Ichi the killer: passione sadomasochista

Aurelio Mittoro
AURELIO MITTORO
C'era una volta un cult
C'era una volta un cult Ichi the killer Takashi Miike
Nosferatu
Un raffinato thriller/gangster movie che unisce amore, vendetta, perversione e liquidi corporei- Voto UVM: 5/5

La mente contorta e geniale di Takashi Miike prende spunto dall’omonimo manga di Hideo Yamamoto per realizzare una delle sue opere più iconiche e disturbanti: Ichi the Killer (2001) non è solo una pellicola, ma un compendio delle perversioni più intime e delle tematiche più riprovevoli, già sondate nei lavori precedenti come Audition (1999), Dead or Alive (1999) e Visitor Q (2001), che il regista impacchetta appositamente per destabilizzare il pubblico più generalista.

Prodotto dalla Toho e dalla Alpha Group, il film è attualmente disponibile nella sua versione blu-ray su amazon.

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Ichi the killer (2001) di Takashi Miike.

TRAMA

In una stanza di hotel in Giappone, nella quale il boss della yakuza Anjo sta per violentare una prostituta, il sicario “Ichi” irrompe dalla finestra ed uccide brutalmente l’uomo, senza lasciare alcuna traccia; per ritrovare il suo capo, convinto che sia fuggito con una grossa somma di denaro, il sadico Kakihara ed i suoi migliori uomini (tra i quali spicca Kaneko, un ex-poliziotto e padre di un bambino) si muovono in una splendida città, intrisa di criminalità e violenza, interrogando e torturando chiunque sospettano possa avere delle informazioni.

TAKASHI MIIKE E IL MANGA ORIGINALE

L’unicità dello stile di Miike sta nel riuscire a ipnotizzare lo spettatore grazie ad una trama fitta di colpi di scena, un ritmo cadenzato (a tratti nevrotico) ed un’estetica affascinante ed allo stesso tempo inquietante: tale dicotomia trova una personificazione magistrale già nella scelta dell’attore per il ruolo del sadomasochista mutilato Kakihara, affidato non casualmente a Tadanobu Asano, un attore belloccio che fino a quel momento aveva preso parte unicamente a prodotti scadenti ed era considerato alla stregua di un idol in madrepatria; Miike sfregia il suo volto e lo propone in una veste instabile quanto carismatica, a tal punto da risultare più iconico del protagonista sfuggente e tormentato che dà il nome all’opera.

D’altro canto, il genio del regista giapponese si rivela nel momento in cui si mette a confronto la pellicola con il manga di riferimento: Yamamoto, il mangaka, descrive in maniera dettagliata e truculenta ogni singola ferita e mutilazione, inoltre si sofferma maggiormente sul passato dei personaggi e sulle intricate macchinazioni di Jiji; Miike, nonostante imbastisca un lungometraggio con un forte impatto visivo sullo stomaco degli spettatori, gioca maggiormente con il concetto di grottesco, traendo una maggiore forza destabilizzante dal contrasto tra l’ultraviolenza messa a schermo e l’atteggiamento incurante, spesso sarcastico dei personaggi.

Del resto Miike, artista piuttosto prolifico, è noto in patria principalmente per le sue trasposizioni sul grande schermo di manga e videogiochi rinomati come The Great Yokai War, As the Gods Will, Like a Dragon, Ace Attorney e la quarta parte di Le bizzarre avventure di Jojo: Diamond is unbreakable.

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Ichi the killer (2001) di Takashi Miike.

LA VIOLENZA COME ESPRESSIONE DELL’ANIMA

Coloro che riducono Ichi the killer ad un mero monumento al “gore” non si allontano troppo dalla visione del regista: quest’opera analizza minuziosamente le varie declinazioni della violenza, che sia fisica, psicologica o cinematografica (da segnalare gli apporti fondamentali dello stesso Yamamoto alla fotografia, e la presenza nel cast di Shin’ya Tsukamoto, padre dell’estetica cyberpunk nipponica), e ci mostra come essa plasmi la vita dei personaggi e della società giapponese.

In particolar modo, nel caso dei due protagonisti (Kakihara ed Ichi) la violenza corrisponde concettualmente al desiderio, spesso sessuale: Kakihara non perde un attimo per ricordarci costantemente della sua tendenza al sadomaso, la quale, nonostante appaia inizialmente come un caos perverso, si basa in realtà su delle regole e su una filosofia di vita ben precisa, un accettare la propria inadeguatezza nelle relazioni interpersonali ed al contempo una ribellione verso le regole ipocrite di una società che lo rifiuta costantemente;

Ichi, al contrario, rivela un animo gentile quando ne ha occasione, ma la sua mente rimane soggiogata dal misterioso Jiji che amplifica i suoi impulsi più beceri e confonde la sua percezione (manipolando i suoi ricordi) trasmutando i suoi impulsi sessuali in impeti omicidi.

Entrambi sono dei “puri” legati dalla passione per il sangue, in un equilibrio costante sulla sottile linea che separa il dolore ed il piacere; o almeno questo è ciò che pensa Kakihara, manifestando una profonda alienazione dalla realtà mista ad un nichilismo crudele e spietato verso il prossimo quanto lo è verso se stesso.

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Ichi the killer (2001) di Takashi Miike.

UNA PROFONDA INADEGUATEZZA

Il finale criptico e da molti criticato, sottolinea come il vero peccato capitale della società odierna sia l’impossibilità di una comunicazione sincera tra gli individui, la quale porta a disattendere le aspettative di ogni singolo: ciascun protagonista ottiene il risultato diametralmente opposto rispetto a quello auspicato e faticosamente costruito per tutta la durata del film; persino coloro che raggiungono in ultima istanza il loro obiettivo, non riescono a provare minimamente il senso di appagamento e soddisfazione tanto ricercato.

Ed è qui che Miike sferra un altro colpo da maestro: l”unico personaggio moralmente superiore agli altri, Kaneko, il quale si premura unicamente di tenere lontano il proprio figlio dalla spirale di violenza che avvolge la sua vita, fallisce miseramente; i sentimenti di inadeguatezza, alienazione ed odio verso il prossimo vengono passati alle nuove generazioni, e l’essere umano continua ignominiosamente la sua esistenza incapace di esternare i propri sentimenti.

 

 

Aurelio Mittoro