Plasma iperimmune vs vaccino: tra scienza e complottismo

Riceviamo e pubblichiamo il contributo di Roberto Palazzolo, studente del VI di Medicina e Chirurgia presso l’Università di Messina, circa la differenza tra la terapia con plasma di soggetti guariti da Covid-19 ed il vaccino.

Negli ultimi giorni ha avuto molto risalto mediatico la notizia sul “Plasma iperimmune” per curare i malati di Covid19. La trasfusione di plasma non è una terapia nuova: viene utilizzata a esempio nelle ustioni, negli stati di shock emodinamico per sopperire alla mancanza di: liquidi, proteine importanti per la pressione oncotica del sangue come l’albumina, sali minerali.

È pure noto che tra le proteine del plasma vi siano gli anticorpi, molecole prodotte dai linfociti B che servono a contrastare gli agenti patogeni (virus, batteri, funghi, protozoi) con cui siamo già stati in contatto in una precedente infezione, per cui si è pensato che questi anticorpi potessero avere un ruolo importante nel trattamento dei malati di Covid19.
Diversi pazienti hanno già usufruito di questa terapia sperimentale a base di plasma donato dai soggetti guariti dall’infezione, con buoni risultati. [1]

La domanda sorge spontanea: è stata trovata la cura al Covid19? La risposta ahimè è assai complessa, ecco perché.

Purtroppo, per il trattamento di una sola persona, ci vogliono circa 2 sacche di plasma, ovvero da 3 a 6 donazioni (per ottenere una sacca di plasma valida sono necessari dai 2 ai 3 donatori). [2]
Ora, una persona può donare solamente una volta ogni 30 giorni il plasma [3], per curare un singolo malato ci vogliono 3 guariti che donano.

Punto primo: si può obbligare la gente a donare? No, è vietato dalla legge, non si può obbligare nessuno a donare o in generale a ricevere trattamenti medici contro la propria volontà. [4]

Punto secondo: attualmente ci sono circa 96.000 contagiati, supponendo che solo 1000 siano in terapia intensiva, significa che ci vorrebbero circa 1500-2000 sacche, ovvero 3.000-6000 guariti che donino, che poi per i successivi 30 giorni non potrebbero donare. [5]

Punto terzo: la cura col plasma inoltre potrebbe non garantire l’immunità futura, visto che si usano anticorpi di altre persone ed il proprio sistema immunitario non viene stimolato a produrre i propri (un esempio lo abbiamo tra la vaccinazione antitetanica ed il siero antitetano [6]).
In parole povere: si potrebbe guarire, ma ci si potrebbe riammalare poco dopo.

Punto quarto: è necessaria la compatibilità tra i gruppi sanguigni, cosa che riduce il numero di donatori per i pazienti con gruppi sanguigni meno rappresentati nella popolazione [7], i macchinari e la procedura per purificare il plasma costano tanto, la plasmaferesi (procedura che serve a separare il plasma dal resto del sangue) dura parecchio, ci sono pochi macchinari per fare un’operazione del genere su vasta scala. [8]

Punto quinto: le malattie. Ricevere plasma significa ricevere una trasfusione di sangue, con tutti i rischi che ne conseguono: se ad esempio si fosse in fase di latenza da HIV [9], non c’è modo di sapere se il proprio sangue è infetto, questo comporterebbe che chi ricevesse il plasma di un infetto da HIV in fase di latenza, diventerebbe sieropositivo, dovendo curarsi a vita. Per cui, vista la mole di plasma che sarebbe richiesto se esso fosse l’unica cura al Covid19, non potrebbe essere garantito il periodo finestra di 4 mesi (intervallo dall’ultimo rapporto sessuale non protetto ndr) utile ad evidenziare se un donatore è sieropositivo o meno. [9]

Questi sono i principali motivi che mi vengono in mente per dire che sì, la terapia con plasma è utile per i malati gravi di Covid19, tuttavia essa non può essere utilizzata come cura per un elevato numero di persone, mentre l’utilizzo di un vaccino sarebbe più idoneo nella prevenzione dell’infezione da Covid19.

Come funziona un vaccino?

Con il vaccino si usano parti del virus, chiamate epitopi, per sviluppare anticorpi propri. Iniettato l’epitopo del virus, con sostanze adiuvanti (sostanze che servono a scatenare una risposta immunitaria più potente, per coinvolgere un maggior numero di Linfociti) si attiverà nell’organismo un sistema di allarme (PAMP), il quale a sua volta recluterà le cellule immunitarie (cellule di Langherans, Linfociti T e B) con il fine ultimo di produrre protezione immunitaria duratura.                                                                                          Infatti, se quella stessa parte di virus venisse di nuovo a contatto con il nostro organismo, si risveglierebbero le cellule B della memoria, create grazie al vaccino, che in poco tempo comincerebbero a produrre anticorpi andando a contrastare il virus velocemente ed efficacemente.  [Abbas – Immunologia] 

Meglio il plasma o il vaccino?

Una volta trovata la giusta sequenza di epitopi (costituiti da sequenze di amminoacidi, come un codice), accertata la non pericolosità del vaccino (attraverso le sperimentazioni dapprima laboratoristiche, poi animali, infine umane), produrlo non costerebbe che pochi euro a dose, potendo garantire una protezione anticorpale a tutta la popolazione (cosa impossibile da fare col plasma, visto che per proteggere l’Italia, 60 milioni di abitanti, ci vorrebbero 180 milioni di donatori, e peraltro non sarebbe una protezione duratura). Gli anticorpi dati dal vaccino invece, durerebbero 1-2 anni [10], garantendo la protezione a tutti e senza rischi ed i costi legati alle trasfusioni.

I rischi del vaccino?


Una reazione allergica (curabile con antistaminico e cortisone) o in rarissimi casi (probabilmente 1/100.000 o più) reazioni crociate immunitarie tali da avere qualche caso di reazioni autoimmuni (curabili anch’esse col cortisone o immunomodulanti). [11]

Appare evidente che il confronto tra i due sia a netto favore del vaccino, per cui prima di gridare al complotto, che sostiene che la cura con il plasma venga nascosta per favorire la creazione di un vaccino da parte delle case farmaceutiche, come ahimè si può notare negli ultimi giorni sui social media, sarebbe meglio informarsi. Tutte le testate giornalistiche hanno infatti riportato l’efficacia della cura sperimentale con il plasma, non ci sarebbe alcun motivo per nasconderlo al mondo intero (né sarebbe possibile). Piuttosto, come spiegato sopra, è inverosimile che la cura al plasma possa essere risolutiva nel contesto di una pandemia globale.

Porgo ai lettori una riflessione: la scienza richiede anni e anni di studio, un video su internet pochi minuti, più facile quindi affidarsi al secondo. Quindi attenzione: quando la soluzione appare ovvia e immediata, probabilmente è falsa e frutto di chi ci vuol lucrare o vuole prendervi in giro!

06/05/2020

Roberto Palazzolo

[1] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/32281317 

[2] https://www.ilpost.it/2020/05/01/plasma-convalescenti-covid-19-coronavirus-italia/ e http://www.simti.it/donazione.aspx?id=1  

[3] https://www.avis.it/donazione/i-tipi-di-donazione/ 

[4] http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLMESS/0/1062643/index.html?part=ddlmess_ddlmess1-articolato_articolato1&spart=si&parse=si 

[5] http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioContenutiNuovoCoronavirus.jsp?area=nuovoCoronavirus&id=5351&lingua=italiano&menu=vuoto 

[6] https://medicinaonline.co/2018/03/03/differenza-tra-vaccino-ed-immunoglobuline/ 

[7] https://www.avis.it/wp-content/uploads/userfiles/file/News/febbraio%202013/Girelli.pdf 

[8] http://www.gestionerischio.asl3.liguria.it/pdf/sole%2024%20ore%20Regione%20Veneto%20tutti%20i%20costi%20delle%20trasfusioni.pdf 

[9] https://www.paginemediche.it/medicina-e-prevenzione/disturbi-e-malattie/aids 

https://avisemiliaromagna.it/2015/03/01/sessualita-e-donazione/ 

[10] https://time.com/5810454/coronavirus-immunity-reinfection/ 

[11] https://www.epicentro.iss.it/vaccini/ReazioniAvverse 

Possibile vaccino contro il nuovo coronavirus?

Negli ultimi giorni l’infezione da coronavirus ha scatenato il panico nel nostro Paese: da un lato l’aumento dei contagi, dall’altro il diffondersi sui social di informazioni fuorvianti o del tutto fasulle, che mettono in ombra addirittura i canali ufficiali.
Arriva però una buona notizia, riportata inizialmente dal Wall Street Journal, riguardante il possibile inizio di un trial clinico in America per un vaccino, con un gruppo di volontari sani.

Il vaccino


La sintesi era iniziata lo scorso 7 febbraio e adesso alcune fiale di questo siero, denominato mRNA-1273, sono state inviate dalla società biotecnologica Moderna all’Istituto Nazionale delle Allergie e Malattie Infettive di Bethesda.
L’idea, secondo quanto comunicato stanotte dalla società stessa, è di far partire lo studio entro fine aprile, per verificare la risposta dei soggetti e l’eventuale immunizzazione nei confronti di Covid-19.

Per sintetizzare il vaccino, gli scienziati hanno utilizzato gli RNA messaggeri, molecole che trasferiscono informazioni genetiche all’interno delle cellule.
In particolare mRNA-1273 codifica per una forma stabilizzata di prefusione della proteina Spike del coronavirus.  
Questo siero dovrebbe simulare un’infezione naturale, stimolando una risposta più potente da parte dell’organismo e la produzione degli anticorpi.
Inoltre, rispetto ai vaccini tradizionali, quelli che utilizzano gli mRNA sono più rapidi nella loro azione e meno costosi da produrre, caratteristica fondamentale visti i tempi ristretti della ricerca.

Cosa accadrà?


Secondo Juan Andres, direttore delle operazioni tecniche e del controllo qualità presso Moderna, l’azienda “ha fatto uno sforzo immane, da record, per sintetizzare il vaccino” .
Dal sequenziamento del genoma virale sono infatti trascorsi circa 42 giorni e se il trial andasse a buon fine, sarebbe un traguardo incredibile.
I risultati, tuttavia, si avranno tra agosto e luglio, e in caso di riuscita ci vorranno mesi prima che il vaccino possa essere prodotto in massa.


Nei giorni scorsi, altre nazioni si sono prodigate nella ricerca di un modo per contrastare il Covid-19.
La
Cina ha dichiarato di aver iniziato a testare un vaccino sugli animali, mentre l’Australia ha terminato la fase di sperimentazione in laboratorio e sta per procedere nella stessa direzione.
In attesa di altre notizie dal mondo, ricordiamo ai nostri lettori di attenersi alle direttive del ministero e alle fonti di informazione ufficiali, senza cedere alle facili lusinghe della paura.

 

 

Maria Elisa Nasso

Scoperto farmaco contro il Coronavirus: i prossimi passi verso l’ufficialità

A pochi giorni dall’isolamento del Coronavirus (genere 2019-nCoV) ad opera del team di ricerca coordinato da Maria Rosaria Capobianchi dell’Ospedale Spallanzani di Roma, giungono altre buone notizie, questa volta dagli Stati Uniti, California. E’ un comunicato stampa dell’azienda biofarmaceutica Gilead Sciences a offrire nuove speranze nella lotta al coronavirus di Wuhan. In coordinamento con le autorità mediche cinesi è infatti stato possibile somministrare ad un piccolo numero di pazienti un farmaco antivirale sperimentale, il remdesivir. I risultati ottenuti sono promettenti.

Molecola di remdesivir

Il remdesivir aveva già mostrato attività in cavie animali infettate dai differenti generi di coronavirus responsabili delle epidemie di inizio millennio. Tra queste la SARS (sindrome respiratoria acuta grave) nel 2002 e la MERS (sindrome respiratoria mediorientale) nel 2012. Si tratta di un analogo nucleotidico: i nucleotidi sono le unità elementari che costituiscono il DNA. Il remdesivir viene incorporato nella catena di DNA virale al posto di un normale nucleotide e ne provoca il blocco della sintesi.

Il farmaco ha mostrato in vitro attività inibitoria sulla replicazione del virus 2019-nCoV ed in vivo ha ridotto la sintomatologia nei pazienti contagiati. Ne è stato autorizzato l’utilizzo compassionevole negli Stati Uniti. Tuttavia è necessaria una rapida programmazione di studi clinici (randomizzati controllati) per determinare la reale efficacia ed il profilo di sicurezza del farmaco. A tale scopo, al Friendship Hospital di Pechino sarà avviato uno studio placebo vs remdesivir su 270 pazienti con polmonite causata dal virus.

In questi attimi nei laboratori di tutto il mondo si sta studiando l’attività di numerosi tipi di molecole sulla replicazione del virus. E’ notizia di oggi (5 febbraio) che un gruppo di ricercatori cinesi guidati dalla professoressa Li Lanjuan della Zhejian University avrebbero identificato ulteriori due farmaci antivirali particolarmente efficaci contro 2019-nCoV: l’Abidol e il Duranavir. Si tratta però di sperimentazioni in vitro e pertanto le molecole necessitano di essere inserite in protocolli di ricerca di più lunga durata per valutare i reali effetti sui pazienti e scongiurare il rischio di reazioni collaterali. L’OMS infatti allarma: <<Non ci sono ancora terapie efficaci riconosciute contro 2019-nCoV>>.

Alla luce di queste considerazioni riveste ancora più importanza l’isolamento del virus allo Spallanzani di Roma. Difatti era già stato isolato il 10 gennaio a Wuhan, ma è di fondamentale importanza comprendere come il coronavirus si modifichi nel tempo per mettere in atto un’altra strategia nella lotta al patogeno: la formulazione di un vaccino.

Conoscendo la struttura del virus possiamo infatti individuare le proteine che lo costituiscono, comprendere se si adattano o si modificano nel tempo; sulla base di queste conoscenze identificare le proteine immunogene e disegnare su queste un vaccino. Piccole parti totalmente innocue di virus sono in grado di scatenare la risposta immunitaria dell’organismo umano.

Se in un secondo momento l’organismo entra in contatto col virus, il sistema immunitario sarà in grado di riconoscere quelle piccole proteine, attaccarle, neutralizzare il virus e prevenire l’infezione. Tuttavia anche in questo caso la formulazione di un vaccino sicuro richiederà mesi.

In attesa che la potenza tecnica della scienza porti alla luce un farmaco efficace, è auspicabile che i protocolli di igiene attuati dal OMS a livello globale favoriscano la riduzione dei contagi e, come conseguenza diretta, la circoscrizione ed il controllo dell’epidemia.

Mattia Porcino

Vaccini tumore-specifici, uno spiraglio di luce

Piccoli passi possibili: sono quelli che, progressivamente, l’immuno-terapia oncologia sembra capace di compiere nella lotta al tumore.

Si può facilmente consultare sulla rivista “Nature”,  l’esito positivo di una terapia sperimentale sviluppata in due distinti laboratori di ricerca, uno a Boston – Massachusetts, l’altro a Meinz – Germania. I due diversi team guidati rispettivamente da Catherine Wu ed Ugur Sahin, sono stati in grado di elaborare un vaccino anti tumorale specifico per i loro pazienti, tutti affetti da melanoma (= in questo caso le cellule malate sono quelle della pelle).

Gli studiosi hanno quindi sfruttato il razionale che sta alla base del comune vaccino – ovvero una soluzione contenente materiale biologico inattivo, o comunque, incapace di scatenare un’infezione violenta, assieme anche ad altre molecole coadiuvanti-  al fine di stimolare nel sistema immunitario una risposta anti-tumorale specifica. Come? Sfruttando l’evidenza per cui alcune componenti del nostro sistema immunitario (immaginatevelo come un qualcosa di molto più potente della stessa US. Army) sono in grado di riconoscere specifici antigeni presenti sulle nostre cellule, attivarsi (a determinate condizioni, sulle quali si gioca tutta l’attività dei ricercatori, fondamentalmente) e mandare in lisi le stesse.  Infatti, grazie alle ultime, assai versatili, tecnologie sviluppate negli ultimi anni, i ricercatori sono riusciti a sequenziare i geni codificanti per proteine nel tumore di ciascun paziente. Dopodiché sono stati attenti nello scegliere quelle proteine mutate che più verosimilmente avrebbero potuto determinare una risposta del sistema immunitario, utilizzandole, così, per preparare la base dei vaccini specifici.

Entrambi i gruppi di ricerca hanno quindi potuto concludere i loro lavori riportando l’esito positivo riscontrato nel trattamento del melanoma con questo mezzo assolutamente innovativo.

I risultati di queste ricerche, pertanto, dimostrano che “l’immunoterapia dei tumori sta facendo passi da gigante”, commenta Michele Maio, direttore del Centro di Immuno-oncologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Siena.  Anche Cornelius J.M. Melief, parte del dipartimento di Immuno-ematologia dell’Università di Leiden, conclude la sua presentazione al lavoro della Wu e Shain affermando: “Entrambe le ricerche confermano il potenziale di questo tipo d’approccio terapeutico al tumore, nonostante non si possa ancora parlare di validità assoluta, considerato il numero esiguo di pazienti coinvolti; il passo successivo sarà proprio continuare a provare con un maggior numero di partecipanti, in modo da poter stabilire con esattezza l’efficacia di questo trattamento terapeutico contro tutti quei tipi di cancro che producono abbastanza mutazioni da poter fornire sufficienti antigeni tumorali, necessari in questo tipo di approccio.

Ivana Bringheli