Donna angelo Dante buvant les eaux de lethe, Jean Delville

La donna-angelo: il topos che ha impoverito la complessità della donna

Giusy Lanzafame
GIUSY LANZAFAME
Cultura
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Esistono miti che sembrano eterni, radicati così profondamente nell’immaginario collettivo da sopravvivere alle epoche, alle rivoluzioni, ai cambiamenti sociali. Alcuni si trasformano, si adattano, cambiano forma per perpetuare la loro influenza. Altri, invece, si sgretolano sotto il peso di un progresso che non può più tollerarne le menzogne. Tra questi, uno dei più longevi e insidiosi, è quello della donna-angelo: eterea, pura, inarrivabile.

Per secoli, la donna è stata relegata a spettro, simulacro immacolato privo di voce e volontà. Il Romanticismo l’ha trasfigurata in icona di struggimento e sacrificio, la Belle Époque l’ha incastonata in un bozzolo di lasciva decadenza, mentre il cinema del Novecento ne ha fatto una dicotomia ingannevole: la femme fatale, avvincente e predatoria, e la casalinga impeccabile, devota e rassicurante. Archetipi opposti, ma ugualmente costrittivi, espressioni di un unico dogma: la donna come superficie riflettente, oggetto da contemplare, mai soggetto autonomo di narrazione.

Oggi, però, non è più ombra evanescente. Ha demolito le barriere che la volevano eco del desiderio maschile, occupando con potenza lo spazio che le è sempre appartenuto. Dall’accademia alla politica, dalla scienza all’arte, le donne hanno sradicato la narrazione che le relegava a comparse, imponendosi come protagoniste.

Eppure, il cadavere della donna-angelo non smette di essere riesumato. Ogni volta che si esige grazia come condizione imprescindibile, ogni volta che la dolcezza viene imposta come filtro della forza, ogni volta che il sacrificio e la devozione si travestono da nobiltà d’animo, si perpetua una narrazione che avrebbe dovuto dissolversi da tempo.

Il linguaggio stesso si fa strumento di controllo: la donna deve essere “forte ma femminile”, “determinata ma gentile”, come se la sua autodeterminazione dovesse sempre essere mitigata, mai feroce, mai destabilizzante.

E il mito non si dissolve, si trasforma. Si insinua nelle rappresentazioni culturali, si rigenera nei media, si annida nelle aspettative sociali. La madre è impeccabile, la “ragazza della porta accanto” è rassicurante, la donna in carriera è brillante ma mai eccessiva. Si esige un equilibrio innaturale, attraverso cui bisogna essere tutto e il suo contrario, senza mai incrinare l’illusione di pura armonia. La società recepisce, assimila, riproduce. Modella aspettative, plasma giudizi, impone codici e comportamenti, proponendo l’ennesimo ideale che, pur riformulato, resta sempre domato.

Ma la donna non è simbolo, non è astrazione, non è un riflesso. È presenza, volontà, irruzione.

Chi si ostina a rimpiangere quell’eterea creatura imbalsamata nella purezza nega una verità ormai ineluttabile: il futuro, piaccia o no, non ha bisogno di ali.