Artemisia Gentileschi: pittura, dolore e riscatto

Artemisia Gentileschi (1593 – ca. 1656) è oggi riconosciuta come una delle figure più significative della pittura barocca, non solo per il suo talento eccezionale, ma anche per il coraggio con cui ha affrontato la sua epoca.

Figlia d’arte, prima donna a essere ammessa all’”Accademia delle Arti del Disegno di Firenze“, la sua opera unisce intensità emotiva, maestria tecnica e una straordinaria attenzione alla rappresentazione della figura femminile.

Infanzia e formazione tra Roma e la bottega del padre

Artemisia nacque l’8 luglio 1593 a Roma, nel cuore del quartiere degli artisti.

Il padre, Orazio Gentileschi, era un pittore di talento, influenzato in gioventù dal manierismo ma convertitosi al naturalismo drammatico di Caravaggio.

Fu proprio nella bottega paterna che Artemisia imparò a dipingere, mostrando fin da bambina una sensibilità e una abilità superiori a quelle dei fratelli. L’ambiente artistico romano del tempo, animato dalla riforma urbanistica di papa Sisto V e dalla presenza di grandi maestri come Annibale Carracci e Caravaggio, contribuì alla sua formazione visiva e stilistica.

Il suo stile si distinse presto da quello paterno: mentre Orazio tendeva a idealizzare le figure, Artemisia le rendeva più reali, umane, vibranti di emozioni vere.

Il naturalismo caravaggesco la influenzò profondamente, ma fu il suo sguardo personale, spesso centrato sull’esperienza femminile, a renderla unica nel panorama artistico del Seicento.

La violenza trasformata in arte

La vita di Artemisia fu segnata da un evento traumatico: la violenza subita dal pittore Agostino Tassi e il successivo processo, durante il quale l’artista venne sottoposta a interrogatori e torture.

Nonostante ciò, o forse proprio a causa di questa esperienza, la sua pittura acquisì una forza espressiva straordinaria. Nei suoi dipinti, le protagoniste — eroine bibliche come Giuditta, Susanna, Ester o Lucrezia — non sono mai vittime passive, ma donne attive, forti, capaci di reagire, combattere, sopravvivere.

Artemisia lavorò a Firenze, dove entrò nell’Accademia del Disegno, poi a Venezia, Napoli e Londra.
Ogni città segnò una tappa importante nella sua evoluzione artistica.
A Napoli visse gli ultimi anni della sua vita, lavorando probabilmente fino al 1654 e morendo attorno al 1656, forse a causa della peste che decimò la città.

La pittura come racconto del femminile

Tra le sue opere più celebri vi sono “Susanna e i vecchioni” (1610), “Giuditta che decapita Oloferne” (1613), “La Maddalena penitente“, “Autoritratto come Allegoria della Pittura” (1638-39), “Lucrezia” (1621 e 1642), ma anche composizioni come “Ester davanti ad Assuero“, “Betsabea al bagno“, “Minerva”, “Ulisse scopre Achille fra le figlie di Licomede” e “Giuseppe e la moglie di Putifarre“.

In ognuno di questi lavori, Artemisia dimostra una profonda padronanza del chiaroscuro e una straordinaria capacità di raffigurare la complessità psicologica dei suoi personaggi. Le sue protagoniste non sono idealizzazioni, ma donne reali, cariche di umanità, dolore, orgoglio e dignità.

Tra le opere della maturità, spicca “Lot e le sue figlie” (Toledo Museum of Art), in cui la pittrice rilegge in chiave ambigua e provocatoria un episodio biblico controverso, e “Corisca e il satiro”, ispirata a Il Pastor Fido di Guarini, in cui una ninfa riesce a sfuggire al suo aggressore con intelligenza e determinazione.
In entrambe, Artemisia gioca con luci, gesti e simboli, offrendo letture complesse e mai scontate del corpo femminile.

"Giuditta che decapita Oloferne" (1613), di Artemisia Gentileschi
Giuditta che decapita Oloferne

 

L’eredità di una pittrice ritrovata

Per lungo tempo, dopo la sua morte, Artemisia fu dimenticata o confusa con il padre.
Solo nel Novecento, grazie a storiche dell’arte come Mary Garrard e a mostre fondamentali come “Orazio and Artemisia Gentileschi” (National Gallery of Art, 2001), la sua figura è stata riscoperta e celebrata.

Il suo modo di usare il corpo femminile come strumento narrativo ed espressivo, la sua visione drammatica e intensa della pittura e la sua determinazione in un mondo dominato dagli uomini fanno di Artemisia Gentileschi un simbolo di forza, arte e resistenza.
Non solo una pittrice straordinaria, ma una donna che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’arte europea.

 

Fonti:
“Complete Works of Artemisia Gentileschi – Illustrated”, catalogo “Orazio and Artemisia Gentileschi” (National Gallery of Art, 2001).

L’Arte e il Bello: l’Estetica di Hegel

Premessa

In un precedente articolo, abbiamo dato un rapido sguardo all’evoluzione del concetto di Arte nel corso della storia della Filosofia.

Oggi, mettiamo un focus maggiore su colui che ha consacrato l’Arte come luogo dove si mostra la Verità, dove l’uomo si riconosce incondizionatamente libero.

Ovviamente questo articolo non si propone di spiegare a pieno tutto ciò che Hegel aveva da dire, ma cercherò di rendere quanto più chiara la sua visione dell’Arte.

Filosofia dell’Arte

Hegel inizia il suo discorso con un chiarimento: la parola “Estetica” verrà adottata nelle sue lezioni solo per il suo uso diffuso.

Di fatti, la parola deriva da αἴσθησις (“sensazione”) , che è il punto più distante dalla Verità.

Per raggiungerla, dobbiamo cominciare a staccarci dalla conoscenza sensibile per avvicendarci a una più concettuale.

Ecco perché Hegel, nelle sue lezioni, preferirà riferirsi ai suoi discorsi come “Filosofia dell’Arte“, ovvero l’indagine del Bello come concetto che si mostra a noi in forma fisica.

lezioni di Hegel
                                     Lezioni di Hegel

Lo Spirito: Il propriamente umano dell’uomo

Definito il nome delle sue lezioni e distaccatosi dalla tradizione estetica del tempo, Hegel rompe completamente gli equilibri allontanandosi da Kant.

Per Kant il Bello si trova nella natura, per Hegel risiede in ciò che di naturale non ha più nulla. È assolutamente dell’uomo. L’arte diventa una produzione così spiritualmente alta da permettere all’uomo di comprendere la sua assoluta libertà.

Ma come?

L’Arte si trova nel primo momento dello Spirito Assoluto, ovvero il “propriamente umano dell’uomo che si riconosce incondizionatamente libero“.

Raggiunto quel punto del cammino fenomenologico della coscienza, l’uomo riconosce di essersi liberato quasi completamente delle “catene” che non gli permettono di arrivare alla Verità (sottolineo quasi perché la Verità risiede nella Filosofia, non nell’Arte).

Quindi l’uomo, guardando a un’opera d’Arte, è arrivato a un punto così alto dello Spirito da aver superato la maggior parte degli “ostacoli”.

Ma ogni opera d’Arte è valida? Cioè, guardando la Banana di Cattelan, ad esempio, posso comprendere il bello?

Spoiler: no.

L’Arte Classica: la scultura come mezzo del Bello

Come anticipato, non tutta l’Arte permette (o permise, nel corso del tempo) all’uomo di elevarsi spiritualmente, di rivelare il Bello dietro la forma e, quindi, di eliminare le catene della materialità. Bensì, solo un contenuto storicamente determinato è in grado di farlo: l’Arte Classica.

Essa incarna tutte le caratteristiche che l’arte deve avere affinché possa elevare spiritualmente l’uomo:

  1. ha il perfetto connubio tra forma e contenuto (ciò che vediamo e il suo significato);
  2. non è propriamente legato alle dinamiche economiche o sociali del tempo (catene in più);
  3. non possiede eventuali simbolismi da rimandare a qualsivoglia altra esistenza.
Nike di Samotracia
         Nike di Samotracia

Una forma che si nega in quanto tale, mostrando dietro di sé il contenuto, il Bello, è quella tipologia di forma che ci permette di elevarci spiritualmente.

Attraverso un’intuizione sensibile, l’uomo è capace di carpire il Bello usando come mezzo l’Arte.

Carpire, intuire al massimo, ma mai comprendere del tutto. Perché?

Perché l’Arte è un paradosso bello e buono.

Come vi anticipavo prima, l’Arte si trova nel primo momento dello Spirito Assoluto, cioè dove l’uomo si è già liberato di molte delle sue catene, prima di tutti quella della sensazione, della materialità.

Quivi il paradosso: la coscienza si è liberata della pura immediatezza della materialità tanto tempo prima, ovvero quando ha cominciato a staccarsi dalla natura lavorandola con il linguaggio. EPPURE ha bisogno di un’intuizione che la concerne così da poter comprendere il Bello.

Sicuramente paradossale, ma con una motivazione più che valida: la materialità di fatti (la statua, per intenderci) è solo un  mezzo momentaneo di mediazione tra la coscienza e il Bello. La forma si nega in quanto forma (immaginate semplicemente che la “forma” della statua scompaia e ne rimanga l’idea) per lasciare spazio al contenuto dietro di sé.

Atena, Dione, Afrodite
                              Atena, Dione, Afrodite

Conclusioni

Una delle visioni più contorte del Bello è sicuramente quella di Hegel, che, nelle sue lezioni, ci mostra un lato dell’Arte sicuramente paradossale per il suo sistema, ma che conduce verso una Verità ben più grande del paradosso che porta in grembo.

Fonti

L’Estetica di Hegel, edizione Bompiani 2012, testo tedesco a fronte.

Il ruolo dell’Arte nell’educazione alla sostenibilità

La Sostenibilità: Una Sfida Urgente e Culturale

Oggi, il tema della sostenibilità rappresenta una delle questioni più urgenti e complesse del nostro tempo.

Eventi climatici estremi, scioglimento dei ghiacci, perdita di biodiversità, inquinamento diffuso sono tutti segnali che non possono più essere ignorati. Eppure, nonostante i dati scientifici siano sempre più allarmanti, il cambiamento procede lentamente.

Perché?

La sostenibilità non può essere solo una questione tecnica, fatta di normative, statistiche o tecnologie. È anche, e soprattutto, una questione culturale che richiede un cambio di mentalità.

Ha bisogno anche di narrazioni, di immagini, di emozioni: ha bisogno dell’arte. Perché è attraverso la cultura che possiamo costruire una nuova visione del futuro.

L’arte permette, infatti, di trasformare la percezione, educare allo stupore, ricordarci la bellezza e la fragilità del mondo naturale.

In un’epoca di overload informativo (sovraccarico di informazioni) e disconnessione emotiva, l’arte può riaccendere quel legame profondo con la natura che la modernità ha spesso reciso.

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Effetti del cambiamento climatico.
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La rappresentazione della natura nella storia dell’arte

La natura è sempre stata una delle protagoniste principali dell’arte. Fin dalle origini, l’essere umano ha sentito il bisogno di rappresentare il mondo naturale che lo circondava non solo per documentarlo, ma per dargli un senso, celebrarlo, o temerlo.

Già nelle pitture rupestri, decine di migliaia di anni fa, troviamo rappresentazioni della fauna: immagini potenti, spesso legate al rapporto spirituale e simbolico con la caccia e la sopravvivenza. Qui, la natura non è sfondo, ma protagonista assoluta.

Nel Rinascimento, la natura si fa armonia e ordine. Maestri come Leonardo da Vinci osservano piante, animali, paesaggi naturali contemporaneamente con occhio scientifico e artistico, rendendoli parti integranti delle opere.

Esempio emblematico è la pittura di Caravaggio, precursore del naturalismo pittorico, per la sua capacità di rappresentare la realtà con assoluta fedeltà e assenza di idealizzazione.

Con il Romanticismo, la natura esplode in tutta la sua forza. I paesaggi diventano espressione dello stato d’animo umano. Basti pensare ad opere come “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich, dove la natura è immensa, sublime, a tratti minacciosa, specchio dell’infinito e dell’ignoto.

Anche gli Impressionisti celebrano la natura nella sua luce mutevole, nei suoi riflessi, nella vita quotidiana all’aperto, con l’intento di racchiudere emozioni autentiche.

Nel Novecento, la natura non è solo rappresentata: diventa materia. La Land Art è un movimento artistico in cui l’ambiente naturale è allo stesso tempo mezzo e messaggio.

Questa evoluzione della rappresentazione artistica della natura mostra quanto essa sia stata non solo fonte d’ispirazione, ma anche riflesso dei cambiamenti nel pensiero umano: da divinità temuta a risorsa da studiare, da bellezza da contemplare a organismo vivente da rispettare e con cui convivere.

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“Canestra di frutta”, Caravaggio, 1597-1600.
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Oggi: l’Arte come strumento di sensibilizzazione ambientale

Nel contesto attuale, segnato da emergenze ambientali sempre più evidenti, l’arte ha assunto un nuovo ruolo: non solo rappresentare la natura, ma anche difenderla.

Sono sempre più numerosi gli artisti che si fanno portavoce di una coscienza ecologica, usando il proprio linguaggio per porre domande, scuotere le coscienze, stimolare il cambiamento. È nata così una vera e propria corrente: l’eco-art, un’arte impegnata, che mette al centro il rapporto tra uomo e ambiente, spesso con un approccio critico e sperimentale.

Molti artisti, inoltre, utilizzano materiali di scarto o riciclati per sensibilizzare sul tema dei rifiuti.

Ci sono, poi, progetti partecipativi e comunitari, in cui l’arte diventa uno strumento per coinvolgere le persone in attività sociali volte a trasformare spazi degradati e generare una nuova relazione con il territorio.

In tutte queste forme, l’obiettivo è chiaro: rendere visibile ciò che spesso è invisibile, toccare corde emotive, creare consapevolezza. Perché l’arte, oggi più che mai, può essere un ponte tra la conoscenza e l’azione.

Perché, in fondo, ogni gesto sostenibile nasce da una domanda antica e semplice: che mondo vogliamo lasciare? E forse è proprio l’arte, ancora una volta, a suggerirci la risposta.

 

Antonella Sauta

FAI&UniME: un viaggio alla scoperta del patrimonio d’Ateneo

Le Giornate FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano), quest’anno 22 e 23 marzo, rappresentano un appuntamento imperdibile per gli appassionati di arte, storia e natura. Questi eventi offrono l’opportunità di visitare luoghi solitamente inaccessibili o poco conosciuti, svelando tesori nascosti del nostro Paese. Anche Messina e il suo territorio offriranno ai visitatori l’opportunità di scoprire alcuni luoghi di grande valore storico e culturale. Tra le tappe più affascinanti di questa edizione, spiccano tre siti emblematici.

 

Dettaglio del portale antico dell’Università. © Alessandro Saitta

 

Faro di Capo Peloro

Il Faro di Capo Peloro si trova sulla punta nord-orientale della Sicilia, nel punto più vicino alla Calabria, ed è un simbolo della navigazione nello Stretto di Messina. La sua storia affonda le radici nell’antichità, quando già gli storici romani lo menzionavano. L’attuale struttura risale al 1935, dopo che il terremoto del 1908 distrusse la torre precedente costruita nel 1857 durante il Regno delle Due Sicilie. La sua torre ottagonale, dipinta a fasce bianche e nere, garantisce maggiore stabilità e resistenza ai venti. Con un’altezza di 37 metri sul livello del mare, la sua luce è visibile fino a 22 miglia nautiche, garantendo la sicurezza della navigazione in una delle zone più trafficate del Mediterraneo. Circondato da un’area di 1500 mq, tra giardino e terreno coltivabile, il faro è testimone silenzioso di storie, leggende e del mito di Scilla e Cariddi, che da sempre avvolge di fascino e mistero le acque dello Stretto.

Parco Letterario Salvatore Quasimodo a Roccalumera

Un viaggio nell’universo poetico di Quasimodo, premio Nobel per la letteratura, che sorge nell’Antica Stazione Ferroviaria e celebra il legame tra il poeta e il mondo ferroviario. Fondato nel 2000, ospita il Museo Quasimodiano e il Treno-Museo, con lettere, cimeli e arredi originali del suo studio milanese. La ricostruzione della sua sala d’attesa offre un’esperienza immersiva nella vita del premio Nobel, tra poesia e memoria storica della Sicilia.

FAI
Dettaglio Aula Magna del Rettorato. © Alessandro Saitta

Sede Centrale dell’Università di Messina

Discorso diverso va fatto per la sede centrale dell’Università di Messina, cuore storico e architettonico dell’Ateneo, radicata nel tessuto urbano sin dal Seicento. Fondata nel 1548 grazie a una Bolla papale e alla collaborazione tra il Senato cittadino e Ignazio di Loyola, nacque come istituzione gesuitica, ma presto si affermò come Studium laico, segnando un forte legame con la città e subendo chiusure e riaperture nel corso dei secoli.

L’attuale Palazzo dell’Università sorge sull’antico Collegio dei Gesuiti progettato da Natale Masuccio, demolito dopo il terremoto del 1908. Ricostruito nel 1913 in stile eclettico-neoclassico dagli ingegneri Botto e Colmayer, fu ampliato nel 1962 con un edificio razionalista di Filippo Rovigo. La struttura si distingue per la disposizione ad anfiteatro attorno a una corte-giardino, con sette edifici collegati da gallerie coperte e decorazioni floreali che ne unificano l’estetica.

Elemento centrale del complesso è la sede del Rettorato, enfatizzata dalla monumentalità dello scalone interno e dalla scenografica articolazione della facciata. La visita alla sede universitaria offre un viaggio tra storia, arte e architettura, in una città il cui paesaggio costruito è costantemente frutto di ricostruzione.

FAI di primavera 2025

Si è svolta stamattina la conferenza stampa a cui sono intervenuti la Rettrice dell’Università di Messina, prof.ssa Giovanna Spatari, il Capo delegazione FAI di Messina, Nico Pandolfino, il Capitano di fregata Johnny Pizzimento, l’Assessore alla Cultura del Comune di Messina, Enzo Caruso, e il dott. Carlo Mastroeni, Direttore del Parco Letterario Quasimodo.

In particolare, la Rettrice Giovanna Spatari, ha lanciato un messaggio alla Città di Messina, ribadendo l’importanza dell’Ateneo nel tessuto sociale:

Occorre cogliere, soprattutto negli atenei del Sud, nelle città che non hanno un’economia spinta, come possono essere le capitali del Nord, quanto un ateneo sia importante nel tessuto sociale, economico e culturale del territorio. E quindi, quanto l’Università possa essere affollata, come io immagino, ma è sempre stata così, di persone che vengono a conoscerne l’importante storia.

Orari e aperture a Messina

Sede Centrale Università – DAL COLLEGIUM AD UNIME (SENZA PRENOTAZIONE)

Sabato 22 e domenica 23 marzo

09:30 – 13:30 / 14:30 – 18:00

Inoltre, ci saranno due eventi speciali a contributo libero:

  • Messina tra visibile e invisibile:  il progetto per la costruzione della regia Università e il Collegio dei Gesuiti.

A cura dell’Arch. Francesca Passalacqua (Professore associato dell’Università degli Studi Messina)

Sabato 22 marzo ore 18 – Atrio Rettorato

  • La quadreria dell’Università di Messina
    A cura del Prof. Giampaolo Chillè (già Professore a contratto dell’Università degli Studi Messina e cultore della materia)
    Domenica 23 marzo ore 18 – Atrio Rettorato

Faro di Capo Peloro – IL FARO TRA LO JONIO ED IL TIRRENO (Solo su prenotazione)

Sabato 22 e domenica 23: 09:30 – 13:00 / 14:30 – 17:00

ROCCALUMERA (ME)

Parco Quasimodo – NOVITA’ AL PARCO LETTERARIO, TRA LE CARTE DI QUASIMODO

Sabato 22 e domenica 23 marzo 10.00 / 13.00 e 16.00 / 18.00

 

Gaetano Aspa

 

https://fondoambiente.it/

Il Concetto filosofico di Arte

PREMESSA

Il concetto di Arte è da sempre oggetto di discussione. In particolare, ci si è interrogati se questa possa avere un posto nell’Olimpo della verità, o se vada rifiutata fuori dalle mura delle proprie città.

Per analizzare tali possibilità, quello che seguirà sarà un excursus dei più importanti pensieri filosofici della storia, considerando il periodo che va da Platone a Hegel.

PLATONE

Per dare una connotazione di carattere generale, basti sapere che Platone basa la verità delle cose sulle Idee. Intangibili ed empiree, sono quelle da cui le cose materiali prendono forma e “ispirazione”. Diventano, quindi, una diretta copia delle prime, allontanando, di fatto, l’anima dalla verità.

Da qui, sembra chiara la posizione rispetto l’Arte di Platone.

Le cose come appaiono sono copia delle Idee delle cose. L’Arte, essendo rappresentazione delle cose, è (per mimemis) copia della copia. Ne deriva che essa debba essere rigettata fuori dalle mura della città ideale, un clima politico filosofico concettualizzato nella Repubblica.

Non c’è spazio per l’Arte nel luogo delle verità per Platone.

Essa è mera imitazione, che distoglie l’anima dalla verità ideale, e per questo ha un’accezione più che negativa per il filosofo greco.

Opera d'Arte: La città ideale, di Leon Battista Alberti
              La città ideale, di Leon Battista Alberti

ARISTOTELE

Se per Platone l’Arte aveva un carattere completamente negativo, per Aristotele è esattamente il contrario.

L’Arte, e in  particolare la tragedia, ha per quest’ultimo un ruolo catartico, capace di rappresentare sentimenti umani (come la rabbia, la pietà ecc.) affinché l’uomo possa averne una migliore comprensione.

Ha anche un fondamentale scopo educativo e morale, oltre ad essere non solo imitazione della realtà, ma imitazione della “realtà possibile”. Per cui l’operare dell’artista imita l’operare della natura.

AGOSTINO

Pur non essendo un filosofo dell’Arte, le celeberrime Confessioni offrono uno sguardo più critico.

Per quanto l’Arte sia espressione della bellezza divina (e in quanto tale va apprezzata), ammirare le opere artistiche come tali non deve distogliere l’uomo dall’apprezzamento della bellezza di Dio.

Sembra quasi un tentativo di conciliazione tra arte e religione, dove comunque vi è una subordinazione alla ricerca della verità spirituale.

TOMMASO D’AQUINO

Filosofo medievale, Tommaso d’Aquino concepisce l’Arte come manifestazione della perfezione divina. L’artista, infatti, può essere considerato un “co-creatore“, che riproduce la bellezza divina nel mondo.

Oltre a un fare estetico, per Tommaso è uno strumento utile per l’elevazione spirituale. In particolare, l’arte visiva delle chiese permetterebbe al fedele di concentrarsi meglio su Dio.

IconografiaFonte: https://resinflamedecoart.com/wp-content/uploads/2021/07/jesus-christ-4152894_640.jpg
Iconografica esemplificativa

IMMANUEL KANT

Figura fondamentale, Kant sviluppa una teoria estetica nella critica del giudizio, mettendo in evidenza il giudizio estetico come contemplazione disinteressata. Il che non significa esserne “disinteressato” in senso assoluto, bensì distaccarsi completamente da ogni fare e volere utilitario.

Questo giudizio permette all’uomo di esprimere il sublime e il bello (naturale) in modo universale.

La bellezza, quindi, trascende la sfera pratica e si lega alla capacità di risvegliare un senso di armonia universale.

FRIEDRICH HEGEL

Hegel concepisce l’Arte come il primo luogo di manifestazione dello Spirito, la pura libertà umana.

Nelle sue lezioni di Estetica (1820), il filosofo analizza l’arte come l’espressione umana del Bello. Questa, infatti, è il punto di congiunzione perfetto tra sensibilità (mondo sensibile) e razionalità (Spirito).

Chiaramente, non tutta l’arte permette all’uomo di incontrare lo Spirito, bensì solo un contenuto storicamente determinato.

È un contenuto preciso, collocato nell’arte greca, il Partenone.

Di fronte a tale visione, l’uomo non vede la sola forma. L’uomo vede il Bello ideale.

Dall’arte greca in poi, essa non ha più la funzione di dover elevare l’uomo a Spirito intuendolo. Da qui, nasce la concezione della “morte dell’arte” di Hegel.

PartenoneFonte: https://affascinarte.altervista.org/wp-content/uploads/2017/04/P_20170419_101826_1.jpg
                                       Il Partenone

CONCLUSIONE

L’Arte, oltre ad essere da sempre stata apprezzata, ha avuto modo di essere reinterpretata nel suo Concetto, mostrando a noi diverse concezioni artistiche/estetiche.

Il pensiero di questi filosofi ha influenzato per molto tempo l’uomo occidentale nella visione dell’Arte, con il culmine “filosofico” nell’Olimpo della verità da parte di Hegel, partendo dalla gettata fuori dalle mura delle Città di Platone.

FONTI

La Repubblica di Platone

Le Confessioni di Sant’Agostino

Critica del Giudizio di Kant

Lezioni di Estetica di Hegel

 

Il dono dello spettro autistico: Michelangelo Buonarroti, l’artista universale che liberava gli angeli

Cari lettori, in questo terzo appuntamento della serie Il dono dello spettro autistico, che si propone di mettere in luce le potenzialità dei neurodivergenti senza spettacolarizzarle, viaggeremo molto indietro nella storia della cultura con Michelangelo Buonarroti.

Pittore, scultore, architetto e poeta italiano che, sin dal Rinascimento, ci insegna che “diverso” non è mai “sbagliato”, bensì possibilità di essere infiniti.

Ritratto di Michelangelo Buonarroti, di Daniele da Volterra 
Ritratto di Michelangelo Buonarroti, di Daniele da Volterra 

Vita

Michelangelo Buonarroti, nato a Caprese nel 1475, è soprannominato Divin Artista” e definito Artista universale”.

Visse il Rinascimento italiano, e già in vita fu riconosciuto dai suoi contemporanei come uno dei più grandi artisti di tutti i tempi.

Michelangelo cresce in un ambiente toscano segnato dalla sua appartenenza a una famiglia di modesta estrazione. La sua infanzia è caratterizzata da difficoltà che lo portano ad avvicinarsi all’arte sin da piccolissimo.

A Firenze, all’età di tredici anni, entra nella bottega di Domenico Ghirlandaio, dove apprende la pittura e le tecniche rinascimentali. Ma l’aspirazione alla scultura emerge sin da subito come la sua vocazione predominante.

Nel 1496, a ventun’anni, si trasferisce a Roma, dove realizza la “Pietà”, scultura che segna l’inizio della sua fama.

Avvoltosi nella solitudine, a Roma, inoltre, Michelangelo entra in contatto con le più alte sfere artistiche e religiose, rimanendo sotto la protezione di cardinali e papi.

Nel 1501, torna a Firenze, dove realizza la celebre statua del “David”, un’opera che lo consacra come scultore di prim’ordine.

Sempre qui, poi, subisce anche il suo primo contatto con la politica locale e con i Medici. Gli commissionano vari lavori, ma il suo legame con loro sarà sempre turbolento e segnato da tensioni.

Nel 1505, Michelangelo torna a Roma e, durante il suo soggiorno, si distingue anche come pittore, decorando la “Cappella Sistina”, un’opera titanica che mostra il suo genio visionario, anche frutto di una lotta interiore per raggiungere la perfezione.

Morirà a Roma nel 1564, all’età di ottantotto anni, lasciando una lista di opere molto più lunga di quelle citate, e un’eredità di capolavori che non solo segnerà la storia dell’arte, ma anche quella della complessità umana, in cui si intrecciano visioni grandiose e tratti di inconsueto approccio alla società.

Buonarroti riusciva a percepire, scoprire e, infine, liberare dalla pietra l’anima di un oggetto apparentemente inanimato.

Lo stesso artista scrisse:

Ho visto un angelo nel marmo ed ho scolpito fino a liberarlo.

Ed è forse con questa citazione che si può esprimere la sua essenza di artista e persona, la cui unicità ha dato vita all’immenso dei suoi capolavori.

La Pietà di Michelangelo, Basilica di San Pietro, Roma
La Pietà di Michelangelo, Basilica di San Pietro, Roma

La Pietà

Michelangelo Buonarroti ha saputo scolpire, dipingere e plasmare la storia dell’arte come pochi.

La Pietà, realizzata tra il 1498 e il 1499, è una delle sue prime opere e mostra un controllo assoluto sul marmo.

La scultura è alta 174 cm, larga 195 cm e profonda 69 cm ed è oggi collocata nella Basilica di San Pietro.

La delicatezza con cui è rappresentato il corpo morente di Cristo, pur nella sofferenza, e la discrezione di Maria, che lo tiene in grembo, è una fusione di perfezione tecnica e carica emotiva.

La composizione spaziale è incredibilmente equilibrata: il corpo di Cristo, in diagonale rispetto a Maria, crea un gioco di linee che guida lo sguardo dell’osservatore, come se volesse catturare l’essenza del dolore cristiano.

La mano sinistra della Madonna è aperta e rivolta verso lo spettatore, a significare che tutto si è compiuto e nulla più è in suo potere.

Da notare la giovane età della donna, che stravolge quella che era stata l’iconografia raffigurata fino a quel momento, vicina a quella del Cristo morente, a rappresentare la purezza, la santità e l’incorruttibilità.

Il volto rassegnato della Vergine esprime il superamento delle fattezze terrene e il raggiungimento della bellezza ideale.

L’estrema levigatezza della superficie marmorea, nonostante la veste drappeggiante di Maria che contrasta il corpo nudo del figlio, conferisce un effetto mimetico straordinario, paragonato da Vasari a un miracolo.

La volta della Cappella Sistina e il Giudizio Universale 

Interno della Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano, Roma
Interno della Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano, Roma

Il genio di Michelangelo si manifesta anche nella Cappella Sistina, che ha una larghezza di oltre 13 metri, una lunghezza di 40 metri e quasi 21 metri di altezza.

Un capolavoro che, tra il 1508 e il 1512, ha rivoluzionato il concetto di affresco.

Vista da fuori, la Cappella Sistina assomiglia a una fortezza, solida e austera, con finestre strette e nessun parato decorativo.

Tanto è semplice l’esterno quanto ricca e preziosa la decorazione interna. Con il lavoro di Michelangelo, la volta non è più solo una superficie decorativa, come in precedenza, ma un palcoscenico dove si svolge la tragedia umana e divina.

Buonarroti accetta l’incarico di eseguire nove scene tratte dalla Genesi, insieme alle figure di profeti, sibille e antenati di Cristo. Queste non sono più statiche, ma sembrano quasi vibrare di energia.

Dal punto di vista figurativo, tutta la volta è un inno al corpo umano, alla sua forza, bellezza, capacità espressiva. Ogni tipo di torsione viene sperimentato, ogni muscolo messo in evidenza. I colori sono accesi, brillanti e cangianti.

Tra i suoi affreschi, spiccano la Creazione di Adamo e la Separazione della luce dalle tenebre, che mostrano non solo una tecnica straordinaria, ma un’interpretazione radicale della Bibbia. Michelangelo riesce a mettere in scena non solo l’arte figurativa, bensì una filosofia visiva, dove ogni gesto, ogni linea, racconta una storia di lotta e redenzione.

Con il Giudizio Universale, dipinto venti anni più tardi, l’artista supera ogni limite.

Le figure, ora quasi deformate dall’intensità emotiva, sembrano spingersi fuori dal muro, come se volessero uscire dal contesto sacro per invadere il nostro mondo.

L’affresco di Michelangelo, realizzato tra il 1536 e il 1541, rappresenta un vortice azzurro che parte dal Cristo giudice al centro, con Maria accanto a lui come mediatrice. Intorno, i santi martiri con gli strumenti della loro morte, che diventano simboli di salvezza, e angeli che risvegliano i morti. A destra, i demoni trascinano i dannati verso l’Inferno, mentre nelle lunette gli angeli mostrano e conducono in gloria gli strumenti della Passione.

ll sacrificio di Cristo è necessario alla salvezza dell’uomo.    

Il David

David di Michelangelo, Galleria dell'Accademia, Firenze
David di Michelangelo, Galleria dell’Accademia, Firenze

Il David (1501-1504), scolpito nel marmo di Carrara, è l’emblema della perfezione fisica e morale dell’uomo rinascimentale.

Eppure dietro a quell’integrità c’è una tensione palpabile, un’energia che preannuncia l’azione.

Oggi, è ubicata nella Galleria dell’Accademia a Firenze.

Le dimensioni sono: altezza 5,17 m, basamento 1,07 m, statua 4,10 m.

La posizione del corpo nudo del protagonista, come da tradizione classica, è chiastica: il braccio sinistro è piegato verso la spalla, sulla quale il David poggia la fionda e corrisponde alla gamba destra in tensione, sorretta dal puntello. Su questa poggia l’intero peso del corpo. Il braccio destro è rilassato, nonostante la mano regga il sasso. La gamba sinistra, rilassata anch’essa, sporge leggermente verso l’esterno, poggiando il piede sul limite estremo del basamento; il tallone è sollevato ad indicare che si sta preparando al movimento.

L’eroe, infatti, non è scolpito nel momento del trionfo, ma nell’attimo prima della battaglia contro Golia. Il corpo non esprime solo forza fisica, quanto una forza interiore, che si traduce in un senso di controllo assoluto.

Michelangelo ha lavorato per mesi su questo blocco di marmo, estrapolando ogni muscolo, ogni vena, ogni fibra del corpo umano. Le proporzioni, studiate con precisione, non sono più solo anatomia: sono l’immagine di un uomo che affronta il destino con consapevolezza e determinazione. La scultura diventa così un messaggio di potenza, ma anche di introspezione.

Non finito 

 

I Prigioni di Michelangelo, Galleria dell'Accademia, Firenze 
I Prigioni di Michelangelo, Galleria dell’Accademia, Firenze 

In un’epoca in cui la perfezione estetica era il massimo ideale, Michelangelo ha saputo spingersi oltre anche nel concetto di non finito.

Le sue opere incompiute, come i Prigioni (1513-1516) o i Non Finito degli anni successivi, sono il risultato di qualcosa di irrisolto, di un progetto che non si conclude mai.

Qui, il blocco di marmo sembra resistere all’arte stessa, però è proprio questa resistenza a dare vita a una nuova poetica. La figura emergente dal marmo incompleto non è solo una “non finita”, ma una promessa di completezza che non verrà mai realizzata.

C’è un contrasto potente tra la materia grezza e ciò che prende forma: l’artista non la plasma, la lascia nascere, quasi in un dialogo continuo con la pietra.

Questa scelta non è solo estetica, ma una riflessione sul processo creativo, sull’incapacità dell’uomo di raggiungere la perfezione e sull’eterno conflitto tra la forma e il caos.

Michelangelo dimostra che, nel non finito, l’arte è viva, pulsante, mai definitiva.

Michelangelo e lo spettro autistico

Lettera di Michelangelo a Vasari, Palazzo Medici Riccardi, Firenze
Lettera di Michelangelo a Vasari, Palazzo Medici Riccardi, Firenze

Michelangelo Buonarroti è un personaggio misterioso della storia della nostra cultura.

Viveva in un mondo a parte, tutto suo.

Le sue opere, dalla maestosità della Cappella Sistina al monumentale David, sono il risultato di una visione unica, quasi ossessiva, dove ogni gesto e ogni forma sembrano esplodere da una realtà che solo lui riusciva a vedere.

Alcune testimonianze dicono che fosse difficile da avvicinare e che avesse un rapporto controverso con i propri committenti. Preferiva la solitudine alla compagnia, spesso concentrandosi per lunghi periodi di tempo solo al lavoro.

Inoltre, le lettere del pittore mostrano un certo distacco emotivo, così come un innegabile grado di irritabilità quando le sue opere venivano criticate o si trovava sotto pressione.

Dei tratti che oggi potremmo interpretare come neurodivergenti, ma che, ai suoi tempi, venivano giudicati come “decisamente strambi” dai suoi contemporanei.

Se Michelangelo fosse vissuto nel XXI secolo, probabilmente qualcuno avrebbe parlato di lui come una persona Asperger. Ma, chiaramente, non possiamo fare diagnosi retroattive.

Quel che è certo è che la sua genialità è figlia anche di quella diversità che lo rendeva lontano dai canoni. Perché, alla fine, è proprio essere “diversi” che spesso consente di lasciare il segno nel mondo.

Fonti:

https://www.studenti.it/cappella-sistina-storia-descrizione-analisi-affreschi-michelangelo.html

https://www.studenti.it/pieta-di-michelangelo-descrizione-analisi.html

https://www.studenti.it/david-di-michelangelo-descrizione-e-analisi.html

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Michelangelo_Buonarroti

Il mondo perde David Lynch, ma la sua arte rimarrà immortale

 

Ci lascia a 78 anni David Lynch, una delle menti più geniali del panorama artistico degli ultimi 50 anni. Era malato di enfisema polmonare.

Una personalità riservata ma al contempo ribelle e immensamente creativa. Nell’arco della sua vita è stato regista, pittore, attore, sceneggiatore, montatore, produttore, scenografo, cantante, compositore, designer. Lascia 5 figli e la moglie Emily Stofle.

David Lynch nel 2006. Immagine Brunopress.

Il sogno dell’artista

Nasce a Missoula, in Montana, nel 1946. Fin da giovane sogna di diventare un’artista, ed inizia, infatti, la sua carriera lavorativa come pittore. Dopo essere stato licenziato da un negozio di cornici presso cui lavorava decide di viaggiare in Europa per studiare. Il viaggio però dura soli 15 giorni, dopo i quali Lynch torna negli Stati Uniti e da lì comincia la sua carriera da regista con la realizzazione di alcuni cortometraggi sperimentali, tra cui il fantastico The Alphabet (1968).

Gli albori del cinema di David Lynch

Il regista comincia a lavorare al suo primo lungometraggio nel 1971, ma, per mancanza di budget, la pellicola viene portata a termine solo nel 1977: l’indimenticabile Eraserhead – La mente che cancella, che, tra l’altro, fu definito da Stanley Kubrick come il suo film preferito.

Già dal suo primo film Lynch scandisce bene quelle che sarebbero state le caratteristiche del suo stile che diverrà inconfondibile: l’atmosfera cupa, il disagio, il sogno che si interseca con la realtà, l’inconscio.

La sua carriera prosegue nel 1980 con The Elephant Man, un drammatico ritratto di un “rigetto” della società, che lo rende acclamato e popolare tra critica e pubblico.

Dopo il fallimento, per via della produzione, del suo primo ed ultimo progetto ad alto budget, Dune (1984), darà vita allo splendido Velluto Blu (1986) in cui prenderà parte anche la sua musa dell’epoca, Isabella Rossellini.

David Lynch e Anthony Hopkins sul set di The Elephant Man (1980). Produzione: Paramount Pictures.

Twin Peaks e la rivoluzione della serialità

Nel 1990 David Lynch, insieme a Mark Frost, rivoluziona per sempre il mondo della Serie TV, facendo in modo che queste diventassero un nuovo strumento per raccontare storie impegnate, andando contro a quelle che erano le mode di quegli anni e che facevano sottovalutare il potenziale della serialità. Adesso chiunque, dagli Stati Uniti all’Italia, conosceva il caso dell’omicidio di Laura Palmer, interpretata da Sheryl Lee, e tutti si sentivano degli investigatori insieme all’agente Cooper, interpretato da Kyle MacLachlan, probabilmente l’attore che fu più caro al regista.

Nel 1992 Lynch non accontenta i fan e mostra gli avvenimenti precedenti a quelli della serie, invece che quelli successivi al finale, nel film Twin Peaks – Fuoco cammina con me. La sua scelta, tanto criticata, dà vita ad un capolavoro. 

Laura Palmer (Sheryl Lee) in una scena di Twin Peaks. Produzione: Lynch/Frost Productions.

“Ci rivedremo tra 25 anni”

25 anni dopo l’uscita della prima serie, Lynch inizierà la produzione della terza ed ultima stagione di Twin Peaks, che è l’ultima grande opera realizzata dal regista.

La seconda parte della filmografia

Dopo il successo di Twin Peaks, nel 1990 vince la Palma d’Oro per il miglior film a Cannes grazie al suo cult Cuore Selvaggio.

Nel 1999 si discosterà dal suo stile per dare vita a Una storia vera, un drammatico road movie su un anziano in cerca del fratello malato.

 Il picco massimo della sua carriera dal punto di vista dei lungometraggi, però, arriva con la sua “Trilogia dell’Onirico”, tre film sconnessi tra di loro ma che hanno molte caratteristiche in comune: Strade Perdute (1997), Mulholland Drive (2001) e Inland Empire – L’impero della Mente (2006).

Tutti e tre i film ci fanno viaggiare tra il sogno (o l’incubo) e la realtà, basandosi sul tema del doppio e mostrando la parte più inconscia dei personaggi. Lynch mette in scena il suo stile onirico inconfondibile e sopraffino, rendendo i suoi capolavori inimitabili e dal valore artistico inestimabile.

David Lynch: un artista a 360 gradi

Ovviamente David Lynch è maggiormente conosciuto per la sua carriera da regista, tralasciando però come la vena artistica lo abbia portato a non fermarsi lì. Lynch, infatti, oltre ad aver realizzato 10 film, circa 60 cortometraggi e 3 stagioni di Serie TV si è occupato di molto altro: ha realizzato diversi quadri, che rimandano al suo stile cinematografico; in ambito musicale ha prodotto e cantato in 4 album, oltre ad aver collaborato ad alcune colonne sonore per i suoi film insieme al maestro Angelo Badalamenti. Ha poi scritto 5 libri e nell’ultima parte della sua vita si è dedicato anche all’interior design.

Scena tratta dal documentario David Lynch: The Art Life (2016). Produzione: Duck Diver Films.

Un ultimo addio al Maestro

É doveroso rendere omaggio a tutto ciò che David Lynch ha realizzato in ambito artistico, a tutte le parole spese nelle sue interviste e nei suoi interventi pubblici. Lynch ha sempre cercato di fare in modo che le sue parole fossero personali e allo stesso tempo potessero essere condivise da chi ne avesse bisogno.

Parlava spesso della ricerca delle idee, che definiva “grandi pesci” che dobbiamo cercare di pescare, per quanto difficile sia, e del processo creativo che ne deriva. Discuteva frequentemente del confronto di artisti e non con la salute mentale, di come il troppo stress e la demotivazione non faccia bene alla creatività e motivava i giovani sognatori a cercare di combattere e superare le proprie paure e insicurezze, di guardare sempre, come diceva lui, “la ciambella, non il buco”.

 In tutto il mondo tante persone, come me, l’hanno sempre visto come una sorta di mentore, come un idolo e un’ispirazione.

Ha rotto regole per crearne di nuove, è andato contro il mercato hollywoodiano provando a sbeffeggiarlo e criticarlo quando possibile. Ha sempre cercato di portare avanti ciò che lui stesso voleva davvero, mettendo in secondo piano i problemi di comprensibilità e digeribilità richiesti dall’industria e dallo spettatore, ed infine, ciò lo ha premiato in quanto artista.

Se ne va uno dei più grandi di tutti i tempi, che ha lasciato un patrimonio immortale al mondo. Un artista tanto importante che rimarrebbe indimenticabile anche se si bruciasse tutto ciò che ha mai realizzato.

 

Alessio Bombaci

La mostra”1908 CittàMuseoCittà” al Museo regionale di Messina

“1908 CittàMuseoCittà”: l’esposizione più significativa che il Museo regionale di Messina accoglie ormai da un anno. Si tratta di  un percorso che celebra la memoria e la resilienza della città di Messina, dopo il tragico terremoto che l’ha messa in ginocchio 116 anni fa, stravolgendo completamente il volto dello stretto. Per l’esposizione sono stati sfruttati gli spazi dell’ex Filanda Mellinghoff (ex sede del Museo nazionale).

C’era una volta a Messina: prima del 1908

Chiese maestose, patrimonio architettonico unico, vivacità culturale e scenario di numerosi scambi commerciali. Ecco Messina, città fiorente e cosmopolita, disintegrata dalla furia della natura. Il 28 dicembre 1908 segna l’inizio della fine per i messinesi: una scossa di magnitudo 7,1 provoca quasi 80.000 vittime, ben oltre la metà della popolazione. Insomma, Messina diventa una città fantasma, sommersa da macerie e travolta anche dal maremoto che sommerge non solo la città messinese, ma anche i villaggi nella Calabria.

Il popolo messinese guarda in faccia la morte e, i sopravvissuti, cercano di sfidarla. Messina sarà una città nuova.

 

 

Terremoto di Messina
Testimonianze fotografiche del terremoto di Messina. © Elisa Guarnera

 

IL PERCORSO DELLA MOSTRA 

È attraverso la fotografia e le moderne ricostruzioni che è possibile osservare la ripresa e l’evoluzione di una società completamente disintegrata. Non si tratta solo resti di maestosi monumenti: è la tecnologia ad avere un ruolo importante che, grazie all’utilizzo di innovativi e sofisticati strumenti, ci permettono di percorre in modo interattivo le vecchie strade di Messina.

All’ingresso della mostra vengono consegnati degli smart glasses che, attraverso l’intelligenza artificiale, consentono di vivere la città di Messina antecedente al terremoto. La prima sezione della mostra permette ai visitatori di camminare tra i reperti dei monumenti messinesi, di visionare documenti storici e filmati d’epoca. Colonne, capitelli, decorazioni scultore e la ricostruzione della famosa Palazzata trovano spazio in questo percorso. Tra i pezzi più significativi che allestiscono la mostra spiccano i resti della Chiesa della Santissima Annunziata dei Catalani e del Duomo, simboli della città che ancora oggi raccontano la sua ricchezza culturale.

Sala immersiva
Proiezione del teatro nella sala immersiva ©Elisa Guarnera

La realtà aumentata e la sala immersiva

Percorrendo la sala, si arriva al momento della realtà aumentata. Con gli occhiali immersivi, consegnati in precedenza, i visitatori possono camminare per le strade della Messina pre-terremoto, osservare edifici ormai scomparsi e vivere un viaggio nel tempo che culmina con la tragica notte del terremoto. Il percorso di conclude nella sala immersiva, che propone una ricostruzione visiva e sonora degli eventi antecedenti la distruzione: la sera del 27 dicembre 1908, a pochi giorni dalla fine dell’anno, al Teatro Vittorio Emanuele l’Aida di Giuseppe Verdi incanta la città per vivere ancora la magia delle feste. Una magia che, alle 5:20 del mattino del 28 dicembre, lascia spazio alla disperazione. La sala immersiva, che suscita grande emozione e commozione nel cuore dei visitatori, termina con la proiezione di alcune testimonianze raccolte dai sopravvissuti alla tragedia.

La mostra rappresenta non solo un modo per mantenere sempre accesa la memoria collettiva , ma anche l’esaltazione di una comunità che è riuscita a rinascere dalle macerie.

Un appuntamento imperdibile, soprattutto in questi ultimi giorni di festa. Numerose le novità aggiunte alla mostra, tra cui una guida LIS per visitatori audiolesi e sordi, pannelli tattili per ipovedenti e una guida cartacea dedicata alle diverse abilità cognitive.

Inoltre, è stata applicata una scontistica speciale per i messinesi residenti, che dal 20 dicembre scorso al 6 gennaio 2025  potranno accedere alla mostra acquistando il biglietto a soli 2 euro anziché 7 euro.

Un’esposizione che invita a riflettere sulla fragilità del nostro patrimonio culturale e sull’importanza di preservarlo, offrendo un’opportunità unica per immergersi in una vicenda umana senza precedenti, che ha modificato la nostra Porta della Sicilia.

 

Il dono dello spettro autistico: Andy Warhol, il padre della Pop Art

Essere autistici non è un limite, bensì un dono.

Questa serie di articoli, oggi al primissimo numero, vi narrerà di grandi personaggi che hanno fatto la cultura del mondo e di come il loro appartenere allo spettro autistico li abbia condotti a scrivere le pagine della nostra storia.
Per l’autrice del filone il dono dello spettro autistico, “diverso” non è mai “sbagliato”.

Cari lettori, accomodatevi! Ve lo dimostrerò solo scrivendone.

Rappresentazione di un cervello neurodivergenteFonte: https://www.dirime.com/wp-content/uploads/2022/12/Il-dibattito-sulla-neurodivergenza-tra-priorita-e-nuove-narrazioni.jpg
Rappresentazione di un cervello neurodivergente
Fonte: https://www.dirime.com/wp-content/uploads/2022/12/Il-dibattito-sulla-neurodivergenza-tra-priorita-e-nuove-narrazioni.jpg

 

Neurodivergenza e spettro autistico

A fine 2024, l’informazione scientifica corre repentina e, fortunatamente, leggiamo e sentiamo parlare sempre più spesso di terminologie come “neurodivergenza” o “neuroatipico”.

Ma cosa significano queste parole?

Nella sconfinata eterogeneità umana, ci accorgiamo che molteplici persone condividono un determinato numero di caratteristiche rispetto ad altre, quelle che la società ci impone come concetto di “normalità”, ovvero un’utopia.

Se è vero che la maggioranza degli individui percorre uno sviluppo neurologico che può essere considerato tipico, una parte minore della popolazione (che alcuni situano tra il 15 e il 20%), invece, condivide uno sviluppo neurologico sotto certi aspetti differente dalla maggioranza, descritto da un punto di vista statistico come atipico.

Queste persone sono definite neuroatipiche o neurodivergenti. Tra loro possiamo trovare individui autistici, ADHD, con disturbi specifici dell’apprendimento, eccetera.

Nell’ultima edizione del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) ormai non si parla più di autismo” ma di disturbi dello spettro autistico”. Una definizione, che indica una serie di condizioni caratterizzate da difficoltà di comunicazione e interazione sociale, e da comportamenti limitati e ripetitivi che possono affliggere un soggetto, che elimina la classificazione in tipologie, riportata nella versione precedente del manuale.

Tenendo presente che questa classificazione dell’autismo in tipologie è ormai obsoleta, la penultima edizione del DSM dedicava una trattazione ai disturbi pervasivi dello sviluppo, i quali comprendevano nello specifico: autismo, sindrome di Asperger, sindrome di Rett, disturbo disintegrativo dell’infanzia e disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato.

Il DSM-5 distingue, in base a dei parametri, tre livelli di gravità dell’autismo: livello 1, un tempo detto anche ad alto funzionamento; livello 2, ovvero medio funzionamento; e livello 3, che chiamavano basso funzionamento.

Andy WarholFonte: https://hamiltonselway.com/wp-content/uploads/2017/08/Warhol.jpg
Andy Warhol
Fonte: https://hamiltonselway.com/wp-content/uploads/2017/08/Warhol.jpg

Andy Warhol, il padre della Pop Art

Andy Warhol è stato uno dei più importanti artisti americani del XX secolo, ed è riconosciuto come il padre della Pop Art.

Cambiò l’idea stessa di artista, che per la prima volta divenne imprenditore di sé stesso.

Warhol era dotato di un’abilità comunicativa non comune e di una grande capacità di osservazione, costruendosi, grazie a queste, un’immagine da “divo”, prima che di semplice artista.

Nasce a Pittsburgh il 6 agosto 1928. Sin dai primi anni della sua vita, sviluppa una vocazione per l’arte, che lo porterà a dedicarvisi a 360º. Spazia dalla pittura alla grafica, dall’illustrazione alla sceneggiatura, fino alla regia e molto atro.

La sua carriera ha inizio a New York, quando comincia a lavorare come grafico pubblicitario presso alcune riviste, come Vogue e Glamour.

Dal mondo della comunicazione esordì il suo tratto distintivo: il linguaggio impersonale, volto a fare un tipo di arte che fosse registrazione “oggettiva” della realtà.

Innumerevoli le sue opere, di cui ne passeremo in rassegna solo poche delle più iconiche giusto per farvi assaggiare il genio del personaggio e della persona dietro al personaggio.

Andy, durante la sua vita, circondato da altri con cui scambiare suggerimenti ed idee, lavorò alla Factory con ritmi serrati, da “catena di montaggio”.

La Factory era una open house,  uno “spazio ideologico” libero, dove le nozioni della Pop Art diventavano vita giornaliera.

Il gruppo era un nucleo con un linguaggio comune, uno stile fondato sull’accettazione di qualsiasi comportamento, senza pretese o giudizi. Chiunque era invitato a partecipare e, per questo, da qui nacquero e passarono diversi personaggi di spicco dell’epoca, tra cui Bob Dylan, David Bowie e Keith Haring.

Nel giugno 1968, Warhol e il suo compagno vennero feriti con una serie di colpi d’arma da fuoco dalla femminista Valerie Solanas. L’incidente danneggiò tutti i principali organi interni dell’artista e segnò profondamente la sua vita, facendolo sentire a tutti gli effetti un “sopravvissuto”.

Andy Warhol morì a New York, avvolto nel suo velo di “mistero” e timidezza, il 22 febbraio 1987, in seguito a un intervento chirurgico alla cistifellea.

Dopo la morte, la sua fama crebbe a tal punto da renderlo il secondo artista più comprato e venduto, dopo Pablo Picasso.

Quattro lattine di Coca Cola, Andy Warhol
Quattro lattine di Coca Cola, Andy Warhol

 

Opere del genio

Tramite tecniche di produzione industriale come la serigrafia su tela, Andy raffigurava oggetti di uso comune e alla portata di tutti i ceti sociali in serie, alterandone il colore, come detersivi, zuppe Campbell o Coca-Cola. Secondo le sue ideologie, infatti, l’arte doveva essere di immagini oggettive e “pronte alla consumazione”. Come un prodotto da supermercato, insomma.

Ben presto gli oggetti e le persone da lui raffigurati diventarono icone del modo di vivere americano.

Dittico di Marilyn, Andy Warhol, 1962
Dittico di Marilyn, Andy Warhol, 1962


Tra le persone raffigurate nelle opere del maestro di questa Pop Art, ricordiamo, per esempio, Marilyn Monroe.

Andy era così interessato a mostrare nelle sue opere prodotti di largo consumo che non poteva perdere l’occasione di mostrare l’attrice come un altro prodotto della cultura popolare, come si può vedere nel suo primo lavoro sull’attrice “Dittico di Marilyn”.

Non si trattò di un vero e proprio ritratto, quanto piuttosto della riproduzione della sua immagine pubblica, diffusa dai media, sempre in serie, per compiacere gli ammiratori.

Sleep, Andy Warhol, 1963
Sleep, Andy Warhol, 1963

La pratica del distacco emotivo fu principale nel modus operandi di Warhol: anche i suoi prodotti cinematografici ne sono testimonianza.

Uno dei suoi lavori d’avanguardia, “Sleep”, del 1963, mostra un uomo che dorme per cinque ore e venti. Girato senza sonoro, con caratteristiche che rallentano e amplificano l’immagine del film, che viene percepito in un tempo lunghissimo e oggettivamente.

Diagnosi e controversie

Esperti come Judith Gould, direttore del principale centro diagnostico per l’autismo nel Regno Unito, insistono sul fatto che sia palese che Andy Warhol fosse autistico, seppur la sua è solo una diagnosi post mortem.

In fin dei conti, il mantra dell’artista è ben chiaro: fissazione e ripetizione dei concetti, distacco emotivo, impersonalità.

Gran parte del lavoro dell’artista verte sulla ripetizione, sulla quale solitamente si concentrano i comportamenti delle persone autistiche.

Nelle interviste, inoltre, è facile notare che il padre della Pop Art replicava quasi sempre alle domande con risposte monosillabiche. Forse prova della sua dislessia verbale, comune tra le persone nello spettro?

Tuttavia, non è unanime il pensiero che Andy fosse autistico. Coloro che sostengono questa diagnosi postuma suggeriscono che il diverso modus operandi di Warhol sia stato calcolato nel tentativo di “aumentare il senso del suo mistero”.

Fonte: https://www.metododanielenovara.it/wp-content/uploads/2024/03/Ripensare-le-diagniso-sullautismo-scaled.jpg
Fonte: https://www.metododanielenovara.it/wp-content/uploads/2024/03/Ripensare-le-diagniso-sullautismo-scaled.jpg

Non bisogna guardare alla diagnosi di spettro autistico come un difetto della persona in questione o qualcosa che necessariamente segnerà in maniera negativa la sua esistenza, ma come un punto di forza, di acuta distinzione dalla massa.

Notate bene, affermando ciò non intendo “spettacolarizzare” questa condizione umana, bensì ricordare che una neurodivergenza, una diversità, non definisce l’individuo.

Magari, neurodivergente che stai leggendo, la tua serrata abitudine di uscire di casa tutti i giorni esattamente alle 7.44 del mattino, oggi, potrebbe essere vista come un’ossessione… Ma chissà che diventi il tuo marchio di fabbrica, il tratto distintivo della tua popolarità, domani.

Fonti:

https://specialisterneitalia.com/autismo-neurodiversita-e-neurodivergenza/

Autismo e disturbi dello spettro autistico: di cosa si tratta?

https://www.finestresullarte.info/arte-base/andy-warhol-vita-opere-padre-della-pop-art

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Andy_Warhol

Le 30 persone nello spettro autistico più famose della storia

Stretto-Art, il primo evento artistico siglato StrettoCrea

Messina si prepara ad accogliere la prima edizione di Stretto-Art, progetto che chiuderà il ciclo dei grandi eventi promossi dall’Associazione StrettoCrea. Dopo il successo di StrettoGames e MessinaCon, i locali del PalaCultura ospiteranno l’11 e il 12 ottobre un evento che promette di ridefinire il concetto di arte nella città dello Stretto.

Ma cos’è, nello specifico, Stretto-Art? A spiegarlo è Giuseppe Mulfari, Presidente di StrettoCrea e organizzatore dell’evento: “È il primo evento artistico fatto da Stretto Crea. Nasce dalla necessità di creare un contatto diretto tra arte e fruitore con uno sguardo alla tecnologia e all’architettura. Vogliamo far pensare alle persone che l’arte si può fare anche in una maniera diversa”.

Stratto-Art
Locandina Stretto-Art 2024 – Fonte: StrettoCrea

Un nuovo modo di vivere l’arte

Contrariamente alle mostre convenzionali, Stretto-Art offrirà agli artisti uno “spazio dedicato” in cui potranno esprimersi liberamente, creando un’interazione più diretta con il pubblico.

L’evento vedrà la partecipazione di 20 artisti che avranno dunque la possibilità di esibirsi dal vivo per tutta la durata del festival. Tra questi, spiccano nomi importanti come un celebre tatuatore e pittore, insieme a un esperto che terrà una conferenza su un tema di grande attualità: l’arte e la realtà aumentata. Questo intervento sottolinea l’intento di StrettoCrea di fondere arte e tecnologia, aprendo le porte a nuove forme espressive. Ospite d’eccezione della prima edizione sarà Murubutu, noto rapper emiliano e ideatore del cosiddetto “rap didattico”.

Questa prima edizione di Stretto-Art è stata pensata come una sorta di betaper vedere come il pubblico recepisce” e raccogliere suggerimenti utili per le prossime edizioni. Mulfari avrebbe già preannunciato grandi piani per il futuro. Nonostante la natura sperimentale di Stretto-Art, i primi riscontri, anche sui social, lasciano ben presagire sul futuro del progetto.

Di seguito, l’elenco degli artisti partecipanti e il programma completo:

 

GLI ARTISTI

  • Sam Levi
  • Magda De Benedetto
  • Eleonora Roxanne Cali
  • Dario Tavormina
  • Giuseppe Orlando
  • Kintsugi
  • Antro Incantato
  • Aniram Arts
  • Martina Karamazov
  • Xander 3D
  • Zeudi Art
  • Giulia Moschella
  • Fabio Alibrandi
  • Mariella Bellantone
  • Benedetto Norcia
  • Antonella Bambino
  • Mirella Migliorato
  • Miriana De Luca
  • Starlight Studio
  • Simone Ventura
  • Marco Pavone
  • Spiralware
  • Liceo Artistico “Basile” Design Arte della Moda

 

PROGRAMMAZIONE WORKSHOP E TALK

11 OTTOBRE, apertura ore 11:00

Sala Palumbo, ore 11:30:

Lectio Magistralis dell’Architetto Francesco Ferla “Accessibilità e Realtà virtuale”

Sala Palumbo, ore 17:00:

“Compagnia Carullo-Minasi” e “Teatro delle Perle di Vetro” presentano “Appunti di drammaturgia: Workshop di introduzione e perfezionamento sulla drammaturgia teatrale”

 

12 OTTOBRE, apertura ore 10:00

Sala Palumbo, ore 10:30:

Workshop sulla raffigurazione dell’anatonima umana nel disegno a cura Sam Levi

Sala Palumbo, ore 16:30:

Workshop a cura di Terremoti di carte ed Eriador “Chi ha paura dell’eroe?” con Nancy Antonazzo e Marco Boncoddo

Sala Palumbo, ore 19:30:

Talk “LettaratuRap” con Murubutu. Modera UniversoMe. Seguirà firmacopie a cura di Fumetteria La Torre Nera.

 

*I biglietti sono acquistabili presso postoriservato.it o alla biglietteria durante i giorni dell’evento.

 

Giusy Lanzafame