Una breve bio di Renato Cioni
È il 1929 quando l’acqua e la sabbia elbane accolgono una delle voci più importanti del 900. Portoferraio, paese che resterà indelebile nella sua memoria, regala al mondo dell’opera lirica Renato Cioni. Figlio di pescatori, la sua famiglia è caratterizzata da un talento artistico prolifico e variegato; e se è vero che il primo pubblico nasce in casa, Cioni conosce bene l’importanza del sostegno familiare. È proprio suo padre, infatti, il suo primo ammiratore. E, quando questi si ammala, il nodo che li àncora si stringe ancora di più: “anche se io dovessi morire, tu devi cantare”, gli sussurra sul letto di morte.

Allora, tra odore di ceri bruciati e fiori vecchi, la voce stanca del suo mentore decreta
– Cioni lo sa – una promessa solenne che intende la vita del tenore e il canto per sempre legati.
Per proseguire negli studi, Renato Cioni lascia la sua amata isola e frequenta città d’arte come Firenze (Conservatorio Luigi Cherubini) e Roma, dove la sua carriera prende quota.
In tutto ciò, a non abbandonarlo mai sono l’amore materno e la devozione da parte del tenore per le radici isolane.
Da onde e cielo, a palco e applausi: carriera, successi e premi.
È il 1956 che la carriera del tenore raggiunge il suo apice, sancito dalla vittoria del concorso “Adriano Belli”, organizzato dal Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto.
Nello stesso anno, avviene il suo esordio televisivo nei panni di Pinkerton, nell’opera “Madama Butterfly”. È così che conquista la fiducia del pubblico e della RAI. Tre anni dopo, 1959, il approda debutta negli Stati Uniti, a Philadelphia; debutto a cui segue l’esibizione al Carnegie Hall di New York ne “Il Duca d’Alba” e, ancora, “Lucia di Lammermoor”.
Dopo il ritorno di Pinkerton alla Scala di Milano, l’anno 1964 vede lo splendore della sua carriera internazionale con l’interpretazione di Cavaradossi in “Tosca” al Covent Garden di Londra.
Accanto a lui, due voci eccelse: Maria Callas e Tito Gobbi. Nello stesso anno, Cioni presta la sua voce per la “Traviata”, tenutasi alla Scala, con Mirella Freni e sotto la direzione di Herbert Von Karajan. Fra le sue collaborazioni più significative spiccano quelle con Franco Zeffirelli e Luchino Visconti, che lo dirigono in produzioni rimaste memorabili, come la celebre Traviata londinese del 1967.
Negli anni Settanta canta al Metropolitan di New York in Norma con Joan Sutherland e Marilyn Horne, e con la stessa Sutherland incide per la Decca due registrazioni di riferimento: Lucia di Lammermoor e Rigoletto. L’ultima opera interpretata è Aida in Belgio, prima di dedicarsi con successo anche all’operetta, apprezzato nei teatri di tutta Europa. La fama internazionale gli vale numerosi riconoscimenti, tra cui il “Diapason d’Oro” ricevuto insieme a Riccardo Muti nel 1969.

Nei suoi viaggi incontra personalità di primo piano, dalla regina Elisabetta II al re Baldovino del Belgio, fino al presidente statunitense Ronald Reagan e alla first lady Nancy, oltre a icone dello spettacolo italiano come Silvana Pampanini e Sofia Loren.
Incontri che testimoniano non solo il prestigio della sua carriera ma anche l’impronta profonda lasciata nella cultura del suo tempo.
La voce del cuore
Nonostante una florida carriera, però, il cuore di Renato Cioni resta ancorato alla sua terra. Mentre i teatri del mondo iniziano ad aprirgli le porte, l’artista compie una scelta icastica del suo attaccamento: sposa Loretta Carletti, l’amore di una vita, giovane donna elbana presente nella sua vita sin dai primi successi. Il matrimonio, celebrato il 31 marzo 1964 nel Duomo di Portoferraio, è un ritorno alla dimensione intima: il tenore che incanta le platee torna uomo, figlio della sua comunità, innamorato e vulnerabile.
Da quell’unione nasceranno quattro figli – Cecilia, Cesare, Cristina e Claudio – cresciuti tra tournée, spartiti e ritorni precipitosi.
Cioni, seppur spaccato in due dal mestiere, cammina nel solco tracciato da suo padre: è presente e caloroso; rientra appena può, rincorre l’infanzia dei suoi bambini come rincorre le note sul palco, con dedizione e un affetto quieto, protettivo.
Tra tutti, sarà Cristina a raccoglierne l’eredità artistica. Voce naturale, cresciuta nel respiro stesso della musica paterna, seguirà una strada che il padre incoraggia senza imporre: “La musica va scelta, non subita”, ripeteva.
Col passare degli anni, il richiamo dell’isola diventa più forte di qualsiasi applauso.
Portoferraio torna a essere rifugio e, infine, approdo: qui Cioni si ritira, scegliendo la pace della famiglia alla vertigine del palcoscenico.
Il rapporto con Loretta, però, non è mai semplice. Il suo desiderio di un marito più presente, meno sottratto alle tournée e alle attenzioni del mondo lirico, la impensierisce. Le gelosie affiorano, soprattutto quando entra in scena Joan Sutherland, soprano australiano con cui Cioni crea un’intesa artistica straordinaria nella celebre Lucia di Lammermoor alla Fenice.
Quando La Decca gli offre un contratto internazionale di enorme peso, Cioni si ritrova dinanzi a un passo decisivo per la carriera. Ma dietro la collaborazione, le voci del settore insinuano malizie infondate, acutizzando le paure di Loretta e incrinando un equilibrio già fragile.
Alla fine, il tenore è posto dinanzi a una scelta. Decide dunque di rinunciare al contratto e suggerisce come suo sostituito Luciano Pavarotti, che vedrà nell’occasione offertagli un trampolino di lancio.
Il canto di Renato Cioni
È chiaro ormai che un uomo come Renato Cioni, che accoglie in sé le sfumature del mondo più disparate, non possa che avere una voce che scuota gli animi. Egli è un tenore spinto, dal timbro luminoso e vellutato, dirompente e carezzevole. La sua proiezione è squillante, di grande efficacia teatrale.
Una delle qualità più apprezzate è la proiezione potente, capace di empire con la voce anche le sale più vaste. Non a caso, uno dei più grandi successi, l’ha riscosso nella “Traviata” di Verdi: la sonorità penetrante sostenuta negli acuti lo rende adatto a ruoli belcantistici e, appunto, verdiani.
Inoltre, Cioni prediligeva una comunicazione spontanea col pubblico, piuttosto che puramente tecnica o incline alla perfezione formale.
Ascoltando “Di Pescatore Ignobile” di Donizetti, possiamo apprezzarne il timbro argentino, la propagazione orizzontale della voce che sfiora subito le corde più recondite della psiche e l’eccellenza performativa; attributi che lo rendono tra i tenori più importanti del Novecento.
“Le Stanze di Verdi”
Non potevamo non menzionare Verdi, pilastro nella vita del tenore Renato Cioni. Ad offrirci una narrazione sofisticata e originale del compositore sono il direttore Riccardo Marchesini e il regista e sceneggiatore Pupi Avati.
Le stanze di Verdi” è un docufilm del 2025 che, più che raccontare il Maestro, ne scrosta il mito per mostrarne la carne: l’uomo di terra, di zolle, di responsabilità padana. Marchesini e Avati inseguono Verdi non nei velluti dei teatri, ma nei poderi, nelle cascine, nei gesti concreti che lo radicavano al mondo più della sua stessa musica.
È l’attore Giulio Scarpati a inaugurare il viaggio: una gigantografia di Verdi vista da un albergo di Piacenza e la notizia della casa in vendita diventano il primo richiamo.
Un portiere, quasi un piccolo Caronte urbano, lo conduce all’avvocato Marco Corradi, studioso verdiano. Da lì, una Jaguar d’epoca attraversa la Bassa: Piacenza, Parma, Milano, ospedali costruiti per i contadini, campi che conservano il fiato del Maestro. Al ritorno, il sonno di Scarpati mescola realtà e visione, e il film si chiude come un viaggio che è insieme storico e intimo: una ricognizione nelle stanze — fisiche e morali — di un Verdi finalmente restituito alla sua verità umana.
Il film nasce dal desiderio di Giorgio Leopardi di mostrare un lato meno conosciuto di Giuseppe Verdi: non solo il compositore celebre, ma anche l’uomo curioso, innovativo, filantropo e impegnato socialmente. Basandosi sugli appunti di Leopardi, il regista ha trasformato l’idea in un road movie tra i luoghi verdiani, guidato da Giulio Scarpati, che affronta il viaggio senza copione, vivendo ogni esperienza in modo genuino.
Il percorso prende spunto dal libro Verdi non è di Parma di Marco Corradi, che fornisce aneddoti e contesto, ma senza ridurre Verdi a un simbolo locale: il documentario vuole mostrare un uomo che appartiene a tutti e che ha lavorato per un’Italia unita.
Il film è stato girato in maniera spontanea, seguendo il flusso del viaggio e gli incontri casuali con studiosi, musicisti e appassionati. Queste conversazioni improvvisate rivelano aspetti sorprendenti della vita di Verdi, come il suo impegno sociale, le sperimentazioni agricole e le iniziative benefiche per musicisti e contadini.
La Jaguar d’epoca di Corradi funge da filo narrativo, attraversando le campagne piacentine, mentre la fotografia di Marco Sgorbati, basata sulla luce naturale, rafforza l’impressione di un viaggio autentico.
La meta simbolica è Villa Verdi, la dimora che il Maestro fece costruire secondo la propria visione, luogo centrale nella sua vita artistica e personale, oggi chiuso al pubblico e in parte degradato. La Villa rappresenta il culmine ideale del viaggio e il cuore emotivo del documentario.
Gli ideatori del docufilm ci regalano dunque un viaggio tra luoghi, storie e incontri concernenti il genio di Verdi, uomo sensibile – proprio come Cioni – e visionario.
Federica Grasso Sfacteria
