Il mito del femminismo
Correva la Prima guerra mondiale quando le donne, per la prima volta nella storia, ebbero totale accesso al mondo del lavoro.
Un primo passo avanti, in tal senso, si era già avuto durante la Seconda rivoluzione industriale, ma fu solo durante le controverse circostanze dei due grandi conflitti che queste poterono effettivamente conquistare il loro spazio. Mentre gli uomini rischiavano la vita nelle trincee, infatti, l’economia arrancava ad andare avanti: vi era bisogno che qualcuno li sostituisse.
Così, le donne scoprirono l’indipendenza. Diventarono forza lavoro e acquisirono un ruolo preponderante anche all’interno del nucleo familiare, sottraendo a mariti, padri e fratelli il ruolo di bread winner.
Conclusa la guerra, furono assai restie nel rinunciare al nuovo potere acquisito. Saggiata la libertà e divenute artefici del proprio destino, cominciarono a maturare il desiderio di emanciparsi, di portare avanti rivendicazioni per la conquista di eguali diritti e dignità degli uomini.
A più di un secolo di distanza, con decine e decine di anni di lotte alle spalle, tale orizzonte sociale pare ancora molto lontano.
Ci sovvengono dei dati preoccupanti.
Nel 2023, le donne europee guadagnavano ancora, in media, il 12% in meno rispetto agli uomini. Nel 2025, solo il 34% dei ruoli dirigenziali sarebbe coperto da manager donne, un incremento di appena mezzo punto percentuale rispetto al 2024. Seppur siano tendenzialmente più istruite degli uomini, poi, solo il 52,5% delle donne risulta essere occupato, contro il 70,4% della componente maschile.
Il Global Gender Gap Report 2025 indica che ci vorranno circa 123 anni per far sì che il gap di genere in ambito lavorativo venga colmato. Una previsione, insomma, tutt’altro che idilliaca.
Ciò che risulta, però, ancor più tragico in tale situazione è l’atteggiamento assunto dalle stesse donne. In particolar modo, da quelle che si professano femministe.
In una società alla deriva, dove discriminazioni di ogni tipo (di genere, razziali, etniche, religiose) proliferano e la vita sembra improntata al profitto, le donne si trasformano da oppressi in oppressori.
Come il femminismo neoliberista si è alleato con il capitalismo
In una loro celebre opera, Nancy Fraser, Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya definivano il femminismo neoliberista come quello delle donne che “ce l’avevano fatta”, che avevano infranto il soffitto di cristallo, scalando gerarchie e conquistando ruoli di potere. Un ideale che faceva e continua a far gola. È di conforto guardare a tali esempi, no? Convincendosi, magari, che il risultato di queste donne sia collettivo.
Peccato che il femminismo neoliberista sia un “femminismo per l’1%”. Un movimento prettamente individualista, che propone “pari opportunità di dominio”. In quest’ottica, di fatto, le femministe neoliberiste non intenderebbero raggiungere la parità di genere, quanto più rovesciare le dinamiche esistenti, subentrando agli uomini nei vertici di aziende, pubbliche amministrazioni, nelle istituzioni tutte.
Per farlo, sfrutterebbero paradossalmente l’oppressione, le asimmetrie e le disuguaglianze sistematiche, di cui sarebbero esse stesse vittime.
Non è raro, per esempio, che, per inseguire occasioni di carriera, tali donne lascino casa e figli alla cura di governanti e tate. Lavoratrici, spesso immigrate, che vengono sottopagate a causa della loro duplice condizione di donna e straniera.
Da inserire in questo quadro, vi è, inoltre, la questione inerente all’abuso dell’immagine femminile. Spingendo per l’emancipazione sessuale, le neoliberiste asseconderebbero il capitalismo. Tramite la strumentalizzazione dei loro corpi, infatti, gli permetterebbero speculazioni di ogni sorta e, soprattutto, di alimentare se stesso. Basti pensare ai business delle app di incontri e al consumismo sessuale, nonché ai fenomeni di pinkwashing e femvertising.
Le tradwives contro il capitalismo femminista
È in tale panorama che, nell’ultimo anno, si è andata a diffondere nei social la tendenza delle “tradwives”.
Abbreviazione di “traditional wives”, le tradwives sono donne che promuovono uno stile di vita conservatore, di stampo pre-industriale.
Con un’estetica vintage e bucolica, che evoca per molti versi gli anni ’50, le tradwives si attengono a una netta separazione dei ruoli di genere, ricoprendo quello di moglie, madre e casalinga.
Secondo le tradwives, le donne, una volta entrate come lavoratrici nell’economia di mercato, non avrebbero fatto altro che diventare schiave del capitalismo. Ecco, quindi, che tale ritorno al “passato” diventa per loro simbolo di opposizione. Un modo di sottrarsi alle sue logiche rovinose e distruttive.
Guardando, però, ai patrimoni pluri-milionari che alcune di loro sono riuscite a costruire, proprio tramite la vendita di tale stile di vita, appare evidente come, di mezzo, non vi sia alcuna posizione anti-capitalistica. Perpetuando un modello patriarcale, manderebbero, anzi, “all’aria” le conquiste femministe.
La donna relegata, per l’ennesima volta, in cucina.
Fonti:
Eurostat – Gender pay gap statistics
Grant Thornton – Women in Business 2025
CNEL e ISTAT – Il lavoro delle donne tra ostacoli e opportunità
Valeria Vella