Fidarsi

Valeria Vella
VALERIA VELLA
Inchiostro
#fiducia inchiostro racconto scrittura creativa universome

La tazza fumante di the che teneva fra le mani sembrava essere l’unica fonte di calore in grado di scaldarla. Non importava che, sotto il cappotto, Coraline tenesse addosso tre strati di abbigliamento, né che la temperatura della stanza fosse impostata al massimo. Continuava a tremare.

I biscotti che le avevano lasciato di fronte erano ancora intonsi, ignorati. La ragazza aveva preferito mangiucchiarsi le unghie, più che placare il rumoroso brontolio del suo stomaco con della dolce pasta frolla. Ne erano testimoni le cuticole, sanguinanti per l’incedere tormentato e ossessivo dei suoi denti.

Probabilmente era lo sguardo di giudizio dell’uomo che sedeva dall’altra parte del tavolo a inibirla. Non era mai successo che le rivolgesse una tale freddezza. Da parte sua, aveva, infatti, sempre e solo ricevuto tanta dolcezza e comprensione.

Sapeva di avere ancora una chance con lui, ma, per ottenerla, avrebbe dovuto lottare e superare un suo limite, in modo da riuscire nella cosa più pericolosa che avesse mai osato fare: fidarsi.

 

Era il primo anno di università e l’ingresso nel mondo dei grandi non era stato come lo aveva immaginato.

Aveva passato un’intera esistenza a sentirsi ripetere quanto fosse brava, quanto fosse speciale e migliore degli altri. Nonostante i dubbi che nutriva a riguardo, aveva, però, finito per crederci anche lei, illudendosi di essere più grande di quanto fosse in realtà.

A ben pensarci, Coraline non si era mai davvero capita. I contorni di ciò che era le parevano alquanto confusi e inafferrabili.

Fu così che si confrontò, per la prima volta, con l’inadeguatezza e il senso di inferiorità.

Con il secondo, aveva già avuto in passato degli incontri ravvicinati, niente che la sua mente fosse stata in grado di dimenticare. Pativa ancora gli effetti collaterali di quel brutto malanno.

Ma si era armata di coraggio, cercando nel confronto con gli altri un miraggio di cambiamento.

«Un’occasione per migliorarmi» era solita ripetersi, arrotolata nelle lenzuola del letto. Non c’era anima viva a darle ascolto.

Un’altra novità a cui si era dovuta abituare malamente: il silenzio.

Nella sua vera casa, anche le pareti sembravano essere incapaci di tacere. Era sempre animata da risate, musica e litigi. Dal rumore del fuoco scoppiettante del camino e dal motivetto della lavatrice.

Nella sua seconda casa, invece, era sola. Non che non fosse abituata a esserlo, ma fra il ricercare la solitudine e il ritrovarcisi obbligata, la differenza era una coltellata.

Piacere agli altri, quindi, sembrava essere la sua unica ancora di salvezza. Era la loro approvazione a elevarla e la loro ombra a farle compagnia.

Aveva finito per fidarsi di loro, come una sciocca che cerca nel mare dell’acqua per dissetarsi.

Il finale, considerata l’intelligenza che tanto decantava, avrebbe potuto immaginarlo. I campanelli d’allarme, comunque, c’erano stati tutti.

Non era, forse, indicativo il fatto che nessuno fosse nemmeno capace di pronunciare bene il suo nome? Erano tutti un “Caroline” di qua, un “Cora” di là e, talvolta, si era sentita anche chiamare “Charlotte”.

Neanche a uno di loro interessava realmente di lei.

Sapevano, almeno, di che colore fossero i suoi occhi? Qualcuno si era mai avvicinato tanto e per abbastanza tempo da notare che non fossero del tutto castani, ma che, se colpiti dalla luce, brillavano tutto a un tratto quasi fossero fatti di topazio?

Si erano mai chiesti da dove venisse? Del perché il suo modo di parlare fosse tanto diverso dal loro? Se aveva un fratello o un cane, se preferisse il caffè o il the, se amasse la pizza?

A dir la verità, un briciolo di attenzione le era stato dedicato, nel tempo. Quando c’era da realizzare qualche progetto di gruppo e lei si ritrovava a concluderlo da sola, erano tutti sorrisi e voci stucchevoli come melassa. E, qualora capitasse che la invitassero a pranzo con loro e lei anticipasse il denaro per pagarlo, erano sempre molto riconoscenti. Certo, puntualmente dimenticavano di restituirglielo, ma, quantomeno, per qualche giorno l’avrebbero salutata con abbracci e schioccanti baci sulla guancia.

C’era stata una volta, poi, in cui, al centro commerciale, uno di loro aveva preso, per sbaglio, un articolo, uscendo senza passare dalla cassa. I commessi avevano alzato un tale polverone che lei, sollecitata dalle preghiere e dai tanti piagnucolii, si era presa la colpa. I suoi genitori avevano minacciato di cacciarla di casa, ma i suoi amici le avevano dato forti pacche sulle spalle e avevano riso con lei di quell’episodio per tutto il resto del mese.

, era stata, in definitiva, un’irrimediabile ingenua. Ma lo aveva capito troppo tardi.

Quando una di quel gruppo di ragazzi, Jada Miller, era stata trovata morta, Coraline, pur essendo passati mesi dall’ultima volta in cui le aveva rivolto parola, era stata la prima a esser chiamata dalla centrale di polizia per un interrogatorio.

«Al momento, sei l’unica ad avere un movente» le aveva sbottato contro il detective, dopo minuti interi trascorsi a cercare di estorcerle una confessione.

Lei odiava Jada, aveva aggiunto, a mo’ di spiegazione.

Perché Jada era bella, di una bellezza naturale e senza sforzi. Era carismatica, sveglia e sempre sul pezzo. Tutti le pendevano dalle labbra, volevano starle accanto e risplendere di luce riflessa.

Jada era quello che lei non sarebbe mai stata. E Coraline, sentendo quanto avevano riferito agli agenti, ne era invidiosa.

Così, l’aveva uccisa. Non poteva esser stato nessun altro.

Era quello il motivo che l’aveva spinta a rivolgersi a Nick. Un’accusa di omicidio era una scusa abbastanza forte per ricontattare l’unica persona che, in quel gruppo, le avesse mai dedicato una gentilezza. No?

Nick, pur non essendo coinvolto nei soprusi di cui era stata vittima, doveva aver saputo ciò che le era capitato. Qualcuno gli aveva raccontato per certo degli insulti, delle molestie e delle botte che Jada, in primis, non si era mai risparmiata. E, cosa che non guastava, Nick era anche un avvocato.

Avrebbe potuto guidarla nella ricerca di assistenza legale e, se sapeva giocarsi bene le sue carte, farle pure da testimone.

«Coraline…»

Ah, Nick era anche l’unico che rifiutava di ignorare il suo vero nome.

«So che nessuno sognerebbe mai di farsi trascinare in una situazione del genere» lo interruppe, prima che l’uomo potesse continuare. «Ma non so su chi altri contare.»

Le lacrime le offuscarono la vista con velocità, impiastricciandole le ciglia e scivolando a fiotti giù fino al mento. Il gelo non l’aveva abbandonata nemmeno per un secondo.

«Se decido di aiutarti-»

«Farò tutto ciò che mi chiedi!»

Nick le lanciò un’occhiataccia, ma non commentò quella sua altra interruzione. Si massaggiò la mascella, pensieroso e chiaramente combattuto, e, poi, strinse il ponte del naso fra pollice e indice, quasi celando alla sua vita il turbamento che l’aveva assalito.

«Se decido di aiutarti,» ripetè ancora «dovrai essere sincera. Dirmi tutta la verità. Le bugie non ci porteranno da nessuna parte.»

Coraline annuì con forza. Il the, rimasto stretto fra i palmi, strabordò appena, bagnandole il cappotto. Non se ne accorse nemmeno, troppo felice e speranzosa per notare qualsiasi altra cosa che non fosse l’uomo che le stava salvando la vita.

«Coraline, hai ucciso Jada?» le domandò, a bruciapelo.

«No» rispose con fermezza lei. Mantenne fisso lo sguardo, le palpebre a mezz’asta e i denti serrati.

Per qualche minuto, regnò il silenzio. Poi, Nick si rilassò di colpo, poggiando le spalle contro lo schienale della sedia e sospirando profondamente.

Coraline comprese davvero solo in quel momento di avere un alleato. Qualcuno di cui poter davvero fidarsi.

Tornata a casa, la ragazza non si spogliò nemmeno, prima di buttarsi sul materasso. Era stata una lunga giornata, di una lunga settimana, di un lungo mese. Che qualcuno provasse pure a criticarla per le sue scelte di vita poco igieniche. Non aveva più niente da perdere.

Con la testa affondata nel cuscino, cercò con gesti goffi il cellulare, seppellito da qualche parte fra le numerose pieghe del suo bizzarro vestiario.

Dopo qualche sbuffo e scatto convulso, riuscì ad acchiapparlo. Evitò di specchiarsi nel riflesso nero dello schermo spento, e lo sbloccò. Trafficò qualche attimo, con gli occhi strizzati per l’illuminazione bluastra, un faro nell’oscurità della stanza, e, poi, si mordicchiò le pellicine sulle labbra secche, scorrendo pigra su Instagram.

«Non l’ho uccisa» mormorò. All’improvviso.

Passò, lenta, il polpastrello sul viso che riempiva l’inquadratura. E sorrise.

«È stata la sua cattiveria a farlo.»

 

Valeria Vella