Il colore del femminicidio

 

La donna: un essere umano che sin dai tempi della storia è stata trattata come uno oggetto di “possesso”, facendoci dimenticare il vero ruolo della Donna nella società.

Al giorno d’oggi queste lame di violenza si fanno sempre più frequenti, nelle vite delle persone, che nel giorno dell’ 8 Marzo vengono ricordate con “mimose”.

Non è il giorno a ricordarci l’importanza di una Donna né tanto meno le ferite che porta durante il suo cammino, che può essere d’amore, passione o meglio conosciuto “Ossessione”.

Sfortunatamente ancora una volta, “Il colore del femminicidio” si diffonde nelle nostre città, facendo crescere timore di vivere come se fosse l’ultimo giorno.

 

 

Nella vigilia dell’8 Marzo, tra Messina e Napoli, sono state registrate due Donne vittime di omicidio per mano di due

Uomini che per vari litigi o gelosie hanno deciso di far terminare una storia cosi come una vita.

 

 

Una giornata che doveva iniziare all’insegna dell’importanza del genere Femminile, ma che spiacevolmente, ancora una volta, le città hanno sentito un eco di dolore, che questa società ci ha fatto sentire. Lasciandoci in quella linea oscillante tra amore e odio.

 

Dalila De Benedetto

 

La sentenza

M.C. Escher – Altro mondo

Stando attento a non essere notato, mi  inoltrai all’interno del palazzo che mi era stato indicato da Joseph.
Secondo le sue istruzioni, avrei dovuto salire una rampa di scale evitando di utilizzare l’ascensore, per quale motivo non saprei. All’epoca dei fatti ero giovane e meno interessato ai dettagli di quanto non lo sia adesso. Un uomo chiamato “Pavese” mi avrebbe atteso in cima alle scale per scortarmi al luogo dell’appuntamento. Giunto all’interno del buio androne mi feci coraggio e iniziai a salire le scale, sfiorando il muro con mano tremante, quasi temessi che potesse improvvisamente ferirmi. In cima alla rampa trovai chi cercavo. Un uomo piccolo e forse più giovane di me mi accolse con un sorriso. Senza che avessi il tempo di dire chi ero e chi mi mandava, mi invitò a seguirlo con placida fermezza. All’epoca dei fatti ero giovane, come ho già detto, e quando si è giovani si finisce a volte per pagare lo scotto di possedere più entusiasmo che buonsenso. Camminai scortato dal Pavese lungo corridoi ora stretti, ora larghi. Qualche volta dovemmo chinarci, perché il tetto si faceva basso a tal punto che solo un bambino sarebbe potuto passare tenendosi ritto. Una volta il Pavese si girò sorridente a guardarmi, volendo forse saggiare la mia meraviglia. Ma ciò che ebbe a leggere sul mio volto doveva essere più vicino allo sgomento che alla meraviglia, perché non si girò più. Pensai di averlo offeso, e mi dispiacque. Mentre attraversavamo un corridoio dalle pareti pulsanti, gli chiesi se fosse stato Joseph a informarlo del mio arrivo. Continuò a camminare senza degnarmi di risposta. Allora, Joseph era un uomo importante. Faceva parte della commissione scientifica locale quando l’antitanatina venne scoperta dalla professoressa Yvonne Nettesheim nel 3965. Nel 3992, anno in cui nacqui, la molecola venne introdotta nel mercato. Il prezzo era proibitivo per la quasi totalità della popolazione mondiale. Quando avevo circa vent’anni, il prezzo era sceso a meno della metà rispetto a quello iniziale. Per il mio trentaquattresimo compleanno decisi di acquistare la mia fiala di antitanatina, ormai praticamente alla portata di chiunque. Ricordo ancora distintamente il momento in cui tenni la scatola rossa tra le mani sudate. La mia ragazza di allora mi aiutò a iniettare il prodotto in vena. Lei lo aveva già fatto qualche mese addietro, mi avvertì che avrei provato un senso di calore irradiato al torace, seguito poi da un profondo torpore. Questo non fu vero per me, perché sperimentai invece un senso di euforia durante tutto il processo. Mi addormentai, stremato, alle prime luci del mattino seguente. Ma il mio sonno fu simile a uno stato di dormiveglia allucinato. Al risveglio, non mi sentivo assolutamente riposato. Al tempo non sapevo ancora che sarebbe sempre stato così da allora in avanti.
Il Pavese si muoveva con agile familiarità attraverso i corridoi. Quando fummo giunti innanzi a una porta massiccia, di un colore mai visto prima e tutt’oggi indefinibile, mi disse di attenderlo lì. Non bussò, ma la porta si spalancò ugualmente e lui vi passò attraverso. Ricordo di aver intravisto qualcosa dall’altra parte della porta, ma cosa di preciso non saprei dirlo. Forme geometriche forse, o colori. Durante l’attesa rimasi immobile. Mi ritrovai inspiegabilmente a pensare a mio padre, vecchio amico di Joseph. Pensai alla sua semplicità di “uomo” nella vecchia accezione del termine. Da quando la sterilizzazione obbligatoria di massa impose il divieto assoluto di generare nuova prole, mi sono chiesto spesse volte cosa provassero gli uomini del mondo antico nel concepire una nuova  vita. Non sono mai stato padre, ma sono stato a mio tempo figlio, credo. Chissà cosa doveva provare mio padre. “Certo, si inizia a essere padri” – pensai – “ ma si cessa mai di essere figli?”. Il rumore della porta che si apriva mi strappò ai ricordi e alle riflessioni. Ne uscì lentamente il Pavese, che prese a fissarmi con aria divertita. Stavolta fui io a infastidirmi. Azzardai allora a chiedergli se ciò che cercavo si trovasse al di là della porta, e volli appositamente fissare la porta mentre mi rivolgevo a lui, come per negargli timidamente il ruolo necessario che in realtà ricopriva. Il Pavese non mi rispose, allora mi girai, imbarazzato. Con mia grande sorpresa  era sparito.
Attraversando la porta sentii e vidi tante cose, ma sono certo di non averne compresa appieno neanche mezza. Un uomo, o forse una donna, mi attendeva con la schiena poggiata al muro. Non appena mi vide mi chiese se avessi i soldi, gli risposi di sì. Mentre armeggiava con una valigetta chiese il mio nome, gli risposi che non lo ricordavo più. Estrasse dalla valigetta una fiala dal contenuto lattescente che mi ricordò l’antitanatina acquistata tanto tempo fa. Un po’ intimorito chiesi a quella figura, dalla quale ormai dipendeva il mio destino, entro quanto tempo l’antitanatina sarebbe stata finalmente scacciata via dalle mie vene, ormai ridotte a rigidi tubi macilenti. Mi rispose con una frase enigmatica, che mi fece sorridere; disse: “tra un po’ di tempo fa”.
Compiendo il percorso a ritroso, uscii più velocemente che potei da quel palazzo coi suoi assurdi corridoi.
Stringevo in pugno la fiala che avrebbe finalmente posto rimedio a tutto. Era stato Joseph a fare da intermediario per me, come per altri pochi che potevano permetterselo, forse mosso dall’antica amicizia con mio padre o dai sensi di colpa o ancor più probabilmente dalla sua mostruosa cupidigia. Avevo venduto tutto ciò che possedevo e racimolato i soldi necessari con pazienza, per circa 20 anni. Allontanatomi dall’ingresso del palazzo iniziai ad affrettare il passo, prima che me ne rendessi conto stavo già correndo. Giunto alle baracche che da ormai qualche anno erano diventate dimora mia e di altri giovani sbandati, mi gettai sul duro pavimento, piangendo, felice come mai mi era accaduto di essere in tutto quel tempo. Finalmente stavo per ricongiungermi alla semplicità degli uomini antichi, al tutto, al nulla. Il fracasso dei vetri sfondati e le pesanti mani degli agenti che mi bloccavano a terra distrussero in una manciata di secondi  le mie illusioni. Mi strapparono dalle mani la fiala e mi serrarono ai polsi le manette. Nella caotica scena che mi vedeva attonito e sconfitto, sentii uno degli agenti parlare di una certa soffiata al dipartimento anti-siero da parte di uno spacciatore. Sentii inoltre che insieme a me erano state poste in stato di arresto altre 12 persone, tra le quali un noto e illustre personaggio. Intuii subito che si trattava di Joseph. Da quel giorno mi trovo qui, in attesa della sentenza definitiva.  Io non sono altro che un disgraziato, signor giudice, le parlo con la destra sul cuore. Ho fatto uno sbaglio di cui mi pento, adesso ho capito, ma mostrate la clemenza che si addice a un uomo della sua risma. In fondo, avevo solo seicentotredici anni all’epoca dei fatti, non ero in grado di discernere da dove partono e dove portano i sentimenti. Ho confessato, come ha confessato Joseph, e so che a lui è stata concessa la pena di morte. Abbiate pietà, signor giudice! Abbiate pietà! Ho confessato come Joseph, concedetemi la pena che mi spetta di diritto! ». Il giudice si alza solenne, in silenzio. La corte si aggiorna.

Fabrizio Bella

Il paradosso della felicità

Materialismo, possesso e conseguente felicità da sempre costituiscono per l’uomo l’apparente soluzione ai problemi esistenziali che il quotidiano pone.

Lo studio ventennale del Dr. Thomas Gilovich, professore di psicologia alla Cornell University, ha raggiunto una conclusione certa: non spendere soldi in beni materiali poichè l’appagamento che forniscono sfuma rapidamente.

Ci abituiamo prestissimo ai nuovi oggetti che possediamo; per questo ciò che prima pareva essere eccitante e rapprensentare una novità nella nostra vita finisce per diventare parte della monotonia antagonista della felicità.

I nuovi acquisti generano nuove aspettative che ci pongono in continua ricerca di qualcosa.

“Uno dei nemici della felicità è l’adattamento”, ha detto Gilovich. “Compriamo cose per renderci felici e ci riusciamo. Ma solo per un po’. All’inizio le cose nuove sono eccitanti, ma poi ci adattiamo a loro”.

Il possesso, per natura, favorisce i confronti con ciò che l’altro ha.

La condivisone, l’empatia ed il dono , ormai fuori moda, rimangono le chiavi per il raggiungimento di una felicità piena.

Gilovich e altri ricercatori hanno evidenziato nel loro studio che le esperienze, per quanto possano essere fugaci, offrono felicità più duratura del possesso materiale.

Le esperienze plasmano la nostra identità; non siamo quello che possediamo, siamo tutto ciò che abbiamo visto, tutto ciò che emozionandoci ci ha comunicato qualcosa, tutto ciò che ci arricchisce: un film, un tramonto, una lettura, un sorriso, uno sguardo, un’amicizia, un amore.

Gilovich, continuando, ha effermato: “Le nostre esperienze sono una parte più grande di noi stessi rispetto ai nostri beni materiali”.

“Puoi davvero apprezzare le tue cose materiali, puoi persino pensare che parte della tua identità sia connessa a quelle cose, ma rimangono comunque separate da te, al contrario, le tue esperienze sono davvero parte di te.

Siamo la somma totale delle nostre esperienze”.

Gilovich ha anche analizzato l’attesa e ha scoperto che un’esperienza suscita eccitazione e divertimento, mentre l’attesa di ottenere un possesso di un bene provoca impazienza.

Le esperienze sono piacevoli dai primi momenti della pianificazione fino ai ricordi che amerai per sempre.

La felicità materiale effimera e fugace evapora velocemente lasciandoci vuoti.

Per essere felici riempiamo la nostra vita di momenti ed esperienze che rapiscano il nostro cuore, che ci facciano stupire della vita e producano ricordi emotivi facendoci brillare gli occhi.

Smettiamola di esistere, viviamo!

Antonio Mulone

Oltre me

Piansi. Piansi tanto. Piansi per la mia morte.

Il senso di pace che nella mia vita – a questo punto breve – mi ero convinta avrei provato, una volta trovatami a guardare il mio corpo giacere, staccato da me, tardava ad arrivare. Al suo posto, soltanto un ottundimento generale e un fischio smorzato alle mie orecchie che, accompagnato da un’incontenibile angoscia, faceva da eco ai miei singhiozzi. Piangere. Questa era cosa da vivi. La paura. Anche questa era una cosa da vivi. Eppure eccoli lì, quei sentimenti, più corposi del mio stesso essere, intenti a devastarmi l’anima, a quel punto più esposta che mai. Se così poteva chiamarsi. Non potevo più esserne sicura. Che cosa ero? Una creatura evanescente, a metà tra un sogno e un ologramma, che nessuno poteva vedere o sentire. Una creatura incapace di essere ma condannata ad esistere.Percepivo i miei movimenti, il mio frenetico singhiozzare, ma l’unica me che vedevo era quella distesa in terra. Un corpo orridamente carbonizzato era tutto ciò che restava di me. Guardai la voragine presente al centro del mio petto, e ricordai limpidamente lo scossone e l’incredibile bruciore che devastarono il mio sterno un attimo prima di ritrovarmi faccia a faccia con me stessa. Provai a dare un freno al mio pianto disperato, muto ai presenti, e mi chinai a guardarmi più da vicino. Sfiorai tremante il mio corpo – che sentivo ancora mio nonostante non mi appartenesse più – e non sentii nulla. Nessun contatto. Il nulla era ciò che ero. Affondai in quel corpo la mano inconsistente, e l’inconsistenza vinse. Se pur straziante questo non mi stupì. Fu l’unica aspettativa a non essere tradita. Il mio corpo giaceva disteso, sul cemento freddo di un marciapiede, ormai gremito di persone. La pelle carbonizzata, a tratti lasciava intravedere ossa e tendini. Il volto, anch’esso sfigurato dalle ustioni, stentavo a riconoscerlo. Un piccolo, insignificante pezzo di metallo, che portava la forma dell’iniziale del mio nome, appeso al mio collo, aveva deciso della mia vita, stroncandola nel pieno dei suoi anni. Un fulmine, attratto fatalmente al mio petto, fece del mio corpo la sua meta, completando in me la ragione del suo esistere. Una scarica elettrica che sembrava portare in seno l’ira dell’inferno, al quale ormai credevo di essere destinata, aveva attraversato il mio corpo, folgorando il mio cuore e bruciando le mie membra. Sapevo di essere morta, era l’unico aggettivo con il quale riuscivo a esprimere ciò che ero. Lo gridava la gente, con le loro voci straziate e i pianti increduli, ovattati dall’ incessante pioggia, che rimbombava al mio udito frastornato. Non avevo mai pensato seriamente alla mia morte. Mi ero inconsciamente arrogata il pretenzioso diritto di una vita longeva, che mi desse il tempo di inseguire i miei sogni, di percorrere mille strade e anche di trovare quella giusta. Dovevo ancora finire gli studi, trovare un lavoro, trovare l’amore, viaggiare, farmi una famiglia…Dovevo ancora vivere per poter morire. Non ero pronta a rinunciare a tutto questo. Se esisteva un destino, sentivo che morire non era il mio, non adesso. Percepivo ancora il mio forte attaccamento alla vita, sentivo di non essere pronta ad abbandonare il mio corpo, la mia famiglia, la mia vita. Non ero una cristiana modello, e non ero solita frequentare la chiesa, ma avevo sempre creduto in Dio, e credevo che avrei avuto anche il tempo di essere una fedele migliore, prima o poi, ma certe cose non si possono rimandare, e forse, questa era la mia punizione: la negazione della pace. Pensavo che la paura della morte fosse soltanto un tarlo di chi è ancora in vita, ma non avrei mai immaginato che la paura, sarebbe sopravvissuta anche alla morte.

Un’immediata rassegnazione e un grande senso di pace, erano le sensazioni che, in fondo, avevo sempre creduto avrei provato dopo il trapasso. Invece, l’incredulità, la negazione e l’angoscia, insieme alla paura, erano tutto ciò che riuscivo a percepire, sopra ogni cosa. Arrivarono i soccorsi, e notai con stupore che controllarono i miei parametri vitali. Forse era solo una prassi. Uno scrupolo. Presero dalla mia borsetta i miei documenti. L’identificazione del cadavere, pensai. Poi, un poliziotto, prese il mio cellulare. “No! Il cellulare no!”, avrebbero chiamato i miei, probabilmente mia madre: era stata l’ultima persona con la quale mi ero sentita. “No vi prego non chiamatela!”, non potevo dare questo dolore alla mia famiglia, perché dovevo assistere a tutto questo? L’angoscia di dover commissionare un dolore così grande ai miei cari, mi colpì come un secondo fulmine, percuotendo violentemente tutti i miei caotici sentimenti. L’agente con il mio cellulare, dopo un rapido scambio di parole con uno dei paramedici che stavano intorno al mio corpo, occultandolo alla mia vista, si allontanò leggermente, evadendo dalla folla. Forse il desiderio di non assistere a quel momento, in cui oltre alla mia, sentivo di percepire la forte angoscia che, di lì a poco, avrebbe investito la mia famiglia, o forse, per una qualche misericordia divina, capii che stavo allontanandomi da quel luogo, al quale sentivo, tuttavia, di appartenere ancora. Tra le ultime cose che notai, un respiratore manuale, con il quale uno dei paramedici, pompava ossigeno nei miei polmoni. Una leggera speranza, incredula, s’instillò tra i miei turbamenti, illuminando, come una fioca fiammella, il buio che, percepivo ormai intorno a me. Ad un tratto sentii, man mano che ascendevo, verso una meta ancora a me sconosciuta, che i sentimenti, che avevano fatto da sfondo a quell’angosciante quadro, del quale ormai percepivo solo delle immagini lontane e confuse, rimanevano collegate al luogo nel quale si erano generate, mentre il mio essere acquisiva una leggerezza crescente, man mano che sentivo marcarsi quell’indefinito confine, tra vita terrena e vita ultraterrena. La pace che percepii, improvvisamente, non generò né sollievo né stupore. Pace era l’unico sentimento che mi fu concesso di provare, l’unica domanda e risposta alla quale riuscivo a pensare, in quel luogo del quale i confini non erano tracciabili. Tutte le mie paure si erano dissolte completamente, portando con sé anche il desiderio di riavere indietro la mia vita. La mia vita terrena. Non potevo dire di trovarmi né in un luogo né in un tempo precisi, e forse, luogo e tempo non erano contemplati in quel posto etereo. Ero come in un tunnel, dallo spazio indefinito, illuminato da una leggera luce che aumentava man mano che una forza misteriosa mi attirava a sé, verso una luce molto più intensa, quasi accecante, ma che la mia vista non turbava, anzi, ne ero inesorabilmente attratta. Provai un’immensa gioia solo al pensiero di raggiungerla. Era come se i miei occhi non ne ebbero mai visto uno spiraglio, neppure in vita, come se avessi vissuto in un’eterna penombra, senza conoscere la bellezza della vera luce.

Ad un certo punto presero le mie mani, ed il contatto improvviso non mi fece trasalire, tutt’altro, mi fece sentire più sicura. Percepii due presenze, una alla mia destra e una alla mia sinistra. Si trattava di due angeli, e non ebbi bisogno di guardarli per saperlo. Mi parlarono ma le parole non erano il linguaggio proprio di quel luogo. Comunicammo in un modo che venne naturale pure a me, nonostante non avesse niente in comune con il linguaggio al quale ero abituata. Fu come comunicare con la mente, se dovessi spiegarlo nel modo più semplice. Mi chiesero cosa ci facessi lì, che ero giunta troppo presto, e che non ero ancora pronta per incontrare il Padre. “Il Padre”, solo questa parola mi riempì il cuore di gioia, e incontrarlo divenne il mio desiderio più grande. Risposi che un fulmine mi aveva colpita, che credevo di essere morta, e che prima, nell’attesa, mi ero sentita smarrita, abbandonata. “Ti abbiamo sentita” mi risposero, “ma non eravamo pronti a te” e capii. Capii il perché di tutta quell’angoscia che ricordavo pesante come un macigno: non erano pronti a me ed io non ero pronta a loro. Non era questo il giorno previsto per la mia morte. Gli chiesi se potevo restare, ma mi risposero che non era compito loro deciderlo, e solo al pensiero di ritornare indietro, mi si riempì il cuore di tristezza, sentivo che, adesso, tutto ciò di cui avevo bisogno, era lì, in quella luce, che sembravo non raggiungere mai. I due angeli che mi fiancheggiavano lungo il cammino, mi dissero di guardare, ma capii che gli occhi non erano il mezzo per farlo. Guardai come dentro di me, e vidi quello che loro mi mostrarono. Tutta la mia vita mi passo davanti, senza tralasciare nessun particolare. Rividi uno ad uno tutti i volti delle persone che avevano interferito nella mia vita: dagli affetti più cari alle persone con le quali avevo scambiato solo poche parole. Rivissi tutto da una prospettiva diversa, sentendo sulla mia pelle, le emozioni che le mie azioni avevano provocato a ognuno di loro. Provai vergogna e frustrazione per tutto il male che avevo inflitto, anche solo con le parole. Solo in quel momento riuscii a capire quanto avessi battuto la strada del peccato sviandomi dal cammino che Dio aveva scelto per me. La strada che nella mia vita avevo percorso, era lastricata di tentazioni, nelle quali inciampavo puntualmente. Mi resi conto che andare in chiesa ogni tanto e dire di credere in Dio, non faceva di me una brava cristiana. La cura del mio aspetto, un tenore di vita agiato, il raggiungimento del successo, erano stati il mio credo. Avevo sempre subordinato l’essere all’apparire. Mi accorsi che stavo allontanandomi dalla grande luce, e capii che il mio viaggio oltre la vita, stava per terminare. Quando mi risvegliai ebbi la consapevolezza che non si era trattato di un sogno, ma il ricordo di quell’esperienza, era più tangibile del mio corpo stesso. Capii di aver avuto una seconda occasione, e con essa, la grandiosa possibilità di redimermi. Ritrovai la strada, solo dopo essermi trovata faccia a faccia con la morte, in un viaggio di andata e ritorno oltre la vita. Oltre me.

Giusi Villa

Solo 6/100 maschi tra gli esseri umani più longevi. Perché le donne vivono più degli uomini?

Jeanne Calment (21 febbraio 1875/ 4 agosto 1997) è il nome della donna più longeva di sempre, che, con i suoi 122 anni, è risultata l’unica fino ad oggi ad avere la possibilità – 1 su 3 milioni – di vivere per un tempo ≥ 110 anni, avvalendosi così della nomina di supercentenaria. Pensate che questa signora è passata dalla prima trasmissione radio, all’invenzione dell’automobile, della TV e del computer, del cinema e del giradischi; ha vissuto la Prima e la Seconda Guerra Mondiale e gli anni della conquista dello spazio; è sopravvissuta a 22 presidenti francesi (nasce e muore ad Arles) ed a ben 10 Papi.

Ma perché esiste questa differenza tra i due sessi?

Si potrebbe pensare che il tutto si basi su tempistiche differenti di invecchiamento, ma le donne non vivono più degli uomini perché invecchiano più lentamente, piuttosto perché risultano essere più “resistenti” durante le varie età. Paradossalmente però, pur avendo una minore mortalità, hanno un maggiore tasso di malattia (soprattutto cronica), di visite mediche e di ospedalizzazione rispetto gli uomini. Questo quanto si legge nei lavori del professor Steven N. Austad, preside del Dipartimento di Biologia presso l’Università di Alabama a Birmingham, ed esperto di “invecchiamento”.

 

Allora in che modo le donne sono più “resistenti” degli uomini?

Di certezze ce ne sono poche, ma le ipotesi sono diverse ed avvincenti.

Una di queste è che le donne abbiano un sistema immunitario molto più robusto degli uomini. Questa opzione è confermata da numerose ricerche condotte dall’Università della Pennsylvania finalizzate alla dimostrazione che le donne sono meno soggette, o affrontano meglio rispetto alla controparte maschile, l’influenza, grazie alla “robustezza” del loro sistema immunitario. Robustezza che però si traduce in una maggiore suscettibilità (statisticamente dimostrata) delle donne nel manifestare malattie autoimmuni, patologie caratterizzate da una risposta anomala del sistema immunitario nei confronti di parti dell’organismo stesso.  Ma in che modo il sistema immunitario garantisca una più longeva sopravvivenza al gentil sesso, non si sa ancora.

Una seconda ipotesi, sicuramente più famosa, è basata sull’azione protettiva degli estrogeni, gli ormoni femminili che sembrerebbero giocare un ruolo difensivo soprattutto nei confronti di patologie quali ad esempio l’infarto e l’aterosclerosi. È nota a tutti l’incidenza maggiore nell’uomo di malattie cardiovascolari rispetto alle donne in età fertile. Questa differenza diminuisce notevolmente, finendo per far avvicinare i due valori, con la menopausa, periodo in cui la concentrazione di questi ormoni diminuisce in maniera drastica. Gli estrogeni, infatti, influenzano la biodisponibilità di ossido nitrico (NO), mediatore endogeno con effetti vasodilatatori, riducono le possibilità di formazione di coaguli e diminuiscono le LDL (il cosiddetto “colesterolo cattivo”) in circolo, riducendo così la possibilità di sviluppare l’aterosclerosi.

Gli estrogeni sono inoltre impegnati nella risposta allo stress ossidativo da accumulo di radicali liberi (molecole reattive potenzialmente pericolose), causa più che nota del normale invecchiamento in entrambi i sessi. L’estrogeno, una volta legato il suo recettore, attiva NF-kB, un fattore trascrizionale che aumenta la sintesi di enzimi con funzione antiossidante. Risulta chiaro come le donne, avendo più estrogeni e di conseguenza più enzimi anti-radicalici, contrastino meglio lo stress ossidativo.

Altra ipotesi è la cosiddetta “teoria del sesso eterogametico”: la mancanza del secondo cromosoma X causerebbe nell’uomo (XY) una serie di svantaggi dovuti alla perdita di più di 1000 geni assenti nell’Y, ma presenti nell’ X. Quindi qualsiasi allele (forma alternativa di uno stesso gene) mutato sul cromosoma X maschile non ha un corrispettivo compensatorio sul cromosoma Y, mentre la donna (XX) gode di questa opportunità. Se ciò non bastasse, ci sono evidenze che dimostrano che nel sangue periferico, più si è avanti con l’età, maggiore è il numero di cellule che tendono ad avere o il cromosoma X paterno o X materno, piuttosto che un’inattivazione random, dunque una sorta di scelta consapevole dell’allele “migliore”. Inoltre, il 17% dei geni inattivati nel cromosoma X non lo sono completamente e questo potrebbe essere un ulteriore vantaggio nella sopravvivenza a lungo termine.

Jose Viña e Consuelo Borrás, professori dell’Università di Valencia, hanno introdotto il concetto di “longevity associated genes” cioè di “geni associati alla longevità”, basandosi su studi condotti sui topi di laboratorio (Wistar rats). Questi geni, se iperespressi, correlano con una vita più duratura. Parliamo di geni antiossidanti, che codificano per gli enzimi impegnati nella risposta all’accumulo dei radicali liberi, e di geni che codificano per le proteine p53, nota come “guardiano del genoma”, e p16. Queste ultime sono impegnate nel controllo della replicazione cellulare, in particolare permettono alle cellule “sane” di procedere nel ciclo replicativo, mentre mandano in fase di quiescenza o, nei casi estremi, in apoptosi (morte programmata) le cellule irreparabilmente “alterate”.

 

Nel loro studio viene citata anche la telomerasi, un’enzima che evita che ad ogni replicazione del DNA, i cromosomi diventino sempre più corti con il rischio che venga danneggiata l’informazione genica e la cellula muoia o si trasformi. Quando questa è iperespressa però, aumenta la probabilità che la cellula da sana, diventi cancerogena, perché l’enzima la “immortalizza”, quindi parlare di “gene associato alla longevità” non sembra il caso. Eppure se la telomerasi si trova notevolmente espressa in cellule aventi una proteina p53 funzionante, si ha un aumento dell’aspettativa di vita del 50%. Questo soprattutto nelle femmine di Wistar rats, infatti l’enzima presenta un sito responsivo agli estrogeni e quindi la sua concentrazione aumenta di conseguenza. La telomerasi avrebbe anche un ruolo antiossidante, perché viene ad essere regolata dal glutatione (peptide con proprietà antiossidanti), i cui livelli nelle femmine di Wistar rats, sono più elevati che nei maschi.

Queste sono solo alcune delle teorie che provano a spiegare la differenza tra i due sessi in termini di longevità. Osservando i dati registrati durante carestie ed epidemie, periodi di estrema difficoltà che hanno segnato la storia mondiale, le donne sono sopravvissute dai 6 mesi fino ai 4 anni in più rispetto agli uomini. Ma come si evince dall’immagine introduttiva all’articolo, non sono solo motivi prettamente “genetici”, spesso gli uomini tendono a mettersi in situazioni pericolose senza valutarne il reale rischio.

Nella corsa per l’immortalità, insomma, le donne sono in vantaggio rispetto agli uomini. Nessuno sa se nei prossimi decenni le cose potranno inaspettatamente ribaltarsi, ma fino a quel momento cari uomini, meglio non fare arrabbiare le donne, dovrete sopportarle per tutta la vita!

 

Claudia Di Mento

Meet me alla boa, ogni volta che ne avrai bisogno

La storia della metà della mela mi è sempre stata sulle palle: ‘sta cosa che da quando siamo nati dobbiamo essere spaccati e incompleti alla ricerca del pezzo mancante. No, io sono una mela intera. Però con te diventiamo due belle mele, che nel portafrutta della vita una da sola fa tristezza.

30 capitoli per 30 passi che percorriamo a fianco del nostro protagonista Franci nel momento peggiore della sua vita.  Quella di Paolo Stella è una storia scritta col cuore in mano, una di quelle letture che riescono a entrarti dentro e a farti sentire meno solo, mettendo nero su bianco le sue emozioni, i suoi pensieri.

Franci conosce Marti a Parigi, rimane subito affascinato dalla sua bellezza e da quel modo di tenergli testa, che alla fine la testa gliela fa perdere. La loro storia decolla inevitabilmente, d’altronde quando due capiscono di combaciare non possono fare altro che unirsi e lasciare fare al tempo.

Purtroppo il destino entrerà in gioco portando via Marti dalla vita di Franci.

C’è un biglietto, strappato da un lato, scritto a penna blu. Riconosco la calligrafia perché è un casino.

Meet me alla boa.

Ogni volta che ne avrai bisogno.

“Meet me alla boa” è un continuo flashback di ricordi e emozioni: rabbia, dolore, felicità, amore … il tutto tinto da quelle due paroline che ancora non sono riusciti a dirsi ma che in cuor loro sanno.
Leggendo questo romanzo capiamo quanto la vita sia veramente imprevedibile e che in molti casi siamo solo degli spettatori.

Paolo Stella, attore, regista e modello (allego foto, che ogni tanto la foto degli scrittori serve assolutamente), scrive in un modo molto semplice e quotidiano la storia di un Amore con la A maiuscola, di due persone che si sono vissute nonostante tutto, e menomale. Quel genere di amore speciale che ognuno di noi dovrebbe vivere.

Una storia che smuoverà il cuore, riuscirà a farvi ridere e a farvi riflettere su quanto sia importante godere di ogni singolo momento della vita.

Serena Votano

L’importanza della vita e della morte

Il nostro racconto comincia in una casa calda e accogliente dell’Arizona.

È una giornata particolarmente cupa e, sorseggiando una tazza di buona cioccolata calda, Mortimer La Morte decide di sfogliare il suo voluminoso album fotografico.

https://www.flickr.com/photos/concho_cowboy/35022998970?fbclid=IwAR34UJA1MrJbJQ3P0KQOPKmRwG3pAKBn31yPCJmU8thBVJo6pQ_mYIRhfxI

Ebbene sì, tutti conosciamo il suo lavoro, ma lui aveva anche il compito di fotografare chi passava a miglior vita. Dopo essersi seduto sulla sua poltrona verde, che aveva comprato molti anni fa al negozio “Cose che nessuno vuole ma che io mi ostino ad esporre”, Mortimer comincia a sfogliare le prime pagine. Vengono  così fuori tanti ricordi; si passa dalla sua prima foto, scattata migliaia di anni fa, alle più recenti. Dopo qualche ora passata davanti a quelle fotografie, Mortimer si rende conto che a fianco ad ogni defunto c’era sempre un parente, un amico in lacrime per la sua perdita. Mortimer così capì. Tutte quelle persone erano tristi a causa sua. Improvvisamente un senso di colpa invase Mortimer. Non voleva più fare del male alla gente: non avrebbe mai più fatto il suo lavoro.

Così i giorni passano. Una sera, Mortimer, guardando il telegiornale, nota un servizio che lo riguarda:

«Edizione straordinaria! Sembra che al mondo nessuno muoia più! Cosa è successo alla Morte? Sarà mica andata in vacanza? Vi terremo informati!».

A fine servizio Mortimer fa un piccolo sorriso. “Non sono mica andato in vacanza, è solo che non riesco più a fare il mio lavoro. So che continuando così non ci sarà più abbastanza spazio nel mondo per tutti. Devo fare qualcosa”, pensa la Morte. Così, il mattino dopo, Mortimer decide di recarsi da uno psicologo. Dopo un breve viaggio in autobus, Morte arriva davanti a un grande edificio. Si avvicina alla porta e, dopo aver suonato il campanello del Dottor Ci penso io, entra. La stanza in cui si ritrova è piena di librerie; al centro vi si trovano una poltrona e una scrivania. Non c’è alcun’anima viva. Improvvisamente, una porta alla destra della stanza si apre. Ecco che un uomo baffuto, non molto alto e dai capelli brizzolati compare.

«Scusi se l’ho fatta aspettare, ma stavo preparando il pranzo. Piacere, sono il Dottor Ci penso io. Ha qualche problema? Bene… Cioè, male, ma ci penso io!» afferma il nuovo arrivato. Mortimer pensa da subito che sia molto simpatico. «Il piacere è tutto mio. Mi chiamo Mortimer La Morte e, beh, può capire da solo cosa io faccia nella vita» dice Mortimer. «Bene, è da un po’ che non si sente parlare di te. Posso darti del tu, vero? Comunque, non credevo che dopo questa tua pausa io sarei stato il primo. Lasciami almeno sistemare i capelli e mangiare l’ultimo boccone». «No, no! Non sono venuto per questo! Sono venuto perché ho un problema. Da un po’ormai non riesco più a fare il mio lavoro, non posso rendere triste qualcuno. Speravo tu potessi aiutarmi». «Oh, capisco. È la prima volta che mi capita un caso del genere, ma ci proverò. Prego, accomodati sulla poltrona».

Mortimer, così, comincia a raccontare ciò che lo ha portato a prendere questa decisione. «Bene, ho chiara la situazione. So che il tuo è uno sporco lavoro, e non che l’idea di finire in una bara mi piaccia, ma fa parte della vita, e lo sai anche tu! La gente comincia a domandarsi cosa stia succedendo, pensano che qualcosa non vada! Penso che la prima cosa da fare sia dirlo a tutti. Il nostro tempo è finito, per oggi. Torna pure quando vuoi». Così dicendo, il dottore scompare dietro quella stessa porta a destra. Mortimer riflette molto sulle parole di Ci penso io e decide che rivelerà al mondo questo problema. Si reca così agli studi televisivi e, con il consenso del direttore compare durante l’edizione pomeridiana del telegiornale.

«Non sono andato in vacanza, ho solo deciso che mai più prenderò la vita di qualcuno».

Presto la notizia si diffonde su tutti i giornali. La gente è felice. Immagina una vita eterna. La morte così diventa una celebrità, qualcuno arriva a pensare che dovrebbe ricevere persino il premio Nobel per “la migliore decisione mai presa al mondo”. Milioni di persone lo acclamano, non potendo desiderare nulla di meglio. Mortimer però è confuso, da un lato è felice, ma dall’altro immagina cosa succederà in futuro. Decide comunque di non pensare al futuro e di godersi la sua celebrità. Mortimer decide di ringraziare il Dottor Ci penso io. Senza il suo consiglio non avrebbe mai ottenuto questo risultato. Ritorna allo studio del dottore e si accomoda sulla poltrona. «Mortimer caro, vedo che ora sei felice» dice il dottore. «Sì, lo sono, e voglio ringraziare proprio te per questo. Ho fatto ciò che mi hai suggerito e ora sto molto meglio» afferma la Morte. «Sono felice per te, ma sei sicuro della tua decisione? Cosa succederà quando al mondo ci saranno troppe persone? Si creeranno moltissimi problemi! La gente, continuando così, presto si stancherà. Non penserà a te come ad un eroe, ma ti odierà!» replica il dottore. «Alla gente piace quello che ho fatto! Non arriverà mai ad odiarmi! Chiunque vorrebbe vivere per sempre! Nessuno penserà mai una cosa del genere». Così dicendo, Mortimer esce da quell’edificio arrabbiato, deciso a non tornarci più.

Gli anni passano veloci, la popolazione aumenta, ormai senza controllo. Dopo centottanta lunghi anni, il malumore e la rabbia sono le uniche emozioni che pervadono ogni individuo. Il cibo ormai è quasi finito, il verde dei prati è scomparso, lasciando spazio a grigi edifici pieni di gente. A nessuno importa più il valore della vita. Nessuno si gode ogni attimo. Mortimer è stato dimenticato, come succede per ogni moda. La gente non vuole vivere più, è stanca! Avendo perso ogni tipo di felicità, Mortimer si reca per l’ultima volta dal dottore; la poltrona e la scrivania sono consumate dal tempo. «Mi dispiace. Avevi ragione», afferma la Morte guardando gli occhi stanchi dell’uomo che aveva cercato di aiutarlo. «In molti sono venuti da me lamentandosi della loro immortalità. La morte fa parte della vita; tu fai parte della vita. È vero, perdere un caro fa sempre male, ma, come vedi, è molto importante che questo accada. Mortimer, voglio essere il primo questa volta. Te ne saremo tutti grati». Anno 4586, è una giornata soleggiata. Il nostro amico Mortimer ha ritrovato la felicità. Seduto sulla poltrona, sorseggiando una cioccolata calda, sfoglia l’album fotografico. Si ferma a guardare la foto forse per lui più importante e non può far a meno di commuoversi: è la foto del dottor Ci penso io, l’uomo che gli aveva salvato la vita.

 

Beatrice Galati

Dipendenza Patologica da Internet: meccanismi biochimici e neurobiologici

Basta salire su un autobus o frequentare un locale affollato, per rendersi conto di quanto oggi il nostro sguardo si sia abbassato.

Siamo letteralmente assorbiti, catturati dai nostri smartphone. Sempre connessi, sempre impegnati, al punto di perdere il contatto con la realtà.

“Sapete quante volte viene toccato lo schermo di un telefono? 2600 volte al giorno. Sapete quante di queste sono veramente necessarie? Solo 14”. Così recita Fabrizio Bentivoglio nel recente film Sconnessi, film che denuncia come Internet abbia modificato il nostro stile di vita creando una vera e propria dipendenza.

Circa il 90% della popolazione mondiale possiede una connessione internet. Dal 1999 gli utenti sono notevolmente aumentati. Dall’analisi statistica dei dati provenienti da 239 Paesi, è emerso come il numero degli utenti connessi ad Internet nel mondo abbia sorpassato la soglia dei 4 miliardi di persone. Un dato storico ci informa che oggi più della metà della popolazione mondiale è online.

Non sorprende a pensare che si stanno diffondendo sempre più i disturbi da abuso della rete telematica, l’Internet Addiction Disorder (IAD)che hanno riscosso una crescente attenzione da parte della comunità scientifica.

Il fenomeno sta acquistando una rilevanza sociale tanto da parlare di dipendenza.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) descrive la dipendenza patologica come quella condizione psichica, e talvolta anche fisica, causata dall’interazione tra una persona e una sostanza tossica. Tale interazione determina un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i suoi effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione. Le nuove dipendenze, o dipendenze senza sostanza, si riferiscono a una vasta gamma di comportamenti anomali. Tra essi possiamo annoverare il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza da tv, da internet, dal sesso, shopping compulsivo, dall’eccesso di allenamento sportivo.

 

La dipendenza patologica e i criteri diagnostici

Il DSM5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) comprende anche il gioco d’azzardo che non è correlato all’uso di una sostanza.

Servono ulteriori ricerche ed evidenze per includere formalmente i disturbi da abuso della rete telematica IAD (l’Internet Addiction Disorder ) nel DSM5.

Già nel 1995 Ivan Goldberg propose di introdurli nel DSM . Si stanno rapidamente diffondendo senza un ufficiale riconoscimento e con continui disaccordi rispetto ai criteri diagnostici da utilizzare.

In particolare, il dibattito in corso mira a definire se l’IAD deve essere classificato come una dipendenza comportamentale, un disturbo del controllo degli impulsi o un disturbo ossessivo-compulsivo.

La dipendenza da internet è legata al tipo di attività svolta varia in genere in relazione al sesso e all’età.

Attualmente sono stati riconosciuti cinque tipi di dipendenza:

-Dipendenza dalle relazioni virtuali (Cyber-Relational Addiction) Tendenza ad istaurare relazioni di amicizia o amorosi via chat, forum, social networks. Tali relazioni diventano man mano più importanti delle relazioni reali.

-Dipendenza dal sesso virtuale (Cybersexual Addiction) uso compulsivo di pornografia e sesso virtuale.

-Gioco Offline (Computer Addiction), tendenza al coinvolgimento eccessivo in giochi virtuali che non prevedono l’interazione tra più giocatori e non in rete.

-Gioco Online (Net Compulsion), coinvolgimento eccessivo e comportamenti compulsivi collegati a varie attività online quali il gioco d’azzardo, lo shopping compulsivo, i giochi di ruolo.

Quando parliamo di dipendenza da internet?

Quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo della rete, creando in tal modo menomazioni forti e disfunzionali nelle principali e fondamentali aree esistenziali, come quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva. Le dinamiche di dipendenza dalla rete telematica si possono sviluppare al punto da presentare fenomeni analoghi alle dipendenze da sostanze, con comparsa di tolleranza (aumentare il numero di ore trascorse in rete per avere lo stesso effetto gratificante) craving (desiderio impulsivo) e assuefazione e astinenza( Se il soggetto tenta di ridurre le ore o si disconnette dalla rete diventa irritabile, nervoso, ansioso.)

La dipendenza patologica come ogni malattia mentale, altera il comportamento è tutto ciò che limita il nostro libero modo di essere, di comportarci, di scegliere è un qualcosa che ci viene sovraimposto. Il soggetto non sceglie di stare tutta la giornata davanti al pc, non andare a lavoro, perdere sonno.

NON È RILEVANTE LA VOLONTÀ del soggetto a smettere, il soggetto può avere anche un alto quoziente intellettivo e avere una dipendenza da internet come da nicotina.

Perché?

Poiché ovviamente tutti noi dobbiamo  fare i conti con i limiti del nostro sistema nervoso, con dei processi biochimici sovraimposti dalla biologia e dalla fisiologia. E’ un meccanismo biochimico che si autoinnesca nel cervello.

 

Come avviene la dipendenza?

La dipendenza da sostanze e comportamenti usa un meccanismo antichissimo, caro all’evoluzione e alle diverse specie ovvero la gratificazione, il circuito della ricompensa ed il rinforzo negativo o positivo.

Il circuito della ricompensa è un comportamento attuato anche dal neonato, da ogni specie dalle farfalle all’essere umano. Tanto più un’azione è gratificante tanto più essa tende ad essere ripetuta nel tempo. Sono dei meccanismi che servono a salvaguardare la specie. Non tutte le dipendenze sono patologiche anzi alcune sono necessarie. Ad esempio l’atto sessuale è un evento gradevole che tende ad essere ripetuto nel tempo e consente la riproduzione per questo le specie non si sono estinte.

Le dipendenze fisiologiche o patologiche si basano sul circuito della ricompensa.

Esso è costituito da tre momenti:

– La componente preparatoria (il desiderio e le azioni messe in atto per raggiungere l’oggetto del piacere);

– La componente incentivante motivazionale (motivazione a provare qualcosa di nuovo);

– La componente consumatoria: piacere, soddisfazione e gratificazione.

 

Biochimicamente cosa avviene nel cervello?

  • L’Area tegmentale ventrale rilascia dopamina,
  • Liberazione dopamina dal Nucleo Accumbens. Il rilascio di dopamina dal Nucleo Accumbens è correlato al piacere alla gratificazione,
  • Contemporaneamente avviene l’inibizione del lobo frontale (area deputata al giudizio, alla coscienza, alla razionalizzazione. Consequenzialmente se tale area è inibita il soggetto non considera più il pericolo, la sua razionalità è compromessa).
  • Inibizione dell’amigdala la quale in genere è deputata a far insorgere nel soggetto ansia, paura e consente di scappare dinnanzi un pericolo, se tale area è inibita il soggetto non è ansioso, è quindi troverà beneficio dall’ azione, sentendosi più rilassato, meno agitato e non tenderà a scappare).Ciò funziona per tutte le dipendenze anche da sostanza e comportamento. Esaminiamo la dipendenza più comune quella da social network.Oltre al circuito di ricompensa avviene un rinforzo positivo:

    Se il soggetto ha difficoltà ad istaurare relazioni nella realtà per tratti di personalità per la sua timidezza, per la sua personalità evitante, per la sua introversione, sarà facilitato da internet ad instaurare relazioni velocemente, a parlare  liberamente senza arrossire o essere impacciato, sarà più disinibito.

    Il soggetto tramite i social può offrire un’immagine di sé che non è reale, fornire agli altri un’immagine idealizzata che vorrebbe avere.

    Avrà più facilmente accesso ad essere in contatto con le persone di suo interesse. Grazie a facebook, instagram, whatsapp sarà aggiornato sulla vita e sui movimenti di chi gli interessa, ci saranno foto, video, pensieri condivisi dalla persona ,i social vanno tanto di moda perché sono basati  sulla stimolazione piacevole della curiosità, erotizzazione delle informazioni.

    Rinforzo negativo eviterà il rifiuto diretto, essere nascosti dietro uno schermo evita figuracce, la perdita di tempo nell’ottenere informazioni.

    La specie si evoluta basandosi sul rinforzo positivo e negativo. Tutte le azioni umane sono esplicate per avvicinarsi al piacere o allontanarsi dal dolore.

     

    Dipendenza e tratti di personalità

    Ci sono persone più inclini a sviluppare dipendenze patologiche da internet, comportamentali o patologiche? Si, senza dubbio.

    In parte è genetica, correlato a tratti di personalità come il Neuroticismo, l’impulsività e l’eccesiva reattività a stimoli esterni.

    Il  neuroticismo è quella  caratteristica di personalità connessa alla tendenza a provare emozioni prevalentemente negative come il pessimismo.

    Questo tratto risulta associato tanto al disturbo da uso di sostanze quanto ai disturbi depressivi e ai disturbi d’ansia.

    Più elevata sensibilità allo stress. I soggetti con tale tratto hanno la predisposizione al sensation-seeking, la tendenza di avere una continua ricerca del nuovo e dal costante bisogno di provare di forti emozioni, unitamente all’ipersensibilità verso le ricompense, il piacere e a una parallela insensibilità alla punizione.

    L’Impulsività  si riferisce a un modello di comportamento sotto-controllato e privo di limiti, nel quale l’individuo incapace a ritardare la gratificazione, agisce senza alcuna preoccupazione rispetto alle potenziali conseguenze.

    L’impulsività è il tratto comportamentale che sembra maggiormente correlato all’uso problematico di sostanze e alle dipendenze, comprese quelle comportamentali, come il gioco d’azzardo patologico.

    L’eccessiva reattività agli stimoli esterni, rappresenta un ultimo tratto comportamentale accordato sulle frequenze del disturbo da dipendenza, nello specifico connesso alla fase della ricaduta. Gli individui a maggior rischio di ricaduta siano quei soggetti per i quali gli stimoli esterni presentano un elevato potere incentivante; questo è in linea con il fatto che la ricaduta è spesso determinata da quegli stessi stimoli ambientali (luoghi, persone, strumenti) o psichici (particolari emozioni, stati dell’umore, pensieri ricorrenti) precedentemente associati all’assunzione di droghe, di sostanze psicoattive.

    Cosa fare se si ha una dipendenza patologica da internet?

    Ammettere di avere un problema.

    Rivolgersi ad uno psicoterapeuta ed iniziare una terapia cognitivo- comportamentale mirata alla riduzione graduale del comportamento patologico dipendente, con l’individuazione e attuazione di comportamenti alternativi, sufficientemente gratificanti, che possano sostituirlo,

    Superare  difficoltà socio-relazionali.

    In ambito strategico le patologie legate all’utilizzo patologico di internet possono venire suddivise in due tipologie:

    • quelle basata sulla ricerca del piacere
    • quelle basate su un meccanismo di tipo ossessivo-compulsivo.

    Il paziente attraverso stratagemmi terapeutici viene inconsapevolmente condotto dal terapeuta  a vivere esperienze emozionali che sblocchino la sua rigidità e lo indirizzino verso una nuova visione della realtà.

    Nelle patologie incentrate sul piacere, le manovre vertono a far interrompere il rituale piacevole di cui il soggetto non riesce a fare a meno.

    Nel caso in cui sia presente un meccanismo di tipo ossessivo-compulsivo si seguirà una logica differente. In questo caso il soggetto è vittima delle sue strategie di controllo. La prescrizione principale  in tale caso in genere è quella di eseguire il rituale in modo più gravoso, confinandolo in un determinato spazio e tempo. Si tratta quindi di opporre al rituale un contro-rituale che ne riduca l’effetto o l’ipnoterapia.

    Vi sono differenti strategie:

    • Strategia legata alle conseguenze positive future. Sottolineare gli aspetti gratificanti di lungo termine legati al superamento della dipendenza stressando gli aspetti negativi del presente. Usando le tecniche immaginative orientate al futuro.
    • Strategia legata all’accentuazione delle conseguenze negative. mettere il paziente di fronte alle conseguenze negative della sua dipendenza svalutandone allo stesso tempo il piacere immediato. fantasie immaginative avverse, concentrandosi sulle conseguenze negative del comportamento che sono specifiche per il soggetto.
    • Strategia legata alla sostituzione del mezzo di gratificazione. L’attenzione in questo caso è rivolta alla ricerca di metodi non distruttivi che permettano al soggetto di ridurre il suo stato di tensione. Centrali in questo caso sono le tecniche di rilassamento autoguidato che permettono di trasportare le suggestioni ipnotiche nella situazione in cui l’individuo necessita aiuto. Queste tecniche, permettono di controllare la respirazione, la tensione muscolare e la sensazione associata di ansietà, fornendo al soggetto la percezione di autoefficacia, incoraggiandone così la messa in atto di strategie adeguate di coping.
    • Strategia di autogratificazione. Si opera in tale caso sul rinforzo del se del soggetto mediante suggestioni che vanno ad accrescere l’autostima, il sentimento di autoefficacia e la motivazione intrinseca al cambiamento.

    L’insieme di queste strategie permette di strutturare nel soggetto un comportamento di decision-making consapevole. Invece di rispondere in forma automaticamente e abitualmente, il soggetto viene portato a decidere in modo consapevole se concedersi il lusso di un’abitudine distruttiva .

    Nel caso in cui la dipendenza abbia coinvolto negativamente la famiglia,

    viene introdotta la terapia familiare supportare la motivazione del soggetto ad affrontare e risolvere la dipendenza.

    I gruppi di supporto sono una valida alternativa terapeutica soprattutto in quelle situazioni in cui la dipendenza da internet sia stata prodotta da mancanza di supporto all’interno della rete sociale di appartenenza.

    Terapia farmacologica

    Nei casi gravi vengono dati farmaci antidepressivi o stabilizzatori dell’umore che vanno ad agire sui sintomi causati dall’astinenza (ad esempio nel gioco d’azzardo patologico online).

    Conclusioni e consigli pratici

    La tecnologia è un ottimo strumento di crescita se ben usata, ma può causare gravi dipendenze patologiche. Per prevenire ciò è necessario:

    – La  conoscenza e l’autodisciplina.

    – Limitare uso trascorso in internet, monitorandolo, stabilendo di essere connessi solo per un periodo di tempo determinato incoraggiare utilizzo di reminder bigliettini

    – Praticare sport il rilascio di endorfine, evita la ricerca di piacere da altre fonti come internet, il cibo.

    – Instaurare relazioni vere ,fatte di chiacchiere, sguardi, canzoni. Iscriversi in attività di gruppo, vi sono diverse associazioni di ballo, canto, teatrali, politiche, sportive in relazione ai propri interessi che ti permettono di fare amicizia con gente che condivide le tue passioni.

    – Utilizzare app che bloccano l’accesso ai social per un tempo determinato e ti consentono un uso moderato e rimanere concentrato nelle tue attività: ad esempio Forest, un app free in cui ogni ora che sei concentrato senza guardare il cellulare e il pc cresce un alberello, di varie dimensioni e tipologie a secondo del tempo che stabilisci.

    Se mentre svolgi l’attività che avevi programmato in cui dovevi essere focalizzato nello studio o nel lavoro entri sui social l’albero muore. A fine giornata sarà piacevole vedere i frutti del tuo lavoro osservando la foresta con gli alberi che hai piantato con le ore concentrato nel tuo lavoro.

    – Fare belle passeggiate in cui si è sconnessi da  internet, chi ha necessità di trovarci può sempre chiamare.

    – Connettersi con la natura: usare i sensi, al giorno d’oggi non facciamo più caso ai nostri sensi. Utilizzarli consapevolmente.

    -Acuire l’osservazione, cogliere i dettagli, i colori, le forme geometriche.

    Prestare attenzione ai suoni, ai rumori, al tatto alle superfici, al nostro respiro e ai nostri passi,

    – Ascoltare il proprio corpo, verificare la nostra postura, la posizione che assunta nello spazio, la tensione che è presente in alcuni muscoli.

    – Sintonizzarci con la realtà vera.

    – Concentrarsi nelle cose pienamente, se  si studia, studiare e basta, se si lavano i piatti non pensare ad altro, rimanere concentrati,essere assorti pienamente nell’attività che stiamo svolgendo.

    Metà della felicità è nel contatto con la natura e nella consapevolezza del sé.

    A cosa  serve conquistare il mondo, avere milioni di informazioni quando poi si perde l’essenza del proprio se e della realtà?

    Cosa racconteremo ai nostri figli “…passavo ore con la testa bassa sul telefono a chattare con sconosciuti, a leggere email”?!

    Cosa ci stiamo perdendo? Sorrisi, sguardi, tramonti, interrotti da una notifica, dall’attesa di un messaggio, il nostro tempo è limitato, stressato da continui messaggi a cui rispondere. Siamo diventati schiavi.

    “Ascolta te stesso, sii libero, non dipendere da niente e da nessuno questa è la chiave della felicità.”

                                                                                                                                                                                                                                  Daniela Cannistrà

Vuoi essere mio amico? Processi neurali ci suggeriscono se saremo mai amici

Non esiste uomo che non abbia, almeno una volta nella vita, provato il sentimento dell’amicizia, né qualcuno che non abbia provato o desiderato amore. Sfido chiunque a dire il contrario. Un’introduzione un po’ sdolcinata, vero, ma pur sempre realistica. La complessità e la necessità delle reti sociali testimoniano quanto la specie umana sia incline a relazionarsi con chi gli è simile in termini di caratteristiche fisiche (età, sesso), di interessi (studi, tempo libero, idee) e di cultura. Ormai numerose evidenze antropologiche suggeriscono come, la tendenza all’aggregazione, sia, nella specie umana, un primordiale principio organizzatore della società che conosciamo oggi. Vari ormoni e strutture anatomiche regolano, seppur ancora in maniera non del tutto chiara, le emozioni provate durante l’esperienza della relazione interumana, e per quanto l’amicizia e l’amore siano sperimentati da tutti gli umani, resta ancora da capire il perché vengano a formarsi certi legami.

A suggerire l’esistenza di una sorta di “firma neurale” dell’amicizia è un gruppo di ricercatori dell’Università della California a Los Angeles e del Dartmouth College ad Hanover, nel New Hampshire, coordinati dalla Dott.ssa Carolyn Parkinson. Il gruppo ha infatti voluto indagare se tali similitudini possono derivare da altre più nascoste, connessioni neuronali che codificano il modo in cui percepiamo, interpretiamo e interagiamo con il mondo che ci circonda.

Per il loro studio, pubblicato su “Nature communications” lo scorso mese dal titolo “Similar neural responses predict friendship” –Risposte neurali simili predicono l’amicizia-, sono stati reclutati 279 studenti da un corso di laurea della stessa Università, a cui poi è stato sottoposto un questionario online in cui gli veniva chiesto di indicare i ragazzi, partecipanti allo stesso studio, cui erano legati da un sentimento di amicizia. Si è così costruita una mappa matematica a partire da una rete sociale reale, qui sotto illustrata.

Un campione di 42 studenti è stato poi selezionato casualmente per partecipare allo studio mediante risonanza magnetica funzionale. Tale esame valuta l’attività della corteccia cerebrale in una determinata zona, quindi se il soggetto è stimolato da un’immagine, la fMRI noterà un segnale proveniente dalla corteccia visiva, un’altra immagine provocherà un segnale proveniente dalla stessa zona, ma leggermente diverso. Durante l’esame ogni soggetto ha guardato la stessa selezione di videoclip, che comprendevano un ampio range di argomenti, dagli sketch comici ai documentari, fino ai dibattiti politici, tutti scelti secondo un unico criterio: i soggetti non dovevano averli già visti. In questo modo, i ricercatori hanno indotto uno sforzo mentale di attenzione, interpretazione ed evocazione di risposte neuronali nuove.

Analizzando i dati raccolti, Parkinson e colleghi hanno dimostrato che durante la visione di uno stesso video, il profilo dei livelli di attività nelle aree del cervello implicate nell’interpretazione dell’ambiente sensoriale e nelle risposte emotive era molto simile tra coloro che si definivano amici. La somiglianza della risposta neurale diminuiva invece con l’aumentare della distanza tra gli individui nella stessa rete sociale. Le regioni corticali più interessate nella discriminazione dell’amicizia sono quelle coinvolte nell’allocazione dell’attenzione, nell’interpretazione narrativa e nella risposta affettiva, suggerendo che gli amici possono essere eccezionalmente simili nel modo in cui si occupano, interpretano ed emotivamente reagiscono a ciò che li circonda. Era inoltre possibile prevedere, con un esercizio speculare, la stessa mappa dell’immagine precedente partendo dalla sola acquisizione in fMRI. Oltre alle regioni corticali sopracitate, sono state notate associazioni con zone sub-corticali implicate nella motivazione, apprendimento e formazione di nuovi ricordi, come l’amigdala, e parte dei nuclei della base.

L’immagine mostra aree corticali ad alta associazione (rosso) tra amici, che risultano ad associazione minore (rosa/azzurro) tra individui legati da una distanza sociale maggiore.

I profili ottenuti con la risonanza, concludono gli autori, “forniscono quindi firme ricche di informazioni sulle risposte di questi individui agli stimoli, che presumibilmente sono modellati dalle caratteristiche delle loro disposizioni, conoscenze preesistenti, opinioni, interessi e valori. Queste firme possono essere utilizzate per identificare le persone che possono diventare amiche e quelle che possono essere collegate indirettamente tramite amici comuni.”

Lo studio in questione è stato ispirato da un’altra scoperta fatta precedentemente dallo stesso team di scienziati: non appena vediamo qualcuno che conosciamo, il nostro cervello ci dice immediatamente quanto è importante o influente quella persona e la posizione che occupa nella nostra rete sociale. La prossima sfida per il gruppo dii ricercatori sarà quella di “comprendere se veniamo attratti naturalmente dalle persone che vedono il mondo alla nostra stessa maniera, se diveniamo più simili una volta che condividiamo le stesse esperienze o se entrambe le dinamiche si rafforzano a vicenda”.

Antonio Nuccio

Sunday in lizza per il David di Donatello: intervista a Danilo Currò

Danilo Currò è un giovane regista italiano, nato a Messina il 6 agosto 1993. Si diploma in Pittura e Decorazioni Pittoriche presso il liceo artistico E. Basile. Approda dapprima alla fotografia, attraverso la quale cura e sviluppa le capacità che lo condurranno ad una più seria ricerca che sfocerà nella scelta della regia come nuovo campo di azione. Nel 2012 la National Geographic Italia seleziona uno dei suoi scatti paesaggistici e in seguito alcune tra le sue fotografie vengono inserite negli album della Leica Talent Italia. Da qui in poi i lavori di regia di Danilo gireranno l’Italia ottenendo vittorie e riconoscimenti vari al Corto Tendenza Festival di Barcellona, al Taormina Film Fest, al Festival di Pordenone ed al Cortona On The Move. Produzione che inoltre sono state trasmesse su Rai 2 e sulla piattaforma online Infinity di Mediaset.

Il 27 novembre del 2015 Currò si è aggiudicato il premio del pubblico, ovvero i lettori de “La Stampa” che hanno votato le fotografie sul web nel concorso fotografico “Sunday Photographers” indetto dal quotidiano nazionale per Photolux Biennale. Nel 2016 ultima il suo primo documentario dal titolo “Sunday”, che segue il filone del progetto fotografico “Black Lips”, raccontando la storia di un giovane migrante. Il documentario è presentato dal regista Gabriele Muccino e partecipa in concorso a numerosi festival internazionali. Dal 2017 vive a Roma e lavora con Palomar al documentario “Indizi di felicità” di Walter Veltroni e nel nuovo film di Gabriele MuccinoA casa tutti bene”. Ci siamo seduti con Danilo a fare due chiacchiere dopo il suo inserimento in concorso al prossimo David di Donatello e lo incontreremo di nuovo il 28 dicembre qui a Messina perchè Sunday verrà proiettato in esclusiva al Cinema Lux alle ore 21:00.

Cosa significa il titolo del documentario “Sunday“? 

Sunday è il nome del protagonista del documentario. Il suo nome completo è Fasasi Sunday Ebenezer.

Sunday sono 23’ di … ?

Sono 23 minuti di respiri spezzati, di parole pesanti e di sorrisi leggeri. 23 minuti in cui un ragazzo non ancora maggiorenne si racconta con semplicità, parlando della sua storia che poi rispecchia quella di molti altri come lui, che è la storia della migrazione. In fuga da un paese che ama ma che lo costringe ad andare via, attraversando il deserto e il mare, per mesi e mesi.

Come nasce la tua passione per il Cinema? 

Nasce in maniera graduale e quasi per caso. Il mio percorso inizia dal disegno, che mi ha portato alla pittura e successivamente alla fotografia. Da lì, dalla fotografia al cinema è stato un attimo. Sentivo il bisogno di muovere le immagini, di unirci altre forme d’arte. L’immagine statica non mi bastava più. E poi quando a 15 anni vedi per caso Arancia Meccanica in tv, o ti disgusti per un qualcosa che non riesci a comprendere e capire, o inizi ad amare quella cosa. E io per fortuna ho iniziato ad amarla.

Che legami hai con la tua città Messina?

Ho un legame profondo e sincero. La amo e la odio, come penso la maggior parte della gente. La odio perché mi ha costretto ad abbandonarla, e la amo perché ogni volta che ci ritorno mi stimola creativamente. Spesso mi piace partire dalla litoranea per arrivare senza sosta fino a su, fino ai Colli. Però diciamo che non riesco mai a ridurre il tutto alla mia città, spesso mi piace parlare di Sicilia. Mi sento siciliano fino al midollo. 

Cosa pensi del tuo inserimento nella categoria cortometraggi al David di Donatello?

Che gran c***! Si può dire? In realtà sono felicissimo perché il documentario ha viaggiato molto durante quest’anno, e sta continuando a farlo. A volte mi porta con se, altre volte sono costretto a lasciarlo andare da solo. E’ la bellezza di un qualcosa che crei e che riesce poi ad essere autonomo, ad essere vista da tanta gente da un punto all’altro dell’Italia. Riguardo ai David non posso che essere orgoglioso del lavoro che siamo riusciti a fare io e gli altri con così pochi mezzi. Per me è già tanto essere in concorso, la candidatura la vedo come una chimera.

Se venissi scelto per la finale quale messaggio vorresti passasse?

Quello della libertà, che poi è l’immagine finale del documentario. Siamo nati liberi in un mondo libero, ed è difficile comprenderne il contrario. Con il mio lavoro cerco di avvicinare al pensiero, alla riflessione di questo. Ma è un messaggio che vorrei passasse ad ogni singola visione, a prescindere dai David.

A cosa stai lavorando per adesso? 

Ho diversi progetti in fase di sviluppo. Diciamo che mi sto dedicando alla scrittura di un lungometraggio, che spero realizzare e di girare anche qui in Sicilia, e perché no, magari a Messina! Ma siccome quando leggo le interviste degli altri a questa domanda si cerca sempre di sviare, prendo esempio da loro e non dico altro!

Ci dici tre personaggi a cui ti ispiri nella tua vita personale e professionale?

In ambito professionale c’è tanta gente a cui mi ispiro, nella forma e nella poetica mi viene da pensare a Bertolucci, Antonioni, Kubrick o Tornatore. Ma è davvero difficile ridurre tutto questo a qualche nome. 

Che consiglio vuoi dare a chi vuole intraprendere la tua stessa strada?

E’ una grossa responsabilità dare consigli, soprattutto di questo tipo. Credo, o almeno è quello che ho imparato finora, che lo studio della storia del cinema sia la base, insieme alla visione di tanti film. E poi c’è la pratica, la tanta pratica che è quella che in ogni cosa ti forma e ti crea artisticamente e professionalmente. Credo che sia importante partire da queste tre cose. E poi ci sono i cliché, costanza e determinazione. Penso che queste due cose facciano la differenza. Il talento possiamo averlo e affinarlo, ma senza quelle due cose lì è veramente difficile farcela. Ci sto provando anch’io, è difficile consigliare cosa è giusto o non giusto. Fate e circondatevi di gente capace.

Alessio Gugliotta