“La casa degli sguardi”: Luca Zingaretti per la prima volta alla regia

“La casa degli sguardi” ci insegna a rielaborare un dolore facendo pace con la vita. Voto UVM: 4/5

 

L’11 Aprile è uscito al cinema “La casa degli sguardi”, un film in cui vediamo Luca Zingaretti, uno degli attori italiani più amati, in una posizione diversa dal solito, ovvero quella di regista oltre che di attore. Questa sua opera prima, presentata in anteprima alla Festa del cinema di Roma, è tratta dal romanzo d’esordio (oltre che autobiografico) di Daniele Mencarelli (pubblicato nel 2018), stessa penna di “Tutto chiede salvezza”, dal quale è stata tratta la serie Netflix di grande successo, divisa in due stagioni (la prima uscita nel 2022 e la seconda nel 2024) per la regia di Francesco Bruni.

Trama de “La Casa degli Sguardi”

Marco (interpretato da una delle “nuove leve” del cinema italiano, Gianmarco Franchini), 23enne romano rimasto solo col padre dopo la perdita della madre avvenuta qualche anno prima, causa un incidente con il rischio di finire in galera. A seguito di ciò, proprio grazie al padre (Luca Zingaretti) e un suo amico editore (Filippo Tirabassi) riuscirà a trovare un lavoro da inserviente presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. Proprio sul posto, dopo un accoglienza non proprio calorosa, conoscerà i suoi compagni di lavoro e/o di turno, che inizialmente lo metteranno alla prova, ma che presto si riveleranno essere anche degli amici, ovvero Giovanni (Federico Tocci), Claudio (Alessio Moneta), Luciano (Riccardo Lai) e Paola (Chiara Celotto).

Fonte: Today
Fonte: Today

Tra le varie amicizie di Marco c’è quella con un bambino (di nome Alfredo detto “Toc Toc”) ricoverato nella struttura. I due riescono a comunicare dalla finestra della sua stanza, attraverso disegni e/o gesti. Non si conoscono molto bene, ma questo non impedisce all’affetto di prendere il sopravvento.

L’elaborazione del dolore

“Secondo me questa storia parla della capacità straordinaria che hanno tutti gli esseri umani di rialzarsi dopo che la vita gli ha dato una bastonata”

Così l’attore e regista si è espresso durante la presentazione del suo film a Messina. La storia di Marco, impersonificato strepitosamente da Gianmarco Franchini (conosciuto per il ruolo di Manuel in “Adagio”, diretto da Stefano Sollima, uscito nel 2023) può essere la storia di ognuno di noi. Questo, prima ancora di Zingaretti con il film, lo fa intendere molto bene Daniele Mencarelli con il romanzo, poiché è proprio grazie alla storia del protagonista che lui racconta un momento difficile della sua vita.

La vita di Marco, a seguito della perdita della madre, è un pendolo che oscilla tra l’abuso di alcool e droga e la passione per la poesia. A causa della dipendenza, sviluppa uno stato di incoscienza così profondo da non lasciar trasparire nemmeno l’angoscia di esistere. Si ritrova ad essere un ragazzo in fuga da se stesso prima ancora che dal dolore, e proprio per questo viene abbandonato dagli amici e dalla fidanzata. A stargli accanto, nonostante le difficoltà, c’è il padre, che prova ad aiutarlo in ogni modo possibile.

Fonte: Lucky Red
Fonte: Lucky Red

 

La Casa degli Sguardi: fare pace con la vita

Quello che “La casa degli sguardi” ci insegna, attraverso la penna di Mencarelli prima e la regia di Zingaretti poi, è che osservare da vicino il dolore può aiutare ognuno di noi a riappacificarci con la vita. E’ proprio attraverso l’accettazione del dolore, parte ineludibile della nostra esistenza, che è possibile ritrovare  la voglia di vivere e di andare avanti, inseguendo i nostri sogni e le nostre passioni. Non è poi un caso se il film si conclude con un pezzo, composto appositamente da Michele Brega, dal titolo “Fate largo ai sognatori”, lasciando così nessuna certezza ma grandi speranze per un ragazzo che ha voglia di riprendere in mano le redini della sua vita.

 

 

Rosanna Bonfiglio

#NonCiFermaNessuno: torna a Messina il tour di Luca Abete

Mercoledì 7 maggio, alle ore 10.00, l’Aula Magna del Rettorato dell’Università degli Studi di Messina, in Piazza Pugliatti, si trasformerà in un luogo di emozioni e di confronto grazie al ritorno di Luca Abete e del suo tour motivazionale #NonCiFermaNessuno.

Un appuntamento ormai consolidato — da oltre undici anni sulle strade d’Italia — che ha saputo dare voce agli studenti e alle studentesse, raccontando storie vere, fatte di sfide, paure e conquiste.

Accanto ai giovani, tra studenti universitari e liceali,  sarà presente anche la Rettrice Giovanna Spatari.

Momento centrale dell’evento sarà la consegna del Premio #NonCiFermaNessuno a una storia di resilienza universitaria particolarmente significativa. Una testimonianza concreta che la forza di non arrendersi è capace di generare ispirazione.

Quando la solitudine diventa una compagna di viaggio

Quest’anno il claim del tour — “Nessunə è solə” — tocca un tema delicato e urgente: la solitudine, soprattutto quella che attraversa i giovani.


«È questa la nostra mission — spiega Luca Abeteaccorciare distanze e riscoprirci più vicini, figli magari della stessa paura».

Un’affermazione che coglie in pieno una delle grandi contraddizioni contemporanee: siamo iperconnessi, ma spesso profondamente soli.

La solitudine, in particolare tra gli universitari, si annida silenziosamente tra gli esami, le ansie per il futuro e il senso di inadeguatezza che talvolta prende forma nella quotidianità.

Eppure, non è solo un nemico da combattere. Imparare a riconoscerla e ad ascoltarla può diventare un primo passo per costruire legami autentici. Momenti come quello offerto dal tour #NonCiFermaNessuno diventano allora spazi preziosi in cui sentirsi visti, ascoltati, accolti.

Un progetto di comunicazione fuori dagli schemi

L’approccio di Luca Abete non è quello tradizionale di una conferenza frontale, ma un incontro vero, un talk vibrante in cui i ragazzi e le ragazze sono chiamati a raccontarsi, a condividere emozioni senza filtri.
Perché sentirsi parte di qualcosa, anche solo per la durata di un racconto, può cambiare il modo in cui si affrontano le proprie difficoltà.

Non basta ripetersi di non essere soli: serve esperire la vicinanza degli altri. Serve accorgersi che quel senso di isolamento non è un fallimento personale, ma un’esperienza che accomuna. E che, proprio come una ferita, può diventare un ponte verso l’altro.

Le prossime tappe del tour

Dopo Messina, il tour #NonCiFermaNessuno proseguirà il suo cammino toccando altre città italiane:

  • 9 ottobre – Roma, Università Sapienza – Facoltà di Economia

  • 5 novembre – Catanzaro, Università Magna Graecia

  • 19 novembre – Cagliari, Università degli Studi di Cagliari

  • 5 dicembre – Milano, Università degli Studi di Milano-Bicocca

Tutti gli aggiornamenti saranno disponibili sul sito ufficiale noncifermanessuno.it e sui canali social del progetto.

Un messaggio per chi si sente solo

Partecipare a un evento come questo non è solo un’occasione per ascoltare storie motivazionali. È un invito a ricordarsi che, anche nei momenti più bui, c’è sempre qualcuno disposto ad ascoltare, qualcuno che, come noi, porta il peso delle proprie paure e delle proprie speranze.
Perché forse è proprio da questa consapevolezza che nasce il coraggio di ripartire.

Gaetano Aspa

L’arpa

Danza
su corde d’arpa
piedi nudi su fili spogli
melodia incalzante 
d’ira senza fine.

Passione che arde,
corpo che muore,
vene straripanti 
d’amore incompreso
per te medesimo.

E meno comprendi
più dal suono pendi
come un fantoccio
ch’è l’proprio mastro.

Ti guardi e t’osservo,
stesso cuore 
con occhi diversi.


Silvia Bruno

The Chosen: La Serie su Gesù che Sta Cambiando la Narrazione Religiosa

The Chosen Gesù
The Chosen è molto più di una serie biblica. È un’esperienza che emoziona, avvicina e ispira. Jenkins trasforma il racconto evangelico in un viaggio intimo e potente, che parla al cuore di credenti e non. – Voto UVM: 5/5

Un Progetto Rivoluzionario Nato nel 2017

Nel 2017 nasce The Chosen, la prima serie TV interamente dedicata alla vita di Gesù e dei suoi discepoli. Creata, scritta e diretta dal regista texano Dallas Jenkins, la serie ha conquistato milioni di spettatori in tutto il mondo grazie a un linguaggio innovativo e a una narrazione coinvolgente.

Un Team Creativo Unico nel Suo Genere e un Nuovo Modello di Produzione

Alla base del progetto, un team formato da un evangelico, un cattolico e un ebreo. Questa collaborazione inedita garantisce una rappresentazione fedele delle Scritture, arricchita da profondità psicologica e contesto storico. Non ci si limita ai miracoli: The Chosen esplora emozioni, conflitti interiori e quotidianità dei personaggi biblici.

Dopo una prima stagione su Netflix, Jenkins decide di abbandonare le piattaforme tradizionali. Dalla seconda stagione in poi, la serie viene finanziata tramite crowdfunding, coinvolgendo direttamente il pubblico e arrivando a raccogliere più di 70 milioni di dollari.

Grazie a un’app gratuita, gli spettatori possono guardare ogni episodio senza abbonamenti, creando un rapporto diretto e partecipativo tra creatori e fan.

The Chosen:Una Serie che Divide ma Fa Riflettere

The Chosen ha generato dibattiti: alcuni critici ritengono che la figura di Gesù sia “troppo umana”, lontana dal modello tradizionale. Tuttavia, proprio questa umanizzazione di Cristo ha emozionato spettatori di ogni fede – cristiani, agnostici, atei – che si sono riconosciuti in una figura più vicina, reale e accessibile.

Con The Chosen, Dallas Jenkins ha dato voce e spessore ai personaggi dei Vangeli. Come Euripide nel teatro greco, inserisce introspezione; come Caravaggio, rappresenta un Cristo terreno, tra volti segnati e mani callose.

La serie non si limita a raccontare eventi del passato, ma fa rivivere il mondo di Gesù, rendendolo vicino, umano e attuale.

Anche il Vaticano e varie chiese riformate hanno espresso apprezzamento per la qualità e l’intento del progetto.

The Chosen al Cinema: L’Arrivo sul Grande Schermo

Nel 2025, in occasione della Pasqua, The Chosen approda per la prima volta al cinema. Vengono proiettati i primi due episodi della quinta stagione, che raccontano l’ingresso di Gesù a Gerusalemme e l’episodio del rovesciamento dei tavoli nel Tempio.

The Chosen
Una scena tratta da The Chosen – l’ultima cena di Jenkins (2017)

La narrazione si sofferma anche sui conflitti politici e religiosi che precedono la Passione, mantenendo sempre uno stile realistico e coinvolgente.

L’episodio dell’Ultima Cena, recentemente portato sul grande schermo, è uno dei momenti più potenti della serie. Viene rappresentata una Gerusalemme vivida, in fermento per la Pasqua e attraversata da tensioni religiose e politiche.

I dialoghi tra Caifa, Pilato ed Erode mostrano le dinamiche di potere nella Giudea del I secolo, mentre le reazioni della popolazione e dei discepoli contribuiscono a creare un’atmosfera di attesa e conflitto imminente.

The Chosen: Produzione Cinematografica e Qualità in Crescita

Grazie al supporto dei fan, The Chosen ha raggiunto una qualità visiva e narrativa sempre più alta. Scenografie, costumi, fotografia e colonna sonora si avvicinano agli standard del cinema.

Anche la recitazione è un punto di forza: gli attori, scelti per talento e presenza scenica, danno vita a personaggi intensi, autentici e memorabili.

Verosimiglianza e Vita Quotidiana: Le Chiavi del Successo di The Chosen

Il vero punto di forza della serie è la verosimiglianza. Ogni episodio alterna eventi miracolosi a momenti di vita quotidiana: Gesù che scherza, riposa, gioca con i bambini. I discepoli mostrano la loro umanità: Pietro ha problemi familiari, Matteo affronta il suo passato, ognuno vive un percorso personale di trasformazione.

Per approfondire la psicologia dei personaggi, Jenkins ha creato scene inedite ma coerenti con i testi evangelici. Vediamo, ad esempio, la vita di Maria Maddalena posseduta dai demoni, prima dell’incontro con Gesù, i dialoghi di Nicodemo con sua moglie e con i discepoli o i ricordi di Matteo.

The Chosen
Gesù che dialoga con un abitante della Decapoli

Ogni personaggio – anche secondario – è ben caratterizzato. Le ambientazioni, dai villaggi ebraici alla Decapoli pagana, offrono un mondo ricco e credibile.

Marco Prestipino

Jonicofest 2025: a Furci Siculo la primavera esplode

Il 25 aprile il Parco Furci Verde si trasforma in un palcoscenico a cielo aperto per celebrare la Riviera Jonica tra artisti emergenti, comicità e street food.

Sarà una giornata di festa, tradizione e pura energia quella che animerà il 25 aprile 2025 a Furci Siculo. Torna infatti lo Jonicofest, l’evento gratuito che ormai si afferma come tappa imprescindibile per chi vuole vivere la Riviera Jonica tra musica dal vivo, ballo, comicità e sapori locali.

Il Parco Furci Verde, cuore pulsante della cittadina, ospiterà dalle ore 11 fino a tarda sera un ricco programma pensato per tutte le età.

Organizzato dalle associazioni Jonicache e Morgana, in collaborazione con la Pro Loco e con il patrocinio del Comune e dell’Assemblea Regionale Siciliana, il festival intende valorizzare il territorio e i suoi talenti, creando un ponte tra cultura popolare e creatività contemporanea.

Musica, danza e risate sul palco

Tra gli ospiti musicali, una carrellata di nomi che spaziano tra generi e sensibilità: da GLT-Bless a Elena Rizzo, dai Seaside Promenade a The Isotopes, fino alle voci di Barbara Ceccio, Neolle, Debora Ferrero, Sono Mole, e molti altri. Un’occasione preziosa per scoprire nuove sonorità e applaudire artisti del territorio.

Ad accendere il palco anche i corpi di ballo The Diamonds of Dance, Diletta Dance Academy, Asia e Domenico, Passione Danza, mentre il sorriso sarà garantito dall’irresistibile ironia del comico Cateno de Clò. Chiuderà la serata il DJ Set Contest con Salvo Basile, Carmelo Puliatti e Cesare Delgado, pronti a far ballare il pubblico fino all’ultima nota.

Il gusto della festa: street food e tradizioni culinarie

Ampio spazio anche all’enogastronomia con oltre 10 punti ristoro tra specialità locali e street food. Dai maccheroni al pistacchio di Pasta e Fantasia alle cuzzole calde de La Cuzzola, passando per gli arancini gourmet di Era Ura, l’insalata di mare croccante di Sapori di Mare, i panini con salsiccia della Pro Loco, e i dolci artigianali di Yogorino. Il tutto accompagnato dal vino ufficiale della manifestazione, offerto dalla Cantina Catarussa.

Una festa aperta a tutti

Lo Jonicofest 2025 è gratuito e pensato per tutti: famiglie, giovani, appassionati di musica, curiosi e buongustai. Un’occasione unica per celebrare la primavera con uno sguardo rivolto al futuro, ma con radici ben piantate nella cultura jonica.

Il 25 aprile, a Furci Siculo, la festa è servita.

Gaetano Aspa

Il ruolo dell’Arte nell’educazione alla sostenibilità

La Sostenibilità: Una Sfida Urgente e Culturale

Oggi, il tema della sostenibilità rappresenta una delle questioni più urgenti e complesse del nostro tempo.

Eventi climatici estremi, scioglimento dei ghiacci, perdita di biodiversità, inquinamento diffuso sono tutti segnali che non possono più essere ignorati. Eppure, nonostante i dati scientifici siano sempre più allarmanti, il cambiamento procede lentamente.

Perché?

La sostenibilità non può essere solo una questione tecnica, fatta di normative, statistiche o tecnologie. È anche, e soprattutto, una questione culturale che richiede un cambio di mentalità.

Ha bisogno anche di narrazioni, di immagini, di emozioni: ha bisogno dell’arte. Perché è attraverso la cultura che possiamo costruire una nuova visione del futuro.

L’arte permette, infatti, di trasformare la percezione, educare allo stupore, ricordarci la bellezza e la fragilità del mondo naturale.

In un’epoca di overload informativo (sovraccarico di informazioni) e disconnessione emotiva, l’arte può riaccendere quel legame profondo con la natura che la modernità ha spesso reciso.

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Effetti del cambiamento climatico.
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La rappresentazione della natura nella storia dell’arte

La natura è sempre stata una delle protagoniste principali dell’arte. Fin dalle origini, l’essere umano ha sentito il bisogno di rappresentare il mondo naturale che lo circondava non solo per documentarlo, ma per dargli un senso, celebrarlo, o temerlo.

Già nelle pitture rupestri, decine di migliaia di anni fa, troviamo rappresentazioni della fauna: immagini potenti, spesso legate al rapporto spirituale e simbolico con la caccia e la sopravvivenza. Qui, la natura non è sfondo, ma protagonista assoluta.

Nel Rinascimento, la natura si fa armonia e ordine. Maestri come Leonardo da Vinci osservano piante, animali, paesaggi naturali contemporaneamente con occhio scientifico e artistico, rendendoli parti integranti delle opere.

Esempio emblematico è la pittura di Caravaggio, precursore del naturalismo pittorico, per la sua capacità di rappresentare la realtà con assoluta fedeltà e assenza di idealizzazione.

Con il Romanticismo, la natura esplode in tutta la sua forza. I paesaggi diventano espressione dello stato d’animo umano. Basti pensare ad opere come “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich, dove la natura è immensa, sublime, a tratti minacciosa, specchio dell’infinito e dell’ignoto.

Anche gli Impressionisti celebrano la natura nella sua luce mutevole, nei suoi riflessi, nella vita quotidiana all’aperto, con l’intento di racchiudere emozioni autentiche.

Nel Novecento, la natura non è solo rappresentata: diventa materia. La Land Art è un movimento artistico in cui l’ambiente naturale è allo stesso tempo mezzo e messaggio.

Questa evoluzione della rappresentazione artistica della natura mostra quanto essa sia stata non solo fonte d’ispirazione, ma anche riflesso dei cambiamenti nel pensiero umano: da divinità temuta a risorsa da studiare, da bellezza da contemplare a organismo vivente da rispettare e con cui convivere.

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“Canestra di frutta”, Caravaggio, 1597-1600.
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Oggi: l’Arte come strumento di sensibilizzazione ambientale

Nel contesto attuale, segnato da emergenze ambientali sempre più evidenti, l’arte ha assunto un nuovo ruolo: non solo rappresentare la natura, ma anche difenderla.

Sono sempre più numerosi gli artisti che si fanno portavoce di una coscienza ecologica, usando il proprio linguaggio per porre domande, scuotere le coscienze, stimolare il cambiamento. È nata così una vera e propria corrente: l’eco-art, un’arte impegnata, che mette al centro il rapporto tra uomo e ambiente, spesso con un approccio critico e sperimentale.

Molti artisti, inoltre, utilizzano materiali di scarto o riciclati per sensibilizzare sul tema dei rifiuti.

Ci sono, poi, progetti partecipativi e comunitari, in cui l’arte diventa uno strumento per coinvolgere le persone in attività sociali volte a trasformare spazi degradati e generare una nuova relazione con il territorio.

In tutte queste forme, l’obiettivo è chiaro: rendere visibile ciò che spesso è invisibile, toccare corde emotive, creare consapevolezza. Perché l’arte, oggi più che mai, può essere un ponte tra la conoscenza e l’azione.

Perché, in fondo, ogni gesto sostenibile nasce da una domanda antica e semplice: che mondo vogliamo lasciare? E forse è proprio l’arte, ancora una volta, a suggerirci la risposta.

 

Antonella Sauta

Il mito del Grind e della Produttività: produrre significa vivere?

Viviamo in un’epoca che ha trasformato la produttività in una religione, con i suoi dogmi, i suoi sacerdoti e le sue eresie. Ogni giorno siamo bombardati da video, podcast e post motivazionali che ci spingono a massimizzare il nostro tempo, a svegliarci alle 4 del mattino per meditare, docce fredde, allenarci e leggere un libro prima che il resto del mondo apra gli occhi.

Ma cosa significa davvero essere produttivi? E soprattutto, questa incessante corsa all’efficienza ci sta davvero rendendo più felici e realizzati?

L’illusione della produttività infinita

Negli ultimi anni, il concetto di produttività si è trasformato in un dogma. I social network sono invasi da figure come i “guru della finanza” e da influencer che consigliano di eliminare ogni distrazione, dormire meno e trasformare ogni momento libero in un’opportunità di guadagno, monetizzare le proprie passioni, ignorando completamente le implicazioni sulla salute mentale e fisica. Frasi come “lavora mentre gli altri dormono” o “se non sei ricco è colpa tua” sono diventate i mantra di questa nuova ondata di business online.

Tutto questo va a discapito dei giovani, che si ritrovano dentro un meccanismo perfetto: gli insegnano che il tempo è denaro, che riposarsi è una colpa, che ogni momento libero è uno spreco se non viene investito nella costruzione di un capitale, di un curriculum, di una carriera. Lo addestrano a non bastare mai a se stesso: deve migliorare, deve ottimizzare, deve lavorare di più. Non è più un uomo, è un’azienda.

Il suo corpo deve farsi strumento, la sua mente una catena di montaggio. Ogni minuto dev’essere riempito di qualcosa di utile. E nel frattempo la vita gli scorre tra le dita come sabbia, e non lo sa.

 

Grind
Il tempo è denaro. Fonte: sapere.virgilio.it

Il “Grind” e il paradosso del Burnout

Il mito del “grind” si fonda su una promessa tanto seducente quanto ingannevole: se lavori senza sosta, sarai premiato con il successo. Il problema principale di questa narrazione è che ignora la realtà biologica e psicologica dell’essere umano. Tuttavia, la realtà è ben diversa: il successo dipende da molteplici fattori, inclusi privilegi sociali, opportunità economiche e perfino fortuna. L’idea che chiunque possa diventare un milionario solo con la forza di volontà è una semplificazione che ignora le complessità della vita reale.

Lavorare incessantemente non significa essere più produttivi: dopo un certo punto, la mancanza di riposo porta a un calo drastico della creatività e dell’efficienza, oltre che a gravi problemi di stress, ansia e burnout. Chi si spinge oltre i propri limiti finisce per perdere lucidità, creatività e motivazione. Le aziende e la società moderna incentivano questa corsa alla performance senza sosta, ma raramente si preoccupano delle sue conseguenze a lungo termine.

Molti studi dimostrano che la produttività non è direttamente proporzionale alle ore di lavoro, anzi, in molti casi la riduzione dell’orario lavorativo ha portato a risultati migliori. Paesi come la Finlandia e aziende come Microsoft Giappone hanno sperimentato settimane lavorative più brevi ottenendo un incremento della produttività e un miglioramento del benessere dei lavoratori.

 

Grind
Fonte: manageyourlife.it

Il vero lusso contemporaneo è fermarsi

Ma quale vita si sta costruendo questo uomo nuovo? Egli non ama, non gioca, non si ferma mai a guardare il tramonto. L’arte non gli serve, la poesia lo annoia, il pensiero lo distrae. Deve lavorare. Sempre. Deve correre. Sempre. Come il bue sotto il giogo, come l’ingranaggio dentro la macchina.

Questo mondo che produce senza sosta non ha generato più bellezza, più amore, più felicità. Ha solo prodotto stanchezza. Stanchezza nei volti spenti dei giovani, stanchezza nelle rughe premature degli adulti, stanchezza nelle città che non dormono mai.

Ribellarsi non significa rifiutare il lavoro, ma rifiutare questa religione della produttività che non ammette pause, non concede respiro. Ribellarsi significa camminare senza meta, significa guardare il cielo senza sensi di colpa, significa perdere tempo. Perché solo perdendolo si può veramente ritrovare se stessi.

Il mito della produttività deve essere decostruito: non siamo macchine e non dovremmo trattarci come tali. Forse la vera chiave del successo non sta nel fare di più, ma nel saper scegliere ciò che davvero conta.

Bisogna spezzare la catena, prima che sia troppo tardi. Prima che, alzando gli occhi dalla scrivania, ci accorgiamo che il mondo è finito e che noi non ce ne siamo nemmeno accorti.

 

Gaetano Aspa

Maura Gancitano all’Università di Messina: una masterclass per decostruire gli stereotipi di genere

Mercoledì 23 aprile alle ore 10.30, presso la Sala dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, l’Università di Messina ospiterà Maura Gancitano, filosofa, saggista e co-fondatrice del progetto culturale Tlon, per una masterclass pubblica dedicata al tema della costruzione sociale degli stereotipi di genere e al ruolo del pensiero critico nella formazione delle identità.

L’iniziativa nasce nell’ambito della partnership tra l’Ateneo e Taobuk – Taormina International Book Festival, un’alleanza che intende rafforzare il dialogo tra cultura contemporanea e formazione accademica, attraverso momenti di confronto aperto e interdisciplinare.

La filosofia come pratica di consapevolezza

Maura Gancitano, da anni figura di riferimento nel panorama della divulgazione filosofica, condurrà un intervento che intreccia filosofia, sociologia e studi di genere, con l’obiettivo di esplorare i meccanismi attraverso cui gli stereotipi si originano e si diffondono all’interno della società. La sua lezione sarà un invito alla decostruzione delle narrazioni dominanti, che troppo spesso condizionano il modo in cui ci percepiamo e ci relazioniamo.

Il pensiero critico diventa così uno strumento trasformativo, capace di smascherare le strutture simboliche e culturali che sorreggono le disuguaglianze di genere e di offrire nuove possibilità di racconto e di esistenza.

Un dialogo interdisciplinare

A dialogare con la filosofa saranno la professoressa Vittoria Calabrò, storica delle istituzioni politiche e Presidente del CUG (Comitato Unico di Garanzia) dell’Ateneo, e la professoressa Milena Meo, sociologa politica e Vicepresidente del CUG. Insieme esploreranno i contesti in cui gli stereotipi si sedimentano e si riproducono – dalla scuola ai media, fino alla famiglia – interrogando anche le responsabilità delle istituzioni educative nella costruzione del pensiero libero.

L’incontro sarà introdotto dai saluti istituzionali della Rettrice Giovanna Spatari e si rivolge a studenti, docenti e alla cittadinanza, con l’intento di promuovere un confronto aperto e partecipato su uno dei temi più urgenti della contemporaneità.

Parteciperanno anche i corsisti di UniMe GDS Lab, coordinato da Natalia La Rosa (Ses) e la prof.ssa Maria Laura Giacobello (UniMe).

Una lezione per ripensare l’identità

In un momento storico in cui la riflessione sull’identità e sulle relazioni di genere attraversa il dibattito pubblico, questa masterclass rappresenta un’occasione preziosa per attivare nuove consapevolezze, ripensare i modelli culturali dominanti e offrire strumenti critici per trasformare la realtà sociale.

Gaetano Aspa

Quando la passione grida e la ragione tace. Medea oltre la vendetta

Quante voci soffocate tra le pagine della letteratura? Quante parole, intrise di pregiudizio e ostilità, hanno contribuito a marginalizzare l’esperienza femminile? Notiamo una costante, un’ombra che ci perseguita attraverso i secoli:  le voci soffocate delle donne, accompagnate dall’eco di un linguaggio che denigra e oscura. Come il grido disperato e poi vendicativo di Medea, la cui passione tradita si trasformò in un monito eterno sulla furia di una donna ferita e sulla violenza che può scaturire dal silenzio imposto.

Una letteratura che ha spesso oscillato tra l’idealizzazione e la marginalizzazione della figura femminile, descritta come creatura angelica o demoniaca, incapace di ragionare, privata di una voce autonoma e rappresentata attraverso il filtro dello sguardo maschile.

 

Medea e la vendetta nella tragedia

Medea. Eroina tragica, un turbine di emozioni, una psiche contorta. Una donna che ha abbandonato tutto e ha  dimostrato una labilità emotiva tipicamente umana. Tragica è la complessità della potente donna di Euripide, demonizzata per il suo dolore e la sua rabbia, interpretati attraverso la follia e la vendetta.

Medea, barbara e straniera in terra greca, abbandona la sua patria e la sua famiglia per amore di Giasone, eroe in cerca del Vello d’Oro.
Grazie alla sua astuzia e alle sue arti magiche, lo aiuta a conquistare l’impresa, legando indissolubilmente il suo destino a quello dell’amato. Tuttavia, la passione si incrina di fronte all’ambizione di Giasone, che la ripudia per sposare la giovane principessa Glauce, figlia del re Creonte.

È in questo abisso di umiliazione e abbandono che emerge una Medea “iconica”: non più l’amante devota, ma la donna ferita nell’orgoglio e nella dignità, che non può sopportare di essere messe in un angolo. Consumata dalla rabbia e da un desiderio di vendetta che non conosce limiti, arriva a compiere tradimenti e uccisioni, pur di ricevere un amore totalizzante e incondizionato.

Attraverso un’oscillazione tra la forza intellettuale e la vulnerabilità emotiva,  la protagonista di una delle tragedie più note di Euripide mostra come la sua voce, quando ignorata, possa trasformarsi in un atto di distruzione.

 

Un potente archetipo femminile

«Di tutte le creature che hanno anima e cervello, noi donne siamo le più infelici; per prima cosa dobbiamo, a peso d’oro, comprarci un marito, che diventa padrone del nostro corpo – e questo è il male peggiore. Ma c’è un rischio più grande: sarà buono o cattivo? Separarsi è un disonore per le donne, e rifiutare lo sposo è impossibile. Se poi vieni a trovarti fra nuove usanze e abitudini diverse da quelle di casa tua, dovresti essere un’indovina per sapere come comportarti con il tuo compagno. […] Dicono che viviamo in casa, lontano dai pericoli, mentre loro vanno in guerra; che follia! È cento volte meglio imbracciare lo scudo piuttosto che partorire una volta sola».

(Euripide, Medea, vv.230-251)

Questo sfogo di Medea, definito come il primo manifesto femminista della letteratura greca, esprime la sua profonda infelicità e la condizione di svantaggio delle donne della Grecia antica, legate a una forma di ingiustizia.

Una mentalità androcentrica quella della cultura greca, contestata dal tragediografo greco. Con un accenno alla propria condizione, Medea si presenta come una parte di insieme, richiedendo una certa complicità all’identità femminile.

La tragedia mette in discussione i ruoli di genere e le dinamiche di potere nelle relazione, in cui la donna si ribella e affronta la battaglia emotiva che la rende vittima di se stessa.

Medea ci offre una lettura in chiave femminista, rivelando una donna che si ribella alla subordinazione e si riappropria del proprio destino, sebbene con mezzi estremi.

Il cuore della tragedia è il tradimento e la conseguente vendetta. Niente di nuovo se pensiamo alla condizione che ci ritroviamo ad affrontare ai nostri giorni. Relazioni tossiche, crimini “passionali” e confini di libertà oltrepassati.

Oggi, in un’epoca di crescente consapevolezza sulla necessità di decostruire gli stereotipi, la figura di Medea si rivela stimolante nelle riflessioni sul potere femminile, sulla sua repressione e sulle sue possibili, anche tragiche, manifestazioni. Ci invita a considerare la storia non solo come un racconto di orrore, ma ad affrontare sempre gli stessi problemi, evidentemente non superati.

Una tragedia che, dopo 2500 anni, continua a rappresentare un attuale specchio doloroso delle passioni umane.

Elisa Guarnera

Dio 2.0: il Vangelo del nuovo millennio

Dio 2.0
Dio 2.0 è uno dei romanzi che meglio descrive la nostra era. Voto UVM: 5/5

 

Quando il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche annunciò, nel frammento 125 de La Gaia scienza, che Dio fosse morto, aggiunse anche che ora le ombre di Dio ne avrebbero preso il posto, perché l’uomo ha bisogno di qualcosa in cui credere, in cui riporre le sue speranze. Dopo la morte del primo Dio, ne sorge uno nuovo, fatto però non di speculazioni metafisiche ma di algoritmi; sorge il Dio 2.0 raccontato da Danilo Conti.

Copertina di Dio 2.0 di Danilo Conti

 

Il mondo di Dio

La storia di Dio 2.0 è semplice e lineare: a Gift Town, una cittadina stile USA anni ’50, vive la famiglia Turner, composta dal padre Seth, la madre Samantha, e il figlio preadolescente Brian. Tutti, a Gift Town, vivono seguendo i precetti del Codice Sacro, testo donato all’umanità da Dio in persona, il quale si manifestò nel cosiddetto Giorno della Rivelazione. Da allora, l’umanità vive sotto la guida diretta di Dio e dei suoi sacerdoti, i quali amministrano la società tramite i “punti sociali”, una sorta di metro del buon cittadino: chi compie azioni positive, segue il volere di Dio e non crea problemi, guadagna punti e riceve benefici di varia natura; chi invece si ribella all’ordine costituito li perde, e, qualora i punti si azzerassero, ecco che si spalancano le porte dell’Inferno, una landa desolata e inospitale, nella quale i condannati svolgono lavori forzati.

Dio 2.0
La Gaia Scienza di Friederich Nietzsche. Edizioni Adelphi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un Abramo mancato

Brian è un ragazzino irrequieto e pieno di domande sul mondo, in conflitto con la società in cui vive, troppo chiusa e ingabbiata nei dogmi di Dio e del Codice Sacro. Questo abito mentale indossato da tutti, dai compagni di classe alla madre, sta stretto a Brian, il quale inizia la sua personale ribellione contro la società in cui vive. Di fronte a quest’irrequietezza, i suoi genitori reagiscano in due modi molto diversi: la madre Samantha, estremamente devota, reagirà duramente e severamente, e cercherà di ricondurre il ragazzo ai principi del Codice Sacro; Seth, invece, cercherà una via di dialogo col figlio, di capire il momento che Brian sta passando e aiutarlo nel difficile compito di trovare delle risposte.

Tuttavia, sarà proprio questo atteggiamo accondiscendente di Seth a infastidire Dio, il quale si manifesterà all’uomo per dargli un ordine: punire severamente suo figlio. Seth sarà quindi diviso tra l’ordine superiore che dovrebbe rispettare e l’amore che prova per Brian, in maniera non dissimile dall’Abramo kierkegaardiano, al quale fu ordinato di sacrificare Isacco. Ma se Abramo deciderà di affidarsi completamente alla volontà superiore dalla quale l’ordine era giunto, così non riuscirà a fare Seth, il quale non solo si rifiuta di punire Brian, ma rimarrà al fianco del figlio anche nel momento peggiore che i due si troveranno ad affrontare: la condanna all’Inferno.

Dio 2.0
Il sacrificio di Isacco

Un Dio desiderato

Durante la sua prigionia all’Inferno, Seth entrerà in contatto con un piccolo nucleo di resistenza contro la dittatura teocratica che li governa. Questo nucleo sta organizzando un piano di fuga, che prevedeva anche la liberazione di una fabbrica di giocattoli dove sono confinati ragazzini come Brian. Sarà durante l’attuazione del piano che Seth rincontrerà suo figlio. I due scappano insieme al resto del gruppo e, quando il piano andrà a buon fine, sarà uno dei capi della resistenza chiamato Isaac a prendere la parola: egli rivela che il Dio che governa il mondo altro non è se non un complesso artificio reso possibile da avanzatissime forme di intelligenza artificiale, il cui solo scopo era pacificare definitivamente l’umanità. Era qualcosa di voluto, di desiderato per non cedere al caos, e infatti la fede stessa in questo Dio altro non è se non un massiccio lavaggio del cervello.

Deus in machina

L’umanità aveva dunque bisogno di un Dio a guidarla, e alcuni ingegneri hanno creato quella divinità, inscrivendone anche dei codici morali tramite i quali guidare e giudicare la condotta umana. Dio e le macchine coincidono in quello che l’ingegnere Federico Cabitza chiama deus in machina, ossia una forma di tecnologia talmente avanzata da sembrare una divinità dalla quale far discendere verità e giustizia morale. Ma entrambe sono, in realtà, né più né meno che codici inscritti dall’uomo stesso all’interno di quelle macchine.

Tuttavia, la divinità di Dio 2.0 riuscì a garantire, come dice Isaac, solo la felicità umana, e non la giustizia, e lui lo sa bene poiché era stato tra i programmatori di quella macchina, ed è stato mandato all’Inferno. Ma non per questo Isaac si è lasciato abbattere, e anzi ha organizzato un gruppo di resistenza, al quale dice che Dio, in realtà, non è necessario all’umanità per fare del bene o anche solo coesistere, e anzi, aggiunge l’anziano parlando con Brian, se un qualche Dio esiste, ha creato gli umani proprio per essere liberi.

Dio 2.0 e il nostro mondo

Dio 2.0 è un romanzo che ha moltissimo da dire sulla nostra epoca, nella quale proliferano, dopo la morte del vecchio Dio, nuove chiese, e una nuova divinità. Una divinità meccanica, tecnologica, non metafisica, ma che assolve alle stesse funzioni della divinità metafisica. L’uomo, come diceva Nietzsche, ha ancora bisogno di credere, e ancora è da venire il giorno in cui l’umanità si sarà affrancata a tutte le divinità, uscendo così da ogni forma di nichilismo, divenendo finalmente libero.

 

Alberto Albanese