The Martian: la fisica strampalata di Hollywood

Un’analisi scientifica del film di Ridley Scott, tra buffe imprecisioni e trovate (poco) geniali.

Avere una laurea in fisica ha diverse ripercussioni. La perdita della sanità mentale? Certo, soprattutto quella. Ma anche guardare un film con occhio critico (anzi, ipercritico). Così è stato quando ho avuto la felice idea di guardare “The Martian – Il sopravvissuto”, prodotto e diretto da Ridley Scott.

Siamo su Marte. L’equipaggio della missione Ares 3 della NASA raccoglie campioni da analizzare. Ancora non ho fatto in tempo a trovare la mia sedia al multisala che noto il primo errore: la camminata degli astronauti. Essendo la gravità marziana, infatti, circa un terzo di quella terrestre, gli astronauti avrebbero dovuto procedere per piccoli balzelli.

L’equipaggio ad un certo punto è costretto a partire a causa di una violenta tempesta. Domanda: ci sono tempeste così violente su Marte?  Parecchio improbabile, quasi impossibile. Questo perché la densità dell’atmosfera marziana è circa 1/100 di quella terrestre. Ma vabbè, partono.

L’astronauta Mark Watney (Matt Damon) viene colpito da dei detriti e trafitto da un palo di metallo; creduto morto a causa dei danni elettronici riportati nella tuta, viene lasciato sul pianeta rosso. Ovviamente, da buon americano, si toglie il palo ben inserito nel suo intestino con estrema facilità, per poi chiudersi la ferita con una spillatrice, senza nemmeno imprecare un po’ per il dolore. Se fossi un medico mi indisporrei un po’, ma sono un fisico, dunque glisso su questa parte e vado avanti.

A questo punto il nostro Superman marziano, conscio che nel breve periodo non c’è nessuna possibilità che la NASA possa tornare a riprenderlo, è costretto ad affidarsi al suo ingegno e alle sue conoscenze scientifiche per sopravvivere all’angusto territorio marziano. Da buon botanico (ma anche ingegnere, fisico, chimico, biologo, Iron man e uomo ragno) pianta delle patate, presenti nella base che avevano costruito, nella notoriamente fertile terra marziana, che concima con un po’ di escrementi dei suoi colleghi et voilà, ecco una coltivazione intensiva di patate!

Watney: passione agricoltore.

“Oh cavolo, manca l’acqua”. Così prende l’idrazina, elemento fondamentale nei carburanti liquidi per i razzi, e la unisce all’ossigeno per creare dell’acqua. Il tutto andrebbe fatto in un ambiente completamente isolato. È interessante sottolineare come, se proprio voleva dell’acqua, poteva riscaldare della terra marziana! Infatti, per ogni metro cubo di terra marziana ci sono circa 35 litri di acqua sotto forma di ghiaccio. Ma effettivamente fa meno figo.

Le patate crescono, Watney balla e se la spassa nella sua beata solitudine, trova anche il modo di mettersi in contatto con la Terra. Qui il regista sottolinea come la comunicazione fra i due pianeti sia un po’ problematica, e questo è più che giusto. Infatti, i segnali che trasportano le informazioni, per percorrere il tragitto Terra-Marte possono impiegare dai 6 ai 40 minuti. Finalmente una cosa fisicamente corretta, direte. Si, è vero. Ero contento.

La gioia di Watney sapendo che su Marte non c’era la suocera.

A questo punto Ridley Scott si è accorto che il suo capolavoro stava diventando un film della Disney e inserisce di prepotenza un colpo di scena. A causa di un malfunzionamento, si stacca il portellone che manteneva la base spaziale pressurizzata e con una temperatura umanamente accettabile. Infatti, la temperatura di Marte può andare da un minimo di -140 °C in “inverno” fino ad un massimo di 20 °C in “estate”. Ora, ammesso che fosse estate, comunque il nostro astronauta sfortunato si ritrovava a dover risolvere il problema della forte differenza di pressione (pari circa ad una atmosfera) tra il dentro e il fuori della base spaziale. E lui ci riesce! Come? Con un telo di plastica e un po’ di scotch. È una cosa possibile? Manco per scherzo. Con una tale differenza di pressione nemmeno la colla di Giovanni Mucciaccia poteva tenere il telo ancorato alla base.

“Cos’altro potrebbe andare storto?” e si stacca il portellone.

Ah, nel frattempo si vede un bellissimo tramonto così simile a quello terrestre. Anzi, aspetta, troppo simile: il tramonto sulla Terra è rosso perché i raggi solari vengono deviati in un certo modo dalle particelle presenti nell’atmosfera, ma avendo l’atmosfera marziana densità e composizione molto differenti da quella terrestre il tramonto sarebbe dovuto apparire di colore blu-indaco.

I compagni di avventura del buon Watney vengono poi informati del fatto che lo hanno lasciato solo a marcire su Marte. Dato che si sentivano più in colpa di me quando mangio la pizza al primo giorno di dieta, allora decidono di tornare a prenderlo. Atterrare sulla Terra e ripartire costerebbe troppo e gli farebbe perdere troppo tempo, così sfruttano l’effetto fionda per prendere velocità e tornare su Marte. Questa manovra è corretta e spesso usata nei viaggi spaziali per far prendere velocità alle navicelle: in poche parole, ci si avvicina abbastanza al pianeta per essere attirati dal suo campo gravitazionale, ma non troppo da caderci dentro e schiantarsi al suolo. In questo modo, come suggerisce il nome, si viene catapultati a velocità maggiore, proprio come funzionerebbe con una fionda. Nel frattempo gli astronauti, per alcune riparazioni, si avventurano in passeggiate spaziali senza nessun tipo di imbracatura o sostegno. Tanto, se sbagli di un millimetro puoi solo fluttuare per l’eternità nello spazio, che sarà mai.

Watney è estasiato (e giustamente direi, dopo tutti quei mesi a mangiare patate). Per poter effettivamente ricongiungersi al resto dell’equipaggio, Watney necessitava, ovviamente, di una navicella: fortuna che su Marte c’era già quella destinata alla missione successiva ad Ares 3, che riesce a raggiungere grazie ad un Rover marziano vicino alla sua base. Dalla NASA, però, gli dicono che deve alleggerirlo parecchio per far sì che parta. Bene, praticamente lo smonta tutto, e la parte finale del razzo, smontata anche quella, la copre con un telo di plastica attaccato con dello scotch (si, lo so, la fantasia non è il suo forte).

Rover marziano.

Gli altri astronauti nel frattempo arrivano in soccorso e Watney parte. Piccola parentesi: sapete cosa sono quelle stelle cadenti che vedete la notte di San Lorenzo? Sono piccoli detriti che entrano nell’atmosfera terrestre e, viaggiando ad alta velocità a causa dell’attrazione gravitazionale, prendono fuoco a causa dell’attrito con l’aria. Ora, va bene che l’atmosfera marziana è molto più rarefatta di quella terrestre, ma può un telo di plastica sopportare la velocità e il calore prodotto dall’attrito dovuto dal contatto telo-atmosfera? No. Lo scotch non avrebbe retto e il telo avrebbe preso fuoco.

Il signor Scott ha voluto inserire un ultimo colpo di scena. I fisici della NASA hanno sbagliato i calcoli di 200 metri. Possono sembrare pochi, ma a quelle velocità, anche solo qualche metro può risultare decisivo. Watney non sa come raggiungere i suoi compagni. Allora gli viene l’idea: “Buchiamo la tuta, in modo da sfruttare il getto d’aria come propulsore”. Dopo essermi ripreso dallo shock, con la mia ragazza che mi assicurava che presto sarebbe finito tutto, ho analizzato la situazione. Le tute spaziali sono pressurizzate e isolanti. Se fai un buco nella tuta, oltre a morire subito di freddo, a causa della fortissima differenza di pressione i polmoni collasserebbero. Quindi, in effetti, non gli rimane che scegliere come morire.

Inoltre, ci sono due piccole e insignificanti leggi della fisica che cozzano con questa genialata: i principi di conservazione della quantità di moto e del momento angolare. Infatti, una volta bucata la tuta, Watney doveva calcolare l’angolo di uscita del getto con elevatissima precisione, perché una volta stabilita la direzione del getto d’aria (e quindi una certa direzione del moto in un sistema isolato, come lo spazio) non la si può più cambiare in virtù del fatto che la quantità di moto si conserva. La stessa cosa vale per la conservazione del momento angolare: sempre se non fosse morto subito, una volta bucata la tuta molto probabilmente avrebbe cominciato a girare intorno ad un asse del tutto casuale. Anche se avesse raggiunto il comandante della missione, che nel frattempo si era fiondata a prenderlo, avrebbero cominciato a girare insieme senza riuscire a fermarsi, come nel tagadà della fiera. Tutto ciò perché lo spazio è vuoto e non si ha l’attrito.

Alla fine il nostro eroe, dopo mille peripezie, torna sano e salvo a casa ad insegnare come sopravvivere mangiando patate su Marte.

Nonostante i continui mancamenti durante la visione del film, devo dire che tutto sommato mi è piaciuto. Pieno di errori, certo, ma da un film di Hollywood non pretendo l’accuratezza scientifica dei documentari di Alberto Angela. Quindi gustatevelo, ma con occhio critico… da fisico.

 

Giovanni Gallo

Giulia Accetta

L’astronauta J. N. Williams, in esclusiva per UniversoMe

©Giulia Greco – Jeffrey N. Williams – Unime, 31 Ottobre 2019 

Lo scorso 31 Ottobre, presso l’Aula Magna del rettorato, si è svolta la Cerimonia di Conferimento del Dottorato honoris causa in Fisica al Colonnello Jeffrey N. Williams, uno degli astronauti più importanti della NASA. L’astronauta ha partecipato a diverse missioni spaziali, trascorrendo in totale ben 534 giorni nello spazio, durante i quali ha compiuto cinque spacewalks per un totale di circa 32 ore. Il Colonnello ha lavorato allo sviluppo dei programmi della Stazione Spaziale Internazionale, contribuendo inoltre all’upgrade della cabina di pilotaggio dello Space Shuttle.

Noi di UniVersoMe siamo riusciti a porgli qualche domanda.

Cosa significa per lei ricevere il Dottorato honoris causa in Fisica presso la nostra Università?

Beh, è senz’altro un onore per me ricevere questo Dottorato proprio in questo Ateneo, che è uno dei nostri partner con cui collaboriamo.

Lei è stato fino al 2017 l’astronauta americano che ha trascorso più tempo nello spazio. Qual è il momento più bello che ha vissuto nello spazio, e quale quello peggiore?

Non credo di aver avuto un momento peggiore, ho avuto però tanti momenti bellissimi. Ho avuto la fortuna e l’onore di poter contribuire all’assemblaggio della Stazione Spaziale Internazionale e di vederla realizzata. E’ un incredibile risultato di collaborazione internazionale ed un punto di riferimento per la ricerca spaziale. Il primo modulo è stato assemblato nel 1998 e continuerà ad orbitare attorno alla Terra per tanti altri anni.

©Giulia Greco – Jeffrey N. Williams – Unime, 31 Ottobre 2019 

Il tempo che ha passato nello spazio l’ha cambiata? O comunque, ha influenzato qualche sua convinzione?

Certamente ha ampliato la mia visione della vita. Vedo il mondo in maniera diversa, le persone in modo diverso. Quando si cresce nella propria comunità si ha una visione limitata delle cose, e certamente un’esperienza del genere ti cambia. Per questo voglio condividere con tutti ciò che ho vissuto, come con voi oggi.

Nel suo libro “The work of his hand” afferma che lo spazio mostra la prodigiosa creazione di Dio. Crede che vi sia un conflitto tra fede e scienza? Come la fede può stare al passo con la continua rivoluzione scientifica? 

Non credo ci sia un conflitto tra scienza e fede, specialmente tra la scienza e la Bibbia. Dipende dall’approccio che abbiamo: se credi in Dio, e credi che si manifesti attraverso la natura e puoi studiare la natura attraverso la scienza ed attraverso la Sua parola, che riconosce la scienza, allora non c’è conflitto; se invece fai scienza partendo dal presupposto che non esiste un Dio, quindi devi spiegare l’esistenza di tutto senza una fede, devi affidarti al caso, ed è qui che nasce il conflitto.

©Giulia Greco – Jeffrey N. Williams – Unime, 31 Ottobre 2019 

Se potesse incontrare il Jeffrey N. Williams appena ventenne, quali consigli vorrebbe dargli? 

Gli consiglierei di continuare a lavorare duro, ad essere una persona di carattere, di studiare, di sviluppare e seguire i propri interessi e le proprie passioni così da essere pronti alle occasioni che si apriranno.

Oggi, specialmente in Italia, è difficile per i giovani scienziati essere valorizzati, portare avanti le proprie ricerche e pensare in grande. Cosa consiglia a tutti a tutti loro?

A volte pensiamo che aspirare a qualcosa di grande sia al di là delle nostre potenzialità. Ma il progresso, soprattutto nell’ambito scientifico, si è compiuto a piccoli passi. Quindi direi loro di cogliere le opportunità e responsabilità che gli sono offerte e non pensare subito e solo al grande obbiettivo che si ha. Così ti ritroverai ad un certo punto a guardarti indietro, e vedrai quanta strada e quanto contributo sei riuscito a dare senza accorgertene.

 

Antonio Nuccio