Messina: un’istantanea sull’economia della città

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L’obiettivo della ricerca

Obiettivo di questo Report del professore Michele Limosani, dell’Università degli Studi di Messina, è quello di offrire un’istantanea sullo “stato di salute economico” di quella che è la tredicesima città di Italia, Messina. 

Anche se la realtà della città non può essere un riflesso dell’intera situazione dell’economia del Mezzogiorno, bisogna comunque tenere in considerazione l’importanza di una ricerca del genere per capire gli obiettivi verso cui muoversi.

Inoltre, il report è pensato principalmente per rivolgersi ai giovani messinesi, a coloro che stanno per assumere decisioni importanti per il loro futuro è che sono risorsa fondamentale per la città e la sua ripresa dalla crisi generale generata dalla pandemia e da quella preesistente.

La partecipazione al mercato del lavoro 

La popolazione è di circa 230mila abitanti e 99 mila nuclei familiari. Secondo gli ultimi dati disponibili provenienti dall’Agenzia delle Entrate, i contribuenti che hanno presentato dichiarazione fiscale sono il 58% della popolazione residente. Il restante 42% – circa 100 mila persone – dunque, risulta non avere alcun tipo di reddito. Se si escludono da questo gruppo i giovani,  cioè i soggetti di età compresa tra 0 e 19 anni (circa 40 mila persone), l’altra parte di popolazione (circa 60 mila persone) risulta esser costituita da moltissime donne che hanno rinunciato da tempo a cercare lavoro e una cospicua fetta di soggetti che lavorano in nero. 

Dal grafico 1 del report si può evincere la distribuzione dei redditi e quanto guadagnano i cittadini. Il 33% dichiara redditi compresi tra 0 e 10mila euro lordi, ossia tra 0 e 800 euro mensili lordi; il 40% è compreso tra 15mila e 26mila, quindi tra 1.200 e 2.200 euro mensili lordi.

grafico 1

 

Il peso della tassazione sui redditi delle famiglie (IRPEF) in città ricade in massima parte sulla fascia di contribuenti con redditi medio-bassi (50% circa), gli stessi che devono finanziare la spesa pubblica per i servizi per tutta la popolazione residente. Il residuo fiscale, ossia la differenza tra quanto un cittadino versa in termini di tasse (dirette e indirette) e quanto riceve in termini di benefici legati alla spesa pubblica crea una tendenza negativa. I contribuenti inclusi nella fascia bassa (0-15 mila), infatti, pagano poche tasse per via delle esenzioni e delle aliquote più basse; quelli compresi nella fascia alta di reddito (> 75mila), per via del numero esiguo, forniscono uno scarso contributo.

grafico 2

Qual’ è la fonte di reddito? Che tipo di lavoro svolgono i messinesi? Tutto ciò si può evincere dal secondo grafico, il quale mostra “una città di impiegati (dipendenti pubblici e privati) e di pensionati INPS”. I redditi d’impresa e dei lavoratori autonomi sono marginali. Secondo le ultime statistiche della Camera di Commercio, le aziende registrate nel Comune sono poco più di 20mila e la composizione settoriale è mostrata nel grafico 3. Nei settori della manifattura, del commercio, dell’edilizia e della ristorazione sono concentrate gran parte delle imprese, più del 60%.

 

grafico 3

Molte imprese risultano formalmente registrate nell’albo della Camera di Commercio, ma sono inattive. Sono circa 5mila le ditte individuali (il 25% del totale) che registrano perdite di esercizio e quindi un imponibile pari a zero. Invece, 3.700 sono i soggetti che dichiarano redditi da impresa, di cui 307 provenienti da aziende soggette alla contabilità ordinaria (ossia imprese che fatturano più di 400mila euro l’anno nel settore dei servizi o di 700mila negli altri settori) e 3.400 da imprese che operano in regime di contabilità semplificata (prevalentemente artigiani).

Però, in questa apparente fragilità del sistema emergono alcuni dati confortanti. Sono, infatti, circa 126 le imprese di capitale distribuite nella provincia, che fatturano più di cinque milioni di euro l’anno. Queste operano prevalentemente nei settori dell’energia, dei trasporti, del credito, dei prodotti elettronici e per l’agricoltura, della grande distribuzione (alimenti, automobili, prodotti elettronici), nella vendita di materie prime (ferro e derivati del petrolio). Ci sono anche partecipate pubbliche, aziende sanitaria private, imprese di prodotti alimentari (caffè, acqua minerale, lavorazioni carni) e di costruzione. Sei aziende fatturano sopra i 50 milioni di euro e alcune società hanno pensato di quotarsi in borsa.

La ricchezza delle famiglie

Secondo nostre elaborazioni sui dati di Banca d’Italia la ricchezza netta delle famiglie nel Comune capoluogo è stimata intorno a un valore di 20 miliardi. In particolare, poi, il 50% di questa ricchezza è rappresentato dalla casa. Consistente, infatti, è il numero di soggetti che dichiara redditi da immobili, ossia redditi provenienti da affitti di seconde case o di immobili per negozi e attività commerciali (circa 60mila). Il 15% della ricchezza, ancora, è detenuta liquida in conti correnti (3 miliardi circa), il rimanente in altre attività finanziarie, tra cui titoli di Stato.

grafico 4

 

Una fetta consistente del patrimonio delle famiglie (circa il 90%) è detenuto in attività finanziarie ritenute “sicure” – case, depositi bancari e titoli – e investita in attività non produttive. Questo viene segnalato come una problematica nel report.

Il futuro del sistema economico della città

Che città vedremo tra 20 anni, se non cambiano le tendenze attuali? Ipotizzando che il tasso di natalità rimanga uguale al tasso di mortalità e il rapporto tra la popolazione residente e quella attiva (numero di occupati e persone in cerca di lavoro) si mantenga costante, allora è possibile avanzare due previsioni.

La prima riguarda il numero dei pensionati che, tra venti anni, si attesterà ancora su un valore superiore al 40%. Gli impiegati di oggi saranno la componente più importante dei pensionati di domani e le pensioni continueranno ad essere la maggiore fonte di reddito della città.

La seconda previsione delinea una situazione in cui gli impiegati che andranno in pensione dovranno essere rimpiazzati da nuovi occupati. Ipotizzando un turn-over pari a 0,80 – 8 nuove assunzioni per ogni 10 pensionati – la quota di lavoratori dipendenti sarà circa del 40%, il 10% in meno di quelli che attualmente dichiarano un reddito. Il rimanente 10%, con buona probabilità, finirà per alimentare il numero di coloro che fuggono dalla città o incrementare la disoccupazione.

Dunque, si andrà incontro a un impoverimento generalizzato, uno spopolamento, un invecchiamento della popolazione e alla fuga di giovani qualificati.

 

Gli effetti della pandemia

La gran parte dei redditi dei cittadini non ha subito forti riduzioni a causa del lockdown e le restrizioni per il coronavirus. Pensionati e dipendenti pubblici hanno continuato ad aver garantiti i redditi dallo Stato. Per dipendenti regolarmente assunti dalle imprese private lo Stato è intervenuto attraverso l’erogazione della cassa integrazione (quella in deroga), anche se con evidenti ritardi, difficoltà e importi ridotti in media del 25%.

Nel caso dei redditi da lavoro autonomo (0,6% dei redditi complessivi) è più difficile delineare la situazione, poiché una parte dei lavoratori lavora a prestazione e dunque è difficile individuare quante prestazioni sono state interrotte in questo periodo e quanta parte del lavoro ha potuto continuare ad essere svolto da casa o da studio.

La tipologia di redditi sicuramente più colpita dalla crisi, sono i redditi da impresa (circa 8000 soggetti in totale) e tra questi soprattutto quelli della piccola impresa, individuale e/o familiare, con pochi dipendenti, rimasta ferma in questo periodo; le piccole attività commerciali (bar, centri benessere, palestre), la ristorazione, gli alberghi, le associazioni culturali (cinema, teatro, cultura sport). Trattasi, comunque, di una piccola quota di soggetti rispetto al totale dei contribuenti.

Colpita duramente, infine, soprattutto tutta la schiera di soggetti che non dichiara redditi, che vive di espedienti, si muove nel mercato nero circa 20-25 mila persone, di cui non si riesce a sapere molto.

Le conclusioni

Dieci sono gli interventi “irrinunciabili” secondo Limosani, per consentire alla città di raggiungere uno standard di vita che sia comparabile con quello di altre città europee:

a) Aumentare le opportunità e la partecipazione al mercato del lavoro delle donne e dei giovani e migliorare la qualità dei posti di lavoro;

b) Maggiore cura dell’ambiente e sostegno alle attività in grado di migliorare l’impatto sulle risorse naturali e ambientali;

c) Emersione della diffusa e straripante economia sommersa e lotta alle

organizzazioni criminali;

d) Rigenerazione urbana e riqualificazione delle periferie; (Baracche)

e) Connessioni infrastrutturali, materiali e digitali, della città al continente

e agli altri centri metropolitani;

f) Difesa del territorio e nuovo assetto idrogeologico;

g) Migliorare l’organizzazione ed elevare la qualità dei servizi pubblici locali

(trasporti, rifiuti, acqua, energia, spazi verdi);

h) Rivoluzionare la macchina amministrativa e migliorare l’efficienza nella gestione dei servizi erogati dalla Pubblica amministrazione. Reclutamento di una nuova classe dirigente e riconoscimento del merito;

i) Migliorare la quantità delle strutture e la qualità dei servizi sanitari, pubblici e privati. Serve una nuova sanità territoriale;

j) Sostenere il trasferimento delle conoscenze tecnologiche dalla università e dai centri di ricerca CNR, INGV alle imprese: Il ruolo degli spin-off.

Il raggiungimento di tali obiettivi potrebbe realizzarsi – si legge nel report – soprattutto grazie a una collaborazione con i governi regionale e nazionale, poiché ad essi la Legge attribuisce le competenze normative. Inoltre, professore ricorda la possibilità di poter far qualcosa nel proprio piccolo, come cittadini, verso la propria città: innanzitutto cambiare l’amministrazione pubblica locale e poi elaborare un piano, una visione, ma con unità, coesione e responsabilità, ponendo così le basi per la “rinascita” della città dalla più grande crisi dopo quella del dopoguerra.

 

Rita Bonaccurso