Dagli studenti per gli studenti: quali sono i meccanismi di trasmissione nei batteri?

I batteri sono microrganismi unicellulari, aploidi, in grado di riprodursi autonomamente nell’ambiente e anche in vari tessuti del corpo umano; vengono utilizzati per questo nei laboratori.

Indice dei contenuti

  1. Cosa sono i batteri?
  2. Meccanismi di trasmissione?
  3. La riproduzione dei batteriofagi
  4. Come si replicano i batteriofagi nei batteri?
  5. I fagi si replicano: tramite un ciclo litico e un ciclo lisogenico

Cosa sono i batteri?

Sono organismi aploidi, unicellulari e si riproducono asessualmente. Vengono utilizzati in laboratorio tramite delle soluzioni solide o liquide, definite terreni di coltura contenenti sostanze nutritive su cui è possibile crescere cellule eucariote e procariote.
I terreni di coltura liquidi sono composti da un recipiente contenente una quantità di soluzione acquosa, in cui sono disciolti i nutrienti e altre sostanze necessarie. Nel liquido viene inoculato lo starter e, se tutto il procedimento viene fatto in maniera corretta, si osserverà lo sviluppo della coltura. I terreni di coltura solidi invece, sono substrati duri, costituiti da una base di acqua a cui sono aggiunti nutrienti e altri composti per la solidificazione.

Batterio nelle sue sezioni. Fonte

Meccanismi di trasmissione

I batteri vengono infettati da un fago virulento, cioè che contiene nel suo organismo un virus. Il virus è un complesso parassita intracellulare obbligato, capace di vivere e riprodursi solo all’interno di cellule viventi. Contengono solo parte dell’informazione genetica necessaria per la loro moltiplicazione. Il loro acido nucleico, DNA o RNA virale, codifica solo le proteine strutturali e alcuni enzimi necessari per la replicazione del materiale genetico.
I batteri vengono infettati da virus specializzati definiti batteriofagi, questi presentano una testa proteica, definita capside, che custodisce e protegge il materiale genetico; una coda di lunghezza variabile, costituita da un tubo cavo in cui passa il materiale genetico e da delle fibre terminali associate alla coda, che circondano delle zampe e che servono per riconoscere e ancorarsi alla superficie batterica. La coda e le fibre formano un iniettosoma, cioè l’apparato che dapprima trivella la superficie batterica, per poi iniettare all’interno del batterio il materiale genetico come una siringa.

Virus batteriofago nelle sue parti. Fonte

La riproduzione dei batteriofagi

Come si replicano i batteriofagi all’interno dei batteri? Possono infettare solo un tipo o una famiglia di batteri, questo perché i batteriofagi riconoscono solamente le strutture uniche del suo target batterico tramite, di solito, la punta della coda. Quando questa interazione è produttiva e corretta si innescano una serie di eventi che culminano nell’iniezione del genoma fagico all’interno del batterio predato.

I fagi si replicano tramite: un ciclo litico e un ciclo lisogenico

Quando parliamo di ciclo litico intendiamo che la riproduzione del fago avviene immediatamente; il virus va a legarsi ad un batterio e va ad iniettare il proprio acido nucleico, prendendo il controllo dell’attività metabolica della cellula ospite; successivamente le cellule ospiti del virus vanno incontro a lisi liberando i fagi di nuova generazione.
Invece, per quanto riguarda il ciclo lisogenico, posticipa la riproduzione inserendo il proprio codice genetico nel genoma della cellula ospite, così che il batterio infettato non vada incontro a lisi e ospiti nel proprio genoma l’acido nucleico virale.
Nel caso in cui non siano, più presenti, le condizioni ottimali per la riproduzione virale, il virus svolgerà il ciclo litico.

Raffigurazione del ciclo litico e lisogenico. Fonte

 

Sofia Musca

Bibliografia
https://www.issalute.it/index.php/la-salute-dalla-a-alla-z-menu/v/virus-e-batteri#:~:text=I%20batteri%20sono%20dei%20microrganismi,vari%20tessuti%20del%20corpo%20umano.

https://www.my-personaltrainer.it/salute/batteri-genetica.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Terreno_di_coltura

https://www.chimica-online.it/biologia/terreni-di-coltura.htm

https://www.my-personaltrainer.it/salute/virus.html#167791

Batteriofagi: introduzione ai virus che infettano i batteri

Virus zombie: scongelato un virus vecchio 48500 anni

Un gruppo di scienziati francesi dell’Università Aix-Marseille, coordinato da Jean-Marie Alempic, ha di recente scongelato da uno strato di permafrost, a 16 metri sotto il fondale di un lago della Yakutia, parte della Siberia orientale, il virus più antico mai “resuscitato”, insieme ad altri 12 virus prelevati da 7 campioni di permafrost siberiano. Si tratta di un virus della famiglia dei Pandoravirus, con precisione è denominato Pandoravirus yedoma.

Indice dei contenuti

 

Pandoravirus: particolarità

Pandoravirus è un genere di virus giganti scoperti da Jean-Michel Claverie e Chantal Abergelnel 2013. Si tratta di virus che possono raggiungere dimensioni di 1 micron (equivale a un millesimo di millimetro, solitamente i batteri hanno dimensioni tra 1 e 10 micron) e con un genoma che conta tra 1,9 e 2,5 megabasi di DNA, il doppio di quelle rilevate in virus giganti già analizzati e conosciuti come i Megavirus.
Si stima che i Pandoravirus siano circa mille volte più grandi del comune virus dell’influenza appartenente ala famiglia Orthomyxoviridae. Esattamente come i Megavirus e i Mimivirus, anche i Pandoravirus infettano solo le amebe (protozoi che vivono nel terreno o nell’acqua), dato rassicurante per noi in quanto non rappresenterà un rischio per animali e/o piante.
Il nome “Pandoravirus” fa riferimento al vaso di Pandora e deriva dalla loro caratteristica forma a vaso. A causa delle enormi dimensioni, furono inizialmente scambiati per batteri. Solo successivamente ad attente analisi si e capito che si trattava di virus.

Fonte

Risveglio del virus

Dopo aver scongelato in laboratorio il virus antico di 48500 anni dal permafrost, un terreno perennemente ghiacciato in profondità, gli scienziati hanno dimostrato che, una volta riportato “in vita”, ha nuovamente la possibilità di fare quello che ai virus riesce meglio: infettare.
Secondo lo studio pubblicato su bioRxive, sarebbe ancora in grado di infettare le amebe. Non ci sono, tuttavia, ancora risposte sulla durata della sua azione infettiva una volta esposto ad agenti esterni (raggi UV, temperature alte, ossigeno). In questo specifico studio, gli scienziati hanno deliberatamente scelto di scongelare virus che infettano solo le amebe e non altre specie, per evitare ogni tipo di rischio. Il gruppo di scienziati è riuscito a caratterizzare un totale di 13 nuovi virus, finora rimasti congelati, appartenenti a vari generi (tra cui Cedratvirus e Pithovirus). Questo sarebbe indice del fatto che esistono sicuramente molti altri virus di cui non siamo ancora a conoscenza.

Fonte

Il ruolo del riscaldamento globale

Lo scioglimento dei ghiacciai è solo una delle tante preoccupanti conseguenze della crisi climatica. A sua volta, essa  ha indubbiamente conseguenze microbiologiche sul nostro pianeta, verificandosi rilascio di: batteri, virus, protozoi, funghi, materiali contaminanti e potenzialmente causa di ulteriore rilascio di CO2. Come dimostrato da questo studio, il rilascio di una grande varietà di virus vecchi di migliaia di anni è tutt’altro che un’utopia.
Fortunatamente ad oggi possiamo contare su moderni antibiotici, vaccini e avanzate strategie terapeutiche per fronteggiare eventuali epidemie se causate da virus già di nostra conoscenza o “parenti” di comuni patogeni contemporanei.
Per quanto riguarda il risveglio di eventuali virus sconosciuti o nuovi virus appartenenti a famiglie già note, come sappiamo dopo l’emergenza Covid-19, spesso si richiede lo sviluppo di nuovi farmaci e vaccini mirati.

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Conclusioni

Alla luce di quanto detto è lecito interrogarsi sul rischio dell‘eventuale risveglio di virus antichi di migliaia di anni e a noi sconosciuti.  Nonostante ciò, ad oggi, gli studiosi non lanciano preventivamente allarmi su ipotetiche pandemie scatenate da virus ancora dormienti.
Rimane comunque d’obbligo ribadire quanto il riscaldamento globale sia un grande rischio e come le sue conseguenze siano tra le più varie e degne di nota, come l’aumento delle temperature, della siccità, l’ innalzamento degli oceani e l’estinzione di varie specie animali e non solo.

Francesca Aramnejad

 

Bibliografia

Un vaiolo dalle scimmie: “Monkeypox virus”. Preoccupazione in Europa, ma gli esperti rassicurano

Il Monkeypox virus visto al microscopio (fonte: roma.corriere.it)

L’Italia e l’Europa di nuovo preoccupate per un virus: si tratta di un vaiolo proveniente dalle scimmie, “Monkeypox virus”. Si invita a mantenere alta l’attenzione, ma la malattia virale non provocherebbe complicazioni gravi.

Diffuso soprattutto in Africa, in particolare in Ghana e Nigeria, tra scimmie e roditori, il Monkeypox virus non è paragonabile al vaiolo umano, diffusosi negli anni ’80 e molto più grave di questa malattia di origine animale.

Ancora non molto si sa dell’agente patogeno di questo virus. Le indagini sono già iniziate e l’attenzione a livello internazionale sia altissima, ma si tratta di prudenza, poiché non vi è una reale preoccupazione per i sintomi. Sappiamo che una rassicurazione come questa non sia realmente d’aiuto, poiché lo spettro del Covid-19 alleggia ancora sulle nostre teste.

Diagnosticato sporadicamente in Europa, negli ultimi anni, e in altre zone delle Americhe, il vaiolo delle scimmie è stato di solito contratto da viaggiatori provenienti da zone endemiche, aree in cui esso è normalmente diffuso.

La malattia, quindi, non è sconosciuta e non ha mai causato allarmi. Perciò le autorità sanitarie di tutto il mondo invitano a rimanere attenti, ma calmi.

L’Istituto superiore di sanità, l’Iss, ha costituito una task force di esperti per monitorare tramite il supporto di vari centri nazionali che si occupano di malattie infettive.

 

I sintomi

L’ Iss ha fatto alcune raccomandazioni sui comportamenti da tenere in caso di sintomi sospetti e di contatto con persone sintomi simili a quelli riscontrati finora: febbre, dolori muscolari, cefalea, linfonodi gonfi, stanchezza e manifestazioni cutanee, quali vescicole, pustole e piccole croste. La manifestazione dei sintomi avviene dopo circa 12 giorni dall’esposizione al contagio, che avviene tramite le vie aeree, attraverso le goccioline del respiro (“droplets”).

Attualmente non è sicura la trasmissione tramite rapporti intimi, dunque, attraverso tutti i liquidi corporei. Inoltre, al momento non viene considerato contagioso chi non presenta sintomi, ma in tutti i casi è raccomandata la massima precauzione, visto che il virus non si è registrato in moltissimi casi.

Si raccomanda, in tal caso, di restare a casa, a riposo, e di rivolgersi al medico di fiducia, per evitare di diffondere il virus. Inoltre, dalla malattia si guarisce, secondo quanto si sa, senza terapie scientifiche, questa scompare spontaneamente, nel corso di 1 o 2 settimane.

 

Il primo caso italiano allo Spallanzani di Roma

Finora, una ventina i casi accertati in Europa, di cui i primi nel Regno Unito, Spagna e Portogallo. In Italia, il primo identificato all’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma. Si tratta di un giovane di ritorno dalle Isole Canarie, che si era presentato inizialmente al pronto soccorso dell’ospedale Umberto I. Altri due i casi sospetti attenzionati nel frattempo.

I medici dello Spallanzani hanno dichiarato:

«Il quadro clinico è risultato caratteristico e il Monkeypox virus è stato rapidamente identificato con tecniche molecolari e di sequenziamento genico dai campioni delle lesioni cutanee. La persona è in isolamento in discrete condizioni generali, sono in corso le indagini epidemiologiche e il tracciamento dei contatti».

Informato tempestivamente il ministro della Salute, Roberto Speranza, dall’assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato, il quale ha dichiarato esser stata già avviata un’indagine epidemiologica dai “cacciatori di virus”.

Speranza ha, a sua volta, riferito che verranno coinvolti nell’azione di monitoraggio l’Autorità europea per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie, l’Hera, e il Centro europeo per la prevenzione delle malattie, l’Ecdc, da cui è stato consigliato di non procedere con vaccinazioni contro il vaiolo, se non in strettissimi casi ad alto rischio, poiché sufficiente un semplice trattamento antivirale.

 

Le dichiarazioni degli esperti invitano alla prudenza, ma allo stesso tempo rassicurano

Anna Teresa Palamara, capo del dipartimento di Malattie infettive dell’Iss ha confermato che nel nostro Paese non ci sia un allarme, ma ha invitato alla prudenza con i rapporti intimi, poiché ancora non è chiaro se possano veicolare il contagio.

Il noto infettivologo Matteo Bassetti, direttore Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, ha dichiarato che chi ha effettuato il vaccino contro il vaiolo è protetto anche dal vaiolo delle scimmie, che condivide la stessa famiglia, pur essendo diverso.

Però, la profilassi è vietata, in Italia, dal 1974 e, dunque, la maggior parte della popolazione è scoperta. Perciò, l’infettivologo ha stimato che nei prossimi giorni si possa arrivare a un migliaio di casi.

«Dobbiamo cercare di mettere in sicurezza il vaiolo delle scimmie. È molto più leggero di quello degli uomini per quanto riguarda i sintomi e si trasmette anche attraverso il respiro, ma solo se si sta molto vicini» ha detto ai microfoni di Rai Radio1.

In ogni caso, le autorità sanitarie non consigliano di effettuare vaccinazioni, se non in strettissimi casi ad alto rischio.

La situazione viene controllata comunque con attenzione per evitare un aumento dei contagi, ma il virus non arrecherebbe un’elevatissima infettività intra-umana, da quel che si conosce. «Ovviamente è qualcosa che ci preoccupa. Al momento, però, è necessario solo procedere correttamente con segnalazioni tempestive e un’attenzione specifica nei laboratori», ha detto Fabrizio Pregliasco, docente dell’università Statale di Milano e direttore sanitario dell’Irccs Galeazzi.

Il microbiologo dell’Università di Padova, Andrea Crisanti, ha evidenziato la necessità di diagnosticare velocemente gli eventuali casi vaiolo, per poter utilizzare una terapia e tenerlo sotto controllo sin da subito. Però, il fatto che il virus non sia mai stato diffuso nel nostro Paese o in Europa, potrebbe causare ritardi nella diagnosi.

Nonostante ciò, Crisanti ha ricordato che non si tratta di una malattia nuova:

«Chi la presenta così racconta una bufala clamorosa: è endemica in Congo, abbiamo avuto un cluster nel 2003 negli Stati Uniti e in Sudamerica ci sono stati diversi casi negli anni scorsi. L’unica cosa anomala al momento è l’elevato numero di casi Inghilterra e in Spagna».

La pandemia da Covid-19 ci ha cambiato e le prime indiscrezioni sul Monkeypox ci ha subito allarmato, ma le parole degli esperti e l’organizzazione tempestiva di enti ed istituti sanitari suggerisce che saremmo in grado di evitare un disastro come quello iniziato da Wuhan, facendo ricorso all’arma da sempre più efficace: la prevenzione.

 

 

Rita Bonaccurso

Dallas Buyers Club: quando l’amicizia vince sui pregiudizi

Un film che spiega il dramma dell’Aids tra autenticità e amicizia– Voto UVM: 5/5

 

Gli anni ’80 li conosciamo grazie a film come Flashdance, Stand By Me, Karate Kid e tanti altri che ci hanno fatto sognare e desiderare di vivere in quell’epoca fatta di capigliature voluminose, palette fluo, e sale giochi che si riempivano di bambini e ragazzi dopo il suono della campanella.

I mitici anni ’80, però, avevano un’altra faccia: quella dei pregiudizi e delle “malelingue”. Per il mondo si diffondeva per la prima volta la malattia dell’Aids, e con essa false credenze alimentate dall’ignoranza, tra chi pensava che fosse un virus che potevano contrarre solo gli  omosessuali e chi aveva paura di stringere anche solo la mano di un sieropositivo.

Dallas Buyers Club è un film uscito nel 2013 diretto da Jean-Marc Vallée, che vede come attori protagonisti i due premi Oscar Matthew McConaughey  e Jared Leto, che, grazie alle loro interpretazioni in questa pellicola, si sono portati a casa rispettivamente l’ambita statuetta di “miglior attore protagonista” e  quella di “miglior attore non protagonista”.

Qui i due attori racconteranno la vera storia del cowboy Ron Woodroof, malato di AIDS, costretto a curarsi da solo per via dei costi esorbitanti dei farmaci.

Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

L’amicizia che sfida i pregiudizi

Tra il 1985 e il 1986, nel sud del Texas si svolge la vicenda di un cowboy di nome Ron Woodroof (Matthew McConaughey), che conduce una vita allo sbaraglio tra droga, alcool e sesso non protetto. Infatti per via della sua incoscienza, (o della mancanza di conoscenza), contrae il virus dell’HIV e successivamente si ammala d’AIDS. Durante quegli anni, i malati di AIDS erano considerati dei veri e propri appestati, anche per la scarsità di informazioni che giravano attorno a questo nuovo virus. La sanità negli Stati Uniti – come sappiamo – è accessibile solo per coloro che hanno una buona assicurazione, perciò il cowboy deciderà di contrabbandare farmaci non approvati in Texas, per curarsi da solo, ma anche per aiutare le persone con la sua stessa malattia. Dopo poco tempo aprirà  il “Dallas Buyers Club” , sfidando l’opposizione della Food and Drug Administration.

“Avvocato, voglio un’ordinanza restrittiva contro il Governo e la FDA.”

Ron, all’inizio pensa che la diagnosi sia sbagliata: essendo omofobo, crede che l’AIDS sia una malattia che contagi solo i gay. Col passare del tempo, però, i suoi sintomi peggiorano: Ron finalmente accetterà  la sua malattia, ma perderà il proprio lavoro e tutti i suoi amici, giacché quest’ultimi pensano che sia gay.

Durante una delle proprie visite in ospedale, Ron conoscerà Rayon (Jared Leto), una transgender tossicodipendente e sieropositiva.

A sinistra Rayon ( Jared Leto) a destra Ron ( Matthew McConaughey) in una scena del film. Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

Rayon è un uomo, che ha sempre desiderato nascere in un corpo femminile, ma a causa della sua vita difficile non ha mai potuto cambiare il proprio sesso e così si sente imprigionato dentro un corpo che non riconosce.

Rayon: Signore, quando ci incontreremo voglio essere molto bella. Fosse l’ultima cosa che faccio. Sarò un bellissimo angelo.”

Nonostante all’inizio tra i due non corra buon sangue, per via dell’omofobia che condiziona il protagonista, da lì in poi nascerà un’amicizia senza confini, pura e vera. Col tempo Ron vedrà in Rayon l’unica vera amica che abbia mai avuto, la sola che gli è rimasta vicina mentre tutti gli avevano voltato le spalle. Assieme affronteranno l’atroce sofferenza dell’Aids, abbattendo i pregiudizi e aiutando le persone malate e abbandonate dal proprio Paese.

La forza dei legami umani

Matthew McConaughey e Jared Leto al momento sono tra gli attori più bravi in circolazione e, grazie al loro talento, riescono a dare dignità ai propri  personaggi, rendendoli unici, storici. Come hanno fatto con Ron e Rayon, due soggetti non facili da interpretare. Come fanno due attori a colpire così profondamente nell’anima rendendo il telespettatore partecipe del dolore dei due protagonisti?

Ci mostrano le sofferenze e la crudeltà dietro cui si nasconde l’ignoranza con un realismo che parla di dolori e di gioie, che trasmette il messaggio che, per quanto possa essere difficile una situazione, se hai qualcuno accanto a te sembrerà meno dolorosa. Questa è la meravigliosa forza intrinseca degli sforzi  umani, che si riaccende quando meno te l’aspetti, restituendo valore a ciò in cui non credevi più.

L’abbraccio fraterno tra Rayon e Ron. Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

Alessia Orsa

Terapia nei pazienti affetti da HIV: un trattamento inusuale

Da due anni a questa parte l’emergenza Covid ha costretto a mettere in secondo piano ogni altra patologia infettiva e di altra natura, ha obbligato a stravolgere le priorità, procrastinando i routinari controlli ambulatoriali. Di fronte alla pandemia, una grave malattia infettiva sembra scomparsa ed invece continua ad insinuarsi, più di quanto immaginiamo.

  1. Dati epidemiologici
  2. Caratteri del virus
  3. Il materiale genetico
  4. Terapia
  5. Qual è il vantaggio della terapia?
  6. E’ possibile la guarigione definitiva?
  7. Le eccezioni della letteratura scientifica
  8. Conclusioni

 

Dati epidemiologici

Stiamo parlando dell’AIDS. Ad oggi le statistiche mondiali stimano 37,7 milioni di persone che convivono con l’infezione, di cui 36 milioni sono adulti e 1,7 milioni sono bambini con meno di 15 anni. A questi si aggiungono in media 1,5 milioni di nuove diagnosi annue. Ogni settimana vengono diagnosticate 5000 nuove infezioni da HIV in giovani donne tra 15-24 anni. Tuttavia il numero di nuovi casi è in progressivo calo grazie all’efficacia delle terapie antiretrovirali che da qualche anno a questa parte hanno reso la malattia curabile sebbene non guaribile. Su 36 milioni di infetti, 27.5 hanno accesso alle terapie, tra questi l’85% delle donne in gravidanza. Nel 2020 sono stati registrati 680.000 decessi, a fronte dei milioni di persone affette. Ricordiamo che l’infezione non è tipica delle aree dell’Africa Sub-Sahariana, è un problema mondiale. Le terapie antiretrovirali negli altri paesi hanno reso l’infezione meno galoppante.

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Caratteri del virus

Si tratta di un virus ad RNA, appartenente alla famiglia dei Retroviridae, specie Lentivirus. Presenta esternamente un envelope in cui possiamo riconoscere due glicoproteine di notevole rilevanza in quanto oggetto di studio negli anni per rallentare e bloccare il contagio di altre cellule. Le due glicoproteine sono la gp120 e la gp41. Gp120 funge da recettore per legare le cellule bersaglio. gp41 agisce in seguito al legame recettore-bersaglio favorendo la fusione delle membrane e permettendo al virus di penetrare nella cellula. La gp41 viene pertanto definita proteina di fusione.

Il materiale genetico

Il materiale genetico del virus è contenuto nella porzione centrale della particella virale, il cosiddetto core. All’interno troviamo l’RNA virale insieme agli enzimi fondamentali alla replicazione del virus. Tali enzimi sono trascrittasi inversa, proteasi e integrasi, bersagli della terapia antiretrovirale. Le principali cellule bersaglio del virus sono i linfociti CD4, più è alta la carica virale, più ne vengono distrutti. In passato spesso si arrivava spesso ad una condizione di immunodeficienza acquisita per valori di CD4 <200/mcL (v.n. 500-1200/mcL). Tale condizione era gravata da un elevato rischio di infezioni opportunistiche, come Citomegalovirus, polmoniti da Pneumocystis Jirovecii, oltre che di neoplasie, sarcoma di Kaposi e linfomi non-Hodking. Le infezioni cui erano soggetti questi pazienti, in quanto immunocompromessi, erano infezioni fortemente resistenti ai trattamenti, da qui l’elevato numero di decessi. Parliamo al passato in quanto abbiamo avuto la fortuna negli ultimi anni di poter affermare che l’HIV è un’infezione curabile.

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Terapia

Non abbiamo farmaci in grado di distruggere il virus, motivo per cui l’infezione non è curabile, ma sono disponibili oltre 20 farmaci in grado di ostacolarne la replicazione.

A seconda del meccanismo d’azione distinguiamo diverse classi di inibitori:

  • Nucleotidici e non nucleotidici della trascrittasi inversa;
  • Della proteasi;
  • Di fusione;
  • Dell’integrasi;
  • Del co-recettore CCR5.

La terapia è antiretrovirale di combinazione (cART) di più farmaci delle diverse classi. Si tratta di più compresse o spesso di una singola compressa racchiudente in sé i diversi principi attivi. La pillola deve essere assunta quotidianamente. Quanto più precocemente si inizia il trattamento, migliore sarà l’outcome. Si osserverà una riduzione della replicazione virale, recupero immunologico con ripresa del sistema immunitario, minor rischio di complicanze e basso tasso di trasmissibilità al partner. Le attuali linee guida raccomandano l’inizio del trattamento a tutti i soggetti con HIV indipendentemente dal quadro immunodeficienza-virologico.

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Qual’è il vantaggio della terapia?

La terapia antiretrovirale combinata consente di ridurre la carica virale, e se effettuata correttamente, possiamo arrivare ad un azzeramento della stessa, con zero rischi di trasmissione del virus. È considerata efficace se entro 3-6 mesi dall’inizio del trattamento la viremia si assesta stabilmente sotto le 50 copie/ml. Al di sotto di questa soglia si parla di viremia non rilevabile. Questo ha rappresentato la svolta nella storia naturale della patologia. La terapia garantisce pertanto protezione del partner, ha reso possibile il parto vaginale e l’allattamento. Perché la terapia sia efficace è pertanto fondamentale che venga assunta nei tempi e nelle dosi previste. Il salto della dose o la ritardata assunzione per un certo lasso di tempo consentirà al virus di riprendere a replicarsi e di infettare altre cellule. Per di più replicandosi aumenta la possibilità di selezione di copie resistenti ai farmaci con rischio di fallimento terapeutico.

E’ possibile la guarigione definitiva?

Poco meno di un mese fa giunge la notizia di una donna statunitense guarita da HIV. Evento più che raro, in quanto la letteratura scientifica documenta solo 3 casi di completa guarigione. Li hanno definiti “incidenti di percorso”. In tutti e tre i casi si trattava di soggetti affetti da patologie ematologiche sottoposte a trapianto di midollo da donatore compatibile. Il trapianto, come effetto collaterale, ha portato all’eliminazione del virus. Il segreto del successo sta in un’unica differenza tra donatore e ricevente, una mutazione di CCR5, recettore utilizzato dal virus per infettare le cellule. Il recettore CCR5 del donatore, essendo diverso da quello del ricevente, non viene riconosciuto dal virus opponendo resistenza all’infezione.

Le eccezioni della letteratura scientifica

Il primo caso risale al decennio scorso, il paziente di Berlino, è stato trattato con trapianto di midollo per una leucemia; ha vissuto 12 anni senza assumere antiretrovirali. Il secondo caso è stato un uomo affetto da linfoma non-Hodking che, a seguito di ripetuti cicli di chemio, ha necessitato di un trapianto di midollo. In entrambi i casi il trapianto ha portato al graft versus host disease, nonché una reazione autoimmune come effetto collaterale. L’ultimo caso è di una donna statunitense affetta da leucemia. La strategia adottata consiste in un’associazione tra un trapianto di cellule staminali prelevate da cordone ombelicale, da donatore parzialmente compatibile,  con una trasfusione di sangue di un parente. Si è riusciti così a minimizzare gli effetti collaterali. La paziente è sieronegativa da oltre 14 mesi.

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Conclusioni

Ad oggi, pertanto, possiamo capire come la terapia antiretrovirale abbia rappresentato la svolta nella storia naturale della malattia. E’ proprio l’efficacia della terapia che ha portato negli ultimi anni a sottostimare il rischio. L’infezione da HIV non è scomparsa, anzi è più presente di quanto possiamo immaginare, il virus è solo tenuto a bada. Sicuramente, almeno il mondo occidentale, non si trova di fronte alla mortale patologia di un tempo, ma ricordiamo che il virus è sempre pronto a prendere il sopravvento non appena la terapia non viene seguita adeguatamente. Accanto alla grande arma rappresentata dai farmaci antiretrovirali, il virus ci riserva tante altre sorprese. Gli ultimi tre casi citati sono la prova di come il virus possa essere completamente eliminato in determinate condizioni. La Scienza auspica pertanto di usufruire al meglio di una delle terapie più efficaci che abbiamo a disposizione, nell’attesa che l’eccezione possa diventare la regola!

Alessandra Nastasi

Per approfondire:

Carcinoma vescicale: il paradosso del virus nel trattamento del tumore

Il carcinoma vescicale rappresenta la quinta causa di morte negli uomini di età superiore ai 75 anni. Più colpito è il sesso maschile, con un rapporto uomo-donna di 3:1. Negli ultimi anni questo divario sembra essersi ridotto per via della maggiore propensione delle donne al tabagismo (tendenza all’abuso di tabacco). 

Indice dei contenuti

  1. Fattori di rischio
  2. Come riconoscerlo tempestivamente
  3. Diagnosi tempestive e differenza nel trattamento
  4. Quali novità ci da oggi la scienza?
  5. Lo studio condotto
  6. Prospettive

Fattori di rischio

Tra i principali fattori di rischio ricorrono il fumo di sigaretta seguito da agenti chimici industriali, quali coloranti derivati dall’anilina, gomme o colla. Una pregressa radioterapia in sede sottodiaframmatica (es. nel trattamento di un carcinoma prostatico), infezioni croniche del tratto urinario, infezione da Schistosoma haematobium o da Bilharzia responsabili dell’istotipo squamoso (più raro).
Il 95% dei carcinomi vescicali è rappresentato dal carcinoma a cellule transazionali, un tumore di origine epiteliale le cui cellule richiamano gli elementi tipici di rivestimento della mucosa vescicale, le cellule uroteliali o transazionali.

 

Tumore della vescica: rischio di recidiva e progressione
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Come riconoscerlo tempestivamente?

Segni e sintomi non sono sempre evidenti. Il paziente può lamentare ematuria (presenza di sangue nelle urine), pollachiuria (minzione frequente), disuria (minzione fastidiosa o insoddisfacente), stranguria (minzione dolorosa). Sono sintomi del tutto aspecifici, che potrebbero orientare erroneamente verso altre patologie del tratto genito-urinario. E’ questo il motivo principale per cui si auspica una diagnosi precoce mediante esame delle urine standard coadiuvato dall’esame citologico. Quest’ultimo si rivela fondamentale nell’identificazione delle cellule di sfaldamento (eventualmente neoplastiche) provenienti dall’intero tratto urinario.

Diagnosi tempestive e differenza nel trattamento 

Nelle forme superficiali, non muscolo-invasive, la TURB (resezione endoscopica transureterale) ha una valenza non solo diagnostica, ma anche terapeutica, consentendo così l’asportazione della lesione superficiale. Le forme con grading G2-G3, dunque con una più elevata attività proliferativa, maggiore probabilità di recidiva locale e interessamento a distanza, richiedono oltre la TURB, l’istillazione endovescicale di chemioterapici. Il trattamento più efficace si è ottenuto con l’immunoterapia endovescicale, mediante l’installazione del bacillo di Calmette-Guerin attenuato (agente eziologico della tubercolosi), che induce una risposta infiammatoria distruggendo così il tumore.

Trattare il cancro della vescica | Roche Focus Persona
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Quali novità ci da oggi la scienza?

La “novità” più recente è stata ipotizzata da alcuni ricercatori inglesi dell’Università del Surrey. Partendo dal presupposto che il carcinoma vescicale è una neoplasia antigenicamente silente (non in grado di stimolare e attivare il sistema immunitario), i ricercatori hanno ipotizzato di sfruttare le capacità immunostimolanti del virus Coxsackie CVA21 per rendere il tumore immunologicamente “caldo”, nonché attaccabile dal sistema immunitario. Il virus, attivando geni che codificano per proteine infiammatorie ed immunitarie, fa si che la neoplasia sia meno proliferante, con conseguente eliminazione da parte del sistema immunitario.

Lo studio condotto

Il virus è stato introdotto nella vescica di 15 pazienti una settimana prima che i tumori (non muscolo-invasivi) venissero rimossi chirurgicamente. Tra questi, sei pazienti hanno ricevuto solo il virus, mentre i restanti nove hanno ricevuto anche una dose di mitomicina C . La mitomicina C aveva il fine di aumentare l’espressione della molecola ICAM-1 (una molecola di adesione che lega e attrae il virus potenziando la tua attività di distruzione delle cellule tumorali). In seguito all’intervento, i campioni bioptici hanno mostrato che il virus attaccava solo le cellule tumorali nella vescica, lasciando intatte le cellule sane. In un soggetto su quindici il tumore è scomparso e non rinvenuto durante l’intervento chirurgico. Inoltre, nei pazienti trattati, il virus è stato rilevato nelle urine (testate a giorni alterni). Questo dimostra che continua ad infettare nuove cellule tumorali vescicali dopo aver lisato le cellule infettate precedentemente.

 

Curare il tumore alla vescica con un raffreddore - Wired

https://images.wired.it/wp-content/uploads/2019/07/05183903/virus.jpg

Prospettive

I risultati sono a dir poco soddisfacenti. Si auspica che in un futuro prossimo questa nuova linea terapeutica possa diventare il trattamento di scelta nelle forme di carcinoma vescicale non muscolo-invasive. Tutto ciò limiterebbe l’istillazione endocavitaria di chemioterapici, che non sono certo scevri da importati effetti collaterali. Questo a fronte dell’impiego del virus Coxsackie CVA21 che non ha dato né effetti avversi, né tossicità significative in alcun paziente.

Alessandra Nastasi

Per approfondire:

https://lamedicinainunoscatto.it/2019/07/coxsackie-virus-come-alleato-nel-trattamento-del-cancro-alla-vescica/

Nobel per la Medicina 2020: il Virus dell’Epatite C

Il premio Nobel per la Medicina 2020 è stato assegnato ad Ottobre agli scienziati che nel secolo scorso hanno scoperto il Virus dell’Epatite C (HCV). Un’assegnazione più che meritata visto il notevole impatto che ha avuto sulla epidemiologia di questa infezione. Continua a leggere “Nobel per la Medicina 2020: il Virus dell’Epatite C”

Covid-19: ipotesi virus in Italia già da settembre 2019. Si confrontano i dati

(fonte: fondazioneveronesi.it)

Uno studio italiano per la ricerca a favore della prevenzione del cancro ai polmoni ha, inaspettatamente, rivelato dettagli sconvolgenti sul Covid-19. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista “Tumori Journal” pochi giorni fa e riaprono il dibattito sulle origini del virus e sulla fase iniziale della sua diffusione nel mondo.

Lo screening per il tumore ai polmoni che ha rivelato dettagli sul Covid-19

La Fondazione Airc  (Associazione italiana ricerca sul cancro) ha promosso il progetto “Smile”, per il quale da settembre 2019 a marzo 2020, sono stati reclutati 959 volontari sani per sottoporli a Tac spirale ai polmoni e analisi del sangue.

“Uno studio sostenuto dalla Fondazione Airc, al centro del quale c’è lo screening per il tumore al polmone su persone sane con l’obiettivo di verificare se con la Tac spirale toracica e l’analisi di alcuni marcatori nel sangue, è possibile anticipare la diagnosi di un carcinoma polmonare” ha raccontato Ugo Pastorino, direttore della Struttura Complessa di Chirurgia Toracica dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano (Int).

Il lockdown ha fatto interrompere lo screening, ma, nell’attesa, i ricercatori hanno deciso di usare i dati già raccolti. Così, controllando le immagini delle Tac di alcuni dei volontari, sono stati riscontrati deboli segni di lesioni subsolide, scoperti esser compatibili con gli effetti del Covid-19. Questo dettaglio ha spinto gli studiosi ad andare più a fondo.

(fonte: inail.it)

I dati

Nel laboratorio di Siena, è stata, dunque, effettuato il sierologico sui campioni di sangue. 111 sono risultati positivi, 16 all’immunoglobulina G e 97 all’immunoglobulina M. Di questi, la positività di 23 risale a settembre, 27 a ottobre, 26 a novembre, 11 a dicembre, 3 a gennaio e 21 a febbraio. I positivi provengono da 13 regioni italiane diverse, ma la metà dalla Lombardia, seguita da Piemonte, Lazio, Emilia-Romagna, Toscana, Veneto. 6 sono risultati positivi anche agli anticorpi neutralizzanti il virus, 4 dei quali già a inizio ottobre.

Perciò i sintomi dell’infezione, non così espliciti, hanno in molti casi fatto pensare ad un’influenza o un banale raffreddore. I primi campioni con positività risalente a settembre appartengono ad abitanti del Veneto (3), Emilia Romagna (1), Liguria (1), Lombardia (2) e Lazio (1). Dalla fine di settembre il 56,5% dei campioni sono della Lombardia (13), seguita da Veneto (3), Piemonte (2), e 1 ciascuno in Emilia Romagna, Liguria, Lazio, Campania e Friuli Venezia Giulia. Gli altri soggetti con anticorpi per il virus sono persone della Sardegna, Sicilia, Toscana, Val d’Aosta e Puglia. Due i picchi di positività riscontrati: il primo tra la fine di settembre e tra la seconda e terza settimana di ottobre; il secondo nella seconda settimana di febbraio.

Covid-19 in Italia già da settembre 2019, ma i dati sono attendibili?

Lo studio ora apre, però, una contraddizione con altre ricerche, comprovanti il passaggio del Sars-Cov2 dall’animale all’uomo ad ottobre 2019, quindi un mese dopo rispetto agli anticorpi più “vecchi” riscontrati, dimostrando che il virus ha iniziato a circolare in Italia in modo asintomatico, molto prima che venisse identificato il famoso Paziente 1, Mattia, a febbraio a Codogno.

“Già da novembre 2019, molti medici di medicina generale hanno iniziato a segnalare la comparsa di gravi sintomi respiratori in persone anziane e fragili con bronchite bilaterale atipica, che è stata attribuita, in assenza di notizie sul nuovo virus, a forme aggressive di influenza stagionale” si legge nello studio.

Le date fornite da molte indagini sarebbero a rischio confutazione, come quella indicata da uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità, realizzato sull’analisi delle acque di scarico, raccolte prima che il virus si manifestasse esplicitamente in Italia. Anche i Giochi Mondiali militari, svoltisi in Cina ad ottobre 2019, i quali sono stati al centro di numerosi sospetti, sembrerebbero, alla luce di ciò, passare in secondo piano come prova utile alla ricostruzione delle prime fasi.

Il parere degli esperti

Per alcuni dottori ed esperti del settore, c’è da considerare la considerevole “imprecisione” del test sierologico.

Dottor Galli (fonte: ilfattoquotidiano.it)

Questo produce falsi positivi, come emerso da mesi di utilizzo, dimostrando positività anche nel caso di contatto con altri coronavirus. E’ stato, inoltre, provato che alcune persone sviluppano gli anticorpi contro Sars-CoV2 dopo essere state infettate da un altro coronavirus responsabile di raffreddori. Ciò renderebbe la positività dei volontari per lo studio, un dato potenzialmente inutile. Massimo Galli, direttore di Malattie infettive del Sacco di Milano, crede veramente difficile pensare che il virus sia così “vecchio”, non spiegandosi l’assenza di focolai prima di marzo e considerata l’esplosività del virus, che “quando arriva in ospedale fa decine di infezioni se non lo gestisci”. Una cosa è certa: mancano ancora alcuni tasselli e ci vorrà forse molto tempo per ritrovarli e metterli al giusto posto. Inoltre, le difficoltà nel reperire notizie dalla Cina, soprattutto nella fase iniziale della diffusione pandemica, desta sospetti, ma soprattutto crea nuove incertezze potenzialmente dannose per la ricerca sul vaccino.

 

Rita Bonaccurso

Usa, ultime stime Coronavirus: probabili 23 milioni di contagiati

Gli Stati Uniti affermano di star riaprendo in sicurezza e in maniera responsabile, nonostante un’impennata dei casi in alcune aree del sud del Paese.

Lo ha detto il vicepresidente americano Mike Pence, quasi un messaggio inviato a Bruxelles e all’Europa nelle ore in cui la commissione UE sta decidendo se riaprire i propri confini ai turisti americani.

Per Pence l’aumento dei casi è proporzionale al numero elevato di test condotti, tesi condivisa da Donald Trump, smentita solo in parte dagli esperti, perché le stime allarmanti di queste ore dove sarebbero in realtà 10 volte maggiori i contagi negli Usa si basano sui campioni di sangue raccolti su scala nazionale, provette che rivelano la presenza di anticorpi, come spiegato dal Cdc.

Anthony Fauci, il virologo a capo della task force organizzata della Casa Bianca, ha espresso grande preoccupazione per quello che è diventato “un grave problema”, così ha definito il boom di contagi in alcuni Stati.

Le parole arrivano, stridenti, subito dopo la tentata rassicurazione sulla situazione.

“Indossate la mascherina per non diffondere il virus”, ha ribadito con vigore l’epidemiologo Fauci, affinchè venga contrastata la diffusione del Covid.

Tutte alte sfere della Casa Bianca hanno espresso la ferma volontà che il Paese riapra e che l’economia riparta, ma tutto ruota attorno alla grave e destabilizzante possibilità che si possa propagare il virus in modo inconsapevole.

In un suo tweet Donald Trump ha fatto riferimento al tasso di mortalità come “uno dei più bassi del mondo”, richiamando il dato dei decessi da Covid in netto calo.
Il cinguettio è stato poi concluso col solito spirito provocatorio:

 La nostra economia sta ripartendo e non sarà chiusa di nuovo.

Il comunicato social di Donald Trump suona come un monito a quegli stati Usa che, travolti da un’ondata di contagi stanno cominciando a frenare sul ritorno alla normalità.

Le parole del capo della White House sono apparse subito in contrasto con le stime promulgate dal direttore del Centers for Disease Control and Prevention: per ogni caso di Coronavirus accertato ci sarebbero almeno altre dieci persone infette, questo l’allarme lanciato da Robert Redfiled, massima autorità federale in materia di salute pubblica.

Anthony Fauci, il massimo esperto ingaggiato come consulente medico gestionale dal governo americano, ha ammesso che dal punto di vista strategico qualcosa non sta funzionando.

Timore confermato del resto dai numeri usciti questo week-end che ha fatto registrare 400 mila nuovi casi e 2.500 vittime.

Le autorità sanitarie stanno dunque vagliando un nuovo approccio, quello dei “pooltesting”: fare i test su più persone contemporaneamente per individuare più rapidamente i casi di contagio e procedere con il conseguente ed immediato isolamento.

La task force guidata dal VP Mike Pence starebbe lavorando all’abolizione dell’ObamaCare, la riforma sanitaria di Barack Obama ritenuta incostituzionale, con l’amministrazione Trump che ha chiesto alla Corte Suprema americana di cancellarla. Un colpo basso con finalità elettorale, che significherebbe privare dell’assicurazione sanitaria milioni di americani in piena pandemia, quello che è stato definito come un vero e proprio “atto di incomprensibile crudeltà”.

La situazione si fa sempre più drammatica in Florida e Texas, dove sono scoppiati un boom di 9000 nuovi contagi ed oltre 16 mila casi in tre giorni nella zona texana; rimane invece critico il contesto newyorkese, con la metropoli letteralmente in ginocchio.

L’America, apparentemente grande e invincibile, soffre e combatte un nemico invisibile ed un Presidente che pare essere più interessato alle elezioni che alla salute del suo paese.

Antonio Mulone

Coronavirus: le previsioni del contagio zero regione per regione

Le ultime stime prevedono che l’azzeramento della curva epidemiologica dei contagi dal Coronavirus si verificherà non prima di fine Giugno.

Le regioni del Centro-Nord, nelle quali la tragica diffusione del Covid-19 è scoppiata prima, saranno probabilmente le ultime ad uscire dalla situazione pandemica di emergenza.

Secondo le previsioni dell’Osservatorio sulla salute, le prime regioni orientate verso la fase 2 ( la fase di convivenza col virus) potrebbero essere Basilicata e Umbria il 21 aprile; il Lazio dovrà attendere almeno il 12 maggio; Veneto e Piemonte il 21 maggio; Emilia Romagna e Toscana non prima della fine di maggio, mentre il Sud Italia potrà procedere con le nuove misure previste dalla fase 2 tra la fine di aprile e l’inizio di maggio.

La mappa delle proiezioni (elaborata dall’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane, coordinato da Walter Ricciardi direttore dell’Osservatorio e consulente del Governo per questa fase di emergenza, e da Alessandro Solipaca direttore scientifico dell’Osservatorio) ha evidenziato che l’uscita dell’emergenza Covid-19 in Italia potrebbe avere tempistiche diverse nelle regioni in relazione ai territori più o meno esposti alla potenza del contagio epidemico.

Pare dunque fondamentale in questo momento di pianificazione e successivo sviluppo della fase 2,  fornire valutazioni concrete ed aggiornate sulla gradualità e sull’evoluzione della curva epidemiologica, affinchè si possano supportare con adeguati riferimenti scientifico-medici le scelte politiche, che nelle prossime settimane, saranno più decisive che mai.

L’obiettivo che l’Esecutivo si è posto non è individuare la data esatta, bensì la data prima della quale è inverosimile prevedere l’azzeramento dei nuovi contagi.

Il processo di indagine ed analisi è stato prodotto dal coordinamento con i dati che la Protezione Civile quotidianamente mette a disposizione.

I modelli statistici stimati per ogni regione fanno riferimento ad un fenomeno (non lineare) di probabile regresso in correlazione all’andamento dei nuovi casi osservati nel tempo.

Chiaramente, come evidenziato dagli specialisti, l’attendibilità e la conseguente precisione delle proiezioni previsionali è fortemente influenzata dalla corretta rilevazione dei nuovi contagi.

Il pericolo dietro l’angolo è che questi dati potrebbero essere sottostimati a causa dei casi da contagio asintomatico o dal numero insufficiente di tamponi effettuati.

Come accade spesso in questi contesti di incertezza, quando tutto poggia su previsioni variabili che dipendono da diversi fattori, c’è chi nell’ambiente scientifico non concorda sulle stime e prevede che il coronavirus continuerà a circolare anche se in basse intensità.

Si potrebbe dunque non avere mai effettivamente zero contagiati poiché il virus, sebbene in maniera contenuta, continuerà a circolare anche durante il periodo estivo.

Precarietà e surrealtà continuano a caratterizzare questa primavera, che sa di tutto fuorchè di libertà.

Ci attendono le ultime settimane di profondo sacrificio e di grande responsabilità, unici strumenti concreti nella battaglia la nemico invisibile. 

Antonio Mulone