Quattro relitti dello Stretto: storia, stato attuale e foto

Lo Stretto di Messina torna al centro della nostra rubrica con un viaggio attraverso quattro relitti che “riposano” nelle sue leggendarie acque.

La Rigoletto

Il primo relitto di cui vogliamo raccontarvi è quello che si trova sulla costa della cosiddetta “Zona Falcata”.

La storia di questo relitto ha inizio negli anni ‘50. La nave serviva per il trasporto automobili Volkswagen e venne varata il 24 marzo 1955. Nel 1968 fu però venduta ad un armatore napoletano che la ribattezzò “Maddalena Lo Faro” (nome che mantiene ancora oggi insieme a Rigoletto).

La nave continuò a trasportare automobili, questa volta usate.

Trova però il suo epilogo in una traversata del Mediterraneo: il 1° luglio 1980 era infatti partita con un carico dal porto di Anversa ed era diretta a Beirut. Nelle acque di Caopospartivento (Sardegna) va però in avaria a causa di un incendio a bordo. L’equipaggio abbandona la nave, salvandosi.

Quale sarà il destino della Rigoletto?

La nave, anche se ancora in fiamme, viene trainata nei pressi del porto di Messina, proprio nella costa dell’attuale “Zona Falcata”. L’intento era quello di far incagliare la nave sulla spiaggia e gestire così la situazione critica. Tuttavia una manovra sbagliata la fa affondare. Non venne mai deciso come smaltirla.

Ricordiamo che si trattava di una nave lunga 78 metri e larga 13 metri, che oggi giace su un fondale di 35 metri.

Per i più coraggiosi, che vogliono avventurarsi nella “Zona Falcata”, ad oggi è possibile vedere dalla spiaggia una punta della prua a capolino dell’acqua. Diversi appassionati hanno effettuato delle immersioni, scattando bellissime foto, come quelle che vi stiamo proponendo qui. Il relitto ha ancora al suo interno i veicoli che trasportava e fa da “casa” a gruppi di pesci trombetta. Ecco un video dell’esplorazione.

Il relitto della nave Rigoletto – Fonte: blogmotori.com

Il traghetto Cariddi, l’amatissima nave che ha vissuto due volte

Il traghetto Cariddi era una nave di tipo ferroviario, voluta della Ferrovie dello Stato nel 1932. Era un mezzo rivoluzionario, perché aveva una maggiore capacità di trasporto mezzi ferroviari. Inoltre si trattava di una nave particolarmente prestigiosa, con ambienti quasi di lusso.

Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, tutte le navi delle F.S vennero usate per scopi bellici. È nel 1943 infatti che la Cariddi venne autoaffondata. La Marina Militare diede quest’ordine perché la nave era carica di materiale bellico tedesco. La nave, infatti, si ribaltò su sé stessa e rimase in acqua capovolta per sei anni.

Anni dopo, vista la necessità di più navi per la tratta Messina-Reggio Calabria, Ferrovie dello Stato decide di recuperare la nave. Dopo i lavori di ricostruzione e manutenzione, finalmente nel 1953 la nave tornò a Messina dal porto di Genova, accolta dalla popolazione con caloroso affetto.

La Cariddi effettuò un servizio lungo 38 anni, fino a quando nel 1991 Ferrovie dello Stato la pose in disarmo e la vendette alla Provincia. Una prima idea dell’Ente era quella di realizzare un museo galleggiante. Tuttavia, i costi di gestione dell’imbarcazione procurarono le prime difficoltà.

La nave rimase abbandonata e priva di utilizzo per molto tempo, fu saccheggiata e vittima anche di un incendio. La Cariddi venne anche spostata nei pressi degli approdi dei traghetti.

A lungo inutilizzata ed esposta alle intemperie la Cariddi affonda per la seconda volta nel 2006. Ed oggi è ancora lì, con una parte di poppa visibile dall’esterno.

La nave Cariddi – Fonte: wikipedia.org

Relitto Valfiorita, uno dei relitti più belli del Mediterraneo

La Valfiorita era una motonave costruita per scopi commerciali.

La storia è uguale per tutti: nel secondo conflitto mondiale ogni mezzo disponibile venne messo al servizio dello scopo bellico. Il suo compito era infatti quello di trasportare rifornimenti per le truppe italiane. Purtroppo nel ‘43, durante la tratta Messina-Palermo, viene colpita con un siluro dal sommergibile britannico HMS Ultor. Il capitano provò a raggiungere la costa, ma i danni provocati dal siluro spezzarono in due la struttura della nave.

La corrente marina fece il resto, trasportando la nave verso la costa. Ancora oggi giace di fronte l’abitato di Mortelle.

A causa dell’attacco 13 civili persero la vita e 11 militari risultarono feriti, su un totale di 67 passeggeri.

La Valfiorita è considerato uno dei più bei relitti, perché le immersioni effettuate da appassionati sub hanno dimostrato la presenza dell’intero carico di camion, autovetture e motocicli d’epoca, tutti immobili e addormentate sul fondo del mare.

Il relitto della nave Valfiorita – Fonte: ascosilasciti. com

Il Viminale, il “titanic italiano”

Il Viminale fu un transatlantico di lusso, in uso dal 1925. Secondo le testimonianze, si trattava di una nave particolarmente dotata. Disponeva infatti di cabine di prima, seconda e terza classe, di grandi saloni e perfino di acqua corrente.

Tra i suoi vanti c’è quello di aver raggiunto le coste del Giappone, viaggio considerato “difficile” per la gente del tempo. In seguito, il Viminale si occupò del trasporto di emigranti italiani per l’Australia.

Tuttavia, così come per le altre navi di cui vi abbiamo appena raccontato, anche il Viminale fu utilizzato per scopi bellici nel secondo conflitto mondiale. Trova infatti la sua fine quando viene silurata, nel 1943, al largo della costa di Palmi (Reggio Calabria) mentre effettuava il tratto Palermo-Napoli.

La nave viene totalmente dimenticata fin quando, nel 2000, un gruppo di sub esperti di Palmi la ritrova durante un’immersione.

La nave Viminale – Fonte: wikipedia.org

 

Angela Cucinotta

 

Fonti:

Rigoletto:

blogmotori.com

oloturiasub.it

colapisci.it

Cariddi:

youtube.com

ecosfera.info

Valfiorita:

ocean4future.org

Viminale:

eclipse-magazine.it

wikipedia.org

Messina cum Laude: una mappatura psicogeografica della città di Messina

Torna la rubrica “Messina cum laude” con un’analisi psicogeografica della città di Messina, redatta da Antonino Vitarelli.

L’autore

Nato a Messina nel 1992, Antonino ha sempre avuto particolare attenzione per le potenzialità nascoste della città, osservandola YÎU arretrate WW bbn  l’occhio attento  della psicogeografia. Nel 2011 pubblica la silloge di poesie “I colori dell’ombra “, insignita di vari premi internazionali tra cui il premio speciale per la pace universale “Frate Ilaro del Corvo”. Da sempre appassionato a tutto ciò che riguarda l’arte, da circa 8 anni svolge attività teatrali di vario genere, sia come attore che come regista.

Nel 2020 ha conseguito la laurea in “Scienze del Servizio Sociale”, discutendo una tesi psicogeografica sperimentale dall’interessante taglio narrativo, dal titolo ” Sotto l’asfalto la sabbia. Verso una mappatura psicogeografica della città di Messina “, con relatore il prof. Pier Paolo Zampieri. La tesi traccia una mappa psicogeografica della città di Messina, con le sue storture e le sue qualità.

Antonino Vitarelli

L’analisi sociologica e l’esplorazioni urbane

La tesi nasce da un approccio empirico all’analisi sociologica di un centro urbano, in questo caso, Messina. L’obiettivo della tesi è quello di scoprire e studiare a fondo la vera essenza culturale e sociale della città tramite delle vere esplorazioni urbane, esplorazioni viscerali in una città che Antonino definisce contraddittoria. Messina non esprime subito se stessa, anzi tende a nascondere il suo vero essere culturale. Infatti, a causa della ricostruzione successiva al terremoto del 1908, la città  si è vista negare il riconoscimento e la consapevolezza della sua vera identità.

Il primo obiettivo delle esplorazioni urbane è stato quello di individuare quei luoghi, che come “uno strappo nel cielo di carta” rivelano l’identità di Messina, definite ambiances. Le ambiances vengono paragonate ai passages individuati a Parigi dal sociologo Walter Benjamin, e descritti come punti  nevralgici, dei passaggi  spazio-temporali che conducono all’ identità di Messina prima del terremoto.

Insegna del centro commerciale “Maregrosso”

Le Ambiances

L’approccio utilizzato per individuare le ambiances è quello della “deriva urbana” ovvero un camminare senza meta e orario, un “camminare per perdersi”. Questo approccio spiazza la razionalità e i percorsi predefiniti dalle istituzioni e dalla burocrazia, le esplorazioni urbane, infatti, si basano anche su delle percezioni irrazionali. Tra i centri nevralgici di interesse socio-culturale individuati e poi mappati troviamoL’occhio di Chiarenza, un suggestivo affresco situato nei pressi dell’ex manicomio Mandalari, e  “La casa dei pupi” di Giovanni Cammarata a Maregrosso, considerata universalmente una delle più belle espressioni dell’ outsider art contemporanea.

Proprio la casa di Cammarata, con “l’ atelier di Linda Schipani”, ex officina trasformata in centro di arte contemporanea di riciclo, e “il pensatoio di Vittorio Trimarchi”, ex magazzino divenuto museo di arte contemporanea, formano il “triangolo delle Bermuda” di Messina, situato nella zona di Maregrosso. Questa zona di Messina si presenta come un centro gravitazionale dell’espressione identitaria della città: l’ accesso al mare totalmente negato e la costruzione di centri commerciali che soffocano il respiro artistico e spontaneo delle ambiances presenti nella zona , sono un chiaro esempio del conflitto tra sistema e esperienza. Per citare l’autore, “Maregrosso oggi è solo un’insegna” riferendosi all’ insegna di uno degli ultimi supermercati nati nella zona.

Mappa psicogeografica della città di Messina, disegnata dall’architetto Bruno di Sarcina

Il conflitto tra il sistema e l’esperienza

La tesi fa emergere uno  scontro che sta alla base della esperienza urbana di Messina: da un lato abbiamo il sistema che indica la ricostruzione post terremoto, la burocrazia, le costruzioni in un certo senso calate dall’alto, l’esperienza invece è il vivere istintivo dei cittadini che creano la vera identità della città. Questo conflitto che viene descritto come una battaglia costante dagli esiti ancora incerti, permette di identificare dei punti di tangenza, degli squarci da dove  è possibile percepire e conoscere il passato, il presente e un eventuale futuro della citta.

Esempio di questo conflitto è la Fiera di Messina: la costruzione viene imposta ai cittadini, negando l’accesso al mare ma soprattutto negando ai cittadini stessi la possibilità di scelta. Spesso alcune di queste imposizioni vengono rigettate della cittadinanza che non le sente proprie e non ne fa l’uso per cui erano state progettate e costruite. Altro esempio di imposizione burocratica è l’utilizzo della famosa zona falcata, zona potenzialmente tra le più suggestive della città, completamente negata ai cittadini che ne hanno fatto il simbolo dell’annosa discussione su ciò che Messina potrebbe essere e ciò che invece è. All’interno della zona falcata troviamo un’ambiance creata dai cittadini, il campo da basket dedicato a George Floyd, manifestazione della volontà della  cittadinanza di riappropriarsi delle zone negate dal ” sistema”.

“The naked Messina”, disegnata dall’architetto Bruno di Sarcina

La tesi si presenta come un’ analisi di quella che è stata e di quella che è l’ identità socio culturale di Messina, ma tale approccio, può essere spunto per un progetto di città futura, che dia più spazio alle sensazioni ed agli impulsi artistici e culturali dei cittadini per provare a trovare un compromesso sociale tra sistema ed esperienza. Per quanto la psicogeografia sia in larga parte soggettiva, come evidenzia la tesi, molte ambiances si prestano ad esperienze condivise; da queste percezioni collettive -da parte della maggioranza dei cittadini- potrebbe nascere il progetto per una città futura.

Tra le citazioni presenti nella tesi una tra le più importanti è quella della poesia Amo i gesti imprecisi di Magrelli. La tesi rappresenta la lotta continua tra apollineo e dionisiaco che  risulta essere qualcosa di più impreciso, istintivo. La poesia citata, si inserisce perfettamente nel ragionamento aiutando a spiegare come da qualcosa di impreciso e nevrotico, tramite la creatività, possa nascere qualcosa di costruttivo su cui basare le scelte future e la rinascita della città di Messina.

Un circolo psicogeografico

L’autore inoltre, tra i tanti progetti e attività che porta avanti, ha in mente di costituire un circolo psicogeografico, di cui i fondatori, oltre lui, sarebbero  due amici e collaboratori che lo hanno accompagnato nelle esplorazioni e di cui riportiamo le rispettive riflessioni sulla psicogeografia:

<<La psicogeografia è perdersi per ritrovarsi, dimenticare per ricordare, morire per vivere, è non essere per poter essere qualcun altro, qualcos’altro. La deriva è un piccolo ciclo della vita che ti dona nuovi occhi e nuovi sensi, uno squarcio nel cielo di carta>> Massimiliano Ori Saitta.

<<La psicogeografia è riscoprire con un occhio diverso, zolle che si muovono improvvisamente e tutto cambia, in un continuo dinamismo emozionale e vorticosi collegamenti sensoriali. Perdersi per ritrovarsi>> Veronica Pino.

 

Emanuele Paleologo

 

Antonino sui social:

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Immagine in evidenza:

La Fenice capovolta come metafora della città di Messina, definita dall’autore “la città Fenice”

Tutte le immagini sono state fornite dall’autore

Presentazione libro: Crescere nell’Assurdo, uno sguardo dallo stretto

Giorno 19 novembre 2018 alle ore 15:00 si è svolta la presentazione del libro Crescere nell’assurdo: uno sguardo dallo stretto a cura di Lorenzo Donati e della prof.ssa Rossella Mazzaglia.

Il libro rappresenta la tappa di un progetto più grande organizzato dall’associazione Altre Velocità di Bologna, realizzato in diverse città italiane tra il 2015 e il 2017.

La tappa di Messina è rappresentata da Crescere nell’Assurdo, uno sguardo dallo Stretto, accolto in un laboratorio svolto nel 2016 insieme all’Università di Messina.

In particolare, il libro è nato da un laboratorio nel quale si prevedeva la riscoperta di luoghi poco accessibili al pubblico per uno sguardo su una Messina diverso da quello abituale.

Dalla zona Cammarata in cui si osserva e si comprende il cambiamento urbanistico e culturale che comporta il passaggio dal centro alla periferia, si è visitato il Cimitero Monumentale di Messina, il Teatro dei Naviganti e la zona Falcata.

Nonostante si tratti di zone dismesse, abbandonate ed industriali, sono luoghi che vivono e respirano grazie ad opere come i murales, la casa di Giovanni Cammarata, e alle realtà teatrali.

Il libro, a parte documentare l’esperienza dei vari percorsi, pone diverse domande, tra cui cosa vuol dire essere osservatori e quindi spettatori, dando degli strumenti di auto-osservazione per un’occasione di crescita.

Crescere nell’assurdo rappresenta il crescere davanti a qualcosa di diverso, e ci costringe a porgerci delle domande sulle proprie mancanze. Non si tratta di un’osservazione immediata e superficiale ma di uno sguardo e di una ricerca che vanno oltre.

Hanno collaborato alla scrittura Pier Paolo Zampieri, Vincenza Di Vita, Katia Trifirò, Pier Luca Marzo, Dario Tomasello, Agnese Doria, Graziano Graziani. Foto documentate dagli studenti dell’Università di Messina.

 

Marina Fulco

Una luce sul mare: la torre della Lanterna di San Ranieri

Zancle, “la Falce”, la chiamavano i nostri progenitori greci: a testimonianza di come Messina, città antichissima, abbia sempre avuto, fra le sue peculiarità, quel braccio di terra a forma di falce che si protende verso la Calabria e poi si volge di nuovo verso le sue spiagge, definendo così una ampia baia che ai nostri antenati deve essere sicuramente parsa provvidenziale, nel contesto di un mare capriccioso e difficile come lo Stretto. Un posto perfetto per costruirvi quello che sarebbe diventato e rimasto per secoli uno dei porti commerciali e militari più importanti del Mediterraneo. Su quel lembo di terra lambito dalle acque del mare, guardiano dello Stretto, da tempi immemori la Lanterna di San Ranieri continua a fare luce: per anni e anni ha guidato i naviganti, mostrando loro, in quelle pericolose acque, l’imboccatura di un porto sicuro. 

La storia della Lanterna si perde nei secoli passati confondendosi con la leggenda. Così, se la storia ci attesta la presenza di alcuni monaci che risiedevano in questa penisola, sulla cui punta si trovava l’antico Archimandritato del Santissimo Salvatore, già a partire dall’XI secolo, è la leggenda a raccontarci del santo monaco Ranieri (o Rainieri), forse identificabile con quel san Ranieri da Pisa di cui le agiografie riportano un soggiorno a Messina, a metà del dodicesimo secolo. La tradizione vuole che il buon Ranieri si recasse ad accendere ogni giorno fuochi di segnalazione ai naviganti, per proteggerli dalle insidie del pericoloso gorgo detto “Garofalo”, che proprio lì, nelle vicinanze della Falce, mieteva le sue vittime fra i marinai.

Proprio nel luogo in cui secondo la leggenda san Ranieri accendeva i suoi fuochi, fu costruita, negli anni successivi alla sua morte, una cappella dedicata al suo culto, presso la quale si stabilì una comunità di monaci terziari francescani, i “Continenti di San Ranieri”: furono loro, nel 1310, i primi a costruire sulla penisola una struttura adibita a faro, che prende appunto il nome di Lanterna di San Ranieri. 

Della antica Lanterna e della cappella si perdono le tracce nel 1500: è in questo periodo che, a seguito della visita a Messina dell’Imperatore Carlo V, in clima di aperta tensione nei confronti dell’espansione ottomana, su impulso del vicerè Ferrante Gonzaga Messina si trasforma da porto prevalentemente mercantile a imprendibile piazzaforte militare; l’Archimandritato viene distrutto e al suo posto viene edificato il forte omonimo del Santissimo Salvatore, e al posto dell’antica Lanterna, presumibilmente ormai in rovina, sorge la massiccia torre quadrangolare a bugne che tutt’ora scruta silenziosamente, come un vigile guardiano, le acque del mare. 

Sulle vicende riguardanti la sua costruzione molto è stato scritto da parte di storici e studiosi, ma continua ad aleggiare una certa aura di mistero. Una tradizione che origina nell’Ottocento, per la precisione da Giuseppe La Farina, la attribuisce al celebre scultore e architetto fiorentino Giovanni Angelo di Michele, detto il Montorsoli: ed in effetti Giorgio Vasari, che del Montorsoli fu contemporaneo e biografo, parlando di lui nella sua edizione del 1568 delle sue “Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti” a proposito delle sue opere messinesi scrive in appena mezzo rigo “fu fatta in su la marina, di suo ordine, la torre del fanale”. Quel che è davvero misterioso è come mai tutte le altre fonti storiche fino all’Ottocento, parlando del Montorsoli, trascurano di identificare la Torre tra le sue opere. Ancora, nessun accordo vi è sulla data di costruzione: se una epigrafe, che si trovava affissa sull’edificio e che alcuni storici attribuiscono a Francesco Maurolico, pone la data al 1555, sotto l’impero di Carlo V, altre fonti parlano di una torre che fu restaurata e in seguito demolita nel 1556, altre ancora datano l’edificio al 1566, o ad altre date ancora; lungi dal voler scendere nei meandri un po’ oscuri della storiografia locale, quel che è certo è che, per quanto riguarda la sua costruzione, l’ultima parola non è ancora stata detta. 

Oggi la Torre della Lanterna, che da almeno 5 secoli resiste indenne ai terremoti e alle calamità naturali, è proprietà della Marina Militare Italiana e viene aperta al pubblico solo in particolari occasioni; sormontata da un faro moderno di costruzione successiva, con i suoi tre lampi bianchi ogni 15 secondi continua a segnalare le coste sicule alle navi che transitano nello Stretto, oggi come secoli fa. E anche se adesso il Garofalo non ci fa più paura e le mitiche Scilla e Cariddi, divoratrici di uomini, solidamente incatenate ai piedi del Nettuno nella celebre fontana, non sono più in grado di nuocere alle nostre grandi navi a motore, ogni volta che, passeggiando sulla banchina del Porto, posiamo lo sguardo sulla sua massiccia mole cinquecentesca, non possiamo fare a meno di pensare a quante vite, erranti sul mare, siano state tratte in salvo grazie alla luce soccorritrice della Lanterna di San Ranieri. 

Gianpaolo Basile

ph: Elena Anna Andronico

Il pugno di ferro del potere: Messina e la Real Cittadella.

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È il 1678 quando, dopo quattro anni di sanguinosi scontri per terra e per mare, la rivolta della città di Messina contro il dominio spagnolo si chiude con una resa.

Abbandonata dagli alleati francesi a seguito della Pace di Nimega, la città viene lasciata al suo destino: è l’inizio di una vigorosa repressione che segna una cesura definitiva nella storia della città di Messina, chiudendo definitivamente il suo periodo d’oro durato quasi tre secoli, che l’aveva vista crescere e svilupparsi come la seconda maggiore città di Sicilia dopo Palermo. L’ira del governo spagnolo si abbatte sulla città, che viene dichiarata “morta civilmente” e privata di ogni diritto e privilegio fino ad allora ottenuto: il Senato, che fino a quel momento aveva rappresentato in maniera quasi autonoma gli interessi dell’aristocrazia cittadina, viene sciolto; il Palazzo Senatorio viene raso al suolo e le sue fondamenta cosparse di sale; al suo posto, viene fatta edificare una monumentale statua raffigurante il re di Spagna, Carlo II, col bronzo ottenuto dalla fusione delle campane del Duomo; la Zecca viene distrutta, vengono sciolti il Consolato del Mare e il Consolato della Seta, secolari organi di controllo mercantile; viene chiusa l’Università, che era stata fondata circa un secolo prima dai Gesuiti.

porta graziaA porre un sigillo definitivo sopra la rivolta ormai conclusa, qualche anno dopo, nel 1680, si intraprende la costruzione di una poderosa fortezza che viene posta a occupare uno spazio chiave della topografia della città, il braccio di San Ranieri, oggi noto come Zona Falcata. Una fortezza in più, in una città come Messina, da sempre in una posizione strategica prominente e che già all’epoca era difesa su tutti i fronti dai tre forti Gonzaga, Castellaccio e Matagrifone, potrebbe sembrare forse qualcosa di superfluo, ma, questa volta, i fini dietro la sua costruzione erano di tutt’altro tipo rispetto al passato.

Questa fortezza, la cui costruzione si protrasse nei primi decenni del ‘700, e che passò alla storia col nome di Real Cittadella, era infatti, nelle intenzioni, un autentico atto intimidatorio: la sua posizione di totale e perfetto controllo sulla cala del porto la rendeva adatta a far fuoco non solo contro eventuali nemici dal mare, ma anche e soprattutto contro la città stessa, se mai una altra volta avesse osato ribellarsi. Il progetto, affidato all’ingegnere militare fiammingo Karl von Grunenbergh, rappresentava un modello esemplare di “fortificazione alla moderna“, adatta a difendersi dagli assalti dell’artiglieria; si basava su una pianta a base pentagonale, con cinque bastioni che costituivano una sorta di stella a cinque punte, circondata da fossati che le avrebbero permesso, in caso di necessità, di isolarsi totalmente tanto dalla città quanto dal resto della penisola dimg_5893i San Ranieri (la cui punta era ed è tuttora difesa dal forte del SS. Salvatore), con cui era collegata per mezzo di ponti mobili.

Nonostante il notevole effetto deterrente, più volte i cannoni della Cittadella si trovarono a tuonare contro la città; ad esempio nel 1848, quando si sollevò contro la monarchia dei Borbone, le cannonate arrivarono a danneggiare un braccio della statua di Scilla, nella montorsoliana fontana del Nettuno; gli insorti, che riuscirono a prendere il Castellaccio, Forte Gonzaga, Matagrifone e il forte Real Basso, nulla poterono contro i 300 cannoni della Cittadella che permisero alle truppe borboniche di mantenere la città e a Ferdinando II di guadagnarsi il poco onorevole epiteto di “Re Bomba”. Anche nel 1861, con la conquista di Messina da parte delle truppe piemontesi, la Cittadella fu l’ultima a cadere, dopo una tanto strenua quanto inutile difesa, il 13 marzo 1861.

Oggi di questa fortezza enorme e possente non resta quasi nulla. Il suo aspetto, che conosciamo bene dalle numerose stampe e raffigurazioni storiche, è stato completamente stravolto a partire dagli anni ’20, con la costruzione della Stazione Marittima e la graduale trasformazione della Zona Falcata in cantiere navale e zona militare. Progresimg_5890sivamente abbandonato e parzialmente smantellato, il forte conserva oggi solo due dei cinque bastioni originali in uno stato di pressochè totale rovina. Il grande portale d’accesso principale, Porta Grazia, è stato però smontato nel 1961 e rimontato in piazza Casa Pia, dove oggi è possibile ammirarne la sontuosa decorazione in stile barocco, opera di Domenico Biundo, eloquente materializzazione dell’estetica del potere. Restano però, ancora nel sito originale, diverse delle strutture murarie e alcune vestigia di portali settecenteschi, abbandonati al degrado.

La rivalutazione della Zona Falcata è oggi un tema caldo nella politica cittadina: è dunque utopico immaginare che un giorno ciò che resta della Cittadella possa essere reso nuovamente fruibile al pubblico e valorizzato come patrimonio storico e artistico e che, magari, Porta Grazia possa tornare alla sua sede originale?

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco