere lo stato di emergenza, collegato all’intervento della Protezione civile. Dobbiamo investire in tempi brevi sui bacini di accumulo. Rispetto a tutto ciò che concerne il tema depurazione non dobbiamo creare ostacoli perché c’è un 12 per cento di acqua che non ha le caratteristiche. Dobbiamo creare le condizioni per cui quel 12 per cento vada esattamente in linea con quelli che sono parametri che noi pretendiamo nel riutilizzo dell’acqua depurata, ma dobbiamo avere l’intelligenza di poter utilizzare tutto ciò che ci sarà messo a disposizione. Sennò le difficoltà ricadranno sul nostro mondo».

Immagine del fiume Po. Fonte: ilmeteo.it

Il Tevere in difficoltà. Nicola Zingaretti: “Calamità naturale”

Anche il livello del Tevere sembra essere il più basso registrato dopo anni. Nel bollettino dell’autorità di bacino distrettuale dell’Appennino Centrale molta è l’attenzione riservata al problema della scarsa quantità di pioggia:

«Le precipitazioni cumulate sul territorio dell’ATO2 – Roma, aggiornate al mese di aprile 2022, denotano un significativo deficit pluviometrico rispetto alle condizioni medie di lungo termine. l’eventuale accadimento di precipitazioni ‘nella norma’ per il periodo primaverile ed estivo non sarebbero comunque sufficienti per recuperare il deficit accumulato»

Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti nell’esprimersi sullo stato attuale del Tevere appare molto preoccupato. Ecco le sue dichiarazioni:

«Nelle prossime ore proclamerò lo stato di calamità naturale, servirà ad adottare immediatamente le prime misure e a invitare i sindaci alle prime norme di contenimento. Ovviamente dobbiamo prepararci ad una situazione che sarà molto critica che dovrà basarsi sul risparmio idrico di tutte le attività a cominciare dai consumi familiari».

Immagine del Tevere. Fonte: roma.corriere.it

Le condizioni in cui versano i fiumi più importanti d’Italia sembra disastrosa. La sensazione è che l’emergenza legata al clima stia pian piano passando dall’essere un’emergenza “astratta” ad essere un qualcosa di tremendamente concreto, un gravissimo problema. A questo punto ciò che risulta necessario è l’azione, agire prima che sia troppo tardi.

Francesco Pullella

Vladimir Putin e l’infondato paragone con lo zar Pietro il Grande

Lo scorso giovedì si è tenuta a Mosca l’inaugurazione di una mostra dedicata allo Zar Pietro I in occasione dei 350 anni dalla sua nascita. Il Presidente russo Vladimir Putin ha partecipato, esprimendosi in merito alla figura di Pietro detto “il Grande”. Nelle sue dichiarazioni però trova spazio un paragone storico. Un rimando alla situazione politica di tre secoli fa al fine di “giustificare” l’operazione militare in Ucraina:

«Pietro il Grande ha guidato la Grande guerra del Nord per 21 anni. Poteva sembrare che fosse in guerra con la Svezia, che le stesse togliendo qualcosa. Ma non le stava togliendo nulla. Stava riprendendo il controllo. Quando fondò la nuova capitale, nessuno dei paesi europei riconobbe quel territorio come appartenente alla Russia. Tutti lo consideravano svedese. Ma gli slavi avevano vissuto da sempre lì insieme ai popoli ugro-finnici. […] Lui stava solo riconquistando quelle terre e rafforzando il potere. Ora tocca anche a noi riconquistare e rafforzarci».

Questo parallelismo, forte ma per larga parte infondato, non è altro che l’ennesimo tentativo di propaganda russa atto a far credere che esista un motivo storico e culturale dietro l’aggressione senza scrupoli nei confronti dell’Ucraina.

Vladimir Putin alla mostra in onore di Pietro I. Fonte: lastampa.it

Propaganda russa: dalla denazificazione al “rebranding”

Di operazioni propagandistiche di questo tipo ne si possono notare molte dall’inizio del conflitto. La linea comunicativa che lega tutto è evitare in qualsiasi modo di parlare di guerra. Per attenersi a ciò sono stati utilizzati diversi espedienti divulgativi da parte degli esperti di comunicazione vicini a Putin. La cosiddetta operazione di “denazificazione” dell’Ucraina è l’esempio più eclatante. In merito a ciò si è espresso nei giorni scorsi l’arcivescovo di Kiev che ha dichiarato:

«Oggi l’obiettivo della Russia in Ucraina è la cosiddetta ”denazificazione”. In realtà, invece, si tratta del genocidio del popolo ucraino apertamente dichiarato in concrete istruzioni. Oggi mi appello a tutti gli intellettuali del mondo di non tacere».

Tuttavia, nell’ultimo periodo, sembra che qualcosa stia cambiando. Ne ha parlato l’ex speechwriter di Putin, Abbas Gallyamov, esponendo la teoria del “rebranding” del conflitto. Secondo Abbas, infatti, in un momento di «stallo politico e militare» la propaganda sta mutando. A Mosca vi è infatti una quasi totale cancellazione dei rimandi allo scontro mentre, nei territori ucraini conquistati, l’intenzione sarebbe quella di instaurare un senso di attaccamento alla Russia. Esemplare in tal senso quanto accaduto a Mariupol, dove la scritta monumentale all’ingresso della città è stata ridipinta con i colori della bandiera russa.

Il monumento ridipinto. Fonte: espansionetv.it

Perché il paragone con Pietro il Grande non ha fondamento

Basterebbe informarsi sulla figura di Pietro I per capire a pieno quanto sia del tutto imparagonabile a Vladimir Putin. Lo zar, infatti, sin dai suoi primi passi da capo dell’Impero russo si distinse dai suoi predecessori per una caratteristica in particolare: l’attenzione nei confronti dell’Occidente. Molti furono i viaggi e le avventure di Pietro in Europa. Spinto dal fascino che provava nei confronti di una civiltà tanto diversa dalla sua, egli cercò di assorbire quanto osservato, al fine di attuare una profonda rivoluzione una volta rientrato in Russia. Non è stato casuale infatti che l’impero zarista, sotto la guida di Pietro I, andò in contro ad un profondo cambiamento in merito alla cultura e ai costumi.

Pietro il Grande. Fonte: biografieonline.it

Infine per ciò che riguarda le operazioni belliche di Pietro il Grande, in particolare la conquista della Svezia, non possiamo non considerare il contesto storico in cui egli viveva. L’errore che spesso viene commesso da chi (come in questo caso Putin) si rifà al passato per giustificare le proprie scelte è appunto la decontestualizzazione. Nel narrare le gesta dei grandi conquistatori della storia ci si deve sempre interrogare sulle circostanze entro le quali tali gesta venivano compiute. Nel caso specifico dell’annessione della Svezia da parte di Pietro I non possiamo non considerare che egli divenne zar nel 1682 e che operò a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, un periodo caratterizzato dalla grande ascesa di alcuni imperi, come quello zarista; un periodo in cui la forma di governo democratica come la conosciamo oggi non esisteva.

Se è quindi vero che spesso guardare alla storia aiuta, bisogna sempre ricordare che la ciclicità di essa non è una scienza esatta e che isolare una figura dallo scenario storico è uno degli errori più grandi che si possa commettere.

Francesco Pullella

 

 

Il Donbass dipende da Severodonesk: la città si divide a metà tra i combattimenti

La guerra in Ucraina ha ormai superato i cento giorni: soprattutto durante gli ultimi si sono verificati diversi eventi chiave per le sorti del conflitto, da cui lo Stato aggredito non sembra poterne uscire facilmente illeso. Infatti, durante gli ultimi giorni di maggio, l’esercito russo si è impegnato a completare la propria avanzata sulla regione del Donbass, entrando a Severodonetsk, città ucraina che oggi è rimasta l’ultimo grosso centro nella regione orientale di Luhansk.

Il Donbass al centro della seconda fase del conflitto

La conquista di Severodonetsk comporterebbe un importante vantaggio militare per la Russia, che potrebbe chiudere la cosiddetta “seconda fase” del conflitto per concentrare le proprie forze sulla conquista di altre regioni orientali dell’Ucraina, come Kramatorsk e Slovyansk. Inoltre, sarebbe già una prima vittoria da presentare al pubblico russo, in attesa di risultati da più di cento giorni. Secondo la rivista online Formiche, quanto ottenuto dall’esercito russo sarebbe dovuto ad una diversa gestione dello strumento militare russo, grazie alla quale «in queste ultime settimane il centro di gravità delle operazioni nel Donbass è rappresentato non solo dalla conquista della regione in senso stretto, quanto piuttosto dalla cattura, eliminazione o accerchiamento del dispositivo militare ucraino impiegato nella regione».

Mil.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons – Il generale russo Aleksandr Dvornikov

Sempre secondo la rivista, l’eliminazione delle forze ucraine dispiegate nel Donbass lascerebbe Kyiv senza le proprie unità migliori ed avrebbe delle ripercussioni sul morale dell’esercito ucraino.

Severodonesk resiste

In sostanza – continua Formiche –  la difesa di Severodonesk e Lysychansk risulta cruciale per l’Ucraina. Ed infatti, la città del Luhansk si trova adesso divisa a metà, con una controffensiva ucraina che è riuscita, dapprima, a recuperare il 70% della città, per poi ritrarsi fino al 50%. Secondo il governatore della regione, Serhiy Gaidai, nei prossimi cinque giorni ci potrebbero essere nuovi e più potenti attacchi russi e la situazione potrebbe cambiare ancora.

Grande preoccupazione per i civilicirca 15mila – rimasti bloccati nella città e impossibili da evacuare per via dei continui bombardamenti. Si teme, in particolare, che un assedio prolungato come quello verificatosi a Mariupol possa comportare una strage per quanti rimasti bloccati nella città.

Anche in caso di conquista, però, il destino dei civili rimasti non è positivo: secondo quanto riportato da Il Post, la russificazione delle città ucraine conquistate (come Kherson) si sta svolgendo all’insegna delle violenzeintimidazioni e degli stupri di guerra.

Il Presidente ucraino Zelensky ha affermato di essersi recato a Lysychansk e Soledar, in una visita estremamente vicina al fronte su cui si sta svolgendo una delle battaglie più intense del conflitto e, soprattutto, un caso raro in cui il Presidente varca i confini di Kyiv.

Ukrainian Presidential Press Service/ Reuters

Nuovi bombardamenti su Kyiv

Intanto, domenica mattina, Kyiv si è svegliata con dei nuovi bombardamenti (provenienti presumibilmente da sud) da parte di Mosca. Secondo il sindaco di Vitali Klitschko non ci sono feriti gravi, ma una persona è stata ricoverata in ospedale. Secondo ANSA, i missili avrebbero colpito una fabbrica nella zona orientale della capitale ucraina.

Immagini del fumo nero scaturito dal bombardamento sono girate sul web, con alcune testimonianze di civili che si trovavano nei paraggi.

https://twitter.com/TpyxaNews/status/1533333902273691648?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1533333902273691648%7Ctwgr%5E%7Ctwcon%5Es1_c10&ref_url=https%3A%2F%2Fwww.ilpost.it%2F2022%2F06%2F05%2Fbombardamento-kiev-giugno%2F

Intanto il Regno Unito si prepara ad inviare lanciarazzi a gittata di 80 km a Kyiv. La notizia è stata criticata dal Presidente russo Putin, che ha affermato che la consegna di nuove armi avrebbe il solo obiettivo di «estendere il conflitto».

Resta incerto il destino dei negoziati, dopo la notizia di alcuni incontri segretissimi tra vertici Ue, Usa e Uk per cercare un punto di svolta e, possibilmente, la fine del conflitto. Tra le questioni discusse negli incontri, anche il piano in quattro punti proposto dall’Italia, il cui contenuto era stato reso noto il mese scorso dal Ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Resta ferma, secondo quanto sostenuto dal Ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, «l’insindacabilità della liberazione del Donbass».

Valeria Bonaccorso

 

Al via la prima indagine indipendente sugli abusi interni alla Chiesa italiana

Il cardinale Matteo Zuppi, da poco Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), ha dichiarato aperta la prima indagine sugli abusi sessuali e pedofilia all’interno della Chiesa italiana. Una svolta storica, considerando che tale provvedimento, fino a poco tempo fa, non era nemmeno preso in considerazione tra le alte cariche dell’ambiente clericale.

Un concreto passo in avanti

Nel recente passato qualcosa si era mosso. Si intuiva che la Chiesa avesse iniziato ad osservare ed analizzare in maniera seria il problema degli abusi e della pedofilia. Non molto tempo fa Papa Francesco si era espresso sull’argomento:

«L’abuso sui minori è una sorta di ‘omicidio psicologico’ e in tanti casi una cancellazione dell’infanzia. Lottiamo contro l’abitudine di coprire gli abusi sui minori, Anche oggi vediamo quante volte, nelle famiglie, la prima reazione è coprire tutto: anche nelle altre istituzioni, nella Chiesa, dobbiamo lottare con questa abitudine vecchia di coprire».

Per quanto possa apparire “naturale” che il pontefice esprima tale opinione questa presa di posizione non è scontata. Basti pensare che solo nel 2010, l’allora presidente della CEI Giuseppe Betori parlava della pedofilia all’interno dell’istituzione Chiesa come di un «fenomeno estremamente limitato».

In molti sostengono che sia stato proprio l’insediamento di Jorge Bergoglio (Papa Francesco) a mobilitare l’istituzione ecclesiastica verso una nuova frontiera. In realtà, in questo caso specifico, sembra sia stato determinante il ruolo del nuovo “capo” dei vescovi italiani, il già citato Matteo Zuppi che sin da quando ha avuto possibilità di esprimere la sua opinione è sempre sembrato favorevole ad una visione “relativamente” progressista riguardo alla Chiesa.

Il cardinale Matteo Maria Zuppi. Fonte: ilcapoluogo.it

I cinque punti per contrastare il fenomeno della pedofilia e degli abusi

I vescovi hanno reso pubblico un documento in cui sono esposte cinque linee guida atte a contrastare e ridurre sensibilmente il fenomeno degli abusi e della pedofilia. Tra gli elementi più rilevanti si evidenzia l’istituzione di nuovi percorsi formativi per gli operatori pastorali di ogni tipo. I vescovi hanno inoltre dichiarato che saranno resi pubblici, a cadenza annuale, dei report delle attività di prevenzione e formazione in merito all’argomento. Hanno garantito che i dati della già citata indagine, una volta conclusasi, saranno custoditi dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e saranno analizzabili qualitativamente e quantitativamente. Un punto dei cinque evidenzia l’impegno della CEI a partecipare in qualità di invitato permanente all’Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile.

Particolare attenzione all’interno del documento è stata dedicata all’implemento di ulteriori centri di ascolto all’interno delle diocesi dedicati alle vittime di abusi, assumendo professionisti del settore (medici, psicologi e forze dell’ordine) a coordinarli. Tali centri sono attualmente attivi, da quanto dichiarato, nel 70% delle diocesi nazionali.

Logo della Conferenza episcopale italiana. Fonte: pagina Facebook della CEI

Le perplessità riguardanti l’indagine

Matteo Zuppi in conferenza stampa è apparso serio e diretto, deciso a compiere la scelta di indagare. Lo dimostra il fatto che alcuni soggetti vicini agli ambienti vaticani davano per scontato che si sarebbe optato per un’indagine condotta da membri interni alla Chiesa. In realtà come dichiarato dallo stesso Zuppi:

«Stanno lavorando all’indagine due istituti universitari di criminologia e vittimologia».

Permangono però dei dubbi riguardanti il processo investigativo. Perplessità che derivano non tanto dalle dichiarazioni del cardinale quanto da ciò che non è stato detto. Si tratta ad esempio degli istituti impegnati nell’indagine di cui non è stato pronunciato il nome, a detta di Zuppi, «per questioni amministrative».

La diffidenza è però soprattutto legata al lasso di tempo su cui gli istituti effettueranno l’inchiesta. Infatti si indagherà sui presunti abusi che sono avvenuti dal 2000 al 2021. Sull’assenza di indagini circa il periodo precedente il Presidente della CEI ha dichiarato:

«Non mi sembra corretto giudicare con criteri di oggi cose di ottant’anni fa».

In conclusione, non è in dubbio il cambio di prospettiva e il passo avanti. Il desiderio resta quello di far luce su vicende che fino ad oggi sono state oscurate, nella speranza che l’indagine si dimostri concreta e si riesca ad anteporre la giustizia a qualsiasi ordine religioso.

Francesco Pullella

 

Israele: sfrattati migliaia di palestinesi da un’area della Cisgiordania al fine di costruire un poligono di tiro

Sembra essersi conclusa una vicenda giudiziaria durata più di 20 anni riguardante una zona della Cisgiordania che fino a pochi giorni fa era abitata da migliaia di palestinesi. Diverse famiglie che vivevano nell’area di Masafer Yatta, infatti, sono state sfrattate dalle autorità israeliane ed in poco tempo hanno visto le loro abitazioni ridursi ad un cumulo di macerie.

I motivi dell’occupazione

«L’importanza vitale di questa zona di tiro deriva dalle sue uniche caratteristiche topografiche, che permettono di sperimentare strategie specifiche sia per piccoli gruppi di soldati sia per un battaglione».

Queste le parole dell’esercito israeliano estrapolate da un documento pubblicato sul Times of Israel, un giornale online tra i più rilevanti della zona.

l’idea di utilizzare Masafer Yatta come zona per esercitazioni militari era stata proposta già agli inizi degli anni 80. I primi problemi però arrivarono nei primi anni 2000, quando, la decisione dell’esercito israeliano di sfrattare circa 700 palestinesi dalla zona ha suscitato non poche polemiche. I residenti riuscirono ad ottenere la sospensione dello sfratto tramite una richiesta alla Corte Suprema.

La stessa Corte Suprema che il 5 Maggio scorso ha dato ragione all’esercito israeliano. Il corpo militare sostiene che i palestinesi che occupano Masafer Yatta siano solo dei nomadi. Non considerando la zona come dimora fissa di questi ultimi i militari israeliani ritengono sia loro diritto costruire un poligono di tiro.

immagine divenuta simbolo dello sfratto dei palestinesi. Fonte: avvenire.it

Il caso giudiziario

Il corpo militare di Israele rivendica il diritto alla costruzione del campo per l’esercitazione forte anche degli accordi di Oslo del 1993. Tali accordi stabiliscono che l’area C della Cisgiordania – all’interno della quale si trova la zona di Masafer Yatta – sia sotto controllo civile e militare del governo israeliano.

Dalla parte dei palestinesi si sono schierate varie associazioni per la difesa dei diritti umani. La più importante, l’ACRI (Association for Civil Rights Israel), sostiene che in realtà questa zona fungeva da dimora fissa per molti palestinesi prima ancora che l’Israele manifestasse l’intenzione di costruire il poligono di tiro. Non solo l’ACRI ma anche l’ONU, dopo che la Corte Suprema ha approvato la richiesta, si è espressa in maniera molto rigida nei confronti dell’operato israeliano:

«La decisione riguarda oltre mille palestinesi, inclusi 500 bambini, nella Cisgiordania occupata e consente lo sfratto dei residenti. Poiché tutte le possibilità legali interne sono state esaurite, la comunità è ora non protetta e a rischio imminente di sfollamento.»

Queste le dichiarazioni del coordinatore umanitario delle Nazioni Unite Lynn Hastings. Ha poi ribadito come «Tali sgomberi, con conseguente sfollamento, potrebbero equivalere ad un trasferimento forzato, che va contro le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed il diritto internazionale».

La costruzione di un poligono di tiro come pretesto

Giustificare un’azione cosi “crudele” con la costruzione di un campo di esercitazione militare, al netto della profonda rivalità che esiste storicamente tra i due popoli, appare riduttivo. Nel 2020 a tal proposito è stato reso noto il resoconto di un incontro tra i vertici israeliani del 1981 in cui veniva suggerita l’idea di sfruttare la zona di Masafer Yatta come campo di addestramento militare al fine di evitare « l’espansione dei residenti arabi di quelle colline».

Questa dichiarazione fa apparire la costruzione del poligono di tiro come nient’altro che un pretesto per allontanare i palestinesi dalle zone della Cisgiordania. Nient’altro dunque che l’ennesimo passo in avanti (o indietro) di una lotta per i territori che va ormai avanti da più di mezzo secolo. Esattamente dagli anni del secondo dopoguerra. A nulla sono serviti i vari interventi da parte degli Stati Uniti o della stessa ONU per cercare di “fare da paciere”.

In un periodo storico in cui i conflitti del passato sembrano ritornare la speranza è che, almeno in questo caso, la diplomazia rieca a risolvere le controversie e non ci sia bisogno di far degenerare la situazione più di quanto non lo sia già.

Francesco Pullella