emoticon risata

L’emoticon della vigliaccheria

Attualità
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Una risata allunga la vita, ma nei social, anche un’ emoticon pare distruggere ogni forma di umanità.

La risata che ci allontana

Nel febbraio del 2016, Facebook introdusse nel proprio social il pacchetto Reaction, comprendente fra le altre l’emoticon Haha, ovvero la faccina che ride. L’obiettivo della compagnia digitale era quello di consegnare all’utente maggiore libertà di reazione ai contenuti, potendo così andare oltre il classico “Mi piace”.

Il significato originale dell’emoji era quello di manifestare la propria ilarità in merito a post scherzosi o sketch comici, ma ben presto si è tramutata in un veleno capace di inquinare ulteriormente il dibattito pubblico.

Nel Facebook odierno infatti, l’emoticon Haha è un’arma silenziosa usata dagli utenti per sminuire e denigrare opinioni differenti dalle proprie. Il risultato è disarmante, poiché si rischia di banalizzare ogni tipo di contenuto presente in rete. Nella sezione commenti di ogni singolo post, si possono conteggiare una sfilza di reazioni smile che fanno da contorno ad una serie infinita di insulti.

La struttura stessa dei social, fondata sull’immediatezza e sulla reazione istantanea, ci impedisce di riflettere davvero su ciò che leggiamo, portandoci a respingere tutto ciò che non rispecchia la nostra visione. Umiliare l’altro diventa così un gesto facile e automatico, favorito dalla distanza dello schermo e dalla protezione dell’anonimato. Quando poi la derisione si fa collettiva, subentra l’effetto branco: la responsabilità individuale si annulla, e il dissenso viene silenziato sotto una pioggia di risate virtuali. In questo clima, ogni tentativo di esprimere un pensiero rischia di essere soffocato da una falsa ironia, non più strumento di condivisione, ma arma per zittire.

Quando un emoji diventa reato

L’utilizzo sarcastico delle emoji, apparentemente innocuo, può avere rilevanza penale. Un caso emblematico riguarda un uomo condannato per diffamazione aggravata dopo aver offeso la reputazione di un imprenditore lombardo. In particolare, l’uomo aveva commentato un post relativo ai problemi di viabilità del Comune di Luino (provincia di Varese) facendo riferimento ai deficit visivi dell’imprenditore, accompagnando la frase con l’emoji della risata. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2251/2023, ha confermato che anche un simbolo grafico come un’emoticon può assumere valore lesivo, soprattutto se impiegato pubblicamente con intento denigratorio. In questi casi, la comunicazione digitale può concretamente ledere la reputazione altrui.

La normativa italiana (art. 595 c.p.) prevede per il reato di diffamazione aggravata la reclusione fino a un anno o una multa, e la querela può essere presentata anche sulla base di screenshot, anche se il contenuto è stato successivamente rimosso. Questo episodio dimostra come anche le forme espressive più brevi e informali della comunicazione online possano comportare conseguenze giuridiche significative.

Contrastare l’odio digitale attraverso l’empatia e l’educazione

Per arginare l’uso dell’emoji Haha come strumento di odio online, diverse strategie si stanno diffondendo. Progetti come Mute The Hate, campagna mediatica contro l’hate speech, si concentrano sull’educazione digitale e la sensibilizzazione, invitando gli utenti a non rispondere con rabbia alle provocazioni e a segnalare tempestivamente i contenuti offensivi alle piattaforme, favorendo così un ambiente più rispettoso.

Parallelamente, nascono iniziative come gli Offline Club, spazi fisici in cui giovani e adulti si incontrano senza smartphone, per allontanarsi dalla tossicità dei social e ristabilire un dialogo autentico, basato sull’ascolto e sull’empatia. Accanto a queste soluzioni, è fondamentale integrare nelle scuole programmi educativi che insegnino il valore del rispetto, della diversità e della comunicazione responsabile.

Solo un approccio multilivello, che unisca tecnologia, cultura e relazioni umane, può contribuire a trasformare le piattaforme digitali da terreno fertile per l’odio a luoghi di confronto costruttivo.

 

Giovanni Gentile Patti