L’anima gemella esiste davvero?

Ci è stato detto – o forse lo abbiamo sempre saputo – che da qualche parte, al di là del visibile, una voce ci chiama per nome ancor prima che le sia dato un volto. Una presenza indefinibile, che non ambisce tanto a comprenderci quanto a riconoscerci nella nostra essenza più pura. Non un semplice riflesso, né un amore che ci rispecchi per somiglianza, ma un essere misteriosamente affine, la cui sola esistenza sembra ricomporre una frattura che ignoravamo di custodire. Abbiamo imparato a chiamarla anima gemella e l’abbiamo vestita di simboli e leggende, di attese e speranze, come se bastasse nominarla per renderla reale.

Eppure, quale inspiegabile alchimia spinge l’essere umano, sin dai tempi più remoti, a cercare nell’altro una metà smarrita? Da dove nasce questa convinzione che esista un frammento che ci appartiene, un volto predestinato capace di colmare la nostra incompiutezza?

Il mito degli androgini e la nostalgia dell’interezza

Tutto ebbe inizio, si racconta, con un atto divino che infranse la totalità primigenia dell’essere umano, generando due metà orfane e smarrite, sospinte da allora in avanti in una ricerca interminabile l’una dell’altra.

Nel Simposio di Platone, attraverso la voce di Aristofane, si dischiude uno dei miti più arcani e affascinanti della tradizione occidentale: quello degli androgini, creature ancestrali che racchiudevano in sé l’armonia dei contrari e la perfezione dell’unità.

Camminavano sul mondo con doppie membra – quattro braccia e quattro gambe – e due volti rivolti in direzioni opposte. La loro essenza era totalizzante: un’interezza che trascendeva i limiti del genere, della solitudine, della dipendenza. Non conoscevano la mancanza né il desiderio, perché in loro non vi era alcuna frattura. Vivevano in una pienezza autosufficiente che sfiorava l’onnipotenza.

Fu, però, proprio quella pienezza a suscitare il timore e la collera degli dèi. Gli olimpici ne riconobbero una minaccia: la hybris, l‘orgogliosa tracotanza di chi, non avendo bisogno d’altro, osa sfidare il divino. Zeus, per neutralizzare tale pericolo, decise di dividere quelle creature lungo l’asse della loro completezza, separandole in due metà autonome ma mutilate, incapaci di ritrovare, da sole, il senso della propria ragione.

Da quell’atto nacque la nostalgia d’amore, intesa come tensione dolorosa e sublime verso l’altro da cui fummo divisi. Ogni anima, da allora, reca in sé il ricordo inconsapevole di una perduta interezza, e ne porta la ferita come marchio invisibile.

In questa visione, l’amore è movimento dell’anima che riconosce, attraverso lo sguardo, la voce, il contatto, la propria metà perduta. E così l’anima gemella diviene frammento speculare che ci restituisce, per un istante eterno, l’illusione della totalità.

L’amore come destino: la ricerca dell’assoluto romantico

Con l’avvento dell’età romantica, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, il mito dell’anima gemella si trasfigura in una delle sue espressioni più liriche e perturbanti.

Se Platone aveva parlato dell’amore come eco di una perduta unità originaria, i pensatori romantici ne fanno una vocazione metafisica, una tensione struggente verso l’assoluto.

L’amore, in questa visione, diventa rifugio sacro e, insieme, abisso insondabile: un luogo dell’eccesso, del sublime, dell’incommensurabile.

Francesco Hayez, “Il bacio”, 1959. Olio su tela. Pinacoteca di Brera, Milano – Fonte: Flickr.com

Figure come Novalis, Schlegel, Rousseau e Goethe attribuiscono all’amore — e all’incontro con l’altro — un potere di trasfigurazione spirituale e ontologica. L’anima gemella non è più soltanto l’amato: è il tramite attraverso cui si accede all’ineffabile, all’inattingibile.

È la soglia invisibile tra la carne e lo spirito, tra finito e trascendente.

Goethe, in particolare, con la figura di Ottilia in Affinità elettive, dà forma all’idea che l’amore autentico sia regolato da leggi ineluttabili, simili a quelle che regolano la chimica delle sostanze: non si sceglie chi amare, ma si è attratti, irresistibilmente, da una forza primordiale.

In questa concezione, l’amore diventa destino. Non oggetto di volontà, ma manifestazione di un ordine superiore. L’altro viene amato per ciò che evoca: una promessa di fusione, di totalità, di annullamento dei confini dell’io. Desiderare l’altro equivale a desiderare l’assoluto. Ogni incontro diventa un luogo di rivelazione o di rovina, perché l’amore, per i romantici, non è mai misura: è sempre eccesso, folgorazione.

L’anima gemella nell’interpretazione psicoanalitica

Con il Novecento, il concetto di anima gemella assume contorni più interiori, talvolta più ambigui, ma non per questo meno intensi o radicali. L’essenza originaria dell’amore viene traslata nel linguaggio dell’inconscio, dove l’altro diventa specchio simbolico delle nostre fratture, proiezione vivente di ciò che è celato, rimosso, desiderato.

anima gemella
Fonte: Pexels.com

È Carl Gustav Jung a delineare con maggiore forza questa transizione, introducendo le nozioni di anima e animus come archetipi del femminile e del maschile presenti in ogni individuo.

L’altro diventa allora incarnazione simbolica delle nostre polarità interiori, il volto attraverso cui l’inconscio si rende visibile e agisce. L’anima gemella, in questa prospettiva, non lenisce ma scuote: ciò che riconosciamo nell’altro non è soltanto ciò che ci manca, ma anche ciò che abbiamo perduto o rifiutato in noi stessi.

L’amore, così inteso, si manifesta come itinerario di individuazione in cui l’altro funge da catalizzatore: è un atto che ci interroga su chi siamo e su chi potremmo diventare.

L’amore come evoluzione reciproca

Eppure, anche se privata del suo alone mitico, l’idea dell’anima gemella sopravvive ancora oggi. Ritorna nei romanzi, nei film, nelle app di dating, nelle canzoni che ci promettono incontri improvvisi e corrispondenze perfette. Risuona nella voce di chi ci manca e nell’attesa, sempre sospesa, di un volto ancora sconosciuto che sappia, finalmente, riconoscerci. Perché, alla fine, neppure la velocità della modernità è riuscita a spegnere del tutto quell’antico bisogno: il desiderio di essere visti non soltanto per ciò che mostriamo, ma per ciò che, nel profondo, custodiamo in silenzio.

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Ma forse, oggi, stiamo imparando una grammatica dell’amore più consapevole, meno votata alla fusione e più incline alla co-presenza. Un amore che non cerca nell’altro una metà mancante, ma un compagno di percorso nel divenire.

Come scrive Erich Fromm ne L’arte di amare,

“L’amore maturo è unione a condizione di preservare la propria integrità, la propria individualità.”

L’altro non è il nostro riflesso idealizzato, né l’eco perfetta del nostro io: è il testimone fragile e reale della nostra differenza. La relazione, allora, è dialogo, prossimità che abbraccia la dissonanza.

E dunque, chi è, davvero, la nostra anima gemella? Forse è quella voce discreta che, tra mille, riesce a parlare alla parte più remota e silenziosa di noi. Forse è colui o colei che non ci promette salvezza, ma sceglie di restare quando tutto vacilla.

Non sempre arriva con il volto che avevamo immaginato. Talvolta ci raggiunge nei momenti di fragilità; altre volte ci attraversa come una stagione, lasciandoci trasformati, più veri, più interi.
Come scrisse Rainer Maria Rilke,

“L’amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono, si toccano, si salutano.”

“Ragazzi sto per raccontarvi una storia: quella di come ho conosciuto HIMYM”

Chi non conosce How I Met Your Mother? Vale ancora la pena guardarla o consumare fiumi di inchiostro sulla sitcom più vista e citata negli ultimi vent’anni? Se siete piuttosto scettici, come direbbe il nostro Barney Stinson, la sfida è accettata!

Perché è diversa dalle altre sitcom

Nonostante ci troviamo immersi nelle classiche vicende di un gruppo di cinque amici a New York (una trama che superficialmente potrebbe apparire piuttosto scontata), sono notevoli gli elementi che differenziano questa sitcom dalle altre. Primo fra tutti la geniale dinamicità con cui si intersecano i diversi piani temporali: il background principale è costituito dal racconto che il protagonista Ted Mosby (Josh Radnor) fa nel 2030 ai figli adolescenti su come ha conosciuto la loro madre.

“Ragazzi sto per raccontarvi una storia incredibile: la storia di come ho conosciuto vostra madre” ( 1×1)                                               Fonte: hallofseries.com  

La narrazione torna indietro ai primi anni 2000 in cui abbiamo un Ted – quasi trentenne – alle prese con la ricerca dell’anima gemella e con una carriera da far decollare. Queste vicende si intrecciano con quelle dei suoi quattro amici in un gioco di dilatazioni e contrazioni temporali che alternano flashback e flashforwardUn altro elemento distintivo sono i dialoghi marcati da sarcasmo e ironia, una prontezza di battute argute che lasciano in alcuni tratti un’amara leggerezza, il tutto accompagnato da una ritualità di gesti spesso compiuti dai protagonisti; una dialettica nelle argomentazioni dei vari personaggi che si dimostra di gran lunga superiore rispetto a quella degli “storici rivali” Friends e New Girl.

How I Met Your Mother scatenerà nel corso degli episodi una riflessione su temi esistenziali, tra cui il destino, entità misteriosa e indomabile che “gioca” con i protagonisti: sarà il destino che porterà all’incontro con l’anima gemella o forse è l’universo che invia segnali che non sempre siamo pronti a vedere?

E poi ancora, spicca un simbolismo costruito ad arte. I momenti cruciali e di svolta sono sempre accompagnati dalla pioggia: questa è come se purificasse e cancellasse il superfluo così da permettere di chiarire situazioni che precedentemente apparivano ingarbugliate.

Ted Mosby ( Josh Radnor) consola l’amico Marshall Eriksen ( Jason Segel) – Fonte: hallofseries.com

Insomma una tecnica narrativa di alto livello rispetto all’idea di sitcom a cui siamo abituati.

Perché è ancora attuale? Polemiche e controversie

Durante il primo lockdown tanta gente ha pensato bene di riscoprire il fascino di questa serie e tra questi c’è anche chi si è fiondato alla ricerca del suo tallone d’Achille. Ma, come spesso accade, tutte queste polemiche hanno solamente scatenato l’effetto contrario, facendo tornare How I Met Your Mother tra gli argomenti più gettonati da un po’ di mesi a questa parte.

Le critiche mosse alla serie – sceneggiata da Bays e Thomas – sono state tante: da chi ha attaccato il controverso e attesissimo finale (che non intendiamo svelarvi ma che ha deluso molti fan), fino a chi la definisce come brutta copia della più storica Friends, in quanto riproporrebbe il solito copione dell’allegra combriccola di personaggi stereotipati che se la spassano sullo sfondo di New York e dintorni.

Maschilismo? Ma mi faccia il piacere!

Una su tutte – e forse la più assurda – è l’accusa di maschilismo mossa dall’improbabile popolo di femministe del web. É vero, non mancano le battute poco politically correct (come in qualsiasi commedia che si rispetti), ma di certo questo non è un pretesto per assaltare una sitcom che utilizza termini del linguaggio medio e quotidiano: l’esempio cruciale è il «bitch» di Marshall (Jason Segel) Robin (Cobie Smulders). Perché lo stesso non viene detto ai personaggi maschili?

Semplice: perché “bitch” è un termine prettamente femminile nel dizionario inglese, non maschile. Quindi, care femministe, pensate a riscrivere il vocabolario e non saltate all’assalto di una sitcom solo per l’utilizzo di termini ormai diventati di uso quotidiano nel linguaggio medio.

Infatti, scavando sotto la superficie, come pensate si possa considerare maschilista una serie in cui ci vengono presentati modelli così diversi di donne (a partire dall’intraprendente e indipendente Robin alla più tradizionalista ma furba Lily) senza che su nessuna di loro venga pronunciato un definitivo giudizio moralistico?

Barney Stinson ( Neil Patrick Harris) col suo “Playbook”. Fonte: aminoapps.com

Se c’è forse un personaggio su cui ricade una sentenza è al contrario Barney Stinson ( Neil Patrick Harris), il donnaiolo simpatico ma impenitente che si vanta senza pudore delle sue conquiste compulsive.  È proprio lui che dovrà subire un’evoluzione nel corso del racconto, è lui che dovrà crescere e dire addio ai suoi giochetti da playboy. Come lo farà non saremo noi a svelarvelo.

Il vero amore o l’amore reale?

Ma la polemica che colpisce più profondamente i fan HIMYM è quella per cui la serie sarebbe l’ennesima storia televisiva che porta in scena l’amore malsano, il classico – e pessimo – esempio per un’intera generazione di giovani, cresciuta a pane e false aspettative sull’anima gemella. La strada che porterà Ted (e il pubblico) a conoscere la madre dei suoi figli è lunga e piena di incroci, di segnali d’arresto e importanti deviazioni; una su tutte Robin, il colpo di fulmine e l’amore impossibile della sua vita.

Il giovane architetto è uno di quelli che sogna ad occhi aperti e tenta di progettare la vita tassello per tassello proprio come se si trattasse di un edificio, un ragazzo simpatico, ma a tratti un po’ pesante. Al contrario Robin è più leggera e definita dallo stesso Ted come «fluttuante»: vive e non pianifica, agisce e non sogna, è una donna sarcastica e indipendente che sembra avere come unico obiettivo la carriera. Come possono due persone così diverse avere un amore “sano”?

“E lei era là”: l’incontro di Ted con Robin ( Cobie Smulders). Fonte: insider.com

La loro storia infatti sarà tutt’altro che semplice e priva di peripezie.  Molto più tranquilla e lineare, e per questo esempio di “vero amore” (a detta di qualche dente avvelenato del web) la storia dell’altra coppia, Marshall e Lily (Alyson Hannigan). Ma la realtà non abbonda di rapporti «platoneschi» (come dice nella serie lo stesso protagonista) e storie tormentate alla Ted e Robin, piuttosto che di teneri idilli alla Marshall e Lily?

Ed esiste davvero un amore totalmente sano, se spesso ci si accorge d’amare proprio nel momento in cui l’altro ci fa soffrire?

In realtà i tira e molla di Ted e Robin non fanno che aggiungere pepe a una relazione che altrimenti risulterebbe noiosa e poco coinvolgente agli occhi del pubblico. Del resto è il tipico copione da commedia, dall’antichità fino ad oggi: il protagonista attraversa tanti temporali prima di veder rispuntare il sole.

E nella stupenda costruzione armonica di How met your mother le piogge non mancano, ma nemmeno gli ombrelli!

Una delle scene più iconiche di HIMYM: la folla di ombrelli gialli. Fonte: hallofseries.com

 

Angelica Rocca, Ilenia Rocca