Oltre il Burnout: scegliere la lentezza nell’era della FOMO

C’è una sensazione che accomuna tutti: è il ronzio costante nelle orecchie anche dopo un fine settimana di presunto riposo. È la sensazione di dover essere sempre attivi, la lista infinita di cose da fare che genera più ansia che risultati, la stanchezza cronica che ci fa sentire in perenne ritardo.

Non chiamiamolo solo stress. È qualcosa di più profondo, un’epidemia silenziosa che i post su Instagram definiscono “ansia da prestazione continua”. È un burnout collettivo.

Ma perché siamo tutti così stanchi? La risposta è semplice: non si tratta di un fallimento individuale, ma di un sintomo sociale. Non stiamo correndo verso un obiettivo preciso, stiamo correndo e basta, perché fermarsi è diventato inconcepibile.

Le cause della nostra corsa

Siamo intrappolati tra due forze che si alimentano a vicenda: un motore culturale che ci spinge a produrre e un amplificatore digitale che ci impedisce di staccare.

  • La Società della Prestazione

Viviamo in un sistema che misura il nostro valore in base alla nostra produttività. Il “non fare niente” non è visto come riposo, ma come pigrizia. Si è passati dal “lavorare per vivere” al “vivere per ottimizzare”: ottimizzare la carriera, il tempo libero (che deve essere produttivo), persino le relazioni.

Il filosofo Byung-Chul Han la chiama la Società della Prestazione. A differenza della precedente generazione che imponeva un “Tu devi“, la nostra società ci sussurra un “Tu puoi“. È la trappola dell’auto-sfruttamento“sfrutto me stesso nella convinzione di realizzarmi”.

Non è un capo a farci collassare, siamo noi stessi che ci auto-sfruttiamo fino all’esaurimento, scambiando questa performance per realizzazione.

  • La Tirannia della FOMO

Questo motore culturale viene sovralimentato dalla tecnologia digitale. Gli smartphone e i social media, con “algoritmi che ci anticipano”, non sono strumenti neutri: sono progettati per catturare la nostra attenzione e non lasciarla più.

Qui entra in gioco la FOMO (Fear Of Missing Out), la paura di perdersi qualcosa. La tecnologia ha alimentato questa ansia fino a renderla una condizione costante.

Si parla di FOMO Professionale, cioè la paura di non vedere quell’offerta di lavoro, di non fare abbastanza networking, di non leggere l’ultimo aggiornamento di settore. Ma siamo travolti anche da una forma di FOMO Sociale: la paura di non essere all’evento giusto, di non vedere la story prima che scompaia, di essere “tagliati fuori” dalla conversazione.

Il risultato? Non ci fermiamo mai. Anche quando siamo in pausa, scrolliamo il feed. Siamo alla ricerca di consumare news che durano un respiro e che possibilmente non ricorderemo. Siamo perennemente impegnati in quello che Cal Newport, esperto di produttività, definisce Shallow Work” (lavoro superficiale): controllare email, rispondere a chat, reagire a notifiche.

Il prezzo da pagare: la mancanza della profondità

Il paradosso è che corriamo per “avere di più”: più successo, più esperienze, più connessioni… ma ci sentiamo più vuoti.

La velocità digitale non ci dà il tempo di processare. Le nostre opinioni diventano superficiali, le nostre relazioni si basano su like e messaggi vocali frettolosi. Il nostro apprendimento si riduce a trovare la scorciatoia, non a capire davvero e approfondire.

Il burnout non è solo stanchezza fisica; è un vuoto di senso causato da questa cronica mancanza di profondità. È l’incapacità di accedere a quello che Newport chiama “Deep Work” (lavoro profondo): quello stato di concentrazione assoluta, senza distrazioni, che ci permette di creare vero valore, imparare cose difficili e, in sintesi, sentirci realizzati.

La rivoluzione silenziosa: “Fermarsi”

Se la FOMO è la malattia, la cura è un cambio radicale di prospettiva: il passaggio alla JOMO (Joy of Missing Out), la gioia di perdersi qualcosa.

JOMO non è apatia, ma una scelta attiva. È un atto di sovranità sulla propria attenzione. La gioia di una serata passata a leggere un libro invece di andare a una festa. La pace di mettere il telefono in modalità aereo per un’ora e scoprire che il mondo non è crollato.

Ma come si pratica la lentezza? L’errore più grande è trattarla come un nuovo compito da ottimizzare“Devo fare 1 ora di social detox” spuntato dalla to-do list. La lentezza è un “atto politico, culturale e personale”.

  • Politico: Significa rifiutare l’idea che il nostro tempo debba essere sempre e solo produttivo. È rivendicare il diritto all’ozio, alla noia, al pensiero improduttivo da cui, ironicamente, nasce tutta la vera creatività.
  • Personale: Significa ritrovare rituali banali ma significativi. Il cappuccino al bar senza guardare il telefono. Guardare fuori dalla finestra. Annoiarsi.
  • Culturale: Significa scegliere la profondità (un libro intero, un film lungo, una conversazione senza orologio) invece della superficie (lo scroll infinito). È la strategia del “minimalismo digitale” di Newport: usare la tecnologia con intenzionalità, per supportare la nostra vita offline, non per sostituirla.

Cosa possiamo fare?

Il burnout si cura cambiando il nostro rapporto con la velocità, la performance e il valore. La sfida non è “fermarsi” del tutto, ma chiedersi se la velocità a cui stiamo correndo sia davvero la nostra o quella impostata per noi dagli algoritmi e dalla società della prestazione. La vera rivoluzione non è rallentare. È trovare, e difendere, il proprio ritmo.

 

Sabrina Levatino