Je suis Charlie

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Charlie Gard.  Ha solo 10 mesi, ma tutto il mondo già lo conosce, tutti i mezzi di comunicazione ed i social networks, non hanno fatto altro che parlare di lui in questi giorni. Perché?

Perché la vita di questo bimbo, nella sua particolarissima forma, è segno di contraddizione per la società del nostro tempo che, pronta a legittimare anche i desideri più improbabili, priva della propria libertà chiunque non dovesse essere allineato con i “trend” del pensiero forte.

Chris Gard e Connie Yates, genitori del piccolo Charlie, hanno solo chiesto la vita, mentre medici e corti d’appello sentenziano morte. Morte per soffocamento ( sono filantropi, loro!) dal momento che “staccando la spina”,  Charlie non sarà più in grado di respirare autonomamente. E’ una malattia rara la sua, deplezione del DNA mitocondriale (16.ooo base paires che vengono, normalmente, tradotte in proteine funzionali, fondamentali per consentire all’organulo di adempiere alla sua funzione), si contano solo altri 16 casi del genere in tutto il mondo.

E’ senz’altro una situazione complessa ed estremamente delicata, però una cosa risulta incomprensibile: anche se  il bimbo non può essere portato negli Stati Uniti per tentare una cura sperimentale bocciata dai medici del Great Ormond Street Hospital di Londra, perché deve essere ucciso attraverso la rimozione del respiratore?

I genitori, infatti, fin dal primo giorno insistono nel dire che il bambino non soffre («se fosse così saremmo i primi a lasciarlo andare»). E che Charlie possa continuare a vivere è dimostrato proprio dal fatto che, da aprile a oggi, cioè da quando è iniziata la causa giudiziaria, il suo stato di salute non è peggiorato.

Di questo, i medici non sanno bene che rispondere. La decisione di staccare la spina è stata presa, dicono, “nel migliore interesse del bambino”, ma non è facile comprendere come la vita possa non essere nell’interesse di Charlie. E rimane, ancora, il nodo cruciale: secondo gli stessi operatori sanitari  “Non è possibile sapere se Charlie provi dolore o meno. Nessuno può esserne certo”. Quindi, non si può stabilire se ci sia o no accanimento terapeutico.

Però mi chiedo, quale medico e quale giudice può arrogarsi il diritto di porre fine alla vita di un bambino sulla base di qualcosa che non sa?

Poiché ammettono di essere nel dubbio, i dottori dovrebbero assisterlo fino alla fine e fare un passo indietro davanti a una vita che, per quanto fragile e sofferente, c’è.

L’emergenza di Charlie è l’emergenza di ogni uomo, perché la sua malattia coinvolge la fase vita in cui l’uomo è più debole e indifeso e ha bisogno di accoglienza, ancora di più se affetto da una malattia genetica o malformativa. Alla sua sofferenza non si è data una risposta concreta, si è negata la base minima della pietà umana decretando che se sofferenti non vale la pena vivere.

Concludo prendendo in prestito le parole di un pediatra e genetista francese (nonché scopritore della trisomia 21, più nota come “Sindrome di Down ed altre malattie cromosomiche), vissuto nel secolo scorso, Jérôme Lejeune:

«Se si volesse eliminare il paziente per sradicare il male, si avrebbe la negazione della medicina. Ma difendere ogni paziente, prendersi cura di ogni uomo, implica che ciascuno di noi debba essere considerato unico e insostituibile».

Dobbiamo servirci della medicina in modo etico per salvare vite, altrimenti essa rischia di diventare mero tecnicismo applicato, ma non al servizio dell’uomo. Charlie forse non può guarire, ma non per questo dev’essere ucciso da una scienza che si illude di essere onnipotente.

Ivana Bringheli