Diabete Mellito e Covid-19: l’incontro di due pandemie

Il diabete mellito di tipo 2 e l’obesità rappresentano due entità cliniche spesso correlate, oggi dilaganti fra la popolazione mondiale, tanto da costituire una vera e propria pandemia.

Nel 2019 nel mondo erano 463 milioni le persone con diabete mellito tipo 1 e 2, di cui 59 milioni in Europa. Si prevede che nel 2045 si arriverà a 700 milioni di soggetti affetti.

Si tratta di dati allarmanti e dalla crescita esponenziale. Nonostante ciò, il diabete continua ad essere descritto come una “pandemia silenziosa” poiché, alla stregua di molte altre patologie croniche, non suscita la stessa preoccupazione delle malattie infettive acute. Queste ultime, per la loro celere modalità di trasmissione, accompagnata da un rapido impennarsi di contagi, vedono maggiore impatto nella visione collettiva. Questo è uno fra i tanti effetti che stiamo sperimentando a nostre spese in questo delicato periodo, con il crescere del numero di soggetti positivi al Covid-19.

Da un lato abbiamo una pandemia silenziosa, che per le sue caratteristiche ha tutto il tempo necessario per evolversi e condurre verso quadri clinici severi, dall’altro quella da Coronavirus, che per le sue implicazioni cliniche e socioeconomiche è tutt’altro che silente.

Pur essendo delle entità diverse, le due pandemie celano aspetti che le vedono co-protagoniste, scontrandosi clinicamente su più fronti.

Il diabete rappresenta non solo una tra le più frequenti comorbilità segnalate nei pazienti con COVID-19, ma anche un fattore di rischio per gli esiti più severi che la contrazione dell’infezione può avere nei pazienti diabetici.

 

                                                   Dati: International Diabetes Federation, IDF DIABETES ATLAS IX Edizione 2019

Globesità

L’obesità ha un ruolo chiave nell’insorgenza del diabete mellito di tipo 2.

A livello mondiale, negli ultimi 40 anni, il numero di soggetti obesi è quasi triplicato. Anche l’obesità si accompagna più frequentemente a forme critiche di COVID-19.

Un importante studio denominato CORONADO ha valutato specificatamente la relazione esistente tra le classi di Body Mass Index (BMI) e la prognosi di COVID-19 nei pazienti diabetici.

Sono state analizzate le caratteristiche cliniche dei pazienti diabetici e i risultati correlati al COVID-19, in termini di maggiore ricorso a intubazione attraverso ventilazione meccanica invasiva e aumentata mortalità, in base al BMI individuale.

Come atteso, è emerso che l’obesità conclamata si associa a una prognosi infausta nei pazienti con diabete ricoverati per COVID-19.

Aspetti nutrizionali

L’eccessivo consumo di alimenti ricchi in grassi saturi, zuccheri e carboidrati raffinati contribuisce ad incrementare la prevalenza di tali condizioni morbose.

Questo tipo di alimentazione, ipercalorica e disregolata, costituisce uno tra i principali fattori responsabili della compromissione del nostro sistema immunitario, in grado di alterare i meccanismi di difesa dell’ospite contro i virus.

Pertanto, in questo periodo più che mai risulta necessario migliorare il proprio stile di vita, ricercando cibi sani, ai fini di ridurre la suscettibilità e le complicazioni a lungo termine da COVID-19.

Glucovigilanza

Oltre alle misure preventive generali, è necessario monitorare regolarmente la glicemia. Si tratta di un parametro costituente un importante punto di snodo per l’iter terapeutico di tutti i pazienti diabetici.

Nei pazienti affetti da Covid non è di infrequente riscontro anche uno scarso controllo glicemico.

D’altra parte questi pazienti, anche se non sono affetti da Covid-19, sono a rischio di inadeguato controllo glicemico.  Ciò è dovuto alle misure restrittive che hanno compromesso, soprattutto nei mesi scorsi, una assidua assistenza sanitaria.

La pandemia da COVID-19 ha influenzato la gestione dei pazienti diabetici in modi senza precedenti, rendendola più difficoltosa di quanto non fosse già. Tuttavia, con il subentrare della nuova era digitale anche in campo medico, gli sviluppi della telemedicina offrono innovative possibilità nel monitoraggio dei pazienti.

Gli inibitori di DPP-4 come innovativa strategia terapeutica del Covid-19

Fonte: V. Stalin Raj et al Nature, “Il Recettore DPP4 essenziale per la replicazione dei Coronavirus Umani”

Tra le via d’ingresso del Coronavirus a livello cellulare, una tra le più peculiari è rappresentata da quella che sfrutta il recettore Dpp-4. Esso, presente su tutte le cellule dell’individuo ospite, costituisce una “serratura molecolare” che il virus usa per invaderle.

Si tratta della stessa via  su cui agiscono mirabilmente molti farmaci anti-diabete, noti come Inibitori di DPP-4. Ciò indica che gli stessi farmaci potrebbero essere usati contro il Covid-19, almeno nei casi più lievi.

L’osservazione ha aperto il campo a nuove strategie e ipotesi per il futuro, ma al momento si attendono ulteriori studi, affinchè si possa avvalorare il ruolo protettivo di tale possibilità terapeutica.

Prospettive future

Un messaggio positivo è quello emerso da uno studio condotto dai ricercatori dell’Ospedale San Raffaele. Alla luce dei risultati ottenuti, i pazienti diabetici sono in grado di produrre anticorpi con la stessa efficacia della popolazione sana.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Diabetologia, lascia uno spiraglio di fiducia: quando sarà disponibile un vaccino per il nuovo coronavirus, tra quelli attualmente in corso di sperimentazione, è plausibile che anche i pazienti diabetici potranno beneficiarne.

Pertanto, se da un lato i soggetti con DM2 hanno rappresentato e continuano a rappresentare una fascia di popolazione tra le più colpite da severe complicanze da Covid-19, dall’altro lasciano intendere possibilità terapeutiche che danno speranza.

                                                                                                                                                                                                                              Federica Tinè

 

Bibliografia:

  • https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32345579/

“Clinical characteristics and outcomes of patients with severe covid-19 with diabetes”

  • https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32369736/

“Association of Blood Glucose Control and Outcomes in Patients with COVID-19 and Pre-existing Type 2 Diabetes”

  • https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33062712/

Clinical Features of COVID-19 Patients with Diabetes and Secondary Hyperglycemia”

  • https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32413342/

COVID-19 in diabetic patients: Related risks and specifics of management”

  • https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33051976/

“Relationship between obesity and severe COVID-19 outcomes in patients with type 2 diabetes: results from the CORONADO study”

 

 

 

 

Un anticorpo monoclonale per la lotta al coronavirus

Recentemente la corsa al vaccino anti-SARS-CoV2 sembra aver ricevuto un’accelerata decisiva: in studi di fase tre, i due sieri delle case farmaceutiche americane Pfizer e Moderna sono risultati efficaci in più 90% dei casi. Ma, oltre al vaccino, ci sono altre vie che ci potranno aiutare ad uscire una volta per tutte da questa pandemia globale? La risposta è sì: il 28 ottobre è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine uno studio sull’utilizzo dell’anticorpo monoclonale LY-CoV555 (sempre di una casa farmaceutica americana, Ely Lilly). Questo riuscirebbe a ridurre l’ospedalizzazione dei malati Covid dal 70 al 90%.

Sede centrale di Eli Lilly ad Indianapolis (USA)

Prima di tutto: cos’è un anticorpo monoclonale?

Gli anticorpi o immunoglobuline sono glicoproteine prodotte normalmente dei nostri linfociti B, attivati a plasmacellule, in risposta all’incontro con antigeni patogeni. Gli anticorpi monoclonali hanno lo stesso obiettivo, ma li produciamo in laboratorio attraverso metodiche di ingegneria genetica.

Si tratta di una tecnologia nuova? No, tutt’altro. Dobbiamo la loro scoperta a Georges Koheler e Cesar Milner, che nel 1984 vinsero il Nobel per la medicina. La prima tecnica utilizzata per produrli è stata quella dell’ibridoma, che sfrutta cellule di origine murina e conta una serie di passaggi:

  1. Immunizzazione del topo attraverso l’iniezione dell’antigene verso cui vogliamo produrre gli anticorpi.
  2. Prelievo delle plasmacellule murine dalla milza.
  3. Fusione di queste cellule con cellule neoplastiche in coltura: si ottiene una cellula detta ibridoma, che produce una quantità elevata del nostro anticorpo.
  4. Quindi moltiplicazione dell’ibridoma in coltura.

Oggi esistono anticorpi monoclonali totalmente umani, così da superare completamente il rischio di immunogenicità.

Tipologie di anticorpi monoclonali in base alla composizione prevalentemente murina o umana

 

Alcuni esempi

Prima di parlare dello studio che ha dimostrato l’efficacia di LY-coV555 nei pazienti affetti da Covid-19, vediamo alcuni degli anticorpi monoclonali oggi utilizzati.

  • Omalizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro le IgE, ovvero le immunoglobuline coinvolte nelle reazioni allergiche. È indicato nel trattamento dell’asma allergico grave e dell’orticaria, quando le altre terapie non si sono dimostrate valide per il controllo della malattia.
  • Trastuzumab, anch’esso un anticorpo umanizzato, è rivolto contro il dominio extracellulare del recettore HER-2, utilizzato nei carcinomi mammari che lo iper-esprimono. Il settore oncologico è probabilmente quello in cui gli anticorpi monoclonali stanno portando le migliori innovazioni.
  • Infliximab è invece un anticorpo chimerico, il suo bersaglio è il fattore di necrosi tumorale e la FDA (Food and Drug Administration) lo ha approvato per alcune malattie autoimmuni, come il morbo di Crohn, la colite ulcerosa, la spondilite anchilosante, la psoriasi e l’artrite psoriasica.

Altro esempio è il Tocilizumab: questo agisce da immunosoppressore bloccando l’azione di una delle citochine chiave della risposta infiammatoria, ovvero l’interleuchina 6 (IL-6). È il gold standard nell’artrite reumatoide e, nel mese di aprile ad inizio della pandemia, era stato utilizzato con discreti risultati anche per il trattamento di alcuni pazienti affetti da Covid-19.

Il trial sull’anticorpo monoclonale LY-CoV555

LY-CoV555 ha un meccanismo d’azione molto semplice da spiegare, si tratta di un potente anticorpo anti-spike. Lega ad alta affinità il dominio della spike di SARS-CoV-2 che gli permette di penetrare nelle nostre cellule e lo neutralizza.

https://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-8285333/Antibody-prevents-COVID-19-virus-infecting-human-cells.html

Il trial della Ely Lilly ha coinvolto 452 pazienti provenienti da 41 centri degli Stati Uniti, tutti testati positivi al nuovo coronavirus e presentanti sintomi lievi o moderati. La popolazione in studio è stata suddivisa in due bracci: uno riceveva un’infusione endovenosa di LY-CoV555, mentre l’altro un placebo. Nel primo braccio possono essere distinti anche tre sottogruppi in base alla dose di farmaco ricevuta, rispettivamente 700 mg, 2800 mg e 7000 mg.

L’outcome primario dello studio era quello di calcolare la variazione della clearance virale all’undicesimo giorno rispetto al giorno dell’infusione. Entrambi i gruppi hanno mostrato un miglioramento, con una diminuzione media di -3,81 nell’intera popolazione dal valore basale. Coloro che avevano ricevuto il farmaco hanno mostrato un maggior decremento del gruppo “placebo”. In questo il sottogruppo ottimale è risultato essere quello con il dosaggio intermedio di LY-CoV555, ovvero 2800 mg.

Quali effetti su ricovero e sintomi? E quali effetti indesiderati?

Per quanto riguarda l’ospedalizzazione, al 29esimo giorno soltanto l’1,6% dei pazienti trattati era ancora in ospedale e di questi la maggioranza aveva un’età superiore a 65 anni ed un BMI superiore a 35, considerati comunque fattori di rischio aggiuntivi. Nel gruppo placebo il tasso di ospedalizzazione alla stessa data era invece del 6,3%.

Ulteriore risultato positivo riguarda i sintomi. Questi sono stati valutati clinicamente mediante uno score: ognuno stimato da 0 (nessun sintomo) a 3 (sintomi severi). Il punteggio totale raggiungibile era di 24 ed i principali sintomi considerati erano: tosse, perdita del respiro, febbre, fatica, mal di gola, mal di testa e perdita dell’appetito. LY-CoV555, a qualsiasi dosaggio, ha dimostrato di ridurre la durata del periodo sintomatico, come evidente nel grafico seguente.

Nel trial non si sono verificati effetti avversi gravi nei pazienti del gruppo “farmaco”, mentre per quanto riguarda gli effetti avversi non considerati gravi questi si sono manifestati nel 22,3%. Il più frequente riportato era la nausea (3,9%), seguita da diarrea (3,2%) e vertigini (3,2%).

Lo studio non ha coinvolto gravi ammalati e solo uno degli arruolati, appartenete al gruppo “placebo”, è finito in terapia intensiva. Altro punto a svantaggio di questa terapia è il costo degli anticorpi monoclonali e, come detto dalla virologa Ilaria Capua in una recente intervista, “è illusorio pensare che questa cura possa arrivare a tutte le persone in pochi mesi”Nel frattempo rispettiamo le regole, utilizzando le mascherine e mantenendo il distanziamento sociale.

Antonio Mandolfo

 

 

Bibliografia

https://www.infomedics.it/servizi/biotecnologie/la-storia.html

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2029849

http://www.informazionisuifarmaci.it/omalizumab

Covid-19: primo cane positivo in Italia, infettato dai padroni. Nessun pericolo di contagio

Anche gli animali sono suscettibili al Covid-19?

Da alcuni studi di analisi biomolecolare e genomica condotti dall’Università della California a Davis, è stato reso noto che animali di diversi ordini e specie sono esposti al rischio di essere infettati dal nuovo SARS-CoV-2.

Questo perché in oltre 410 specie di vertebrati è presente il recettore ACE2 (Angiotensin Converting Enzyme 2). Esso permette al virus di legarsi alle cellule dell’epitelio polmonare, il quale consente di proteggere da stress, infezioni e infiammazione i polmoni.

Da tale ricerca risulterebbe confermata l’alta suscettibilità del gatto e in misura minore del cane.

La bassa suscettibilità nel cane e la sua carica virale

Cinque beagle sono stati inoculati con il virus per via nasale e alloggiati con due beagle non inoculati. I tamponi orofaringei e rettali di ciascun cane sono stati raccolti e studiati. L’RNA virale è stato rilevato solo nei tamponi rettali di due cani inoculati col virus, ma non in organi o tessuti. Inoltre, il virus non è stato trasmesso a nessun esemplare trattato. Questi risultati indicano che i cani hanno una bassa suscettibilità alla SARS-CoV-2 e scarsa carica virale.

Nonostante la rilevazione di tali dati, ci sono noti casi di cani infetti. Il primo si è verificato a Wuhan nel dicembre 2019. Ad inizio giugno è stato diagnosticato un caso in un pastore tedesco a New York, dal NVSL (National Veterinary Services Laboratories) degli USA. E, ancora, è stata confermata la presenza di due cani a Hong Kong e uno in Belgio.

E’ stato dimostrato mediante PCR con trascrizione inversa, sierologia, sequenziamento del genoma virale e isolamento del virus che ben 2 cani su 15 sono infetti (ricerche condotte a Wuhan). Gli esemplari in questione sono provenienti da famiglie con membri positivi.

Il caso italiano: il barboncino di Bitonto

Pochi giorni fa un caso analogo è stato rilevato a Bitonto (BA) dal Professor Nicola Decaro, Professore ordinario di malattie infettive degli animali presso l’Università di Bari e componente dell’Executive Board Del College Europeo di Microbiologia Veterinaria.

Un esemplare femmina di barboncino di un anno e mezzo è risultato positivo al Covid-19 con una carica virale bassa.

I padroni sono risultati positivi al test e sintomatici. E’ stata loro premura inviare i tamponi all’Università di Bari per eseguire gli accertamenti in accordo alle norme di legge.

Il primo tampone positivo sul cane risale al 5 novembre e l’esito è stato riconfermato dai successivi test molecolari. Gli animali non sono un pericolo per la nostra salute, piuttosto i padroni hanno trasmesso la malattia al loro animale.

Il Professor Decaro fin dalla prima ondata dell’epidemia si è occupato dello studio dell’andamento del virus negli animali d’affezione. Ad oggi erano stati accertati in Italia, soprattutto in Lombardia, casi di cani positivi al test sierologico. Il dato è interessante perché prova che gli animali in questione avevano contratto il virus in passato e sviluppato gli anticorpi.

 

A cosa vengono sottoposti i nostri amici a quattro zampe?

Il veterinario ASL sottopone l’animale al tampone, ripetendolo dopo 7 e 14 giorni successivi. I campioni vengono poi inviati all’IZS competente per territorio. In caso di positività, il tampone viene ripetuto fino a negativizzazione. E’ importante precisare che l’animale non viene allontanato dal nucleo familiare e , in ogni caso, non potrà essere sottoposto ad eutanasia.

Lo studio virologico prevede un prelievo di sangue o raccolta delle feci dell’animale nel caso in cui non sia trattabile. Il sangue viene trattato senza anticoagulate per il test sierologico. Inoltre l’animale può essere sottoposto al tampone nasale, faringeo e rettale. In caso di decesso dell’animale, è necessario allertare i Servizi Veterinari per l’invio delle carcasse alla sede dell’ IZS per  effettuare indagini post mortem. Questi segnalano all’ ASL, alla Regione e al Ministero della Salute tutti gli eventuali casi di positività.

Gestione degli animali da compagnia

Se il detentore di un animale d’affezione risulta positivo al covid-19, dovrà segnalare la presenza di animali domestici ai servizi sanitari dell’ASL.

  • In caso di infezione da COVID-19 in un nucleo familiare è raccomandato che gli animali restino presso la famiglia. La persona infetta deve evitare il contatto ravvicinato con l’animale.
    Se non fosse possibile detenere l’animale, esso potrà essere preso in custodia da terzi, i quali non dovranno avere contatti con il padrone dell’animale.
  • Se in un nucleo familiare una o più persone sono sottoposte a ricovero per COVID-19, l’animale verrà affidato a terzi disposti ad accudirlo presso il proprio domicilio o in quello originario preventivamente sanificato.

E’ bene puntualizzare che l’epidemia da SARS-CoV-2 è alimentata unicamente dalla trasmissione del virus tra individui umani o mediante il contatto con oggetti contaminati, senza alcun coinvolgimento di animali. Pertanto non abbandoniamo i nostri fidati amici, piuttosto preserviamo la loro salute.

Francesca Umina

Bibliografia

https://www.lescienze.it/news/2020/08/27/news/animali_rischio_covid-19_coronavirus-4785236/

https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-differenze-genere-possibilimeccanismi

Infezione da Sars-Cov-2 negli animali: incidenza e trasmissione

https://bari.repubblica.it/cronaca/2020/11/11/news/cane_positivo_covid_puglia273938357/

https://www.izsvenezie.it/wp-content/uploads/2020/04/ministero-salute-linee-guida-pets-covid19.pdf

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32408337/

https://science.sciencemag.org/content/368/6494/1016.long

 

 

 

 

 

Plasma di soggetti guariti contro il COVID-19: ottimismo per il nuovo trattamento

Sono oltre 70000 in Italia le persone che hanno vinto la battaglia contro il Coronavirus. Potrebbero aiutare chi ancora sta lottando con il virus? Utilizzare il plasma dei pazienti guariti come terapia per l’infezione da SARS-CoV-2 fa ben sperare.

Farmaci Covid-19: a che punto siamo

La pandemia da Coronavirus ha creato una grave crisi sanitaria in tutto il mondo.  Sviluppare un vaccino o dei farmaci antivirali specifici in questo momento rappresenta una priorità, ma si prospettano ancora tempi non molto vicini per la loro commercializzazione ed utilizzo.

Nell’attesa si è dato il via all’utilizzo di farmaci off-label come lopinavir/ritonavir, idrossiclorochina, eparina; essendo “presi in prestito” da altre malattie, questi farmaci non presentano indicazioni terapeutiche specifiche per il trattamento della Covid-19. In questo momento sono in atto diversi studi sperimentali che si spera portino presto a nuove informazioni in merito alla loro reale efficacia e sicurezza.

Tra le varie proposte di trattamento nell’ultimo periodo ha attirato l’attenzione la possibilità di curare gli infetti con il plasma dei pazienti che hanno già superato l’infezione.  Per gli esperti non è niente di nuovo, in passato fu già utilizzata con successo anche per altre epidemie come SARS, MERS e H1N1 con efficacia e sicurezza soddisfacenti.

Terapia con il plasma, cosa significa?

Quando vi è in atto l’invasione da parte di un microrganismo, l’uomo attiva il suo sistema immunitario per difendersi. Si instaura così un meccanismo di riconoscimento del patogeno da parte dei leucociti, che genera una risposta mediata dalla produzione di anticorpi specifici per eliminarlo. Questo processo però richiede tempo, spesso anche settimane, e in base al tipo d’infezione l’individuo potrebbe anche perdere la vita. La formazione di anticorpi specifici per un microrganismo è quindi fondamentale.

Tra i vari anticorpi prodotti da un’individuo nel corso dell’infezione abbiamo: le IgM e le IgG. Le prime sono immunoglobuline prodotte nelle prime fasi dell’infezione e la loro presenza nel sangue indica un’infezione in corso. Le IgG, prodotte più tardivamente, indicano invece l’immunizzazione del paziente verso il patogeno nel tempo. Ovvero, la presenza di quest’ultime nel sangue dell’individuo indica che esso ha contratto il virus e ha già sviluppato un “esercito” pronto a combatterlo.

Un recentissimo studio pubblicato su Nature Medicine conferma che, i pazienti con Covid-19, a distanza di 19 giorni dai sintomi, hanno sviluppato tutti (285 i casi esaminati) immunoglobuline-G (IgG) contro SARS-CoV-2.

Ottenuto attraverso la centrifugazione del sangue, il plasma rappresenta la sua parte liquida, all’interno della quale sono presenti vari componenti, principalmente acqua, proteine (tra queste anche anticorpi) e sali minerali.

Fornire ad un malato di Covid-19 il plasma proveniente da un paziente precedentemente infetto, potrebbe essere utilizzato come cura, ma anche come profilassi per sfuggire all’infezione.

 

Lo studio

In Cina è stato effettuato uno studio che riporta l’esito dell’utilizzo di questa pratica clinica. I dati riguardano pochi pazienti, quindi vanno eseguiti ulteriori sperimenti e verifiche sulla sua effettiva sicurezza ed efficacia. I primi risultati suggeriscono che potrebbe essere un approccio utile nel trattamento dei pazienti più critici.

Prelevati da 40 pazienti guariti, 39 campioni di plasma hanno dimostrato di avere un alto titolo di anticorpi. Per svolgere il trattamento in completa sicurezza il plasma, prima di essere somministrato, è stato trattato eliminando eventuali tracce di Coronavirus o altri patogeni. Ad essere arruolati sono stati 10 pazienti con una media di 52,5 anni che presentavano sintomi importanti.

Gli effetti della terapia

Somministrando 200 mL di plasma si è potuto osservare un miglioramento dei sintomi clinici (febbre, dolore al petto, tosse) entro 3 giorni e la scomparsa della viremia dopo 7 giorni. Esami radiologici hanno mostrato assorbimento delle lesioni polmonari entro 7 giorni. Lo studio ha dimostrato anche sicurezza della trasfusione e assenza di effetti avversi severi.

Benché sia una ricerca preliminare, ha provato che la terapia con il plasma può migliorare le condizioni cliniche del paziente e neutralizzare la viremia.

I primi trial clinici anche in Italia

Ultimamente l’interesse degli esperti si è rivolto verso questo tipo di cura. La Food and Drug Administration ha già approvato il trial clinico per l’impiego del plasma da convalescenti come trattamento per i pazienti critici con infezione da Covid-19.

Non solo all’estero! Anche l’Italia si sta muovendo in questa direzione, in diversi ospedali sono già iniziate le sperimentazioni nei pazienti più gravi. Gli ospedali di Mantova, Pavia, Roma sono solo alcuni in cui si sta già adottando questa tecnica che finora ha dato esiti positivi.

Nonostante la dimostrazione che ci sia una ripresa con una riduzione della convalescenza, la terapia  potrebbe presentare dei limiti: una sola donazione basta per pochi pazienti e non tutti gli anticorpi sono potenti in egual modo.

E se potessimo selezionare soltanto gli anticorpi migliori?

Sempre basata sul plasma dei guariti, gli esperti stanno cercando anche un’altra soluzione: gli anticorpi d’elitè.  A lavorarci è un gruppo di ricercatori del Rockefeller University Hospital di New York. Il piano è di trovare i pazienti che hanno combattuto il virus talmente bene che i loro anticorpi potranno diventare farmaci. Trovati quelli più efficaci, schierati dal sistema immunitario contro il SARS-CoV-2, il fine ultimo è di clonarli e usarli in campo clinico. Iniettare un concentrato di questi “super anticorpi” sarebbe utile per combattere il virus in pazienti e prevenire l’infezione in popolazioni ad alto rischio.

In una rapida evoluzione della pandemia, c’è bisogno di una cura efficace e mirata contro la Covid-19, come anche un vaccino che possa prevenirla. Nell’attesa del loro sviluppo, l’utilizzo della terapia con plasma convalescente potrebbe essere una soluzione.

Georgiana Florea

Trasformare il sangue di gruppo A in sangue di gruppo 0 (donatore universale): la soluzione sta nel nostro intestino

Da gruppo A a gruppo 0, il donatore universale, grazie ad enzimi estratti da batteri contenuti nel nostro intestino. Lo studio è stato recentemente pubblicato su Nature Microbiology, importante rivista scientifica, da un gruppo dell’Università della Columbia Britannica, di Vancouver, Canada. Il nuovo sistema potrebbe potenzialmente rappresentare una svolta riguardo alla carenza di sangue di donatori universali, specie nelle situazioni di emergenza. Ma andiamo con ordine.

La trasfusione di sangue diventa un impiego pratico e diffuso dopo l’identificazione del sistema dei gruppi sanguigni AB0 da parte di Landsteiner. Precedentemente le scarse conoscenze non permettevano di definire in anticipo la compatibilità tra due soggetti da trasfondere, rendendola una pratica estremamente pericolosa. La scoperta, valsa il premio Nobel nel 1930, permise di trattare con maggior successo condizioni che prevedevano una perdita significativa di sangue, per esempio dopo eventi traumatici o in ambito ostetrico o chirurgico. Successivamente vennero scoperti altri sistemi sulla superficie dei globuli rossi, tra cui, da parte dello stesso Landsteiner, il fattore Rh, molto importante in ambito ostetrico e nelle trasfusioni.

Il meccanismo prevede che, mischiando il sangue di due soggetti incompatibili, si verifichi una reazione che determina la distruzione dei globuli rossi donati con la liberazione del loro contenuto in circolo. Gli attori principali di questo fenomeno sono gli anticorpi del ricevente. Si tratta di proteine che sono capaci di legare dei “marcatori”, definiti antigeni, sulla superficie dei globuli rossi del donatore. Questi antigeni altro non sono se non le molecole che costituiscono il sistema AB0 e, in minor misura, gli altri sistemi.Sistema AB0 ed emolisi, fonte: Pinterest

Un soggetto di gruppo A presenterà anticorpi anti-B, un soggetto di gruppo B anticorpi anti-A, un soggetto di gruppo AB non presenterà anticorpi (ricevente universale) e un soggetto di gruppo 0 presenterà anticorpi anti-A e anti-B. In quest’ultimo caso si parla di donatore universale perché i suoi globuli rossi non sono marcati né dall’antigene A né dall’antigene B (per cui non possono essere attaccati dagli anticorpi del ricevente). La concentrazione di anticorpi presenti non è comunque sufficiente per determinare effetti importanti nel ricevente.

Ciò significa che il sangue con globuli rossi di gruppo 0, caratteristica di circa il 40% della popolazione in Italia, è estremamente prezioso. Esso può essere somministrato in (quasi) ogni situazione d’emergenza e rappresenta un’importante risorsa per i centri trasfusionali in Italia e nel mondo.

Da ciò l’importanza di produrre globuli rossi universali a partire da globuli rossi d’altro tipo. Negli ultimi 20 anni i tentativi sono stati molteplici, con discreti risultati sperimentali. Il problema fin’ora è stato riprodurre i metodi in larga scala a causa delle elevate concentrazioni di enzimi richieste o per la scarsa efficienza del processo.

Ora però i ricercatori della UBC hanno sviluppato un sistema che pare dare dei buoni risultati. A partire infatti da batteri che albergano all’interno del nostro intestino, hanno isolato degli enzimi capaci di modificare la porzione terminale dell’antigene A convertendolo con ottima efficienza nell’antigene 0 (detto, più precisamente, antigene H).

Più nello specifico la porzione degli antigeni del sistema AB0 capace di legare l’anticorpo (e determinare gli effetti post-trasfusionali) è una catena costituita da alcuni zuccheri. La differenza tra il gruppo 0 e il gruppo A sta in una molecola di N-acetilgalattosammina, uno zucchero per l’appunto, legato in posizione terminale. Attraverso gli enzimi isolati dal gruppo di ricerca è stato possibile deacetilare la molecola con la formazione di galattosammina e infine rimuovere il residuo con la conversione dei globuli rossi.

Il processo ha funzionato sia in una soluzione sperimentale sia all’interno di sangue intero. Sono stati infatti convertiti globuli rossi di gruppo A di 26 diversi donatori ed ha avuto successo anche la conversione di un’unità di sangue intera in modo completo. Gli enzimi sono poi stati rimossi dalla semplice centrifugazione a cui si sottopongono i globuli rossi durante la loro lavorazione.

Le concentrazioni di enzimi richieste non sono alte come nei lavori precedenti quindi il processo potrebbe essere potenzialmente eseguito in larga scala senza problemi di costi. Resta tuttavia da capire se i globuli rossi convertiti non possano comunque presentare un potenziale antigenico se somministrati a dei pazienti, a causa della formazione di nuove varianti antigeniche o per la modifica di altre proteine di superficie. Si tratta quindi di un’ipotesi attualmente lontana da un’applicazione pratica nella realtà clinica. Rimane comunque una prospettiva promettente.

Annualmente, infatti, in Italia si registrano gravi carenze di sangue durante i periodi estivi. La scorsa estate si è verificato un difetto di oltre 900 sacche, in alcune regioni della penisola, che hanno determinato grossi disagi per i soggetti periodicamente trasfusi e per chi doveva subire interventi chirurgici programmati e d’emergenza. In occasione della giornata mondiale del donatore di sangue, tenutasi il 14 Giugno, sono state diffuse le statistiche trasfusionali relative alla nostra penisola. Durante il 2018 sono state trasfuse più di 3 milioni di sacche di sangue. In media si parla di una donazione di sangue ogni 10 secondi che consente di trasfondere circa di 1.745 pazienti al giorno.
Antonino Micari