L’incubo

Isabel Pancaldo
ISABEL PANCALDO
Inchiostro
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Ogni respiro era come una lama che tagliava le mie narici in quella notte ruggente. Mi giravo e rigiravo tra le lenzuola e, di tanto in tanto, mi pareva di essere sul punto di cadere da un dirupo. L’esasperazione non mi consentiva neanche il pianto: ogni qualvolta gli occhi iniziavano a irrigarsi, una corsa senza fine agitava il mio cuore, prosciugando tutto. Non trovavo pace. Non nel pianto, non nel sonno. Ero riuscita a dormire per un’ora soltanto, poi l’incubo feroce mi aveva strappato via il sonno. Ero sola, al buio e poi, sola, in mezzo alla gente. Poi c’era lui. Affascinante, alto, elegante. Era lontano prima, poi mi venne incontro, ma a quattro zampe e, appena fu abbastanza vicino, mi aggredì. Non riuscivo a comprendere perché fossero tornati i miei brutti incubi. Odiavo e amavo.

Ma amavo davvero? Odiavo davvero?

Pensavo a quegli occhi verdissimi che, circondati da mille rughette, ridevano. D’un tratto, il calore riempiva le mie tempre e sentivo di volergli un tale bene da volerlo proteggere a tutti i costi. Così bene da condividergli con generosità ogni mia gioia, da dedicargli versi e quadri. Poi l’immagine diveniva sfogata, gli occhi si deformavano e mutavano in due fessure inespressive e riuscivo a vederlo in un sorriso marpione, con le sopracciglia inarcate, fieramente cattivo ed egoista. Aveva un’aria sadica e il temperamento di chi scalpita e afferra tutto ciò che vuole, senza provare alcuna empatia o rimorso.

Confermai sommessamente, invece, la mia decisione, perché ero corda tesa sul punto di spezzarmi. Tutto il dolore che avrei provato a seguire, mi avrebbe consentito di fermare gli incubi e di essere nuovamente libera.

Mi misi su con una certa angoscia e, tremante e impaziente, digitai il suo numero. Al terzo squillo rispose, la voce era incupita dal sonno, ma rimaneva quella che donava parole di miele al mattino.

“Pronto?”

Non potevo più trattenermi e scoppiai in un pianto sommesso. “Scusami.” Iniziai. “Volevo sentirti. Avevo solo bisogno di sentirti. Non riesco a dormire stanotte. Faccio gli incubi.” Le lacrime mi inondavano il viso e mi feci piccola contro il muro. Volevo sparire tra le pareti, attendendo le prime luci del mattino.

“Che hai sognato?” Mugugnò a malapena e riuscivo a immaginarlo messo su un fianco con gli occhi chiusi e tanta voglia di dormire ancora. “Ma stai piangendo?”

“Sì, io ho paura.” Gli confidai, sedendomi sul letto sfatto. “Ho paura che non mi vuoi bene.”

“Certo che ti voglio bene!” L’impasto del sonno era quasi del tutto sparito e sentii dei rumori. Immaginavo si fosse alzato in modo da rendersi abbastanza sveglio per la conversazione. Ci fu silenzio per qualche secondo e poi rise confuso. “Sei impazzita?”

“Non so… io ho molta paura,” iniziai, “che tu mi faccia del male.”

Rimase in silenzio. Lo percepivo, anche se solo attraverso un telefono, cupo e irrequieto.

“Sento come se tu fossi un selvaggio. Ho sognato che eri un animale. Come se tu fossi un animale senza padrone, come se non avessi regole e limiti. Mi spaventa molto.” Ammisi, con una forte dose di apparente tranquillità sul finire. “Le persone che mi vogliono bene sembra mi vogliano tutte difendere da te. Anche se non fai nulla, anche se non fai nulla…”

“Io sono ciò che sono.” Sbuffò. “Che importa poi quello che pensano gli altri?”

Era vero. Che importava? Il problema era che, infondo, mi sentivo in pericolo e il fatto che lo pensassero gli altri era solo la conferma esterna a quella parte di me che voleva scappare via. Seguì, quindi, un lungo silenzio dove la tensione era alle stelle. Io non riuscivo a parlare, perché avevo troppo da dire; la mia controparte, forse, perché non aveva o non poteva dire nient’altro.

“Finirà presto. Io lo so. Tu che pensi?”

“So solo che non ti voglio perdere. I miei comportamenti a volte prescindono da ciò che provo.” Era molto triste. Guardai l’ora. Erano le tre e trentasette di mattina. “Sappi che ho paura anch’io. Ho una paura matta, spesso irragionevole, di farti male.”

“E allora perché lo fai?” Ripresi a piangere a dirotto mentre lui sussurrava parole delicate per rasserenarmi, ma non riuscivo proprio a fermarmi.

“Perché sono egoista e devo ancora crescere probabilmente.” Rispose poi e seguì un continuo rumore di passi. Era chiaro camminasse avanti e indietro per la stanza e mi alzai d’istinto. “Io credo però che non sia giusto che finisca. Sento che non deve andare così.” Aggiunse profeticamente. Aveva capito le mie intenzioni.

Non negai. “E come dovrebbe andare?”

Sospirò. Sospirai. Aumentai il passo, come un leone in gabbia, percorrevo la stanza senza una logica precisa. L’ansia mi mangiava, il pianto silenzioso mi corrodeva, pur fingendomi serena in attesa di una risposta degna della domanda.

“Noi due siamo come i tronchi di alberi sulla neve: apparentemente stanno sulla neve e sembrerebbe a tutti possibile spostarli con un piccolo colpo…” ragionò con grande pragmatismo e mi lasciai cullare dalla voce limpida e paterna, “ma no, è impossibile perché le loro radici sono ben ancorate al terreno.”

Questo pensiero mi impedì di continuare a piangere. Aveva la capacità innata di innestare serenità nel mio cuore, quando voleva, grazie alla sua sensibilità dosata. Non potevo però dimenticare il talento senza uguali nel distruggere tutta la mia pace. Pensai: “Se non ci fossero le irrequietezze che lui stesso crea, non avrei bisogno di essere rasserenata”

“Noi ci vogliamo bene.” Risposi. Ero tranquilla, ma stava per finire e, lasciandolo, sapevo che avrei amato di nuovo. “Ti voglio non bene, benissimo.”

“Anch’io, tantissimo. Mi raccomando, dormi con la luce accesa, magari…”

“Scusami ancora… dormi bene…”

“Buonanotte.”

Poi uscii dalla stanza per rimanere sotto il cielo. Il vento autunnale soffiò via il grigiore, così respirai. Vidi la Luna pallida, piena, gioire. Sentii la Luna cullarmi, materna, eterna. Sotto un cielo infinito, felice e innamorata come mai, piansi.

              Isabel Pancaldo

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia e Isabel Pancaldo