Shakespeare era davvero messinese? Molto rumore… per nulla

William Shakespeare

Dietro le absidi del Duomo, in largo San Giacomo, una epigrafe riporta alcuni versi di una commedia di uno dei più importanti drammaturghi della letteratura inglese e internazionale: William Shakespeare. La commedia, “Molto rumore per nulla”, ha una trama intricata piena di colpi di scena e il tema amoroso la rende forse una delle più fortunate del suo genere; ma soprattutto, ha la caratteristica di essere ambientata proprio a Messina. 

Fino a qui, si dirà, nulla di strano; del resto, sono parecchie le opere del drammaturgo inglese ambientate in Italia. Un particolare, questo, che nel corso degli anni ha stuzzicato la curiosità di parecchi studiosi: alcuni dei quali, pronti a sostenere che il grande drammaturgo non fosse originario del paesino inglese di Stratford upon Avon, come vogliono le biografie più accreditate, ma addirittura italiano. E, fra le tante città “candidate” per aver dato i natali a cotanto poeta e letterato, udite udite, c’è anche Messina.

Shakespeare era messinese, sostiene qualcuno; e la notizia ghiotta non è certo passata inosservata all’opinione pubblica, tanto che diversi anni fa il Comune di Messina arrivò persino a nominare Shakespeare “cittadino onorario”. Ma sarà vero? Su cosa si basano queste teorie?

Andiamo con ordine. Come già detto, le teorie sulle origini messinesi del Bardo si inseriscono nel solco dell’acceso dibattito sulla paternità delle opere di Shakespeare. In sintesi, secondo alcuni ricercatori William Shakespeare, attore e drammaturgo proveniente da una famiglia di artigiani non particolarmente abbienti, dal piccolo paese di Stratford upon Avon, per come ci viene descritto dalle biografie tradizionali, non avrebbe mai potuto avere la cultura sufficiente della quale fa mostra nelle opere che gli sono attribuite. Da qui, tutta una serie di ipotesi sulla sua reale identità: chi dice che il cognome Shake-speare, “Scuoti-lancia”, fosse uno pseudonimo; chi ancora che si trattasse di un prestanome. E, a questo proposito, esiste una sconfinata letteratura che propone un altrettanto sconfinato elenco di personaggi che potrebbero avere scritto le opere a lui attribuite: e fra questi, troviamo anche il nome di un italiano, Giovanni Florio, e del padre di lui, Michelangelo Florio.

Tale Giovanni Florio, o John Florio, fu un importante intellettuale e traduttore di origini italiane, contemporaneo di Shakespeare, e autore di numerose traduzioni in inglese di opere letterarie e filosofiche. Suo padre, Michelangelo, era un esule fiorentino di religione calvinista, costretto a vagare per molti anni in giro per l’Italia e infine a rifugiarsi in Inghilterra, per via delle persecuzioni religiose. Il primo a sollevare l’ipotesi Florio come reale identità di William Shakespeare fu il giornalista Santi Paladino, che nel 1927 in un articolo sull’argomento sostenne che dietro lo pseudonimo di William Shakespeare si celasse Michelangelo Florio. Questi sarebbe stato autore delle opere teatrali durante il suo soggiorno in Inghilterra, e si sarebbe ispirato, per “Molto rumore per nulla”, a una commedia omonima in dialetto siciliano, “Tantu trafficu pi’ nenti”, che Florio avrebbe conosciuto a Messina e il cui testo sarebbe andato perduto. I limiti di questa teoria furono subito evidenti: oltre a non esserci, alla prova dei fatti, nessuna evidenza dirimente a supporto di questa speculazione e neanche dell’esistenza stessa di questa opera, Michelangelo Florio sarebbe nato nel 1515 e le tracce della sua esistenza si perdono intorno al 1565, mentre la nascita di Shakespeare è datata al 1564. Lo stesso Paladino, qualche anno dopo, corresse il tiro e Shakespeare, nella sua nuova ipotesi, divenne non più uno pseudonimo ma un prestanome, attore di Stratford, che avrebbe curato la pubblicazione delle opere di Michelangelo Florio con l’aiuto del figlio Giovanni. 

Qualche decennio dopo, negli anni ’50, l’ipotesi Florio viene ripresa da uno scrittore lombardo, Carlo Villa; Villa riprende la prima tesi di Paladino, quella dello pseudonimo, e aggiunge un dettaglio: Michelangelo Florio avrebbe assunto lo pseudonimo di William Shakespeare traducendo il cognome della madre, Giuditta Crollalanza. Anche stavolta, però, non viene citato nessun documento attendibile a favore di questa tesi.

La teoria delle origini messinesi si innesta su questa stessa falsariga. Proviene dalla penna di Martino Juvara, professore di italiano ispicese in pensione, che nel 2002 diede alle stampe un suo saggio sulle origini siciliane di Shakespeare. La versione di Juvara appare sostanzialmente come un mix vagamente confusionario delle tesi precedenti. Il nome Shakespeare sarebbe lo pseudonimo di Michelangelo Florio; non però il Michelangelo Florio nato a Firenze e padre di John Florio, ma un suo omonimo nato a Messina nel 1564, di origini palermitane, figlio di Giovanni Florio e Guglielmina Crollalanza.

Tale Michelangelo Florio, come il suo omonimo fiorentino, avrebbe dovuto affrontare numerose peregrinazioni perché ricercato dalla Santa Inquisizione per via di idee eretiche; finisce col rifugiarsi in Inghilterra, presso un cugino inglese della madre (Shakespeare), che gli assegna il nome del figlio scomparso prematuramente, cioè, appunto, “William Shakespeare”. Grandi assenti, ancora una volta, le prove documentarie; a supporto della tesi, solo una serie di suggestioni e coincidenze assortite.

Insomma, alla fine dei conti, quella di Shakespeare messinese si rivela essere poco più che una ipotesi romanzesca, una speculazione; o, per dirla con le sue stesse parole, molto rumore… per nulla. 

Gianpaolo Basile

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Messina borghese e opulenta: lusso e Art Nouveau a Villa de Pasquale

Del terremoto del 1908 ci troviamo spesso a parlare, nella nostra rubrica, come di un evento che fu per la storia urbana messinese un tragico spartiacque fra la Messina dei secoli passati, con la sua fisionomia urbana e i suoi monumenti oggi in buona parte perduti, e la Messina post terremoto, la città in cui oggi viviamo, con le sue luci e le sue ombre. Dobbiamo però ricordare che il grande Terremoto non fu la fine di tutto e che, nei primi decenni del secolo scorso, la città intera fu animata da una incredibile ondata di tenacia e orgoglio, che si esprimeva nel desiderio di ricostruire Messina più grande e più bella di prima. Allo sforzo delle autorità cittadine si aggiungeva quello dei privati, della ricca borghesia: la fisionomia della città che conosciamo, con le sue vie squadrate ed i suoi grandi palazzi in stile eclettico, spesso non privi di un loro fascino e di un loro valore artistico, è proprio il frutto di questo grande slancio ricostruttivo.

Dietro ognuno dei grandi palazzi del centro storico possiamo immaginarci le centinaia di storie di borghesi, imprenditori, banchieri, aristocratici che facevano a gara fra loro nel fare sfoggio delle proprie ricchezze e del proprio potere, e al contempo a lasciare il proprio segno nella fisionomia della città in rinascita; spesso con il contributo di architetti blasonati, come il grande Gino Coppedè che a Messina lasciò molte opere pregevoli. È a uno di questi membri di quella borghesia rampante e vitale, l’imprenditore Eugenio De Pasquale, che si deve la costruzione di una delle più significative testimonianze di quel periodo storico: la preziosa quanto sconosciuta Villa De Pasquale.

 

È il 1912 quando Eugenio De Pasquale, imprenditore agrumario, dà inizio ai lavori per la costruzione di una sontuosa residenza privata. Il luogo designato non è però il centro storico, ma la periferia sud della città, quella che all’epoca ne costituiva la zona industriale: a pochi passi dai grandi agrumeti e dalle sue fabbriche, in cui si trasformavano gli agrumi e i fiori di gelsomino in essenze da usare in profumeria, che venivano rivendute in tutta Italia e nel mondo. È lì che la villa si trova ancora: a pochi passi dal torrente Larderia, in zona Contesse, lungo la antica via Consolare Valeria (oggi denominata in quel tratto via Marco Polo), a meno di un chilometro dall’odierno Policlinico Universitario.

 

La grande villa, restaurata e riaperta al pubblico in tempi relativamente recenti (circa un anno fa) dopo anni di decadenza e abbandono, consta di un ampio parco e di un palazzo in stile neorinascimentale, dalle linee architettoniche sobrie ed eleganti. Dietro il caratteristico cancello a forma di ragnatela, un lungo vialetto porta alla residenza padronale, in cima a una scenografica scalinata. L’atmosfera di serena compostezza dettata dalle linee essenziali della costruzione è la stessa che si respira negli interni ampi e luminosi, che conservano ancora il mobilio d’epoca.

Lontano dalle bizzarrie e dalle stravaganze di molto liberty contemporaneo, qui tutto sembra limpido e razionale, a richiamare gli ideali di bellezza neoclassica e rinascimentale che evidentemente dovevano rientrare nei gusti della ricca committenza; statue, mobili, decorazioni, fregi e dipinti, copie fedeli dalle opere dei grandi maestri del Rinascimento e del Manierismo italiano.

 

Poi il pezzo forte, al piano superiore, con la grande galleria resa trionfo di luce dalle ampie finestre che danno sull’esterno. Sul soffitto dello spazioso salone dipinto in verde, le grandi tavole di Salvatore De Pasquale riproducono capolavori di Tiziano Vecellio e Rubens; in lontananza, fuori, si stende l’abitato di Contesse e, sullo sfondo, la Calabria. Possiamo a stento immaginare quanto suggestivo potesse essere stato questo luogo, quando, nei primi decenni del secolo scorso, le case e i palazzi residenziali erano molto di meno, la campagna molta di più, da queste finestre, Eugenio De Pasquale e i suoi familiari potevano affacciarsi e vedere, in lontananza, la spiaggia e le acque dello Stretto.

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Museo di Messina: l’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli Italiani

Il sabato scorso, dopo mesi e mesi di attesa trepidante, ho finalmente potuto varcare la soglia della sede definitiva del Museo Regionale di Messina, che dalle 20:30 alle 22:30 apriva i suoi battenti gratuitamente al pubblico: la prima apertura completa della struttura museale, a distanza di oltre cento anni dalla sua nascita. Insieme a me una folla notevole (lascio ai contabili del giorno dopo la stima dei numeri, per me erano e resteranno sempre “chio’ssai d’i cani i Brasi”, come si dice a Messina) composta da gente di ogni età, ceto e condizione sociale accorsa da tutta Messina e anche da fuori, anche a seguito della notevole campagna pubblicitaria che questa volta ha coinvolto anche le reti televisive nazionali.

Nel mio personale sentire, il Museo Regionale di Messina, fin dalle prime volte in cui lo visitai da piccolo, è sempre stato un luogo speciale, quasi sacro. Uno scrigno della memoria, come ebbi modo di scrivere in un articolo in occasione della apertura parziale di Dicembre. Un grande tempio laico dedicato a Messina. Mi piace pensare che nessun altro museo al mondo possa vantare una storia simile, anche se forse non è così. La sua storia si intreccia indissolubilmente con quella del Terremoto del 1908: prima era poco più che una pinacoteca comunale sorta dal confluire di collezioni private.

Poi accadde il disastro, e secoli interi della storia e del patrimonio artistico di Messina furono cancellati dalla faccia della Terra. Il moderno Museo Regionale nasce da quelle macerie, dal lavoro paziente di tanti messinesi che si misero a frugare in quelle rovine, a tirarvi fuori tutto ciò che potesse avere un qualche valore storico e artistico, ed ad ammucchiarlo, accatastarlo nella antica sede del convento del SS. Salvatore dei Greci, dove si trovava la filanda Barbera-Mellinghoff, che per tanti anni ne è stata la sede provvisoria. Il loro sogno era che un giorno tutto potesse tornare a vivere, che la antica Messina dei secoli d’oro, la Messina che il terremoto aveva sfregiata, distrutta, annichilita, potesse in parte tornare a esistere. Melior de cinere surgo: come l’araba fenice, anche Messina con la sua storia e la sua cultura sarebbe un giorno risorta dalle sue ceneri.

Ci sono voluti oltre cento anni affinché questo sogno divenisse realtà. Oggi, finalmente, Messina ha il suo Museo Regionale. Un percorso espositivo unico, fra i più estesi del Meridione, in grado di raccontarci secoli di storia: dalla Zancle greca al Medioevo arabo-normanno, dal Quattrocento della Scuola fiamminga e di Antonello fino al Rinascimento, Montorsoli, Calamech, Polidoro Caldara, Alibrandi, allievi di Michelangelo e Raffaello. E poi il seicento, Caravaggio e i caravaggeschi, gli splendori del barocco, gli argenti e i marmi a mischio del Settecento, la lenta decadenza dell’Ottocento. Un viaggio nella storia di Messina dalle origini ai giorni nostri attraverso i suoi capolavori più belli e preziosi. 

Insomma, l’Italia è stata fatta (e finalmente, aggiungerei). Adesso, però, si devono fare gli Italiani. L’apertura completa del Museo Regionale è senza dubbio un traguardo: ma deve essere il primo di una lunga serie. Un Museo così grande e importante come quello che ha appena aperto le sue porte rappresenta una risorsa invalutabile per quello che è e che sarà il turismo culturale nella Città dello Stretto e nei suoi dintorni. Non può né deve permettersi di restare confinato al margine della sua vita sociale; deve, al contrario, rivendicare orgogliosamente il ruolo e la posizione di fulcro, di guida e di punto focale per la rinascita culturale della città. 

Questa nuova apertura pone dunque alla direzione grandi responsabilità, apre nuovi orizzonti e offre nuove sfide. Una ad esempio potrebbe essere quella di porre il Museo, da sempre in una posizione periferica rispetto al centro storico, nel posto che si merita all’interno dei già ridotti circuiti turistici della città. La stagione estiva è alle porte, visitatori e croceristi cominciano timidamente ad affollare le vie del centro; se già adesso è difficile che si spingano oltre il “triangolo magico” incluso fra Piazza Duomo, l’Annunziata dei Catalani e Palazzo Zanca, e forse del Museo Regionale ignorano persino l’esistenza, chi li porterà fino al Torrente Annunziata per vederlo?

Insomma, il lavoro è appena cominciato e servirà un rinnovato impegno, e la formazione di nuove sinergie con il Comune e con gli enti pubblici, affinché il nuovo Museo possa sviluppare in pieno le sue potenzialità benefiche per l’intera città di Messina. A noi visitatori resta la speranza che la recente apertura completa si riveli non un comodo letto di allori su cui sdraiarsi a riposare, ma la prima tappa di un lungo percorso di rinascita: un percorso che abbia come obiettivo finale la riscoperta, agli occhi dei messinesi e del mondo intero, di Messina e della sua bellezza. 

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Palazzo Calapaj d’Alcontres: come viveva un nobile del 700?

Nel cuore del centro storico di Messina, appena alle spalle del Duomo, esattamente in Strada San Giacomo, sorge il Palazzo Calapaj-D’Alcontres: unico edificio della classe aristocratica sopravvissuto al terremoto del 1908.

Nella sua complessità, il palazzo a tre ordini, si presenta importante, massiccio, imponente: indicativo di chi lo abitava all’epoca della sua costruzione, sul finire del XVIII secolo; l’edificio infatti era stato pensato come residenza cittadina dei membri di una delle più antiche e influenti famiglie nobili cittadine, quella dei principi d’Alcontres.

Di nobiltà antichissima e origini che si perdono nel tempo, fino all’epoca normanna, il titolo di principi d’Alcontres nei Bruzi, assieme a quello di marchesi di Roccalumera e di conti di Quintana, originariamente appartenente alla famiglia La Rocca, era stato trasmesso alla casata messinese degli Stagno, a seguito di un matrimonio. La data di costruzione del palazzo è ignota, ma si ipotizza che sia stato costruito nella seconda metà del XVIII sec., intorno al 1770, e che sia appartenuto ai membri del ramo apparentato con la altrettanto nobile famiglia dei Calapaj. Senza perderci nei meandri delle genealogie, a noi basta sapere che chi risiedeva in questo palazzo apparteneva senz’altro a una delle più potenti e influenti famiglie di Messina, come testimonia la posizione privilegiata nel contesto urbano, a due passi dal Duomo, nel cuore pulsante della città.

Dei fasti e delle ricchezze di questa nobile famiglia, ma anche della loro quotidianità e della loro vita di tutti i giorni, il palazzo ci offre un interessante spaccato. Di architetto anonimo, il nostro palazzo, su due piani escluso il seminterrato, presenta il suo ingresso con un cancello in ferro battuto che, una volta varcato, dà libero accesso al cortile interno. Questo, in somma alle scalinate, dà la sensazione di una piazza privata; a sostegno della quale troviamo anche gli alloggi per le carrozze ed i cavalli e le dimore per la servitù, elementi presenti data la destinazione sociale del palazzo.

All’esterno, ammiriamo invece motivi ottocenteschi quali festoni e acroteri sopra le finestre, cantonali agli angoli, cornicione poco aggettante che, in connubio al rettilineo leggermente incurvato, rappresentano elementi decorativi di rilievo.

Data la sua importanza storica e documentaria, il palazzo non è stato lasciato all’abbandono; oggi è abitato da privati. Posto in uno dei luoghi più suggestivi del centro storico, quasi sospeso fra il Duomo e l’Annunziata dei Catalani, il palazzo Calapaj d’Alcontres permette ancora a chi ne ammira l’elegante profilo di calarsi, con l’immaginazione, nei panni di un aristocratico del ‘700. 

Erika Santoddì

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Le notti di un sognatore

Era una notte meravigliosa, una notte come forse ce ne possono essere soltanto quando siamo giovani, amabile lettore. Il cielo era così pieno di stelle, così luminoso che, gettandovi uno sguardo, senza volerlo si era costretti a domandare a se stessi: è mai possibile che sotto un cielo simile possa vivere ogni sorta di gente collerica e capricciosa? Anche questa è una domanda da giovani, amabile lettore, molto da giovani, ma voglia il Signore mandarvela il più sovente possibile nell’anima! … Parlando d’ogni sorta di signori capricciosi e collerici, non ho potuto fare a meno di rammentare anche la mia saggia condotta in tutta quella giornata”.

Le notti bianche è tra le opere più apprezzate di Dostoevskij, insieme a Delitto e castigo. Sin dalle prime pagine, si comprende il perché quest’opera è tanto amata, in quanto ogni uomo riesce a identificarsi con la figura del protagonista. Un sognatore, isolato dalla società e della realtà, durante una delle sue solite passeggiate notturne incontra una donna di nome Nasten’ka. Sarà lei a risvegliare in lui il sentimento dell’amore attraverso il suo sguardo complice, le sue parole e le lunghe chiacchierate anche se sfuggenti.

Io sono un sognatore; ho vissuto così poco la vita reale che attimi come questi non posso non ripeterli nei sogni.”

La storia si svolge in 4 notti e un mattino, i protagonisti sono solo due : lui timido ed impacciato riesce ad aprirsi a Nasten’ka mentre, quest’ultima, si sfoga sulla sua vita privata, il suo rapporto con la nonna cieca, l’amore perduto e la sua delusione. Entrambi i protagonisti sono soli, rassegnati, vivono la loro vita ma sono spenti e i loro tratti psicologici sono delineati alla perfezione come solo Dostoevskij riesce a fare.

Il finale è struggente, inaspettato, demolisce un sogno che si configurava all’orizzonte: è lo specchio perfetto di quell’amore che tutti abbiamo provato nella vita. Nato alla fioca luce della piacevolezza del primo sguardo, esploso all’unione delle due anime e poi frantumato sotto i piedi, in quel secondo che non ammette repliche.

Le Notti Bianche è un romanzo dolce, sognante, delicato, che, così come la vita, lascia l’amaro in bocca ma senza cattiveria. Consigliato a tutti i sognatori, a chi non si sente accettato e a disagio nel vivere nella società, a chi si lascia cullare dalla fantasia. A tutti coloro che amano stare al confine tra sogno e realtà.

Serena Votano

Filippo Juvarra: da Messina a Roma e Torino, l’architetto delle capitali

Filippo Juvarra

Nella Messina del lontano 1588, su disegni di Andrea Calamech, fu edificata la Chiesa di San Gregorio, oggi inesistente a causa del terremoto del 1908 che mise in ginocchio l’intera città. Il suo completamento, nel 1703, vide impegnati numerosi professionisti, e non, tra cui il giovane Filippo Juvarra, architetto siciliano. 

Il “nostro” architetto nasce proprio a Messina nel 1678 da una famiglia di artigiani argentieri e sin dalla giovinezza si trova a lavorare con il disegno e l’arte orafa; si possono a lui ricondurre, infatti, alcuni dei candelieri del Duomo di Messina e forse collaborò, assieme al padre e al fratello maggiore, alla realizzazione del meraviglioso paliotto d’argento oggi inglobato nell’altare maggiore. Parallelamente alla sua attività manifatturiera, Juvarra condurrà studi teologici che lo porteranno a pronunciare i voti sacerdotali nel 1703. Data la vocazione per l’architettura, si trasferì a Roma per perfezionare gli studi ma si ritrovò comunque autodidatta e volenteroso di imparare così da riuscire a mettersi in contatto con l’architetto Carlo Fontana che, rimasto entusiasta delle capacità del giovane, riuscì a farlo distogliere dal mito di Michelangelo per farlo approdare al metodo da lui proposto.

Il paliotto d’argento datato 1701, opera della famiglia Juvarra, custodito nell’altare maggiore del Duomo di Messina.

Grazie al trampolino di lancio offertogli dal Fontana, Juvarra debutta, nel 1705, a Roma vincendo il “concorso clementino” con la presentazione di un “palazzo in villa per il diporto di tre illustri personaggi”. Successivamente alla vittoria si ristabilì nella sua città natale, dove ebbe l’onore di occuparsi della ristrutturazione del Palazzo Spadafora e della sistemazione del coretto della chiesa di San Gregorio. Qualche mese dopo, grazie alla proficua attività svolta a Napoli, riuscì ad ottenere la nomina di accademico di merito all’Accademia di San Luca; a testimonianza dell’onore per questa nomina, Juvarra fece dono all’Accademia di un suo progetto, utilizzato poi come soluzione per la Basilica di Superga.

Poco dopo, sul piano accademico, si  ritrovò a ricoprire il ruolo di professore unico di architettura al San Luca; mentre sul piano professionale, si limitò a collaborazioni con i Fontana, ricevendo la commissione per la cappella di famiglia dell’avvocato Antamoro nella chiesa di San Girolamo della carità.

Basilica di Superga

Tuttavia, Juvarra iniziò ad ambire a impieghi di corte: inizialmente per quella di Federico IV di Danimarca; successivamente per Luigi XIV per poi essere chiamato presso la corte Ottoboni come scenografo. Qui troverà un’ambiente stimolante che ne influenzò l’iscrizione all’Accademia dell’Arcadia, con il nome pastorale di Bramanzio Feeseo, dove poté insegnare il proprio mestiere ad un giovane Luigi Vanvitelli.

Con la morte del maestro Fontana,  Juvarra spezza il legame con Ottoboni per tornare a Messina dove incontrerà Vittorio Amedeo II di Savoia, al quale presentò il progetto del palazzo reale di Messina, che lo porterà alla volta di Torino per l’elezione della Basilica intitolata alla Vergine sul colle di Superga, universalmente considerata uno dei suoi capolavori. La sua attività architettonica fu impegnata principalmente nell’ampliamento della città sabauda e nella realizzazione della facciata e dello scalone di Palazzo Madama, ma anche nel completamento della Reggia di Venaria e della Reggia di San Uberto.

Palazzina di caccia di Stupinigi

A questo punto della sua vita, Juvarra si trasferì in Portogallo per la realizzazione di alcune opere architettoniche che

però non avranno buon esito; decise quindi di spostarsi a Londra, poi nei Paesi Bassi e a Parigi per poi ritornare in Italia muovendosi tra Roma e Torino dove costruirà la sua casa studio e, accanto ad altri progetti, porterà avanti la realizzazione ex novo della palazzina di Stupinigi, villa di caccia.

Nella capitale sabauda, divenuta, grazie a lui,  un polo di architettura europea, progettò la chiesa del Carmine; la sua abilità conquistò  Filippo V Re di Spagna che gli commissionò il completamento del Palazzo Reale a  Madrid, dove morì il 31 gennaio del 1736.

Erika Santoddì

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  1. Di Agostino Masucci – [1], Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=29317803
  2. Di I, Sailko, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=7420752
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  4. Di Ziosteo1982, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20529372

L’Immacolata di marmo e la antica festa della Vara: storie da una Messina scomparsa

Per chi conosce e vive la città di Messina, la zona del Duomo e dei suoi dintorni ha qualcosa di magico; è lì che si concentrano molte delle bellezze artistiche della città intera. Proprio alle spalle del grande Campanile, chiusa a nord dalla facciata del novecentesco Palazzo dello Zodiaco, capolavoro liberty del grande architetto Gino Coppedè, e a sud dalla facciata laterale della Cattedrale, si apre una piccola piazza alberata; al centro di essa si innalza, elegante e solenne, il monumento settecentesco della guglia dell’Immacolata, noto ai più come “Immacolata di Marmo”.

 

Opera del 1758 di Giuseppe Buceti, (membro di una famiglia di artisti messinesi di cui si ricorda anche il padre Ignazio, anch’egli scultore), la guglia dell’Immacolata rappresenta un esempio tanto pregevole quanto raro del barocco settecentesco messinese. Dalla cima di una ampia stele prismatica che si slancia verso l’alto, la bella statua della Madonna riprende la classica iconografia della “mulier amicta sole” secondo i canoni tipici dell’arte settecentesca: i panneggi dei vestiti, vezzosamente gonfiati e scompigliati dal vento, insieme alla posa delle mani, ricordano moltissimo una scultura coeva in legno e argento, custodita nella chiesa di San Francesco all’Immacolata, sul torrente Boccetta, poco lontano. Sotto la statua, che si appoggia su un globo terracqueo, quattro putti forse un po’ troppo paffuti, in pose differenti, decorano i quattro angoli del basamento.

Per comprendere la storia di questo importante monumento bisogna fare un salto indietro nel tempo alla scoperta di una delle più antiche ed importanti tradizioni religiose della città di Messina: la festa della Vara. Secondo una tradizione antichissima, che affonda le sue radici alla seconda metà del ‘500 (quando per la prima volta ne accennò, nel suo Sicanicarum Rerum Compendium, Francesco Maurolico) e che ogni anno continua a rinnovarsi, una enorme macchina votiva alta oltre 14 metri, detto appunto “la Vara”, viene trainata tramite un complesso sistema di corde che anticamente era gestito da marinai, in giro per la città, il 15 d’Agosto, giorno della festa dell’Assunta.

 La spettacolare struttura, organizzata su più piani, mette in scena una sorta di sacra rappresentazione mobile dell’assunzione di Maria: in basso, alla base del cippo, è posizionata una teca rappresentante la

 

dormitio Virginis (cioè la morte di Maria), mentre via via salendo, in un trionfo di nuvole e angioletti, si arriva al culmine, ove è rappresentata l’assunzione in cielo di Maria, con due figure che rappresentano la Madonna e Gesù Cristo. Oggi la Vara che si usa nella processione del 15 agosto è notevolmente ridotta rispetto ai secoli passati, ma anticamente le sue dimensioni erano parecchio maggiori, e, soprattutto, al posto delle statue in cartapesta, sopra la Vara si trovavano dei figuranti umani, in genere bambini figli di carcerati o orfani, e il ruolo della Madonna era interpretato da una fanciulla vergine.

Si può dunque facilmente immaginare quanto fossero esposti a incidenti i bambini che prendevano parte a questo spettacolo: e difatti le cronache passate ne riportano diversi. Fu proprio uno di questi a fornire il pretesto per la costruzione della Guglia dell’Immacolata: nel 1738, infatti, alcuni bambini caddero dalla Vara, restando fortunatamente illesi. La città gridò subito al miracolo, e proprio per rendere grazie alla Madonna fu fatta erigere dal Senato questa scultura, che fu inaugurata diversi anni dopo, nel 1757. Originariamente si trovava in piazza Pentidattilo, poi rinominata in Piazza Concezione, dinanzi alla chiesa gesuita di San Nicolò dei Gentiluomini, opera di Andrea Calamech, oggi interamente perduta; a seguito del terremoto del 1908 fu spostata nella piazza davanti allentrata nord del Duomo, che oggi prende appunto il nome di “Piazza Immacolata di Marmo”.

Gianpaolo Basile

Ph: Federica Cristiano

Piazza dell’arte – Un venerdì di musica e successo

Musica, laboratori e tanta gente: la scalinata del rettorato si è accesa in un meraviglioso clima di festa e spettacolo

Per la V edizione della “Piazza dell’Arte Universitaria”, l’Associazione Morgana, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Messina, del Comune e con la collaborazione dell’Associazione Terranostra e della Consulta Provinciale degli Studenti, ha allestito una manifestazione acclamata da studenti e cittadini.

Sin dal pomeriggio, la scalinata del rettorato si è popolata di gente curiosa e/o partecipe alle iniziative; in serata, la gradinata finalmente brulicava di spettatori, soddisfatti di un evento che ha smorzato la noia di un qualsiasi venerdì messinese.

Da non dimenticare, il gradito rinfresco, la “socialissima” area adibita per foto e selfie, che hanno contribuito a contrassegnare la serata.

Si continuerà a parlare del successo della Piazza dell’Arte e si spera – ovviamente – in una prossima edizione.

Jessica Cardullo

Dove terra e mare si congiungono: Il Santuario della Madonna di Dinnammare

Messina sarà sicuramente piena di bei posti dai quali ammirare i paesaggi che la terra e il mare ci offrono, ma quale posto migliore del monte Dinnammare per ammirare la bellezza degli abissi?

Sembra, infatti, che il nome “Dinnammare” derivi dal termine latino “bimaris”, poiché dalla sua vetta è possibile avere visuale del mar Jonio e del mar Tirreno, ammirare la città di Messina in tutta la sua grandezza e lo Stretto nella sua maestosità.

Facente parte della catena montuosa dei Peloritani e alto 1127 m, il monte ospita sul suo imponente cucuzzolo il Santuario della Madonna di Dinnammare. La sua edificazione in loco è spiegata da due leggende.

La prima narra di un pastore, che trovandosi un giorno sulla montagna, inciampò su una tavoletta di marmo con su impressa l’immagine della Vergine Maria. Tornato a casa con la tavoletta, la mattina seguente, non la trovò più; iniziò a cercarla, e infine la ritrovò nello stesso posto in cui il giorno prima ebbe la fortuna di imbattersi. Il parroco di Larderia, paese di origine del pastore, una volta venuto a conoscenza del fatto, volle che questa miracolosa lastra di marmo fosse conservata nella chiesa del paese. Così fu fatto; ma anche da lì la tavoletta scomparve per essere ritrovata sul monte, nel medesimo luogo. A quel punto la decisione da prendere fu semplice: tutti furono d’accordo che la lastra di marmo fosse destinata a quel monte, e che dovesse essere edificata una chiesa per custodire e pregare la Madonna di Dinnammare.

La seconda leggenda riporta, invece, che la sacra Immagine provenisse dal mare, trasportata da due mostri marini, i quali la lasciarono sulla spiaggia di Maregrosso. Alcuni pescatori iniziarono ad adorare l’icona, e nel tempo quel tratto di spiaggia si trasformò in un santuario, tanto era il numero dei fedeli che si riunivano in preghiera. In seguito, su iniziativa degli stessi pescatori, l’immagine della Madonna fu portata sul monte, dove adesso sorge la chiesetta.

Nonostante questo, non sappiamo di preciso il periodo di costruzione della chiesetta, ma si preferisce l’epoca bizantina.

Questa, d’ispirazione medievale, è stata ricostruita nel 1899 dai militari che l’avevano abbattuta per edificare l’omonimo forte, che doveva servire per il controllo di tutta l’area dello stretto dalle incursioni provenienti da sud e da nord.

Recenti restauri hanno riportato alla luce, dopo aver tolto tutti gli intonaci, la naturale bellezza delle murature in mattoni a faccia vista. Al suo interno si conserva un rilievo marmoreo dell’‘800 raffigurante la “Madonna di Dinnammare”: l’iconografia è quella tipica, la Madonna col Bambino in trono, retta da due mostri marini o delfini. Semplice, completamente in pietra e poco luminosa, ogni anno, il 3 Agosto, ospita il pellegrinaggio che parte di notte dal Villaggio Larderia per giungervi sulle prime ore del mattino, attraverso sentieri tracciati nella montagna, con in testa il quadro della Madonna; il 5 Agosto il quadro ritorna, ripercorrendo gli stessi passi dell’andata, alla chiesa di San Giovanni Battista, a Larderia, nella quale avviene l’emozionante ingresso tra le navate.

Erika Santoddì

Ph: Giulia Greco

Sony World Photography Awards 2017

I Sony World Photography Awards sono fra i più grandi e prestigiosi premi di fotografia.
Sono quattro le macro-categorie :

  • professionisti, che al suo interno si suddivide in 10 categorie, il premio  più alto è quello di Fotografo dell’anno
  • competizione aperta, sempre divisa in 10 categorie ma non prevede alcun limite per la partecipazione
  • giovani, per i fotografi fra i 12 e i 19 anni
  • student focus, specifica per gli studenti di fotografia

I vincitori sono stati annunciati il 21 Aprile e le opere rimarranno esposte in mostra fino al prossimo 7 maggio alla Somerset House di Londra.
Il premio come miglior fotografo dell’anno è andato a Frederik Buyckx per le sue immagini di paesaggi invernali nei Balcani, in Scandinavia e in Asia Centrale.
L’italiano Alessio Romenzi ha vinto la categoria Attualità della sezione Professionisti , la sua opera vede come protagonista c’è la città di Sirte, l’autoproclamata capitale dello Stato Islamico in Libia. Il titolo dei suoi scatti è We are taking no prisoners”. 

Altri italiani hanno trionfato nella categoria Professionisti : Alice Cannara Malan nella categoria Vita Quotidiana. Con il progetto My (m)other”  nel quale racconta i rapporti familiari e ciò che c’è sotto la superficie.
Diego Mayon, Athens Studio”  nella categoria Architettura. Viaggia all’interno dei bordelli di Atene.
Lorenzo Maccotta Live chat studio industry”  vince in Storia contemporanea, si è dedicato al mondo del web: ritraendo modelli e modelle che lavorano nell’industria delle webcam per adulti in Romania.
Nella categoria Open ha vinto Alexander Vinogradov, con i ritratti ispirati al film francese Leon.

Ci sono le ragazze della nazionale colombiana di rugby subacqueo, Joker newyorkesi ad Halloween, persone che fanno Tai Chi. Insomma guardate la galleria allegata nel link del sito “Il Post”, non  rimarrete delusi!
http://www.ilpost.it/2017/04/21/foto-vincitrici-sony/

Arianna De Arcangelis