Milazzo Film Fest 2025: La Vita Accanto

La Vita Accanto è un film del 2024, co-scritto (insieme a Marco Bellocchio) e diretto da Marco Tullio Giordana. È l’adattamento cinematografico del romanzo di Mariapia Veladiano e vanta un cast composto da Sonia Bergamasco, Valentina Bellè, Paolo Pierobon, Beatrice Barison, Sara Ciocca, Viola Basso e altri.

Trama

Il film è ambientato tra gli anni Ottanta e il Duemila e racconta di un’influente famiglia vicentina composta da Maria (Valentina Bellè), suo marito Osvaldo (Paolo Pierobon) e la gemella di quest’ultimo, Erminia (Sonia Bergamasco), affermata pianista. La loro vita viene sconvolta da un evento imprevedibile: Maria dà alla luce Rebecca.

La neonata, per il resto normalissima e di straordinaria bellezza, presenta un vistosa macchia purpurea che le segna metà del viso. Quella macchia, che nulla può cancellare e rende i genitori impotenti e infelici, diventa per Maria un’ossessione tale da precipitarla nel rifiuto delle sue responsabilità di madre. L’intera adolescenza di Rebecca sarà segnata dalla vergogna e dal desiderio di nascondersi dagli altri.

Eppure, fin da piccola, Rebecca rivela straordinarie capacità musicali. La zia Erminia riconosce il suo talento: Rebecca diventa sua allieva e il bisogno di cancellare la “macchia” la spingerà ad affermarsi attraverso la musica.

Il tocco elegante di Giordana

Marco Tullio Giordana è un regista italiano affermato, che ha saputo spaziare tra il cinema, televisione e teatro. Ha sempre raccontato le storie con una maestria particolare, senza cadere nel banale, anche quando si è trovato ad adattare sceneggiature non originali.

Spesso, pensando alle pellicole di Giordana, vengono in mente film come La meglio gioventù, I cento passi, Lea e altre opere che, da una prospettiva ben definita, affrontano dinamiche sociali o fatti di cronaca. Questa volta, è stato il romanzo di Mariapia Veladiano a catturare l’attenzione del regista, o forse è stato il libro a scegliere lui, come se il destino avesse voluto che le loro strade si incrociassero. E Giordana, ha usato il tocco giusto.

La Vita Accanto
Fonte: MyMovies.it

La “vita accanto” e la macchia della famiglia

La macchia rossa in questione è quella della piccola Rebecca, la protagonista del film. Una bambina bellissima, nata dall’unione di Maria e Osvaldo, che però, fin dal  momento della  nascita, non viene accolta dalla madre. Questo segna profondamente la bambina, poiché la madre dovrebbe essere la figura più importante della sua vita. Invece, Maria si rivela un personaggio contraddittorio e oscuro con cui, inizialmente, si fa fatica ad entrare in empatia. Utilizza le sue fragilità e la sua depressione come una sorta di scusa per allontanare la figlia e farla sentire inadeguata, colpevolizzandola per via di quella macchia che, secondo lei, avrebbe rovinato quella bambina tanto voluta.

Giordana mirava proprio a questo: entrare in quelle quattro mura e, sfiorando a tratti un tocco teatrale, raccontare una famiglia appartenente all’alta borghesia, spezzandone le ipocrisie e mostrando le loro fragilità e paure. Tutto questo, si incarna figura della madre, venendo fuori quando sprofonda nella depressione post-parto che si fa totalmente schiacciare da essa e dalla paura del giudizio altrui, tanto da voler tenere sua figlia nascosta, come se fosse il Gobbo di Notre Dame.

Dall’altra parte, Rebecca ha quella macchia, ma trova forza nel suo talento musicale, incoraggiata dalla zia Erminia. La musica diventa l’unico modus operandi per esprimere il peso che porta dentro e colmare il senso di vuoto. Man mano che cresce, si fa sempre più forte, mentre la sua evoluzione è in corso, nella madre sta avvenendo l’involuzione, fino a percepirla sempre più distante. Una “vita accanto” che scorre fino a quando un evento drammatico spinge la piccola a prendersi sulle spalle altre colpe.

La Vita Accanto
Fonte: Articolo21.org

Il finale che segna una rinascita

Il film scorre con una regia elegante, spesso in contrasto con un montaggio non sempre fluido, che crea passaggi bruschi tra le diverse fasi della vita della protagonista, talvolta sovrapponendo gli anni e generando qualche disorientamento temporale.

Tuttavia, è il corpo il vero fulcro della narrazione del regista, che si sofferma sull’identità imprescindibile e sull’apparenza sociale. Tutto è reso efficacemente in scena, a tratti statica, anche grazie alla presenza di bravissimi attori.

Tutto questo, sfiorando persino la dimensione della fantasia, conduce a un finale che, in un certo senso, segna la rinascita della protagonista. Quel dialogo con quel fantasma che è rimasto accanto a lei per tutta la vita, sia fisicamente che mentalmente, rappresenta il momento decisivo. La continua ricerca di consapevolezza segna la fine di quel passaggio difficile, e dalle ceneri rinasce una nuova Rebecca, più consapevole e pronta per la “normalizzazione”. Si può dire che la sua vita inizia in quel momento, non perché la macchia sia sparita, ma perché ha raggiunto l’equilibrio interiore e si è, finalmente, liberata di quei pesi. La macchia era il simbolo metaforico del peso di una madre che non è mai stata davvero accanto a lei, ma ora che ha scoperto la verità, Rebecca la guarda da un’altra prospettiva ed è finalmente pronta a vivere davvero, spiccando il volo.

 

Giorgio Maria Aloi

 

Non togliermi il tuo amore

Non togliermi il tuo amore,

le tue parole, il tuo sorriso.

Toglimi il vino e il vizio del fumo,

toglimi le scarpe, la maglia, il cuore

ma restami accanto nel dolore.

Portati via le cicatrici,

i tagli e l’aria delle mie narici,

ma non togliermi il tuo sapore,

perché è la fonte del mio vivere.

Prenditi le mie poesie

ma non togliermi il tuo amore,

perché come Amore amava Psiche,

così io amo te. 

Levami tutto e tutto prenditi,

ma non togliermi il tuo amore.

 

Gaetano Aspa

 

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

L.U.C.A.: un solo antenato per tutti i viventi

Ripercorrendo a ritroso la storia della vita su questo pianeta si nota che questa sembra convergere in un unico punto, rendendo noi organismi complessi fratelli di sangue, anzi di genoma. Tutto si origina da lui: L.U.C.A.

Cos’è e come nasce L.U.C.A.

L.U.C.A, acronimo di last universal common ancestor, è una teoria che riguarda l’antenato comune, da cui discenderebbero tutti gli organismi attualmente esistenti.
Non è detto, dunque, che si tratti del primo essere vivente, né che in principio esistesse solo questo organismo. Ciò che supponiamo è, invece, che tutti gli esseri che oggi popolano il nostro pianeta abbiano lui come antenato.
Ripercorrendo indietro le branche dell’albero della vita, infatti, è possibile notare come queste riportino a un’unica origine.
Per studiare la struttura di quest’organismo è necessario prima comprendere la genetica di tutti gli esseri viventi e capire quali sono gli elementi che hanno in comune. Ciò che sappiamo oggi è che tutti usano le medesime molecole di RNA, DNA e proteine. I mattoni del codice genetico sono universali, dai batteri agli uomini.

Primo modello: simili nell’RNA 

Il primo approccio di cui vi pariamo per trovare L.U.C.A. fu quindi quello di comparare i genomi di tutti gli esseri viventi per trovare i geni condivisi. Uno dei primi a seguire tale strada fu il biologo americano Carl Woese che nel 1977 scoprì gli archea. Si tratta di una delle suddivisioni della vita cellulare e, insieme a batteri ed eucarioti, rappresenta uno dei tre domini dell’albero della vita. Questi convergono in un unico punto, dove noi supponiamo si trovi L.U.C.A. Si tratterebbe di un proto-organismo molto semplice: piccolissime e primordiali molecole di materiale genetico racchiuse all’interno di una membrana che non erano nemmeno capaci di replicarsi efficacemente. Non possiamo, dunque, parlare di un organismo vero e proprio, ma intendiamo L.U.C.A. più come un processo che ha portato alle diramazioni della vita che oggi conosciamo. Durante questo procedimento piccoli pezzettini di RNA venivano mischiati caoticamente senza una vera e propria riproduzione o moltiplicazione di organismi.

Esempio di cellula base Fonte

Secondo modello: ricerca tramite geni

Un’altra via percorribile nella ricerca del nostro antenato comune è quella tramite geni, che tenta di dare una forma a questo organismo partendo dalla genetica che conosciamo oggi, in particolare cercando di capire cosa accomuna i geni di tutti i viventi.
Una ricerca tenutasi negli Stati Uniti nel 2003 ha portato alla conclusione che L.U.C.A. avrebbe posseduto tra 500 e 600 geni per garantire un minimo metabolismo e un genoma che possa essere considerato tale. Non era, però, capace di replicare il DNA.
Si tratta di un numero esiguo di geni che, secondo uno studio del 2006, non coinciderebbe con quello reale, più prossimo a 15000-16000 unità. Questo comporta che la prima unità vivente fosse già molto più complessa di quello che pensavamo. Possedeva un genoma basato sul DNA, ribosomi per tradurre il codice genetico e un metabolismo in grado di spezzare gli zuccheri per ricavarne energia.

Terzo modello: cerchiamo il più antico

Negli ultimi anni sta prendendo piede una nuova suddivisione dell’albero della vita che non sarebbe più costituito da tre rami, ma da due: batteri e archea. Trovare L.U.C.A., quindi, significa oggi ricercare l’antenato più antico, quel gene presente in entrambi. Si tratterebbe di un organismo che viveva in geyser sottomarini e metabolizzava idrogeno e diossido di carbonio in metano.

Geyser marini Fonte

Questa scoperta ha delle ripercussioni sulla nostra vita?

La ricerca sull’argomento, ad ogni modo, è ancora in corso. Vari sono gli approcci al problema e differenti le scoperte cui ognuno di questi porta. Man mano che andiamo avanti, tuttavia, riusciamo a identificare nuovi aspetti che accumunano gli organismi viventi presenti sul nostro pianeta e conosciamo qualcosa in più sui nostri possibili primi passi. Scopriamo di non essere solo simili ai grandi predatori o ai silenziosi roditori dei boschi, sappiamo oggi che anche il più piccolo batterio che si riproduce è in qualche modo nostro fratello.

Alessia Sturniolo e Matteo Mangano

Fonti

COVID e adolescenti: la pandemia oltre il virus

L’Italia non è un Paese per giovani, e la pandemia in corso ne da ulteriore conferma.
Scarsa considerazione è stata data a chi rappresenta il futuro, generando una pandemia silenziosa tra i giovanissimi. Affrontiamo insieme la questione! Continua a leggere “COVID e adolescenti: la pandemia oltre il virus”

Roberto Benigni, maestro della risata e della leggerezza

Roberto Benigni, è a lui che dobbiamo alcuni dei ricordi più divertenti ed emozionanti degli ultimi 50 anni del mondo dello spettacolo: Sophia Loren che lo annuncia come vincitore dell’Oscar nel 1999, i suoi racconti strampalati e le sue gag al “David Letterman Show” o al “The Graham Norton Show”, lo scambio di pantaloni con Baudo o l’assalto, con tanto di «Che bella chiappa!», a Raffaella Carrà.

Benigni agli Oscar del 1999 – Fonte: avvenire.it

Per non parlare poi della sua attività di divulgazione culturale tramite la lettura, il commento della Divina Commedia e dei dieci comandamenti (che gli sono valse svariate lauree honoris causa in lettere e filologia). Insomma, l’attore toscano è entrato nei nostri cuori grazie alla sua leggerezza, alla sua ironia e al suo spirito sempre giovane che ci fa ricordare quanto sia bello ridere di gusto.

Proprio oggi, al compimento dei suoi 68 anni, vogliamo omaggiarlo e soprattutto ringraziarlo per alcune delle sue migliori interpretazioni sul grande schermo.

1) Johnny Stecchino (1991)

Se un film in cui recita Benigni è un capolavoro garantito, come può non esserlo ancora di più un film con un “doppio” Benigni? In Johnny Stecchino lo troviamo ad interpretare sia Dante, uno scapestrato autista di scuolabus, sia – appunto – Johnny, boss pentito della mafia di Palermo. A tenere insieme questi due personaggi c’è Maria (Nicoletta Braschi), la moglie del pentito.

Lei, dopo aver incontrato per caso Dante, comincia a ordire un piano per far fuggire il marito da Palermo approfittando dell’incredibile somiglianza tra i due. Il susseguirsi di un equivoco dopo l’altro ci accompagneranno tra le (dis)avventure di Dante a Palermo, ignaro del perché abbia gli occhi di tutti puntati addosso quando cammina per le strade della città.

Benigni è magistrale nel caratterizzare alla perfezione entrambi i personaggi: Dante, così ingenuo e gentile e Johnny, così rude e crudele.

E poi, chi avrebbe immaginato che rubare una banana a Palermo fosse così pericoloso?

Benigni nei panni di Johnny – Fonte: roberto-benigni.com

2) Il mostro (1994)

Benigni interpreta, come spesso accade nei suoi film, un vinto dalla vita. Lo troviamo infatti nei panni di Loris, un quarantenne disoccupato che tira avanti rubacchiando qualcosa qua e là e facendo dei lavoretti saltuari. Nella zona in cui abita Loris sono ormai alcuni anni che un serial killer, definito “il mostro”, perpetra una serie di efferati omicidi che hanno come bersaglio giovani e belle donne.

Per un malinteso nato durante una festa, Loris verrà sospettato di essere il mostro. La polizia comincerà dunque a investigare su di lui e incaricherà la poliziotta Jessica (ancora Nicoletta Braschi) di avvicinarlo per studiare da vicino le sue mosse. Ne nascerà un’esilarante commedia in cui i doppi sensi e le sfortunate coincidenze la fanno da padrone, e noi vi consigliamo di seguirla fino alla fine per conoscere la sorte del povero Loris.

Loris in una scena del film – Fonte: taxidrivers.it

3) La vita è bella (1997)

Senza tanti giri di parole è il capolavoro di Benigni. L’attore veste i panni di Guido, un libraio di origine ebraica sposato con Dora (la solita Nicoletta Braschi). Dal loro amore nasce Giosuè e la loro famiglia vive felice nonostante il periodo delle persecuzioni fasciste. Questo fino al 1944, quando vengono deportati in un lager.

È a questo punto che l’ingegno del padre si mette in moto: per proteggere il figlio dall’orrore dei campi di concentramento fa credere al bambino che siano stati scelti per partecipare a un gioco a punti, in cui il premio finale è un carro armato vero. Vincitore di 3 premi Oscar (miglior attore protagonista, miglior film straniero e miglior colonna sonora), è stato da alcuni criticato per la leggerezza con cui tratta uno dei capitoli più bui della storia. In realtà sta proprio qui la sua forza, far ricordare che ci può essere del buono in ogni situazione e che la purezza di un bambino non dovrebbe mai essere infangata dagli sbagli dei grandi.

Guido e la sua famiglia. Fonte: rbcasting.com

La lista dei suoi capolavori è veramente lunga tra cinema (basti pensare alla collaborazione con Troisi di cui abbiamo parlato in questo articolo), teatro e televisione. Qualsiasi mezzo decida di usare, noi ci auguriamo che continui a entrare nelle nostre vite per portare un po’ di buon umore come solo lui sa fare. In fondo siamo del parere che ancora nessuno sia in grado di raccogliere la sua eredità. Nessun attore infatti, ad oggi, gli somiglia “pe’ niente”.

Davide Attardo

Il segreto per essere felici? La risposta è tra di noi

Chiederci cosa ci rende felici è forse un fatto tanto personale quanto collettivo. La ricerca della felicità muove le nostre vite, le nostre scelte, governa il nostro tempo. Desideriamo la felicità per tutta la vita forse, ma perché?

Forse, questo istinto, nasconde dei fini ultimi per la conservazione della specie, o forse perché, altrimenti, ci annoieremmo. Nessuno ha una risposta univoca che possa soddisfare se stesso, tanto meno gli altri.

Un recente sondaggio condotto sui giovani chiedeva loro quali fossero gli obiettivi di vita più importanti. Oltre l’80% ha affermato che uno di questi fosse diventare ricchi, il 50% che lo fosse anche diventare famoso. Percentuali alte, sì, ma che ti aspettavi? In una realtà in cui ricchezza e fama ci vengono presentati come stereotipo dell’uomo felice e di successo è normale che tutti vi aspirino (anche tu ci avrai pensato almeno una volta!).

Siamo figli della smania della produttività, già preimpostati sulla competizione, sul lavorare duro, sullo spingere di più e ottenere di più. Di più, di più, di più. Sarebbero queste le cose che infatti dovremmo inseguire per raggiungere il nostro obbiettivo: una vita felice ed in salute.

Ma se potessimo guardare intere vite mentre si svolgono nel tempo? E se potessimo studiare delle persone da quando sono adolescenti fino alla vecchiaia per vedere cosa le rende davvero felici e in salute?

Scena tratta dal film “The Truman Show”

In realtà è stato fatto. Uno studio condotto dall’Università di Harvard è lo studio più lungo che sia mai stato condotto. Per 75 anni è stata seguita la vita di 724 uomini, anno dopo anno, e ora sta per iniziare lo studio degli oltre 2.000 figli di questi uomini. Un po’ come fossimo dentro “The Truman Show”.

Lo studio prende vita nel 1938 con due gruppi: il primo composto da studenti di Harvard, il secondo da ragazzi dei quartieri più poveri di Boston.

Sono stati seguiti nel tempo dal punto di vista medico, sociale, lavorativo e psicologico. Sono diventati adulti, hanno iniziato a lavorare, a viaggiare, a metter su famiglia. Alcuni sono diventati operai, altri avvocati, muratori o dottori, uno di loro persino Presidente degli Stati Uniti. Altri si sono ammalati e sono morti, altri hanno sviluppato tossicodipendenze, altri ancora alcolismo. Altri ancora hanno asceso la scala sociale, dal fondo fino in cima, altri hanno fatto lo stesso percorso al contrario.

In tutto questo lo studio raccoglieva dati. Si analizzavano le cartelle cliniche, se ne studiano i parametri vitali, ematochimici, cerebrali. Ma soprattutto gli si chiedeva di loro, quali fossero le preoccupazioni del momento, quali quelle future, se fossero soddisfatti della propria vita, delle proprie scelte, se fossero felici.

Ma dopo tutto questo tempo abbiamo imparato qualcosa? Se si, cosa? Quali sono le lezioni che derivano da decine di migliaia di pagine di informazioni che sono state generate su queste vite? 

Tutti i giorni di una vita in un’immagine


Il messaggio più chiaro che riceviamo è questo
: “le buone relazioni ci rendono più felici e più sani”. Tutto qua? Non potevamo risparmiarci tutta questa fatica per una cosa tanto ovvia? No, perché non è ovvia come sembra.

Scendiamo nel dettaglio: sono tre le grandi lezioni che possiamo trarre.

  1. Le connessioni sociali sono sempre positive e che la solitudine uccide. Si è visto che le persone socialmente più collegate alla famiglia, agli amici, alla comunità, erano più felici e soddisfatte della propria vita. Inoltre erano clinicamente più sane e vivevano più a lungo, alcuni di loro sono ancora in vita. Di contro la solitudine, oltre che causa di infelicità per ovvi motivi, è un fattore di rischio per lo sviluppo di patologie croniche e che si manifestano precocemente rispetto ai primi.
  2. Tuttavia sappiamo anche che ci si può sentire soli in mezzo ai colleghi, ad un concerto con migliaia di persone, in un matrimonio. Quindi, non è tanto il numero di amici che hai, né il numero di serate in compagnia, né se sei impegnato o meno a fare la differenza, quanto la qualità delle relazioni che stringi a fare la differenza. Si è visto che vivere relazioni litigiose o insoddisfacenti si traduceva in un aumentato rischio per diverse patologie, che i matrimoni conflittuali e anaffettivi si rivelavano dannosi per la salute molto più che affrontare un divorzio. Di contro vivere relazioni sincere e profonde era un fattore protettivo. Andando a ritroso con i dati, si è visto che i partecipanti che durante la loro mezza età dichiaravano di essere soddisfatti delle proprio relazioni, amichevoli e amorose, vivevano in media 5 anni di più rispetto agli altri. La stessa differenza tra fumatori e non fumatori.
  3. Le relazioni non solo proteggono il nostro corpo, ma proteggono il nostro cervello. Si è visto che vivere una relazione consolidata con un’altra persona rallenta il fisiologico declino mentale durante la vecchiaia. Le persone che avevano instaurato relazioni in cui sentivano davvero di poter contare sull’altra persona conservavano ricordi più nitidi ed un pensiero astratto più elastico rispetto alle persone che non vi erano riuscite, che invece, a confronto, accusavano un peggioramente repentino delle capacità cognitive.

In tutti questi casi, ogni relazione ha avuto e continua ad avere alti e bassi, litigi ed incomprensioni ma, fintanto che ogni persona sa di poter contare ugualmente sull’altra (amico, collega, compagno/a), allora quella è una relazione che rende felici e che protegge la salute.

Il fatto che relazioni vere e sentite fossero anche salutari non è per niente una novità. Tutti possono quantomeno crederci con un minimo di logica. 

Ma allora perché è così difficile da capire e così facile da ignorare? Perché siamo umani, e quello che vorremmo davvero è una soluzione rapida, qualcosa che possa rendere le nostre vite felici e sane senza troppo sforzo. 

Le relazioni sono disordinate e complicate: non è facile mantenere un’amicizia quando si studia, quando si inizia a lavorare, non lo è essere presente in famiglia, non lo è tener vivo un amore quando la vita sembra risucchiarci. E’ un lavoro duro, che richiede tanto senza dare nulla, almeno nell’immediato. 

La verità è che, per quanto sia ovvio che la felicità e la salute di un uomo si basi anche sulle relazioni che esso costruisce, è difficile ammettere che la vita che desideriamo per noi stessi passi inevitabilmente attraverso gli altri.

E tu, sei felice? Qualsiasi sia la risposta, ricorda che la vita è troppo breve per passarla a cercare la felicità dentro di noi, perché la felicità è sempre stata tra di noi.

Antonio Nuccio

Per approfondire:

https://www.betterdaysandnights.com/Happyness%20Secret.pdf

https://europepmc.org/article/pmc/pmc3066527

Diario di una fuorisede superstar 7° parte

Il palazzo era vecchio, risaliva con ogni probabilità agli anni ’40. Aveva uno di quei tipici cortili interni, su cui si affacciano decine di balconi striminziti e malandati. Stendere i vestiti era quasi impossibile e il più delle volte questi cascavano a pian terreno, sporcandosi a tal punto che sarebbero stati più puliti se non lavati del tutto.

La sessione d’esami era iniziata, Penny stava in balcone a fumare, una pausa caffè per risvegliare i neuroni dopo 8 ore di studio. Stava preparando tre esami, o almeno ci provava. Il campanello, le sue coinquiline pigre, Nico alla porta.

-Fammi un caffè, sono distrutto-

-Ne è rimasto nella moca-

Nico tolse il chiodo nero e rimase con la felpa, era di un blu scuro con un logo arancione, gli faceva risaltare le spalle larghe.

-Come va lo studio?- chiese lui.

Lei aspirò l’ultima boccata di fumo e chiuse le ante con un gran botto.

-Così le rompi- disse lui ridacchiando.

-No, son vecchie. Devo fare così altrimenti non si chiudono del tutto. Comunque, sta andando male, malissimo…come la mia vita– lei lo disse con un sorriso amaro in bocca, non era ben chiaro se stesse scherzando o se ci fosse una parte di verità in quella risposta.

-Beh, stai con il tipo che ti piace da sempre, è già un buon motivo per essere felici-

-Noi non stiamo insieme, cioè ci vediamo… ma di rado. Il più delle volte lo cerco io-

-Ah- borbottò Nico.

Ci fu una manciata di secondi di silenzio. A lei parve doversi giustificare.

-Insomma, lui è interessante, oltre che stupendo, cioè esteticamente parlando ma.. è come se ci fosse solo lui. Non vede nient’altro e non gli interessa. A me piace stare con lui, ma quando torno a casa non ci penso. Lui per la sua strada, io per la mia-

-Ti squilla il telefono- Nico glielo porse non senza prima osservare da chi veniva la chiamata.

Gli occhi di Penny si illuminarono, era Oscar. Rispose con un tono allegro, vispo ed eccitato. Iniziò a camminare per tutta la cucina e poi lungo il corridoio. Era una bugiarda, probabilmente però non ne era ancora consapevole. Nico sapeva che lei impazziva per quel ragazzo, lo sapevano le sue coinquiline e ormai anche qualche suo collega, era soltanto lei ad esserne all’oscuro. Quantomeno per adesso.

 

Ilaria Piscioneri

Diario di una fuorisede superstar 6° parte

“Sentirsi grandi

Eravamo giovani, e stanchi di sentirci dire – dovete crescere -.
Eravamo belli, annoiati di dover prenderci la vita oppure lei avrebbe preso noi.
Fuori dai cassetti tutti i sogni, gettati poi nei cassonetti.
E via con le lauree, i lavori, i master, il matrimonio e la dipendenza da serie TV e da quel bar.
Avevamo paura di crescere ma eravamo più terrorizzati all’idea di rimanere piccoli per sempre.
I nostri sogni ci tormentavano, ci facevamo l’amore insieme agli appunti degli esami, le notti opache, svegli fino alle quattro con le cuffie alle orecchie e quel messaggio non visualizzato.
Visualizzavamo gli obiettivi a lungo termine e ignoravamo quelli a termine breve.
La colazione fuori, un caffè e una sigaretta.
Il tramonto oltre i tetti.
Un 30 senza lode.
Un amore ricambiato ma sciupato in poche sere.
Quell’amore disgraziato ma bandito dalle sue stesse crepe.
Poche cose ci rendevano felici ma molte insoddisfatti, non leggevamo più lettere scritte a mano, eravamo troppo distratti.”

-È bellissima, Oscar- Penny lo guardava, erano seduti sul divano della casa di lui; fuori pioveva.
Penelope gli restituì la poesia; Oscar l’aveva scritta in un foglio a quadri, strappato da un vecchio quaderno.
-Beh, tu di più- disse lui poco prima di baciarla.

Ilaria Piscioneri

Diario di una fuorisede superstar, 3° parte

Era trascorso un mese dal suo trasferimento in città.

Si era ormai abituata ai ritmi universitari, frenetici e disordinati.
Aveva compilato tutti i moduli necessari, il tesserino della mensa, ogni tipo di abbonamento fattibile, ai trasporti, ai musei, al cinema, sua grande e irrinunciabile passione.

Dopo quella prima settimana di feste, hangover e confusione totale, aveva rimesso a posto i pezzi della sua vita.
Aveva ordinato la stanza, che ora, dopo quattro settimane, riusciva a identificare come “sua”.

Eccetto le uscite serali nel weekend con le coinquiline, non faceva alcunché di esagerato.
Le sue giornate si ripetevano identiche, come un rullino che continua a girare anche dopo che il nastro è finito.
Sveglia alle sette, colazione rapidissima, autobus, tram, ultimo autobus e lezioni, martorianti, fino alle sei del pomeriggio.
L’ora a mensa era la sua unica distrazione, seppur passata ad osservare l’ambiente attorno a lei e il comportamento dei suo coetanei, dei quali si autoproclamava “studiosa incallita”

In fin dei conti, cominciava a sentire una certa malinconia, solitudine.
Le ragazze che abitavano con lei erano sì, simpatiche, ma non era ancora in grado di definirle “amiche”.
I colleghi del suo corso erano per lei, anonimi, dei veri e propri estranei.
Ricordava appena due o tre nomi, soprattutto dei ragazzi; quelli, in effetti, che facevano più casino nelle pause tra una lezione e l’altra.

Era un venerdì mattina, lei ripercorreva tutto il mese trascorso.
Non era tornata a casa neppure una volta fino a quel momento, ma si era decisa a comprare il biglietto per quel pomeriggio.
Voleva testare la sua resistenza, o più che altro la sua capacità di essere indipendente; 30 giorni, ne era soddisfatta. Sua madre invece completamente entusiasta. Stava già organizzando il pranzo domenicale, con tanto di doppio primo e parenti di secondo grado.

Penelope aspettava l’autobus, l’orologio segnava le 12.
Aveva deciso di non pranzare alla mensa, ma di partire direttamente.
< Hemingway è fantastico > una voce dietro di lei la ridestò e il libro, che aveva poggiato sulle gambe, capitolò sui gradini della fermata.
Il ragazzo prese posto, con decisione, accanto a lei.
< Nico, piacere> disse lui con un tono indecifrabile, beffardo, quasi si stesse prendendo gioco di lei.
< Penelope > sussurrò lei, velocemente.

Lui recuperò il romanzo e lo sfogliò come fosse suo.
< Anche a me piace sottolineare le frasi più belle, brava> disse. Glielo restituì e si accese una sigaretta.
< Già, lo faccio da quando ero piccola> iniziò Penny < Ma, senti, frequentiamo lo stesso corso per caso? >. Lei non si spiegava tutta la sicurezza del ragazzo e, dato il suo essere smemorata, aveva supposto che potevano esser colleghi.

<No. Andavamo al Liceo insieme, non ricordi? Io frequentavo la B. Ti ho chiesto anche di uscire una volta> mormorò lui sorridendo, mostrando una dentatura perfetta.

Penelope lo guardò meglio, per qualche secondo.
L’autobus era arrivato.
< Sì, certo. Ora ricordo. Nicolò, eri rappresentante d’istituto! >.
Le prese la borsa e la sistemò, insieme alla propria, nell’autobus.
Tornarono a casa chiacchierando per tutto il tempo.

                                            Ilaria Piscioneri

Il Cavallo Rosso, l’opera epica di Eugenio Corti

Più grandi scrittori del ‘900. Voto Uvm: 5/5

 

 

 

 

 

Eugenio Corti nasce a Besana in Brianza nel 1921. Sin da giovane avverte il fascino della letteratura e coltiva la scrittura curando un diario personale, che solo di recente, a qualche anno dalla morte (4 Febbraio 2014) è stato dato alla stampa. In queste sue riflessioni giovanili si legge tutto l’impeto ed il desiderio di dedicare il proprio talento verso qualcosa di grande. Quella della scrittura cominciava ad intuirla come una chiamata, come il motivo del suo stare al mondo. E’ veramente impressionante come accanto all’entusiasmo tipico del giovane si affacci, già allora, la ferma consapevolezza di dover prima ben formarsi per poter maturare la propria opera. 

Le vicende umane del secolo scorso lo portarono a combattere nella seconda guerra mondiale, e quest’esperienza risulterà fondamentale per il suo essere scrittore, tant’è vero che la guerra divenne, una volta tornato, il suo motivo d’ispirazione. Questo avvalora ulteriormente il suo contributo letterario all’umanità: non si tratta di una scrittura reazionaria e/o ideologica- come del resto gli é stato tristemente “rimproverato” da chi mal (o per nulla) ha conosciuto l’uomo Eugenio Corti attraverso quanto ha scritto; é stato piuttosto il senso di responsabilità scaturito dalla consapevolezza di trovarsi coinvolto in una vicenda umana immane che l’ha portato a raccontarla, affinché la memoria dei fatti non si perdesse e le generazioni future potessero evitare di ripercorrere le stesse strade che segnarono in modo drammatico il secolo breve dominato dai totalitarismi, di fatto, «marxismo e nazismo (…) erano dello stesso sangue».

Il Cavallo Rosso, rappresenta l’opera maggiore ed anche la più conosciuta di Eugenio Corti. In poco più di 1000 pagine l’autore narra le vicende di diversi uomini e donne ben radicati nel comune humus della società contadina e cattolica del tempo che, improvvisamente, si trovano proiettati nei tragici eventi del Novecento. L’opera è divisa in tre parti di cui, nella prima, dalla descrizione iniziale della vita civile a Nomana– nome immaginario di un paese in Brianza (probabilmente la stessa  Besana) si passa alle vicende belliche ed in particolare, trova ampio spazio la narrazione della campagna in Russia. Qui il romanzo si fa fortemente autobiografico perché per la narrazione lo scrittore ha ampiamente attinto alla sua esperienza diretta della guerra, essendo stato uno tra i pochissimi italiani che sono riusciti a sopravvivere alla terribile ritirata di Russia dal Dicembre 1942 al Gennaio 1943. In queste pagine si legge la sofferenza di un popolo, quello russo, completamente ridotto alla miseria dall’utopia comunista, storie di intere famiglie straziate dalla fame dopo la collettivizzazione delle terre, il dolore di chi si è visto sparire di punto in bianco qualcuno di caro perché ingiustificatamente etichettato come “nemico politico”, gli agghiaccianti atti di cannibalismo descritti nel Gulag sovietico di Crinovia, come molti altri tragici eventi compiuti anche da parte delle truppe naziste spesso colpevolmente sottaciuti dalle nostre parti.

 

 

Allo stesso modo la narrazione documenta l’incredibile inadeguatezza di mezzi e l’imbarazzante ristrettezza di risorse con cui il fascismo spinse l’Italia in guerra. Per contro, Corti non manca di raccontare il valore degli uomini chiamati a combattere e, specie, gli atti di vero eroismo compiuti dal Corpo degli Alpini. 

Nelle altre parti del libro, mentre alcuni protagonisti fronteggiano la guerra, altri personaggi, soprattutto femminili, vivono in Italia le vicende di quegli anni. Viene descritto lo scontro politico tra la Democrazia Cristiana, luogo naturale di collocamento ideale e politico di alcuni dei protagonisti, ed il partito comunista. Com’é noto lo scontro si conclude il 18 Aprile 1948 con la vittoria della DC. Vittoria successivamente inficiata dal declino dei cattolici nella vita politica italiana, decadenza che paradossalmente si verifica mentre la DC si mantiene come partito politico dominante. Sappiamo anche che all’occupazione della cariche di potere é corrisposta un’azione politica incoerente con quei princípi che nel ’48, si pensava, venissero rappresentati. Quindi si arriva alla terza parte in cui il romanzo prosegue seguendo i protagonisti ed i loro discendenti fino alle soglie della data del referendum sul divorzio negli anni settanta.

L’autore rende la lettura della sua opera estremamente attiva in quanto accanto allo snodarsi della trama si ripropongono costantemente riflessioni sul senso della storia, del vivere e del morire, sulla fede e la presenza di Dio nelle vicende umane. Riflessioni che, certamente, investono l’occhio che legge ed in generale ciascuno, configurandosi come le domande fondamentali dell’uomo. Anche per questo “Il cavallo Rosso” è stato considerato alla stessa stregua del racconto epico. L’epica, infatti, è un’opera esemplare che narra le gesta -storiche o leggendarie- di un eroe o di un popolo, attraverso le quali si conserva la memoria e l’identità di una civiltà. Questo romanzo realizza l’epica delle persone comuni trascinate in vicende molto più grandi di loro.                               

Buona lettura!

 

 

Ivana Bringheli