Votare o non votare? Il futuro della democrazia è nelle nostre mani

In quest’epoca, in cui l’indifferenza politica sembra contagiosa e il cinismo serpeggia tra le pieghe della società, è più urgente che mai riaffermare un principio tanto semplice quanto rivoluzionario: votare è un atto di responsabilità civile, di libertà e di dignità. Non è un semplice diritto individuale, ma il cuore pulsante della democrazia stessa.

Dalle origini della democrazia alla conquista del suffragio universale

Lo sapevano bene gli antichi ateniesi, tra i primi nella storia a costruire un sistema politico fondato sulla partecipazione dei cittadini. Nel celebre discorso funebre riportato da Tucidide, Pericle ricordava con fierezza che “qui ad Atene noi facciamo così”, ognuno partecipa alla vita pubblica, ognuno contribuisce alle decisioni comuni. Non era solo retorica. L’assenza di impegno civico era vista come una forma di ignoranza, una rinuncia alla propria identità di cittadino.

Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo,
ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una
politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della
democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà
sia solo il frutto del valore.

Ma la democrazia ateniese era imperfetta e limitata, riservata a una minoranza. Ci vollero secoli di lotte, rivoluzioni e sangue versato perché l’ideale democratico potesse diventare diritto di tutti. Dalla Magna Charta del 1215, che per la prima volta limitava il potere assoluto del sovrano, alle rivoluzioni americana (1776) e francese (1789), il concetto di sovranità popolare iniziò a prendere forma. Fu un lungo cammino, segnato da contraddizioni, tradimenti e progressi lenti.

Le democrazie moderne, nate tra Otto e Novecento, si sono costruite sull’estensione progressiva del suffragio: prima agli uomini non proprietari, poi alle donne, infine a tutti i cittadini adulti. In Italia, il suffragio universale arriva solo nel 1946, quando per la prima volta anche le donne votano per scegliere tra monarchia e repubblica. Quel giorno — il 2 giugno — non è soltanto una data simbolica, è la nascita concreta della nostra democrazia. Migliaia di italiani e italiane, molti dei quali avevano combattuto nella Resistenza o subito le privazioni del fascismo e della guerra, andarono a votare con la consapevolezza che quel gesto segnava un nuovo inizio.

L’ombra dell’astensionismo: una democrazia in crisi

Eppure oggi, in un tempo di apparente abbondanza e di saturazione informativa, molti considerano il voto superfluo. Si dice che “tanto non cambia nulla”, che “sono tutti uguali”, che “la politica è lontana dalla vita reale”. Ma è proprio questo distacco a permettere che decisioni fondamentali vengano prese senza il nostro contributo. Il disinteresse è terreno fertile per l’autoritarismo, per la deriva tecnocratica o per la manipolazione populista.

Dietro ogni scheda elettorale c’è un’idea potente, quella di essere parte di un destino comune. Quando votiamo, stiamo dicendo che ci importa di ciò che accade attorno a noi. Che crediamo, nonostante tutto, nel cambiamento possibile. Che non vogliamo lasciare le chiavi della casa comune in mano a chi urla più forte o a chi meglio cavalca la rabbia.

Ma il voto non si esaurisce nella scelta di un rappresentante. Tra le più alte espressioni di democrazia diretta c’è il referendum: lo strumento attraverso cui non deleghiamo, ma decidiamo. È il momento in cui la Repubblica ti chiama per nome e ti dice adesso tocca a te.

Partecipare ai referendum è fondamentale. Non stai scegliendo chi dovrà poi deliberare, stai dicendo tu cosa è giusto, cosa deve restare e cosa deve cambiare. È la forma più limpida e immediata di sovranità. Quando rinunciamo, lasciamo che altri parlino al nostro posto. Se non vai a votare, stai regalando potere a chi preferisce l’immobilismo. Non è un caso che, spesso, chi vuole impedire un cambiamento promuove l’astensione, confidando nel mancato raggiungimento del quorum.

Un referendum non capita tutti i giorni. Arriva quando le questioni sono cruciali, quando la posta in gioco riguarda la struttura stessa della nostra convivenza. Ignorarlo è come avere un biglietto vincente e lasciarlo scadere per pigrizia. Anche la scheda bianca, se sei indeciso, è un segno e vale più dell’assenza. È la prova che ci sei, che ti sei assunto la responsabilità di essere parte.

Le cause dell’astensionismo: tra sfiducia e disillusione

Le conquiste democratiche non sono mai eterne. La storia ce lo insegna con la voce spezzata di chi ha lottato per ottenere ciò che oggi diamo per scontato: le donne che hanno preteso il diritto di voto, gli operai che hanno scioperato per avere rappresentanza, i partigiani che hanno rischiato tutto per la libertà. Non votare è come voltare loro le spalle. È lasciare vuoto il seggio della coscienza.

Un appello alla partecipazione: il coraggio di esserci

Il voto, dunque, è un gesto semplice ma radicale. È dire “io ci sono”, accettare il privilegio e l’onere della scelta. È piantare un seme, sapendo che anche se il raccolto non sarà immediato, ogni democrazia si costruisce con la fatica lenta dei gesti quotidiani.

Perché votare è un dovere, ma è anche un dono. E ogni volta che ci viene data la possibilità di esercitarlo — sia in un’elezione che in un referendum — abbiamo l’occasione di ricordare a noi stessi e agli altri che la libertà non è mai garantita, ma si rinnova ogni giorno, ogni volta che entriamo in una cabina elettorale.

Perché, come ci ha insegnato Pericle, “il segreto della felicità è la libertà, e il segreto della libertà è il coraggio.”
E oggi, quel coraggio si chiama partecipazione. Non sprechiamolo.

Gaetano Aspa

Elezioni europee, per i sedicenni la prima volta al voto: ecco dove

Siamo ufficialmente entrati nella settimana in cui si terranno, in tutti i Stati dell’UE, le votazioni per eleggere i membri del prossimo Parlamento europeo.

Come sempre, l’Unione indica solo dei criteri di massima da seguire per svolgere le elezioni – per esempio, il metodo per l’assegnazione dei seggi deve essere per tutti proporzionale (e non maggioritario), la soglia di sbarramento non deve essere superiore al 5% (in Italia è del 4%), e la chiamata alle urne deve avvenire tra il 6 e 9 giugno (in Italia si voterà tra l’8 e il 9).

Il resto è quasi totalmente delegato alla discrezione degli Stati membri. Per questa ragione, ognuno decide secondo cultura e sensibilità propria, manifestando diversità di vedute anche su questioni di notevole importanza.

Specialmente sulle scelte riguardo l’individuazione dell’elettorato passivo e attivo si nota una certa divergenza. Qualcuno ha propeso per allargare il diritto di voto persino ai 16enni, qualcun altro ha lasciato che la prerogativa rimanesse dei maggiorenni e altri – pochi altri – risaltano per restrizioni d’età ulteriori.

Vediamo nel dettaglio come si comportano i ventisette.

Voto ai 16enni? Per Germania, Austria, Belgio e Malta sì alle elezioni 

È proprio così, per la prima volta i 16enni potranno partecipare alle elezioni europee in Germania, Austria, Belgio e Malta. Mentre in Grecia la porta è stata aperta anche ai 17enni. Nel complesso si stima che il nuovo elettorato sia di 20 milioni di cittadini.

Solo in cinque Nazioni su ventisette, dunque, potranno votare gli under 18.

Inoltre, riguardo l’età necessaria per candidarsi: è di 18 anni in 15 Stati membri; di 21 anni in Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Irlanda, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia; di 23 anni in Romania e di 25 in Italia e in Grecia.

Elezioni europee, l’apertura contro l’astensionismo

Sono vari i motivi per cui alcuni Paesi hanno deciso di allargare il bacino elettorale: cardinale è la volontà di combattere l’astensionismo – pericolo antidemocratico da non dimenticare -, forse secondario – ma non per questo futile – è il tema del coinvolgimento giovanile in senso lato e della forza rappresentativa di questa corposa fazione sociale.

I giovani (gli under 35) – attestano le statistichesono più inclini a recarsi alle urne rispetto agli adulti (gli over 54). Sia perché sono particolarmente speranzosi, vivi e baldanzosi, o sia perché devono ancora rendersi conto della crudeltà del mondo, il dato schietto non è fraintendibile e indica che l’interesse esiste pure tra i nati negli anni ’80, nei ’90 e nei 2000 (contrariamente da come stereotipo vuole).

L’ampliamento del diritto di voto in funzione dei giovanissimi, dunque, molto probabilmente avrà un effetto positivo contro la percentuale degli astensionisti.

Lateralmente, si può pensare che sia vantaggioso che la politica “entri nelle vite degli adolescenti” subito dopo la pubertà – senza dilatare i tempi di incontro – per migliorare il coinvolgimento in ottica futura. Se a 16enni e 17enni si concede la possibilità di votare, questi avranno modo in anticipo di raffrontarsi con il loro dovere civico, iniziando ad avere a che fare direttamente con elezioni, candidati e gestione della cosa pubblica già dal triennio scolastico.

Infine, aumentando il peso elettorale dei giovanissimi si aumenta la loro potenziale rappresentatività. La politica – su tutti i livelli – spesso ignora le esigenze di adolescenti, post-adolescenti e nuovi adulti per semplice calcolo elettorale. Si tende ad accontentare chi vale, in forza dei numeri, maggiormente e non chi può far valere un minor apporto.

Con l’ingresso dei 16enni, l’importanza elettorale delle due categorie – giovani e adulti – portanti solitamente interessi vari e complementari, viene riequilibrata.

È giusto che votino gli immaturi?

Immaturi non è un’offesa, è solo il modo con cui si definiscono, in Italia, gli studenti che ancora non hanno conseguito la maturità scolastica. I 16enni e grandissima parte dei 17enni rientrano nell’etichetta, al di là della reale loro preparazione alla vita e delle loro conoscenze.

Ciò scritto, si può tornare alla domanda, senza la pretesa di trovare una risposta unica e definitiva. Le leggi seguono l’andamento della società, che si conforma diversamente nei tempi e nei luoghi. Nel Belpaese, per questo, è quasi impensabile che ai 16enni possa essere esteso il diritto di voto e il diritto di indirizzare – seppur indirettamente – le scelte politiche sulla vita pubblica.

Cultura popolare ha legittimato che si diventi maggiorenni al compimento dei 18anni, questa età, e non una inferiore, insomma, viene valutata come quella giusta in cui la maturazione individuale abbia raggiunto un livello sufficiente per affermare un individuo formalmente responsabile di sé e formalmente responsabilizzabile per gli altri.

Tuonare oggi che sia opportuno abbassare l’età per la partecipazione elettorale sarebbe estraniante e controsenso rispetto al senso comune. Altrove, ove il senso comune sia di altra natura, si potranno fare altri conti.

Elettorato più vasto, ma di che tipo? Il problema della qualità

Poi c’è un’altra domanda da porsi, che può essere invece validamente assolutizzata per tutti i Paesi. Siamo molto convinti delle positività –  su elencate – di allargare la base elettorale ai 16enni, ma abbiamo opportunamente valutato i lati negativi sulla qualità dell’espressione elettorale?

Si può ritenere responsabile o irresponsabile, secondo cultura nazionale, un 16enne. Non si discute una sola verità a proposito. Certo e naturale però è che la generalità degli individui non può nemmeno aver avuto molto tempo per crearsi una coscienza politica entro i 16 anni di vita.

Siamo nell’era dell’informazione superficiale e del voto a bassa consapevolezza, quando l’emozionalità inficia più della ragione sulle scelte elettorali. Per i giovanissimi, questa condizione di scelta non può che essere persino peggiore, disponendo loro di flebilissime basi culturali e una scarsa dotazione culturale per riconoscere fake news, notizie travisate e personaggi politici solo simpatici rispetto a personaggi politici competenti.

Beninteso, non bastano gli studi universitari per muoversi agilmente presso la mala-informazione italiana. Qualche anno di istruzione supplementare, tuttavia, può emancipare le persone dal totale spaesamento che fisiologicamente si prova.

Gabriele Nostro

REFERENDUM TRIVELLE. VINCONO GLI ASSENTEISTI E I SI’ MA NON C’E’ QUORUM, QUINDI NON SI AVRA’ NESSUN EFFETTO

 

piattaforma-petrolifera 

I dati sul referendum delle trivelle sono ormai certi e i risultati che riguardano la durata delle concessioni per le ricerche petrolifere non ha raggiunto il quorum (50%+1 degli aventi diritto al voto).

 

Il dato sull’affluenza per quanto riguarda gli 8000 comuni italiani al voto vede una percentuale di votanti che si attesta intorno al 32,15%, mentre la Sicilia si attesta al 28,40%.

 

Per quanto riguarda proprio la Sicilia, dati alla mano, ci indicano che Trapani è la città dove si è votato di più (33,30% di affluenza), seguita da Agrigento, Ragusa e Catania. A Palermo, dove ha votato anche il Presidente Mattarella, si è registrata una affluenza alle urne pari al 7,54% seguita da Siracusa con il 26,98%. Caltanissetta con il 22,50% si conferma la provincia dove si è votato meno e infine Gela che è il comune dove l’astensione è stata praticamente la regola.

 

Nella Città dello Stretto, dove ha votato il 24,4% delle persone aventi diritto, sono stati registrati percentuali per il “SI’” pari al 91,37% mentre i “NO” si sono attestati intorno all’ 8,63%.

 

I risultati del referendum cosiddetto “sulle trivelle” sono arrivati a partire dalle 23 della giornata di ieri per poi diventare più certi nel corso della notte. Il quorum del 50%+1 non essendo stato raggiunto fa sì che il referendum non avrà valore sul tema su cui era stato convocato.

 

Tanta fino all’ultimo la confusione delle persone sulle modalità di voto. Tale referendum era stato convocato per decidere se abrogare o meno la parte di una legge che permette, a chi ha ottenuto concessioni per estrarre gas o petrolio da piattaforme offshore entro 12 miglia dalla costa, di rinnovare la concessione fino all’esaurimento del giacimento.

 

Sul non raggiungimento del quorum ha giocato una cospicua indifferenza di molti italiani non solo al tema, ma anche allo stesso uso dello strumento del referendum rispetto a scelte giudicate troppo tecniche e limitate.

 

Per questa ragione molti sostenitori del “no”, ovvero coloro che erano a favore del mantenimento della norma, avevano puntato più sulla questione assenteismo che sulla ragione del voto contrario, cercando di incentivare il mancato raggiungimento del quorum necessario affinchè il risultato del referendum fosse considerato valido. Alla fine, sono questi che hanno vinto.

Pietro Genovese