Grigio d’Indifferenza

Le prime luci del chiarore mattutino filtrano dalle logore tapparelle di casa, inebriando l’aria con quel profumo d’alba che raramente si può sentire. Quel chiaro bagliore sembra ballare un lento valzer con l’ombra che ancora abbraccia parte della stanza. Come se Apollo, sceso dal Carro, avesse, d’improvviso, rinunciato a rincorrere la Luna.

La frenesia dei giorni precedenti sembra un ricordo lontano, un isolotto nel mare della mente. La nave dei pensieri l’ha definitivamente lasciato alle spalle. L’uomo deglutisce, posando il suo sguardo vitreo sul soffitto. Nel bianco può veder quasi riflesso il vuoto della sua anima. Riesce persino a distinguere il frastuono delle macchine. Rumore che, nei corridoi della ragione, risuona quasi come l’eco lontano di un giorno passato.

Eppure ogni data cerchiata sul calendario appare uguale alla precedente. Navigando accompagnato dalla bonaccia della monotonia, naufraga tra le onde del tedio. Lo spleen, col suo flebile sospiro, sospinge le logore vele. Prende forma un lugubre quadro. I suoi contorni appaiono delineati sin da quando nella tavolozza dei colori ha dovuto aggiungere il grigio dell’apatia.

Oramai assomigliava sempre di più a un automa. Persino nei pochi momenti di respiro, ritrovava le stesse sfumature dei giorni precedenti. Per un paio d’ore poteva quindi eliminare dal suo dizionario le parole “Diligenza” e “Lavoro”, ma come avrebbe potuto riempire quello spazio bianco? La produttività aveva logorato e divorato il suo spirito come Crono fece con i suoi figli. Stavolta, il tempo scrutava dall’alto le schiere di uomini che, in fila come tanti piccoli soldatini, chinavano il capo su scrivanie e macchinari.

Il frastuono della sveglia accanto a lui lo ha già riportato a una realtà che avrebbe voluto solo riporre nello scantinato della mente, per poi dimenticarsene. A passo rilassato ma pesante, si avvicina alla finestra. Quindi, interrompe bruscamente quel lento che luce e oscurità ballavano sotto gli occhi del Sole, che fa capolino tra gli spiragli.

Le vitree pupille riflettono nitidamente la malinconia della città. Appare troppo presa da sé se stessa per curarsi delle emozioni dei suoi abitanti. Si respira, però, una fin troppo insolita quiete. Per la prima volta, dopo tanto tempo, riesce persino ad ascoltare i suoi stessi pensieri. Senz’altro qualcosa di diverso dai ridondanti ordini dei suoi superiori.

Nel museo dell’accidia, lui era come quello scapestrato artista che impiega anni ad ultimare il suo capolavoro. Ora, la nivea tela era la sua stessa anima.

Quando aveva gli occhi fissi sul quadro, persino lo smog della città, deprimente contorno, era trascurabile. E i palazzi davanti a lui sembravano osservarlo con superbia, come fossero seduti su un trono invisibile. Re nei loro castelli di carta, protetti dall’armatura dell’indifferenza.

Mentre questi pensieri si fanno strada, decide, per la prima volta dopo tanto tempo, di lasciare quelle quattro mura, ormai una sorta di carcere della quotidianità. La tirannia dell’ignavia, per pochi attimi, allentava le sue catene.

Eccolo ottenere, in cambio, una normalità che non era mai riuscito a sentire come sua. Davanti a lui, un via vai di persone, fin troppo indaffarate, anche solo per rivolgere un saluto o uno sguardo. Sembrano inghiottiti dalla loro stessa freddezza.

In quei momenti di libertà, però, gli sembrava di poter guardare anche oltre il muro del distacco contro cui il suo animo rischiava di andare a sbattere. Talora, era guidato da quella frenesia che, perentoria, aveva sempre scandito le sue giornate.

Le pupille, vuote, riflettono certe scene di convivialità che aveva potuto osservare solo dai finestroni della fabbrica in cui lavorava.

Ormai era talmente abituato a quel rumore metallico, colonna sonora di una vita automatizzata in ogni suo aspetto, che iniziava a sentire come amplificati persino i sussurri della gente intorno a lui. Dalla panchina su cui era seduto, osservava la surreale realtà che aveva sotto gli occhi.

Sembrava fosse un estraneo viandante lungo l’autostrada dell’esistenza. Era una sensazione che non sarebbe mai riuscito a descrivere, e ogni parola sarebbe stata quasi superflua. Volgendo lo sguardo sopra il capo, il cielo, imperioso, riverbera di una vuota interiorità.

Essa assomiglia, ora più che mai, a un Panopticon, nel quale si riscopre prigioniero. Le luci al neon sembrano mischiarsi con un cupo bagliore. Eccolo far da contorno di un dipinto dai colori fin troppo spenti.

Intanto, la melodia di un silenzio a tratti assordante, guida i suoi pensieri. Senza il filo d’Arianna, essi si muovono a tentoni nel dedalo della mente. Al centro, ad attenderlo, non c’è alcun Minotauro.

Si ferma, seppur per qualche istante. Quella mattina, sembra diversa dalle altre.

Per la prima volta dopo tanto tempo, il freddo che avvolge la pelle ha un sapore diverso. I grattacieli non hanno più l’aspetto di veri e propri obelischi dell’abulia. Fanno quasi meno paura.

L’uomo sospira, riuscendo persino a distinguere la forma del suo stesso respiro. Eccolo, disperdersi in aria. Per un istante, gli sembra di tornare bambino. La mente lo riporta a certi momenti. Ancora spensierato e senza alcun cruccio, osservava l’eterno rincorrersi delle nuvole. Ora osserva solo coltri di fumo nero. Il Sole, pallido, continua a squadrarlo da lontano.

Tutt’intorno suona l’orchestra della quiete, dando le spalle alla platea. Ormai, non è più rimasto nessuno.

 

Manuel Mattia Manti