Resto

Ho imparato a riconoscermi nel margine.
Per anni ho fatto il conto delle mie mancanze come si fa con le perdite:
un inventario ossessivo
di centimetri da ridurre,
curve da domare,
contorni da scusare.

Mi sono vissuta in sottrazione:
un respiro contratto,
un’apparizione controllata.
Credevo che l’invisibilità fosse salvezza.

Ma la carne, ostinata come la memoria,
non si lascia ridurre a concetto.
Conserva,
stratifica,
restituisce:
un giorno si ribella
e ti costringe a guardare.

E quel giorno ho tolto dal corpo
la supplica,
la giustificazione,
la domanda.
Ho ascoltato il silenzio che rimane
quando smetti di chiedere perdono per la tua forma.

Non fu dolcezza, ma contorsione:
accettare significa spesso spezzarsi, incurvarsi fino al midollo.
Così ho imparato a pronunciare il mio corpo come un verbo,
a coniugarlo nella prima persona,
a chiamare le sue asimmetrie per nome
e a non inginocchiarmi quando lo facevo.

E allora accetto.
Non per resa a un ideale, non per rassegnazione,
ma per lucidità.
Accetto perché non posso vivere da estranea a me stessa.

Quindi la verità è questa:
sono fatta di scarti che resistono,
di dismisure che raccontano più della perfezione,
di linee che divergono
e per questo persistono.

E resto.
Resto in ogni centimetro,
in ogni spigolo,
in ogni dissonanza.
Resto
e firmo il mio corpo come patto irrevocabile:
io ti riconosco, tu mi sostieni.

Non sono stata corretta dal mondo,
né santificata dalla luce.
Sono semplicemente qui,
inviolabile nella mia imperfezione,
intera,
e in questa interezza trovo,
per la prima volta,
un nome che non chiede permesso:
il mio.

Giusy Lanzafame