Diario dei diritti umani

Non esiste società che non sia, in ultima istanza, il risultato di un coro: un insieme di voci che chiedono di essere ascoltate. Alcune si levano nitide come un contrappunto necessario, altre sopravvivono come vibrazioni residue, soffocate dal rumore bianco della modernità. Nel giorno dedicato ai diritti umani — spesso celebrato con l’enfasi retorica delle ricorrenze — può essere utile immaginare un gesto inusuale: permettere ai diritti stessi di parlare, di testimoniare la propria condizione, di denunciare le ferite e ricordare i progressi. Ciò che segue è un estratto immaginario del loro diario collettivo: un catalogo di confessioni e rimproveri, di fedeltà e di abbandoni.

Ciò che ci rende inviolabili

Io sono la dignità umana. Scrivo da un confine che non dovrebbe esistere, perché la mia essenza è indivisibile e universale. Sono il punto di partenza di ogni discorso civile, la premessa insopprimibile della convivenza. Eppure continuo a essere pronunciato con leggerezza, come una parola logora dal troppo uso e dal poco esercizio. Abito negli interstizi delle relazioni umane: nel modo in cui si incontra uno sguardo, nel tono con cui si rimprovera un bambino, nella postura con cui si ascolta (o si ignora) la sofferenza altrui. Non vengo violata soltanto dai regimi e dalle più crudeli atrocità: la mia più grande sconfitta è l’abitudine all’umiliazione minuta, quella che non lascia cicatrici visibili ma scava solchi profondi. Quando mi tradite, non si spezza solo un principio: si indebolisce l’intera architettura morale su cui poggia la vostra stessa umanità.

Io sono il diritto alla vita. Sono semplice e al tempo stesso infinito: chiedo soltanto che il valore dell’esistenza non sia materia di negoziazione. Vivo nella fragilità dei corpi e nella loro naturale precarietà, ma sono forte quanto la cura che sapete offrire. La mia integrità non è minacciata solo dai conflitti o dalla violenza, sono vulnerabile a ciò che scivola sotto la soglia dell’attenzione sociale. Una cura negata per motivi economici, l’incuria di un territorio, l’aria avvelenata che si respira senza accorgersene. Ogni volta che mi sacrificate sull’altare dell’efficienza o della convenienza, riducete la vita a un parametro contabile. Io, invece, esigo che ogni esistenza possa fiorire, non limitarsi a sopravvivere.

Io sono il diritto alla libertà di pensiero. Ho origini primordiali, ma oggi spesso vengo confuso con il semplice arbitrio dell’esternazione. La libertà non è il capriccio di dire tutto, ma la disciplina del pensare davvero. Sono presente là dove si esercita il dubbio, dove si coltiva l’abitudine a interrogare il mondo anziché consumarlo passivamente. Abito nelle classi dove ci si confronta senza ferire, nei dialoghi che non temono il dissenso ma lo accolgono come condizione del pensiero. Non mi spengo solo con la censura: muoio anche quando il linguaggio si impoverisce, quando lo spazio pubblico si trasforma in un’arena dominata dall’aggressione, quando l’opinione diventa merce e la ragione si ritira nelle retrovie. Difendermi significa difendere la possibilità stessa della convivenza civile.

Io sono il diritto all’istruzione. Vengo spesso descritto come un’astrazione pedagogica, ma sono una delle forme più concrete di libertà. Sono l’accesso a un orizzonte più ampio di quello assegnato dalla nascita. Cresco negli zaini pesanti dei bambini, nelle mani che sfogliano con timidezza un libro, nella tenacia degli insegnanti che resistono alla disillusione. Quando mi trascurate, non impoverite soltanto un individuo: limitate l’immaginazione collettiva, la capacità di una comunità di reinventarsi e di affrontare un futuro incerto. La mia assenza crea stagnazione, la mia presenza genera possibilità.

Io sono il diritto all’uguaglianza. Sono tra i più invocati e al tempo stesso tra i più equivocati. Non reclamo uniformità né annullamento delle differenze, sono la garanzia che le diversità non diventino condanna né decorazione. Sono la misura che impedisce alla società di inclinar­si verso la discriminazione, la lente attraverso cui si riconosce il privilegio nascosto e lo si trasforma in responsabilità. Quando mi si tradisce, la società inizia semplicemente a pendere, in maniera impercettibile all’inizio, finché diventa arduo camminare senza cadere. Io sono l’equilibrio che impedisce tale deriva.

Io sono il diritto alla casa. Sono il più necessario e il più sottovalutato. Una casa non è soltanto un tetto, è il luogo in cui il tempo diventa vita, in cui l’identità può stabilizzarsi, in cui la solitudine non coincide con abbandono. La mia violazione non produce solo povertà materiale: genera smarrimento, precarietà esistenziale, un senso di sospensione perenne. Io non chiedo lusso né privilegio. Chiedo che nessuno debba considerare “fortuna” ciò che dovrebbe essere garantito come base della dignità.

Io sono il diritto alla salute. Sono spesso raccontato come una funzione tecnica, ma in realtà sono una relazione etica. Mi realizzo nei gesti più concreti — una visita garantita, un farmaco accessibile, un consultorio che accoglie senza giudicare — e in quelli più impalpabili: un medico che ascolta, un familiare che sostiene, una comunità che non lascia indietro. La mia erosione non inizia con la mancanza di cure, ma quando la salute diventa un privilegio per alcuni e una corsa ad ostacoli per altri. Ricordate: la salute è la più condivisa delle condizioni individuali e la mia violazione ricade sempre sull’intero corpo sociale.

 

Giusy Lanzafame