Fedra: l’opera di Racine al Teatro Vittorio Emanuele

La Fedra di Jean Racine è approdata al Teatro Vittorio Emanuele per tre sere consecutive: 14, 15 e 16 marzo 2025. Alla regia Federico Tiezzi, che nelle due ore complessive di spettacolo -senza intervallo- ripropone una delle più riuscite rese artistiche delle passioni umane. Fedra ci viene presentata da una raffinatissima Catherine Bertoni de Laet, accompagnata da Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro.

Sinossi

Ippolito, figlio di Teseo, vuole partire alla ricerca del padre del quale non si hanno più notizie. Ma il vero motivo del suo viaggio è l’intenzione di fuggire dal fascino di Aricia, di cui è innamorato. Intanto Fedra, moribonda moglie di Teseo, confessa a Enone del suo amore per il figliastro Ippolito, nonostante avesse sempre ostentato odio nei suoi confronti, nell’inutile tentativo di celarne il suo desiderio.

Panope annuncia la morte di Teseo, così Enone esorta la regina a lottare per la vita e per il trono, che altrimenti sarebbe andato a Ippolito e Aricia. Fedra pensa di poter finalmente confessare il suo amore a Ippolito. Ippolito, però, inorridito la respinge e lei chiede a quel punto di essere uccisa per mano sua, ma Enone lo impedisce. Panope comunica che il re è invece ancora in vita e Fedra teme che Ippolito dica tutto e la umili davanti a Teseo; chiede allora consiglio a Enone e questa dice a Teseo che il figlio ha tentato di violentare la regina.

Ippolito lascia Trezene. Teseo chiede al dio del mare Nettuno di punire il figlio, che ritiene colpevole. Fedra sta per scagionare Ippolito dall’ingiusta accusa ma, quando viene a sapere che Ippolito ama Aricia e non lei, abbandona il giovane al suo destino. Enone, invece, presa dal rimorso, si uccide gettandosi in mare. 

Un compagno di Ippolito, Teramene, sopraggiunge per raccontare che il giovane è stato assalito e straziato da un mostro mandato da Nettuno.Intanto, Fedra confessa a Teseo tutto il male che ha fatto e, dopo aver preso del veleno, muore ai suoi piedi. A Teseo non resta che tributare gli onori funebri al figlio e, secondo il voto espresso da quest’ultimo in punto di morte, adottare Aricia come propria figlia ed erede.

Fedra
Catherine Bertoni de Laet, accompagnata da Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro neòòa Fedra di Federico Tiezzi.

Fedra: la potenza distruttiva delle passioni in un limbo tra Eros e Thanathos

Ispirata alla Fedra di Euripide e Seneca, viene riscritta da Racine nel 1677 e contaminata di una visione prettamente francese, si tratta di un’opera che ha il suo focus sul linguaggio che rende gli istinti palpabili e razionalizzati. Fedra vive un’esistenza claustrofobica, incatenata al proprio desiderio ancestrale, divorata dai mostri del suo inconscio. La protagonista si ritrova attanagliata da una voglia incresciosa, che rompe con l’ordine sociale precostituito. Causa un cortocircuito mentale che si traduce in un tracollo fisico: Fedra ci appare per la prima volta come un’esile ombra traballante, precaria e fragile. Il regista insiste sull’indagine dei personaggi e le loro trasformazioni in un atteggiamento psicanalitico quasi Freudiano. Racine ci presenta una Fedra imbevuta di giansenismo e di filosofia morale. L’opera consente di ritrovarsi in Fedra e a solidarizzare con l’illecito, sospinti verso un torto fatale, che ci ripresenta il topos della contrapposizione tra Eros e Thanathos.

Fedra: un incubo ambientato nella mente umana

Racine trasla Euripide in una dimensione borghese di cui mostra tutte le contraddizioni e colpe e peccati, in cui della Grecia restano solo le teste marmoree esposte e frammiste ad elementi degli anni ruggenti nelle splendide scenografie di Raggi, Zurla e Tiezzi stesso. Vediamo sul palco una Grecia onirica e mentale, scura da sembrare senza fondo, un ambiente freddo con arredi preziosi. É un baratro che nasconde nel suo buio i segreti di ognuno dei personaggi. In questo buio sono i movimenti di luce a scandire i momenti clou della rappresentazione. I costumi sono sospesi in una dimensione atemporale in cui coesistono vistose gorgiere del Seicento di Racine, paillettes, tuniche, abiti da sera e vestaglie. Per Fedra, Giovanna Buzzi, ai costumi, ha puntato sul concept della Femme fatale del tempo dell’Art Deco`.

Carla Fiorentino 

 

FAI&UniME: un viaggio alla scoperta del patrimonio d’Ateneo

Le Giornate FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano), quest’anno 22 e 23 marzo, rappresentano un appuntamento imperdibile per gli appassionati di arte, storia e natura. Questi eventi offrono l’opportunità di visitare luoghi solitamente inaccessibili o poco conosciuti, svelando tesori nascosti del nostro Paese. Anche Messina e il suo territorio offriranno ai visitatori l’opportunità di scoprire alcuni luoghi di grande valore storico e culturale. Tra le tappe più affascinanti di questa edizione, spiccano tre siti emblematici.

 

Dettaglio del portale antico dell’Università. © Alessandro Saitta

 

Faro di Capo Peloro

Il Faro di Capo Peloro si trova sulla punta nord-orientale della Sicilia, nel punto più vicino alla Calabria, ed è un simbolo della navigazione nello Stretto di Messina. La sua storia affonda le radici nell’antichità, quando già gli storici romani lo menzionavano. L’attuale struttura risale al 1935, dopo che il terremoto del 1908 distrusse la torre precedente costruita nel 1857 durante il Regno delle Due Sicilie. La sua torre ottagonale, dipinta a fasce bianche e nere, garantisce maggiore stabilità e resistenza ai venti. Con un’altezza di 37 metri sul livello del mare, la sua luce è visibile fino a 22 miglia nautiche, garantendo la sicurezza della navigazione in una delle zone più trafficate del Mediterraneo. Circondato da un’area di 1500 mq, tra giardino e terreno coltivabile, il faro è testimone silenzioso di storie, leggende e del mito di Scilla e Cariddi, che da sempre avvolge di fascino e mistero le acque dello Stretto.

Parco Letterario Salvatore Quasimodo a Roccalumera

Un viaggio nell’universo poetico di Quasimodo, premio Nobel per la letteratura, che sorge nell’Antica Stazione Ferroviaria e celebra il legame tra il poeta e il mondo ferroviario. Fondato nel 2000, ospita il Museo Quasimodiano e il Treno-Museo, con lettere, cimeli e arredi originali del suo studio milanese. La ricostruzione della sua sala d’attesa offre un’esperienza immersiva nella vita del premio Nobel, tra poesia e memoria storica della Sicilia.

FAI
Dettaglio Aula Magna del Rettorato. © Alessandro Saitta

Sede Centrale dell’Università di Messina

Discorso diverso va fatto per la sede centrale dell’Università di Messina, cuore storico e architettonico dell’Ateneo, radicata nel tessuto urbano sin dal Seicento. Fondata nel 1548 grazie a una Bolla papale e alla collaborazione tra il Senato cittadino e Ignazio di Loyola, nacque come istituzione gesuitica, ma presto si affermò come Studium laico, segnando un forte legame con la città e subendo chiusure e riaperture nel corso dei secoli.

L’attuale Palazzo dell’Università sorge sull’antico Collegio dei Gesuiti progettato da Natale Masuccio, demolito dopo il terremoto del 1908. Ricostruito nel 1913 in stile eclettico-neoclassico dagli ingegneri Botto e Colmayer, fu ampliato nel 1962 con un edificio razionalista di Filippo Rovigo. La struttura si distingue per la disposizione ad anfiteatro attorno a una corte-giardino, con sette edifici collegati da gallerie coperte e decorazioni floreali che ne unificano l’estetica.

Elemento centrale del complesso è la sede del Rettorato, enfatizzata dalla monumentalità dello scalone interno e dalla scenografica articolazione della facciata. La visita alla sede universitaria offre un viaggio tra storia, arte e architettura, in una città il cui paesaggio costruito è costantemente frutto di ricostruzione.

FAI di primavera 2025

Si è svolta stamattina la conferenza stampa a cui sono intervenuti la Rettrice dell’Università di Messina, prof.ssa Giovanna Spatari, il Capo delegazione FAI di Messina, Nico Pandolfino, il Capitano di fregata Johnny Pizzimento, l’Assessore alla Cultura del Comune di Messina, Enzo Caruso, e il dott. Carlo Mastroeni, Direttore del Parco Letterario Quasimodo.

In particolare, la Rettrice Giovanna Spatari, ha lanciato un messaggio alla Città di Messina, ribadendo l’importanza dell’Ateneo nel tessuto sociale:

Occorre cogliere, soprattutto negli atenei del Sud, nelle città che non hanno un’economia spinta, come possono essere le capitali del Nord, quanto un ateneo sia importante nel tessuto sociale, economico e culturale del territorio. E quindi, quanto l’Università possa essere affollata, come io immagino, ma è sempre stata così, di persone che vengono a conoscerne l’importante storia.

Orari e aperture a Messina

Sede Centrale Università – DAL COLLEGIUM AD UNIME (SENZA PRENOTAZIONE)

Sabato 22 e domenica 23 marzo

09:30 – 13:30 / 14:30 – 18:00

Inoltre, ci saranno due eventi speciali a contributo libero:

  • Messina tra visibile e invisibile:  il progetto per la costruzione della regia Università e il Collegio dei Gesuiti.

A cura dell’Arch. Francesca Passalacqua (Professore associato dell’Università degli Studi Messina)

Sabato 22 marzo ore 18 – Atrio Rettorato

  • La quadreria dell’Università di Messina
    A cura del Prof. Giampaolo Chillè (già Professore a contratto dell’Università degli Studi Messina e cultore della materia)
    Domenica 23 marzo ore 18 – Atrio Rettorato

Faro di Capo Peloro – IL FARO TRA LO JONIO ED IL TIRRENO (Solo su prenotazione)

Sabato 22 e domenica 23: 09:30 – 13:00 / 14:30 – 17:00

ROCCALUMERA (ME)

Parco Quasimodo – NOVITA’ AL PARCO LETTERARIO, TRA LE CARTE DI QUASIMODO

Sabato 22 e domenica 23 marzo 10.00 / 13.00 e 16.00 / 18.00

 

Gaetano Aspa

 

https://fondoambiente.it/

Messina e Reggio Calabria: l’altra sponda dell’anima

Messina e Reggio Calabria, così lontane, ma così vicine. Come le labbra di due amanti che stanno per baciarsi, ma si ritraggono per mancanza di coraggio.
Forse sarebbe innaturale dire che ci amiamo, ma sicuramente sbagliato dire che ci odiamo. Messinesi e Reggini. Buddaci e Sciacquatrippa. Diversi, ma simili.
Lo Stretto ci unisce, e da sempre diamo vita a una particolare convivenza. C’è chi fa la spola per lavoro o, come noi universitari, per studio. E tra uno sfottò e l’altro, capiamo quanto ci somigliamo.

SICILIANI E CALABRESI? CERTAMENTE, PERÒ…

Aldilà della poetica sul così lontani, così vicini, la realtà è chiara: Messina appartiene alla Sicilia, Reggio alla Calabria. Un legame storico che ci restituisce fierezza ed orgoglio, ma oggi sembra più un recinto soffocante.
Messina, dal terremoto in poi, è rimasta all’ombra di Palermo e Catania. Ma ciò che fa più male è vedere l’ipocrisia di una Sicilia che tanto celebra i messinesi di successo (vedi Nino Frassica a Sanremo), per poi bollarli, una volta tornati a casa, come buddaci o finti siciliani.
Reggio, invece, soffre le scelte di una politica regionale che ha spesso favorito Catanzaro e Cosenza, a suo discapito. Emblematica è la vicenda dello Scippo del Capoluogo (una ferita ancora aperta), così come la forzatura del tracciato cosentino dell’A3, rivelatosi dannoso per tutta la Calabria.
Siamo figli di terre che non ci hanno mai riconosciuto appieno, e, a volte, sembrano persino respingerci. E quando dalla tua famiglia, il luogo che dovrebbe proteggerti, arrivano schiaffi e umiliazioni, inizi a chiederti se il tuo posto sia altrove.

L’DENTITÀ STRETTESE

Qualche tempo fa, nella pagina social Lo Stretto Indispensabile, la reggina Mariarita Sciarrone pubblicava questo post:

Quando mi chiedevano la mia provenienza, – in riferimento al periodo del soggiorno romano – non mi davano il tempo di prendere fiato che mi precedevano: siciliana, sei siciliana […] Mi ci sono voluti anni per capire quanto io fossi tanto calabrese quanto siciliana. E quando l’ho capito, a chi mi chiedeva di dove fossi, avrei voluto rispondere: dello Stretto. Sono una strettese […] Quella parola ha iniziato a suonarmi familiare, giusta, identitaria.”

Il termine strettese non è un’espressione abituale, e sembrerebbe più adatta ad un romanzo fantasy. Tuttavia, custodisce un fondo di verità.
Messinesi e reggini hanno intrecciato le loro storie, creando una solida integrazione che supera persino il mare.

La cadenza dialettale è molto simile, così come gli usi e i costumi. C’è una condivisione di servizi e strutture che permette a un messinese di utilizzare l’aeroporto Tito Minniti, così come a un reggino di studiare ad Unime.

E si potrebbero fare molti altri esempi. Oltre a tutto questo, c’è lo Stretto, simbolo millenario che, paradossalmente, ha sempre unito le città. Sin da piccoli, veniamo allevati dalla sua brezza, che ci accompagna per il resto della vita. Entriamo in simbiosi con quel meraviglioso specchio di mare, creando un legame così forte e personale, che risulterebbe difficile da comprendere persino ai nostri corregionali.
Alla luce di ciò, l’idea di un’identità strettese non sembra poi così assurda. Chiaramente non implica una fantasiosa quanto buffa secessione da Sicilia e Calabria, ma perlomeno spiegherebbe la nostra etichetta di siciliani e calabresi diversi.

IL DERBY DELLO STRETTO

Il Derby dello Stretto è il fenomeno socioculturale che più di tutti testimonia l’unicità di Messina e Reggio Calabria. Infatti, Il termine derby si usa per descrivere una partita giocata fra due squadre della stessa città, o al massimo, della stessa regione. Eppure, anche in questo facciamo eccezione.
Messina – Reggina rappresenta il match per eccellenza: in palio non ci sono solo i tre punti, ma il dominio dello Stretto. Vincere equivale a poter sfottere i rivali per settimane.

Cori come Reggino dimmi che si sente o Buddace Alè, vengo da te, dimostrano che le manifestazioni di affetto non mancano. E come non citare il famoso sfottò Vi invidiamo il panorama, che da mera provocazione sportiva, negli anni è diventata una battuta d’uso comune.

Ogni occasione è buona per punzecchiarsi a vicenda, segno di quanta passione, curiosità e coinvolgimento (sia in chiave critica che ammirativa) ci siano verso la fazione opposta.
Ma il tempo passa inesorabile, e l’ultimo Derby dello Stretto risale ormai a quasi nove anni fa. Era il dicembre del 2016, quando il Messina si impose per 2 a 0 al Franco Scoglio.

La mancanza del derby ha creato un vuoto, come se entrambi avessimo lasciato un pezzo di noi dall’altra parte.
Nel frattempo, gli sfottò vengono sferrati a distanza, ma le tifoserie attendono solo di scontrarsi, pronte a colorare lo Stretto di giallorosso o amaranto.

Sono tante le cose che abbiamo in comune. E sempre come due amanti, continueremo a provocarci, perché ognuno conserva un frammento dell’altro.

Forse per questo vivremo tormentati, in continua lotta con un destino beffardo: prima c’ ha diviso col mare, poi riuniti nel terremoto del 1908. Un patto di sangue che sancisce come solo insieme si possa rinascere.

Intanto, a Roma discutono del Ponte. Noi rispondiamo con una cartolina:

Con affetto, Messinesi e Reggini. Da sempre… i Padroni dello Stretto.

Giovanni Gentile Patti

DICO compie 10 anni: la consulenza linguistica firmata UNIME

Nato nel marzo 2015 DICO – Dubbi sull’Italiano Consulenza Online  festeggia oggi dieci anni di attività. Per celebrare questo traguardo, l’Ateneo ha organizzato l’evento “Vivere in italiano. Varietà, usi emergenti e nuovi parlanti“, che si terrà il 20 marzo presso l’Aula Magna del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (DICAM).

Unico servizio di consulenza linguistica gratuito offerto da UniMe, DICO è un laboratorio permanente sulla lingua italiana: un punto di riferimento per consulenze, informazione e discussione, aperto a tutti.

DICO: UN PUNTO DI RIFERIMENTO PER LA LINGUA ITALIANA

Un dialogo vivace, dinamico e interattivo. La piattaforma, curata dai docenti di Linguistica italiana e Storia della lingua italiana Fabio Rossi  (responsabile scientifico), Fabio Ruggiano, Raphael Merida e da Francesca Rodolico, dottoranda del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (DICAM) dell’Università degli Studi di Messina. Dico è un servizio UniMe.

La piattaforma, si propone come punto di riferimento per chiunque abbia dubbi sulla lingua italiana,  diffondendo consigli, indicazioni, informazioni sul sistema linguistico italiano.

DICO
I curatori del servizio DICO, Fabio Ruggiano, Fabio Rossi e Raphael Merida. Fonte: “sito DICO”

CHE COS’È E A COSA SERVE DICO?

Il sito web, supportato tecnicamente dal Centro Informatico d’Ateneo di Messina (CIAM), si articola in diverse sezioni:

  • Chiedilo a DICO! Grazie alla sua interattività, gli utenti possono inviare le proprie domande sulla lingua italiana e ricevere risposte dai curatori del sito.
  • Offre un ricco archivio di risposte, una raccolta in costante aggiornamento di quesiti già affrontati, consultabile per categoria e parola chiave.
  • Il servizio non si limita a fornire risposte su grammatica, sintassi e lessico, ma promuove anche la riflessione sull’evoluzione della lingua italiana e il suo rapporto con altre lingue, attraverso link, approfondimenti e notizie specifiche.

In questi dieci anni, DICO ha raccolto 1.815 domande e risposte e ha totalizzato quasi 330.000 visualizzazioni.  Grazie all’impegno costante dei suoi curatori, continua a crescere come risorsa essenziale per studenti, professionisti e tutti coloro che vogliono approfondire e perfezionare la nostra identità culturale per eccellenza: la lingua italiana.

L’EVENTO

L’incontro del 20 marzo sarà articolato in diverse sessioni tematiche, con interventi di esperti di linguistica provenienti da tutta Italia. Tra gli ospiti di spicco, il presidente dell’Accademia della Crusca, Paolo Achille, che parlerà dell’instabilità dell’italiano contemporaneo e del ruolo della consulenza linguistica.

L’evento si concluderà con una tavola rotonda moderata dal professore Fabio Rossi, con la partecipazione di rappresentanti del mondo accademico e sociale, tra cui il coordinatore degli UniMe Student Ambassador, Abdul Raouf Mastan Sheik Abdullah. L’incontro offrirà una visione ampia e multidisciplinare sulle sfide e le prospettive dell’italiano come lingua viva e in continua trasformazione.

Mattina

ORE 9:30 – SALUTI ISTITUZIONALI

  • Giovanna Spatari, Magnifica Rettrice dell’Università di Messina
  • Giuseppe Ucciardello, Direttore del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (DICAM)

 10:00 – PRIMA SESSIONE

  • Didattica dell’italiano a scuola e linguistica testuale: a che punto siamo? a cura di Maria Silvia Rati (Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria)
  • Dieci anni di consulenza linguistica: chi scrive, perché, che cosa chiede – Fabio Ruggiano e Francesca Rodolico (Università di Messina)

  • Da abilismo a white privilege. Le parole del woke – Alessandro Aresti (Università di Cagliari)

 12:00 – SECONDA SESSIONE

  • La Crusca (e il suo servizio di consulenza) di fronte all’instabilità dell’italiano di oggi- Paolo D’Achille (Presidente dell’Accademia della Crusca, Università Roma Tre)
  • Quello che le grammatiche non DICOno – Fabio Rossi & Raphael Merida (Università di Messina)

Pomeriggio

ORE 15:00 – SESSIONE POMERIDIANA

  • L’italiano fra apprendimento e uso. Pratiche plurilingui di giovani migranti subsahariani – Mari D’Agostino (Università di Palermo)
  • L’articolo indeterminativo con i nomi astratti non modificati: un tratto in movimento? – Daniele D’Aguanno (Università “L’Orientale” di Napoli)

  • Rimettere a fuoco la lingua. I nuovi poli del prestigio linguistico nei primi vent’anni del Duemila – Daria Motta (Università di Catania)

TAVOLA ROTONDA – MESSINA E IL SUO SPAZIO LINGUISTICO

  • Moderatore: Fabio Rossi (Università di Messina)
    Partecipanti: Giovanni Galvagno (Dirigente CPIA Messina)
  • Abdul Raouf Mastan Sheik Abdullah (Coordinatore UniMe Student Ambassador)
  • Domenico Pellegrino (Referente formazione Ufficio diocesano Migrantes)

Elisa Guarnera

Milazzo film festival 2025: tra cinema, musica e teatro

Il Milazzo Film Festival si è appena concluso, ma anche quest’anno ha regalato grandi emozioni a tutti gli appassionati di cinema e non, grazie a un intenso programma ricco di ospiti di spessore.

La diciannovesima edizione del festival è iniziata il 5 Marzo,  caratterizzata da un connubio di cinema, musica e teatro in un evento coinvolgente. La kermesse si è aperta con uno spettacolo dell’attore e regista Sergio Rubini ed è proseguita con un gran numero di proiezioni di ogni genere. Il pubblico ha potuto assistere ai cortometraggi in concorso poi premiati, ai corti di repertorio provenienti direttamente dal Museo Nazionale del Cinema di Torino, che hanno mostrato al pubblico la Sicilia di una volta. Inoltre, sono state effettuate le grandi proiezioni, come L’uomo nero di Sergio Rubini, L’arminuta di Giuseppe Bonito, il docufilm Pino Daniele – Nero a metà di Marco Spagnoli e tanti altri.

Milazzo Film Festival
I presentatori del Milazzo Film Fest intervistano Sergio Rubini. Ph: Marco Castiglia

Tra gli ospiti hanno presenziato personaggi come Vanessa Scalera, il regista Marco Tullio Giordana, di cui il festival ha proiettato alcuni film come Lea e La vita accanto. Presente anche Sonia Bergamasco che, in questa occasione, ha presentato il suo ultimo libro Un corpo per due e il docufilm che l’ha vista alla regia, Duse.

Tra incontri con le scuole, conferenze e consegne di premi,  il festival ha mantenuto alta l’attenzione fino alla sua conclusione, avvenuta il 9 Marzo con l’ultima proiezione, Familia di Francesco Costabile, alla quale ha preso parte anche il giovane Francesco Gheghi, anch’egli ospite della manifestazione.

Anche quest’anno, il Milazzo Film Festival ha confermato il suo valore e, al pari delle edizioni precedenti, è stato in grado di suscitare grandi emozioni.


Marco Castiglia

 

Shin Nosferatu: il vampiro secondo Recchioni

Nosferatu
Shin Nosferatu da un nuovo volto al conte Orlock – Voto UVM: 5/5

Cosa otteniamo quando uniamo un fumettista italiano, uno stile di disegno che si richiama a diversi autori leggendari nell’ambito della nona arte, e una delle creature più iconiche del panorama della narrativa horror? Otteniamo Shin Nosferatu di Roberto Recchioni.

Breve storia di Nosferatu

Uscito per la prima volta nel 1922, Nosferatu di Murnau è uno dei film più famosi del cinema espressionista tedesco, nonché un tassello essenziale della storia del vampiro. Esso nasce come una sorta di plagio del Dracula di Bram Stoker, ma il regista non aveva i diritti del libro, e ha quindi reinventato diversi aspetti della storia, tra cui l’aspetto del vampiro stesso, che da nobile gentiluomo eccentrico com’era nel romanzo, diventava ora un emaciato nobile dall’aspetto malato e cadaverico. Questo “fratellastro” di Dracula è diventato famoso tanto quanto la controparte letteraria, plasmando la figura del vampiro, e venendo reinterpretato in numerose varianti, non ultime il recente Nosferatu di Robert Eggers, uscito pochi mesi fa nelle sale, e appunto la versione di cui parliamo, Shin Nosferatu, volume che si fa erede tanto della tradizione del conte Orlok quanto di una serie di autori leggendari nel panorama della nona arte.

Il nuovo vampiro

Shin” in giapponese può significare sia “vero” che “nuovo”. E probabilmente, lo “shin” di Shin Nosferatu mantiene entrambi questi significati; infatti, Roberto Recchioni, già curatore della storica serie Dylan Dog, preserva tutti quegli elementi di cui la storia del conte Orlok vive, incluse anche alcune scene iconiche del film originale, ma anche li rielabora in una veste particolare, ispirata a vari autori, sia occidentali che giapponesi, come Kentaro Miura (Berserk), Hideaki Anno (Neon Genesis Evangelion, Shin Godzilla), ma soprattutto a Go Nagai (Devilman). Tramite questo mix di tradizione e reinvenzione, il vampiro di Recchioni è sia “vero” che “nuovo” allo stesso tempo.

Il conte Orlock Nosferatu
il Nosferatu di Recchioni in una tavola che omaggia Devilman

Come si manifesta l’orrore

Se nel film di Murnau, ma anche in quello di Eggers, l’orrore nasce per la maggior parte dalla presenza del vampiro, dall’aura che egli emana e che si fa sempre più opprimente man mano che la vicenda prosegue, Recchioni rincara la dose, dando al suo conte Orlok una mimica che solo il fumetto poteva conferire. Infatti, se il Nosferatu di Murnau spaventava col suo aspetto malato e venefico, e quello di Eggers si serve della sua voce dura e imperiosa, quello di Recchioni ha un’espressività che deve molto ad alcune tavole iconiche di Devilman, ma non solo, perché sono presenti anche immagini che si richiamano al film originale, richiami ad altri autori poco sopra nominati, e persino una tavola che richiama direttamente Il bacio di Gustav Kilmt, col vampiro che sovrasta la sventurata Ellen Hutter.

Shin Nosferatu
Recchioni disegna Nosferatu come se fosse “Il bacio” di Klimt

L’atmosfera

A contribuire a rendere spaventoso il Nosferatu di Recchioni sono anche le ambientazioni in cui si svolge la storia: oscure, sempre buie, spesso avvolte dalla tempesta. Ma, cosa forse più importante, silenziose: infatti, una particolarità di questo fumetto è l’assenza di baloons, ossia le nuvolette in cui sono scritti i dialoghi o i pensieri dei personaggi. Shin Nosferatu ne è del tutto privo, e le poche parole che compaiono nel corso del volume sono tratteggiate direttamente sulle tavole, sono parte dei disegni stessi. Il lettore sente così tutto il peso opprimente di un male antico, in un certo senso seducente (la sessualità morbosa è sempre stata un elemento importante per i vampiri, prima ancora di Dracula), che soffoca i protagonisti, il cui numero qui è ridotto solo ai coniugi Hutter, e soprattutto Ellen, che si ritroverà da sola contro questa creatura implacabile.

Un per sempre che non fu

Ellen deve quindi vedersela da sola contro il vampiro che viene per lei. Se in Dracula, e anche nel Nosferatu originale, la giovane Hutter ha al suo fianco il marito e altri personaggi, Recchioni li elimina tutti: Thomas Hutter muore in Transilvania, dove si era recato per concludere l’affare col conte, mentre il professor Van Helsing e gli altri personaggi non sono nemmeno accennati. Thomas aveva lasciato Ellen promettendole un fiabesco “per sempre“, ed è con la medesima promessa che il Nosferatu la raggiunge, e, come da tradizione, cerca di farla sua, ma invano. Il “per sempre” passa dalla fiaba all’orrore, e qui si interrompe bruscamente, e il volume si chiude con un’altra, ultima citazione a uno dei momenti più tragici e famosi del Devilman di Nagai.

Per chi ama la figura del vampiro, o in generale le storie dell’orrore, Shin Nosferatu è un volume assolutamente da recuperare, in grado di sprigionare un vecchio orrore in una nuova forma che non manca di omaggiare numerosi autori, sia di fumetti quanto dell’arte in generale.

Milazzo Film Fest 2025: La Vita Accanto

La Vita Accanto è un film del 2024, co-scritto (insieme a Marco Bellocchio) e diretto da Marco Tullio Giordana. È l’adattamento cinematografico del romanzo di Mariapia Veladiano e vanta un cast composto da Sonia Bergamasco, Valentina Bellè, Paolo Pierobon, Beatrice Barison, Sara Ciocca, Viola Basso e altri.

Trama

Il film è ambientato tra gli anni Ottanta e il Duemila e racconta di un’influente famiglia vicentina composta da Maria (Valentina Bellè), suo marito Osvaldo (Paolo Pierobon) e la gemella di quest’ultimo, Erminia (Sonia Bergamasco), affermata pianista. La loro vita viene sconvolta da un evento imprevedibile: Maria dà alla luce Rebecca.

La neonata, per il resto normalissima e di straordinaria bellezza, presenta un vistosa macchia purpurea che le segna metà del viso. Quella macchia, che nulla può cancellare e rende i genitori impotenti e infelici, diventa per Maria un’ossessione tale da precipitarla nel rifiuto delle sue responsabilità di madre. L’intera adolescenza di Rebecca sarà segnata dalla vergogna e dal desiderio di nascondersi dagli altri.

Eppure, fin da piccola, Rebecca rivela straordinarie capacità musicali. La zia Erminia riconosce il suo talento: Rebecca diventa sua allieva e il bisogno di cancellare la “macchia” la spingerà ad affermarsi attraverso la musica.

Il tocco elegante di Giordana

Marco Tullio Giordana è un regista italiano affermato, che ha saputo spaziare tra il cinema, televisione e teatro. Ha sempre raccontato le storie con una maestria particolare, senza cadere nel banale, anche quando si è trovato ad adattare sceneggiature non originali.

Spesso, pensando alle pellicole di Giordana, vengono in mente film come La meglio gioventù, I cento passi, Lea e altre opere che, da una prospettiva ben definita, affrontano dinamiche sociali o fatti di cronaca. Questa volta, è stato il romanzo di Mariapia Veladiano a catturare l’attenzione del regista, o forse è stato il libro a scegliere lui, come se il destino avesse voluto che le loro strade si incrociassero. E Giordana, ha usato il tocco giusto.

La Vita Accanto
Fonte: MyMovies.it

La “vita accanto” e la macchia della famiglia

La macchia rossa in questione è quella della piccola Rebecca, la protagonista del film. Una bambina bellissima, nata dall’unione di Maria e Osvaldo, che però, fin dal  momento della  nascita, non viene accolta dalla madre. Questo segna profondamente la bambina, poiché la madre dovrebbe essere la figura più importante della sua vita. Invece, Maria si rivela un personaggio contraddittorio e oscuro con cui, inizialmente, si fa fatica ad entrare in empatia. Utilizza le sue fragilità e la sua depressione come una sorta di scusa per allontanare la figlia e farla sentire inadeguata, colpevolizzandola per via di quella macchia che, secondo lei, avrebbe rovinato quella bambina tanto voluta.

Giordana mirava proprio a questo: entrare in quelle quattro mura e, sfiorando a tratti un tocco teatrale, raccontare una famiglia appartenente all’alta borghesia, spezzandone le ipocrisie e mostrando le loro fragilità e paure. Tutto questo, si incarna figura della madre, venendo fuori quando sprofonda nella depressione post-parto che si fa totalmente schiacciare da essa e dalla paura del giudizio altrui, tanto da voler tenere sua figlia nascosta, come se fosse il Gobbo di Notre Dame.

Dall’altra parte, Rebecca ha quella macchia, ma trova forza nel suo talento musicale, incoraggiata dalla zia Erminia. La musica diventa l’unico modus operandi per esprimere il peso che porta dentro e colmare il senso di vuoto. Man mano che cresce, si fa sempre più forte, mentre la sua evoluzione è in corso, nella madre sta avvenendo l’involuzione, fino a percepirla sempre più distante. Una “vita accanto” che scorre fino a quando un evento drammatico spinge la piccola a prendersi sulle spalle altre colpe.

La Vita Accanto
Fonte: Articolo21.org

Il finale che segna una rinascita

Il film scorre con una regia elegante, spesso in contrasto con un montaggio non sempre fluido, che crea passaggi bruschi tra le diverse fasi della vita della protagonista, talvolta sovrapponendo gli anni e generando qualche disorientamento temporale.

Tuttavia, è il corpo il vero fulcro della narrazione del regista, che si sofferma sull’identità imprescindibile e sull’apparenza sociale. Tutto è reso efficacemente in scena, a tratti statica, anche grazie alla presenza di bravissimi attori.

Tutto questo, sfiorando persino la dimensione della fantasia, conduce a un finale che, in un certo senso, segna la rinascita della protagonista. Quel dialogo con quel fantasma che è rimasto accanto a lei per tutta la vita, sia fisicamente che mentalmente, rappresenta il momento decisivo. La continua ricerca di consapevolezza segna la fine di quel passaggio difficile, e dalle ceneri rinasce una nuova Rebecca, più consapevole e pronta per la “normalizzazione”. Si può dire che la sua vita inizia in quel momento, non perché la macchia sia sparita, ma perché ha raggiunto l’equilibrio interiore e si è, finalmente, liberata di quei pesi. La macchia era il simbolo metaforico del peso di una madre che non è mai stata davvero accanto a lei, ma ora che ha scoperto la verità, Rebecca la guarda da un’altra prospettiva ed è finalmente pronta a vivere davvero, spiccando il volo.

 

Giorgio Maria Aloi

 

Milazzo Film Fest 2025: L’Arminuta

L’Arminuta è un film del 2021 diretto da Giuseppe Bonito, tratto dall’omonimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, vincitore del Premio Campiello 2017. Il film ha inoltre ottenuto un David di Donatello per la miglior sceneggiatura non originale, uno per il miglior film (2021) e un Nastro d’Argento.

Biglietto solo andata

Il titolo, che in dialetto abruzzese significa “la ritornata”, si riferisce alla protagonista: una ragazzina che viene “restituita” alla sua famiglia biologica dopo aver vissuto per molti anni con quella adottiva. Catapultata in una realtà diversa da quella che viveva prima, l’Arminuta (Sofia Fiore) vive così il dramma della separazione e, di conseguenza, quello di una crisi d’identità.

Il tema della famiglia è dunque al centro, ma non nella sua rappresentazione ideale, bensì come un insieme di relazioni complicate, che non sempre offrono amore incondizionato, ma piuttosto fratture e incomprensioni.

Visualizzato senza risposta

La sua crescita si realizza più nel vuoto lasciato da un affetto mancante che nella ricerca di un amore che la completi. L’Arminuta è costretta a fare i conti con una mancanza di risposta da parte delle persone da cui dovrebbe aspettarsi accoglienza e calore; questo è proprio il cuore pulsante della sua lotta interiore.

Film in cui l’amore viene offerto a singhiozzo e in modo distaccato, l’Arminuta quindi diventa simbolo di una generazione che cresce in un mondo dove le relazioni non sono più così semplici, laddove l’amore non è scontato e il legame di sangue non sempre garantisce connessione emotiva. L’incapacità di essere amati in modo semplice diventa, paradossalmente, una spinta per la protagonista a cercare di trovare un equilibrio dentro di sé.

L'Arminuta
Vanessa Scalera e Sofia Fiore in una scena del film. Fonte: https://www.anonimacinefili.it/wp-content/uploads/2021/10/larminuta-2.jpg

Quando l’amore diventa conflitto

Complesso è il rapporto con la madre, che non è né materna né affettuosa, semplicemente non sa come amarla. Non la respinge di fatto intenzionalmente, ma non sembra vedere l’Arminuta come una figlia.

Metaforicamente parlando, è come se la madre fosse un muro, non cattivo, ma pur sempre un muro. La sua casa, per quanto priva di affetto, resta sempre casa sua, e lei è, per quanto difficile da accettare, sua figlia.

Vanessa Scalera, grazie alla sua performance, restituisce al personaggio realtà e intensità; la sua interpretazione non è mai eccessivamente melodrammatica, ma piuttosto contenuta da qualsiasi tipo di sentimentalismo, fatta di piccole sfumature, in cui emerge la fatica di una madre che ha vissuto una vita difficile e che non ha gli strumenti emotivi per accogliere la figlia che le è stata restituita.

Scalera evita un’interpretazione troppo didascalica della madre “dura” e “insensibile”, ma semplicemente su una figura che è incapace di esprimere l’affetto che, forse, prova.

Vivere oltre il dolore

L’Arminuta è un film che non tenta di trovare una soluzione: grida incompletezza, perdita e resilienza. Non ci sono facili risposte o chiusure emotive.

Tra i personaggi, tra l’altro, quella che sembra essere la più equilibrata nel contesto in cui vive è Adriana (Carlotta De Leonardis), sorella dell’Arminuta. Adriana è pragmatica, ha accettato la sua realtà familiare e, anche se non manifesta apertamente affetto, è molto più radicata nella quotidianità, sembra disillusa e rassegnata alla sua condizione, non mostra particolare entusiasmo, ma ha imparato a vivere con quello che ha, senza aspettative di cambiamenti. A modo suo, è quella che riesce a restituire ciò che si avvicina di più all’amore all’Arminuta, senza troppe frasi fatte, ma solo attraverso gesti significativi.

Sofia Fiore e Carlotta de Leonardis. Fonte: pad.mymovies.it

Un ritorno che spezza senza ricomporre

Il film offre una critica al concetto tradizionale di famiglia perfetta e all’incapacità di trovare empatia e comunicazione. Una storia commovente, cruda e con uno sguardo realistico.

Un viaggio interiore ed emotivo che esplora il difficile cammino della protagonista, che piano piano si sforza di cercare risposte e ottenere quelle più amare. La crescita personale dell’Arminuta, pur segnato da frustrazioni, è un percorso tortuoso ma che volge a un’accettazione senza più illusioni di trovare una felicità esterna.

 

Asia Origlia

Milazzo Film Fest 2025: Pino Daniele – Nero a Metà

In occasione dei dieci anni dalla scomparsa, anche il Milazzo Film Fest 2025 ha deciso di omaggiare Pino Daniele, proiettando, durante la prima serata del festival, il documentario Pino Daniele – Nero a Metà, diretto da Marco Spagnoli e uscito nelle sale esclusivamente il 4, 5 e 6 gennaio.

Le origini di Pino

Il viaggio che il regista Marco Spagnoli compie per raccontare gli inizi del cantautore ha un narratore speciale: Stefano Senardi, amico e produttore dei primi tre album. Attraverso Napoli, i racconti di amici, colleghi e collaboratori di Pino, Senardi ripercorre i momenti più importanti della prima fase della sua carriera.

Tra gli intervistati figurano alcuni pilastri del cantautorato napoletano come Enzo Gragnaniello ed Enzo Avitabile, membri della Nuova Compagnia di Canto Popolare come Fausta Vetere, musicisti come Tony Cercola e Gino Magurno, nonché rappresentanti della canzone popolare napoletana come Teresa De Sio.

 

Fonte: ANSA
Pino Daniele. Fonte: ANSA

Correva l’anno 1980

Dopo Terra Mia (1977) e Pino Daniele (1978/79), nel 1980 arriva Nero a Metà, album che dà il titolo a questo documentario. Non si tratta di un semplice disco, ma del simbolo stesso della discografia di Pino Daniele.

In questo album, le radici napoletane si fondono con il blues e il funk, dando vita a un’innovazione geniale firmata da un grandissimo cantautore e musicista. Al suo interno sono presenti brani straordinari come I say i’ sto cca, A me me piace ‘o blues, Alleria, Appocundria e Quanno chiove.

Questo terzo lavoro di Pino è dedicato a Mario Musella, uno dei massimi riferimenti della canzone napoletana, a cui si deve anche il titolo dell’album. Il Nero a Metà è infatti proprio lui, figlio di madre napoletana e padre nativo americano. Per Pino, i Neri a Metà sono coloro che nascono nei Sud del mondo, e il suo omaggio a questa realtà è evidente, con Napoli che rimane il suo scenario privilegiato e inconfondibile.

Pino Daniele
SPE – supergruppo. Fonte: https://www.pinodaniele.com/miscellaneous/1981-2/

Il supergruppo e il concerto del 1981

Dopo Nero a Metà, è impossibile parlare di Pino Daniele senza citare il cosiddetto supergruppo, una formazione di straordinari artisti che hanno rivoluzionato la canzone napoletana. La band comprendeva James Senese al sax (ex membro di Napoli Centrale), Tony Esposito, Tullio De Piscopo alla batteria, Joe Amoruso e Rino Zurzolo.

Il 19 settembre 1981, il supergruppo fu protagonista di un evento storico per Napoli e non solo. A un anno di distanza dal devastante terremoto dell’Irpinia, la città rese omaggio alle vittime con un concerto che avrebbe segnato per sempre la vita artistica di Pino Daniele.

 

PINO E NAPULE COM’È

Con Pino Daniele – Nero a Metà, Marco Spagnoli racconta il primo Pino Daniele: un ragazzo giovane, con la voglia di emergere e di mostrare la sua visione delle cose attraverso il linguaggio universale della musica.

Il suo modo di raccontare senza filtri, facendo emergere solo la verità, gli ha permesso di dipingere Napoli per quella che era realmente: una città autentica, talvolta crudele, ma sempre viva.

 

 

Rosanna Bonfiglio