Ritorna la cerimonia di Consegna dei Diplomi di Laurea: aperte le iscrizioni

Hai conseguito, tra maggio 2019 e maggio 2022, una laurea triennale, magistrale o magistrale a ciclo unico presso l’Università degli Studi di Messina?

L’Ateneo ha organizzato ancora una volta, dopo la pausa forzata dovuta alla diffusione della pandemia, la cerimonia di Consegna dei Diplomi di Laurea. L’evento sarà l’occasione perfetta per condividere con la comunità accademica, amici e parenti l’orgoglio e la felicità per il traguardo raggiunto.

Dove e quando si terrà l’evento

La cerimonia si terrà la sera del 26 luglio, a farle da cornice sarà lo splendido Teatro Antico di Taormina che anche nelle precedenti edizioni aveva accolto l’evento.

Come partecipare

I neolaureati interessati a partecipare dovranno seguire una semplice procedura accedendo a questa piattaforma: https://code.unime.it/taormina2022/ tramite le proprie credenziali ESSE3.

Durante la procedura sarà possibile comunicare il numero di accompagnatori (fino ad un massimo di 4) e decidere se avvalersi dei servizi di trasporto messi a disposizione dall’Ateneo.

N.B. la procedura di iscrizione sarà attiva fino alle 23,59 del 31 maggio (o fino alla disponibilità di posti).

Procedura per gli studenti che non sono più in possesso di un account istituzionale

I laureati che, essendosi laureati nelle sessioni precedenti, non si trovassero più in possesso dell’account istituzionale UniMe, per partecipare alla cerimonia dovranno inviare una mail al seguente indirizzo welcomepoint@unime.it

In allegato bisognerà inserire queste informazioni con le rispettive risposte:

  • Nome, cognome e numero di matricola dell’interessato;
  • Numero accompagnatori: 0, 1, 2, 3, 4;
  • Eventuali disabilità degli accompagnatori:  NO, SI;
  • Interesse ad utilizzare il servizio di trasporto: NO, SI;
  • Interesse degli accompagnatori al servizio di trasporto: NO, SI;
  • Altezza in cm (per toga);
  • Eventuali disabilità dell’interessato: NO, SI. 

Prima della cerimonia

Prima della cerimonia ai partecipanti verranno consegnati la toga, i biglietti d’ingresso e i tagliandi nel caso si usufruisca del servizio di trasporto.

Ulteriori dettagli verranno comunicati nelle prossime settimane. Per chiedere informazioni rivolgersi al seguente indirizzo email:  consegna.diploma@unime.it

Ornella Venuti

Dallas Buyers Club: quando l’amicizia vince sui pregiudizi

Un film che spiega il dramma dell’Aids tra autenticità e amicizia– Voto UVM: 5/5

 

Gli anni ’80 li conosciamo grazie a film come Flashdance, Stand By Me, Karate Kid e tanti altri che ci hanno fatto sognare e desiderare di vivere in quell’epoca fatta di capigliature voluminose, palette fluo, e sale giochi che si riempivano di bambini e ragazzi dopo il suono della campanella.

I mitici anni ’80, però, avevano un’altra faccia: quella dei pregiudizi e delle “malelingue”. Per il mondo si diffondeva per la prima volta la malattia dell’Aids, e con essa false credenze alimentate dall’ignoranza, tra chi pensava che fosse un virus che potevano contrarre solo gli  omosessuali e chi aveva paura di stringere anche solo la mano di un sieropositivo.

Dallas Buyers Club è un film uscito nel 2013 diretto da Jean-Marc Vallée, che vede come attori protagonisti i due premi Oscar Matthew McConaughey  e Jared Leto, che, grazie alle loro interpretazioni in questa pellicola, si sono portati a casa rispettivamente l’ambita statuetta di “miglior attore protagonista” e  quella di “miglior attore non protagonista”.

Qui i due attori racconteranno la vera storia del cowboy Ron Woodroof, malato di AIDS, costretto a curarsi da solo per via dei costi esorbitanti dei farmaci.

Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

L’amicizia che sfida i pregiudizi

Tra il 1985 e il 1986, nel sud del Texas si svolge la vicenda di un cowboy di nome Ron Woodroof (Matthew McConaughey), che conduce una vita allo sbaraglio tra droga, alcool e sesso non protetto. Infatti per via della sua incoscienza, (o della mancanza di conoscenza), contrae il virus dell’HIV e successivamente si ammala d’AIDS. Durante quegli anni, i malati di AIDS erano considerati dei veri e propri appestati, anche per la scarsità di informazioni che giravano attorno a questo nuovo virus. La sanità negli Stati Uniti – come sappiamo – è accessibile solo per coloro che hanno una buona assicurazione, perciò il cowboy deciderà di contrabbandare farmaci non approvati in Texas, per curarsi da solo, ma anche per aiutare le persone con la sua stessa malattia. Dopo poco tempo aprirà  il “Dallas Buyers Club” , sfidando l’opposizione della Food and Drug Administration.

“Avvocato, voglio un’ordinanza restrittiva contro il Governo e la FDA.”

Ron, all’inizio pensa che la diagnosi sia sbagliata: essendo omofobo, crede che l’AIDS sia una malattia che contagi solo i gay. Col passare del tempo, però, i suoi sintomi peggiorano: Ron finalmente accetterà  la sua malattia, ma perderà il proprio lavoro e tutti i suoi amici, giacché quest’ultimi pensano che sia gay.

Durante una delle proprie visite in ospedale, Ron conoscerà Rayon (Jared Leto), una transgender tossicodipendente e sieropositiva.

A sinistra Rayon ( Jared Leto) a destra Ron ( Matthew McConaughey) in una scena del film. Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

Rayon è un uomo, che ha sempre desiderato nascere in un corpo femminile, ma a causa della sua vita difficile non ha mai potuto cambiare il proprio sesso e così si sente imprigionato dentro un corpo che non riconosce.

Rayon: Signore, quando ci incontreremo voglio essere molto bella. Fosse l’ultima cosa che faccio. Sarò un bellissimo angelo.”

Nonostante all’inizio tra i due non corra buon sangue, per via dell’omofobia che condiziona il protagonista, da lì in poi nascerà un’amicizia senza confini, pura e vera. Col tempo Ron vedrà in Rayon l’unica vera amica che abbia mai avuto, la sola che gli è rimasta vicina mentre tutti gli avevano voltato le spalle. Assieme affronteranno l’atroce sofferenza dell’Aids, abbattendo i pregiudizi e aiutando le persone malate e abbandonate dal proprio Paese.

La forza dei legami umani

Matthew McConaughey e Jared Leto al momento sono tra gli attori più bravi in circolazione e, grazie al loro talento, riescono a dare dignità ai propri  personaggi, rendendoli unici, storici. Come hanno fatto con Ron e Rayon, due soggetti non facili da interpretare. Come fanno due attori a colpire così profondamente nell’anima rendendo il telespettatore partecipe del dolore dei due protagonisti?

Ci mostrano le sofferenze e la crudeltà dietro cui si nasconde l’ignoranza con un realismo che parla di dolori e di gioie, che trasmette il messaggio che, per quanto possa essere difficile una situazione, se hai qualcuno accanto a te sembrerà meno dolorosa. Questa è la meravigliosa forza intrinseca degli sforzi  umani, che si riaccende quando meno te l’aspetti, restituendo valore a ciò in cui non credevi più.

L’abbraccio fraterno tra Rayon e Ron. Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

Alessia Orsa

Un sistema che non precluda voci ma che sappia riconoscere i falsi

Ha un limite la libertà?

Il 3 maggio si è celebrata la Giornata Mondiale della Libertà di Stampa ma ancora oggi ci si interroga su quale sia il suo limite invalicabile, semmai debba esservene uno.

Una storia sbagliata

Il primo paese che abolì la censura, nel 1695, fu l’Inghilterra, dove già nel corso del Cinquecento era stato istituito un severissimo sistema di controlli sulla stampa. Dovette passare quasi un secolo, prima che tale censura venisse abrogata anche in Francia. Appena dopo la presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, la libertà di stampa fu proclamata dalla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”. Non tardarono però ad arrivare contestazioni da un gruppo di rivoluzionari. E anche un giurista francese considerò non un’utopia ma un’assurdità questa libertà illimitata che mai dovrebbe esistere nella legislazione di un popolo civile.

Si aprì così a Parigi, nell’estate del 1789, un dibattito sui limiti della libertà di stampa e di parola, a cui si cerca ancora una risposta. Sempre in Francia, infatti, lo stesso dibattito si riaccese dopo la strage al settimanale satirico Charlie Hebdo” nel 2015. Sorse dunque spontaneo chiedersi se fosse giusto o meno fare della satira, in quel caso sulla religione, senza tener conto della sensibilità di alcuni lettori. E la risposta non può che essere affermativa, in una società in cui (purtroppo o per fortuna?) vige la tutela dell’illimitata libertà di parola e di stampa. In cui illimitato vuol dire che tutto può essere oggetto di satira e di giudizio.

Libertà di stampa: utopia o distopia?

Dovremmo forse affidarci alle parole del filosofo olandese Baruch Spinoza, che all’interno del suo “Trattato teologico politico” propone per tutti una libertà di pensiero e di parola non illimitata. Il filosofo afferma infatti che è un diritto di ognuno esprimere il proprio pensiero, ma bisognerebbe limitarsi ad esporlo semplicemente seguendo la propria ragione, senza inganno, ira o odio nei confronti altrui.

C’è chi invece nel corso della storia non ha esitato a riconoscere ai sovrani la piena facoltà di giudicare le varie opinioni. Ma pensiamo davvero a cosa significherebbe istituire un controllo sulla libertà di stampa, evitando la pubblicazione di quei giornali ritenuti magari sconvenienti. Ciò rievocherebbe soltanto uno dei più terribili scenari orwelliani, mettendo nelle mani di un giudice l’immenso potere di decidere quando una libertà possa essere esercitata e quando no, sulla base del solo gusto personale. Può essere questa considerata “libertà di stampa”?
Essa dovrebbe piuttosto rappresentare un potere per contrasto: i giornali, in primis, dovrebbero dimostrare la capacità e la volontà di opporsi ad un potere “malato”, e non farsi soggiogare da esso.
Ora più che mai abbiamo bisogno che la stampa si metta in ascolto dell’altro ed eviti di appiattirsi sullo scontro politico.

La libertà di stampa non è un privilegio…

“Voi, la stampa libera, contate più di quanto abbiate mai fatto nel secolo scorso”

Sono state queste le parole pronunciate qualche giorno fa dal Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, alla cena dei Corrispondenti alla Casa Bianca. Tradizione ripresa dopo i due anni di sospensione voluti da Donald Trump, che ha sempre dimostrato una certa sfiducia nei confronti dei media, scagliandosi di continuo contro stampa e giornalisti. Per Biden, invece, il buon giornalismo serve da specchio della società, per riflettere sul bene, sul male e soprattutto sulla verità. Il Presidente non ha perso l’occasione per ringraziare i reporter di tutto il mondo che con coraggio oggi si fanno portavoce proprio di quella verità che affligge l’Ucraina, mettendo a rischio la loro stessa vita. Perché “libertà di stampa” in fin dei conti vuol dire anche “assoluta indipendenza dagli uomini del Governo”.

Lo sanno bene tutti quei giornalisti indipendenti della Russia che rischiano fino a quindici anni di carcere parlando della guerra in modo oggettivo e subendo la peggiore censura degli ultimi decenni. La stampa, dunque, non dev’essere nemica del popolo, ma piuttosto porsi come guardiana di una libertà ormai in bilico da troppo tempo, sempre pronta a mettersi dall’altro lato della barricata, nella parte scomoda, per difendere i propri ideali e la propria autonomia.

…è una necessità!

Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel discorso tenuto in occasione dei 70 anni della Gazzetta del Sud, ha colto l’occasione per sottolineare l’importanza dell’indipendenza dell’informazione, definendola “l’unico riparo dalle sfide imposte dagli eventi del mondo”. Il Capo dello Stato ha poi continuato spiegando l’importanza di un sistema informativo che senza precludere nessuna voce riesca ad informare con proprietà critica i suoi lettori su ciò che accade nel mondo.

La libertà di stampa è alla base della democrazia e in quanto tale è necessaria alla sua realizzazione: fin quando un Paese avrà un’informazione indipendente e funzionale allora potrà vantare un buon governo.

 

Domenico Leonello

* Articolo pubblicato il 05/05/22 all’interno dell’inserto “Noi Magazine” di Gazzetta del Sud.

Distacco della piattaforma Conger: cosa accade in Antartide

Le terre dei ghiacciai sono solo alcune delle vittime del riscaldamento globale. Tra tutte le aree colpite, l’Artico e l’Antartide, insieme alla calotta groenlandese, sono le più sofferenti. Negli ultimi 40 anni la massa di ghiaccio perso in Antartide è aumentata di sei volte, portando ad un innalzamento del livello del mare di 1, 3 cm.

Cosa sta succedendo in Antartide?

Basta osservare gli ultimi eventi per comprendere come l’Antartide stia andando alla deriva. È recente la notizia secondo cui la piattaforma Conger, lunga 8 km e situata nella parte occidentale della Wilkes Land, sia collassata. Gli scienziati stanno ancora approfondendo i motivi dell’incidente, ma tra questi segnalano sicuramente l’aumento eccezionale delle temperature. Verso marzo l’area è stato colpita da un’anomala ondata di calore, che ha innalzato le temperature fino a 47 gradi.  È da sottolineare che la piattaforma aveva mostrato dei segnali di distacco già 15 anni fa, ma non aveva mai dato segni di un collasso così veloce. La situazione è peggiorata a partire dal 2020 e, tramite i rilievi satellitari, gli studiosi avevano dimostrato come già il 4 marzo del 2022 il Conger avesse perso metà della sua naturale estensione.

Distacco del ghiaccio: di cosa si tratta?

Il fenomeno del distacco del ghiaccio, o dell’ablazione glaciale, consiste nella rottura di una parte di ghiaccio appartenente ad una piattaforma, ad un ghiacciaio, ad un iceberg o ad un crepaccio. A seconda delle dimensioni del ghiaccio collassato si distingue tra un growler (alto meno di un metro e lungo meno di 5 m), un bergy bit (alto da 1 a 5 metri e lungo da 5 a 15 m), per poi individuare distacchi ancora più grandi, come nel caso del Conger.

Il momento precedente al distacco è caratterizzato da forti boati e, inoltre, la caduta del ghiaccio può provocare onde molto alte. Le ragioni  del distacco cambiano a seconda del caso considerato. Oltre alle temperature elevate, si possono riscontrare fenomeni sismici ed eventi mareali, onde di tempesta (storm surge), collisioni tra ghiacciai, screpolature del ghiaccio. Oggi gli scienziati stanno cercando di stabilire una legge previsionale del distacco, servendosi delle variabili di temperatura, densità, spessore, carico di impurità.

Fonte: blastingnews.com

Lo sviluppo del fenomeno tra XX e XXI secolo

Nel corso degli anni si sono susseguiti diversi fenomeni di questo tipo. Tra questi, il distacco di due aree della piattaforma glaciale di Larsen, nel 1995 e nel 2002. Nel primo caso si dispersero 3250 km2 di ghiaccio. Nel 2005, invece, quasi l’intera piattaforma glaciale di Ayles  si distaccò dal margine settentrionale dell’Isola di Ellesmere, che dal 1900 ha perso circa il 90% delle sue piattaforme. Allora si persero 87,1 km² di ghiaccio. Infine, una situazione molto critica, riguarda il ghiacciaio di Jakobshavn Isbrae, dal quale ogni anno si distaccano 35 miliardi di tonnellate di ghiaccio.

Jakobshavn Isbrae, Groenlandia

Antartide: non solo la piattaforma Conger

Accanto al Conger, sono parecchi i ghiacciai che continuano a collassare, come il ghiacciaio Totten e la piattaforma di Glenzer. Gli scienziati continuano ad osservare e analizzare questi eventi, mentre la loro attenzione è rivolta anche al ghiacciaio Thwaites, la cui caduta potrebbe determinare l’innalzamento dei mari globali di oltre mezzo metro. Il suo soprannome è infatti “ghiacciaio del giorno del giudizio”.

Gli studi condotti

Gli studi condotti hanno dimostrato che tra il 1979 e il 1990 l’Antartide ha perso circa 40 miliardi di tonnellate di massa di ghiaccio all’anno. La perdita è peggiorata sempre di più: tra il 2009 e il 2017 è risultata pari a circa 252 miliardi di tonnellate all’anno. Si è osservato come l’area più colpita sia la Wilkes Land, proprio il luogo in cui si trovava la piattaforma Conger.

Ghiacciaio Thwaites, Antartide

Consapevolezza tra scenari spaventosi

Al momento è difficile immaginare uno scenario positivo per l’Antartide, così come è difficile immaginarla privata dei suoi ghiacciai. Gli eventi che portano al loro collasso sono  peculiari, ma è semplice intuire che se non controllati  potrebbero portare a distacchi ancora più intensi, con conseguenze  per l’intero pianeta. Comprendere cosa accade in territori lontanissimi da noi significa sapere cosa sta accadendo e cosa potrebbe accadere a livello globale.

In questo caso non esiste alcuna distanza.

Giada Gangemi

Bibliografia:

I segreti di Silente: un altro flop?

Con un intreccio che fa acqua da tutte le parti, il terzo capitolo di “Animali Fantastici” non soddisfa le aspettative dei fan – Voto UVM: 2/5

I segreti di Silente arriva nei cinema dopo il poco convincente secondo capitolo della saga Animali Fantastici e dove trovarli, che ha fatto arrivare molti scettici in sala. È riuscito quindi a farci uscire soddisfatti?

La riposta è più no che si, purtroppo. Molti elementi risultano essere frutto di una gestione confusionaria, con personaggi ed intere sequenze poco rilevanti per lo sviluppo della trama. Risaltano invece la doti attoriali dei due veri protagonisti del film, Jude Law e Mads Mikkelsen, vere gemme della pellicola. Ma andiamo più nello specifico.

Il film parla ancora dello scontro “fratricida” tra Silente (Jude Law) e Grindelwald (Madds Mikkelsen). La loro lotta si sposta ora in campo politico: il mago oscuro sta infatti cercando di scalare le gerarchie del potere per scatenare la sua guerra contro i babbani. A Silente sta quindi il compito di fermarlo, con l’aiuto del suo gruppo.

Cosa non ci ha convinto de I segreti di Silente

I pregi in questo film non mancano: anche gli animali, dopo essere scomparsi nel secondo capitolo, tornano con un ruolo predominante in questo. Un grande aiuto è stato dato alla Rowling nella scrittura: dopo il secondo film era chiaro a chiunque infatti che la scrittrice non fosse la più adatta a scrivere sceneggiature, avendo esperienza solo coi romanzi. Il film infatti ha un ottimo ritmo e riesce a coinvolgere lo spettatore.

Sebbene quindi ci siano note positive ne I segreti di Silente, non riusciamo a promuoverlo del tutto, per degli errori molto evidenti che nascono dalla cattiva gestione della saga in toto: anche questo film infatti non è nient’altro che un riempitivo e la sensazione generale che si ha è che sia servito di fatto solo ad aggiustare ciò che di critico vi era stato nel secondo capitolo.

Molti personaggi diventano estremamente secondari se non veri e propri figuranti che, se eliminati, non avrebbero avuto effetto sullo sviluppo dell’intreccio. La stessa cosa succede a molte sequenze per cui ci siamo ritrovati a sperare che finissero il prima possibile affinché la trama andasse avanti.

Jude Law in una scena del film. Fonte: Warner Bros.

Anche i motivi stessi per cui la trama va avanti sono costruiti su un castello di carte. Badate bene, l’intera saga di Harry Potter non ha mai brillato nella scrittura delle sue parti strettamente politiche, ma in questo film si raggiungono assurdità quasi ridicole.

Secondo la tradizione, l’elezione del Capo Supremo del mondo magico avviene in questo modo: il candidato prescelto sarà quello davanti cui si inchinerà il qilin, sorta di creatura magica capace di discernere i puri di cuore.  Ma chi di voi alla fine darebbe il potere ad un puro di cuore? E come si fa a trovare sempre quel puro di cuore, nel corso della storia del mondo magico, tra i candidati delle varie fazioni? La lungimiranza non è di casa neanche nella politica del nostro mondo – sia chiaro – ma almeno dalle nostre parti, sembra che tutto si “riesca a tenere in piedi”.

Parlando poi anche delle azioni dei buoni, il piano messo in atto per combattere un nemico che conosce in anticipo le mosse (Grindelwald ha il potere di prevedere il futuro) è si dichiaratamente un “non piano”, ma ciò arriva a discapito della comprensione generale. Lo spettatore che si ritrova sballottato da una parte all’altra e a “dover dare tutto per buono”. Ingaggiare un “non mago” per combattere un mago oscuro ha senso? Beh, se il capo dice di sì, allora va bene!

Cosa salviamo de I segreti di Silente

Insomma l’impalcatura del film non riesce a reggersi del tutto sulle sue gambe, ma è capace invece di farti interessare al legame tra Silente e Grindelwald. I due attori hanno una chimica incredibile, riescono benissimo a trasmettere il legame tra i due personaggi, soprattutto all’inizio e sul finale in cui interagiscono e comunicano tra loro e allo spettatore solo con gesti e sguardi.

Jude Law e Madd Mikkelsen nei panni di Silente e Grindelwald. Fonte: Warner Bros.

Dopo due capitoli che risultano riempitivi ed un primo che serviva solo a tastare le acque, possiamo quindi aspettarci un miglioramento nei prossimi film, sperando che gli sceneggiatori colgano gli errori dei precedenti.

Rimane comunque un peccato che il primo pensiero dopo la visione di un film sia: speriamo che il prossimo, adesso, sia migliore.

Matteo Mangano

Jacques Perrin, il marinaio della meraviglia

Volto angelico, capelli d’argento e occhi azzurri come il ghiaccio o, forse, sarebbe più appropriato dire “occhi azzurri come il mare” perché il mare lui l’ha sempre amato, venerato e omaggiato. Ci ha lasciati, all’età di 80 anni, Jacques Perrin, un marinaio della meraviglia prima ancora che attore, regista e produttore di successo. In un sessantennio di carriera ha dimostrato di possedere il raro dono dello spirito di un sognatore capace di stupirsi e stupire ancora e ancora.

«Se ci meravigliamo del mondo, vivremo meglio

Figlio d’arte, ha imparato a navigare lungo le coste della fantasia sin da bambino ascoltando la madre leggergli poesie e, all’età di 14 anni, sale sul palco per la prima volta.

È stato però il cinema italiano, terra cui rimane legato per tutta la vita, a offrirgli il suo primo ruolo importante, ne La ragazza con la valigia (1961) di Valerio Zurlini. Era l’epoca delle collaborazioni italo-francesi e la coppia Zurlini–Perrin diede alla luce altri celebri film, come Cronaca familiare (1962).

«Il fior de’ tuoi gentili anni caduto» (Ugo Foscolo)

È con questa citazione al sonetto “In morte al fratello Giovanni” che si apre la pellicola del regista bolognese.
Enrico (Marcello Mastroianni), giornalista trentacinquenne, riceve una telefonata che gli comunica la morte del fratello minore Lorenzo (Jacques Perrin). A questo punto la narrazione si svolge in flashback, e in flashback nel flashback, durante i quali Enrico cerca di comprendere il suo consanguineo più fragile e bisognoso di affetto.

Da sinistra a destra: Lorenzo (Jacques Perrin) ed Enrico (Marcello Mastroianni) in una scena del film “Cronaca familiare”. Fonte: Titanus

Cronaca familiare è un film struggente sulla debolezza e sul bisogno dell’altro. Il cinema di Zurlini ha sempre messo in scena tempeste di passioni. E in questo caso la passione è rappresentata dall’amore fraterno che il regista rende con grande sensualità e carnalità. Il film si chiude, in una scena devastante, con l’ultimo abbraccio dei due fratelli. Un momento disperato e intensissimo che Enrico interrompe non riuscendo ad accettare di vedere Lorenzo in fin di vita.

«Voglio ricordarti vivo.»

Il cloud della carriera di Jacques Perrin

Nel corso della sua carriera l’attore ha vinto molti premi, tra cui ricordiamo la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile al Festival di Venezia del 1966 per il film Un uomo a metà del cineasta italiano Vittorio De Seta. Nel film, di stampo psicanalitico, il regista sceglie di raccontare junghianamente, la proiezione di uno stato di coscienza, indagando nella mente di Michele (Jacques Perrin): un giornalista che ha appena attraversato un esaurimento nervoso. Ma la forte crisi sembra non essere conclusa del tutto. L’uomo infatti ripensa al difficile rapporto con la madre e al senso di inferiorità nei confronti del fratello. È così che la pellicola diventa una lunga seduta di auto-analisi. Un’ora e mezza di fuga dalla realtà attraverso i ricordi, i sogni e le paure di un uomo psicologicamente ferito.

Nel 1968, s’imbarca nella professione di produttore, al fianco di Costa-Gavras, per il film Z – L’orgia del potere (Z) (1969). Il fatto che nessuno volesse finanziare questo film sulla dittatura dei colonnelli greci scatena altri due talenti: la delicata denuncia politica e la capacità di trovare finanziamenti.

«Non parlo di soldi con i banchieri, parlo di un sogno da costruire

Totò adulto (Jacques Perrin) in una scena del film “Nuovo cinema paradiso”. Fonte: Cristaldifilm, Films Ariane

La sua carriera va a gonfie vele e, nel 1988, recita nel film che l’ha reso celebre e apprezzato in tutta Italia: Nuovo Cinema Paradiso, regia di Giuseppe Tornatore (1988). Chi non si è commosso guardando i frammenti di pellicola dei baci censurati salvati da Alfredo? Così come ha fatto Totò (Jacques Perrin), ormai adulto, tornato a casa dopo avere realizzato il suo sogno? Se non l’avete visto, potreste usare la fantasia (e Perrin, probabilmente, ne sarebbe ben lieto) oppure guardarlo, no?

Le pellicole naturalistiche

L’amore per la Madre Terra e l’animo da avventuriero lo portano altrove. Ed è così che produce alcuni documentari, tra i più noti: Microcosmos – Il popolo dell’erba (1996), Il popolo migratore (2001), e La vita negli oceani (2009).  La bramosa ricerca della felicità, per Perrin, non può che derivare dal rispetto verso la natura e dall’umiltà umana dinanzi la sua bellezza.

«Come non capire che la Terra non ci appartiene? Gli animali, le piante, sono a casa tanto quanto noi. E, se davvero dessimo loro il loro posto, vivremmo meglio

La lotta politica a difesa della natura è protagonista anche del suo ultimo film Goliath, regia di Frédéric Tellier (2022) che affronta la questione delle lobby e dei pesticidi.

Approdato all’isola del cinema appena ventenne, ne esce da ammiraglio pluridecorato (e premiato) dopo aver incantato e, soprattutto, meravigliato milioni di spettatori con il suo animo nobile cui Baudelaire, ne siamo certi, avrebbe detto: “Uomo libero, sempre avrai caro il mare“.

Au revoir marinaio della meraviglia, e merci per tutti i sogni che hai reso realtà!

Angelica Terranova
Domenico Leonello

Tra le pagine della vita di Sheldon Cooper

Divertente ma che lascia spazio alla riflessione, ottimo per passare del tempo in famiglia e con gli amici. – Voto UVM:5/5

 

Chi non ha adorato il personaggio di Sheldon Cooper (Jim Parsons) nella sitcom americana The Big Bang Theory? Probabilmente un po tutti abbiamo apprezzato la sua ironia, seppur un tantino tagliente, come anche il formidabile e divertente quartetto di scienziati insieme a Penny (Kaley Cuoco), Amy (Mayim Bialik) e Bernadette (Melissa Rauch). Bene, perché non è finita qua!

Personaggi principali di “The Big Bang Theory” in una delle consuete serate in compagnia a casa di Sheldon e Leonard. Fonte: Chuck Lorre Productions, Warner Bros.

I produttori Chuck Lorre e Steven Molaro ci hanno deliziato con una serie dedicata interamente a questo personaggio. Nata come spin off e prequel della serie “madre”, Young Sheldon è incentrata sull’infanzia dello scienziato. Arrivata in Italia nel 2018 attraverso la piattaforma streaming Infinity Tv, oggi entrerà a far parte del catalogo di Netflix.

Nella vita di Sheldon

Ambientata in Texas, troviamo un giovane Sheldon, interpretato da Iain Armitage, dell’età di nove anni, che, grazie alla sua innegabile intelligenza, si ritrova nei panni di uno studente liceale. In una famiglia in cui si sente poco a suo agio: tra una madre convinta credente sempre pronta a citare Dio, un padre allenatore della squadra di football del liceo, e due fratelli che non perdono tempo nel prenderlo in giro.

Poster Young Sheldon. Fonte: senzalinea.it

La sua intelligenza e la sua mancata emotività lo portano ad essere escluso sia all’interno che all’esterno del contesto domestico. Molto spesso, infatti, per via dei suoi comportamenti inusuali tende a mettere la famiglia in difficoltà agli occhi della comunità ma, nonostante ciò, vengono fatti vedere alcuni momenti di affetto, in cui tutti i membri della famiglia dimostrano il loro volergli bene. Con la voce narrante di Sheldon da adulto, ci viene rivelata un’analisi retrospettiva degli eventi mostrati negli episodi, con qualche dettaglio della serie originale.

Rapporto madre figlio…e non solo

Dato il rapporto conflittuale che ha sempre caratterizzato la scienza e la religione, ci si potrebbe aspettare una certa severità dalla madre Mary, interpretata da Zoe Perry, nei confronti di Sheldon. Ma non è questo che ci mostra la serie. Sua prima sostenitrice, Mary è sempre pronta ad aiutarlo e a confortarlo, sembra quasi essere l’unica a preoccuparsi del suo effettivo benessere. Non dimentichiamoci, inoltre, di “Dolce Kitty”, la ninna nanna che il piccolo scienziato le chiedeva di cantare quando stava male. Gesto rimasto anche nei panni di uno Sheldon adulto.

Mary e Sheldon in un momento affettuoso. Fonte: Chuck Lorre Productions, Warner Bros.

Un ruolo importante è giocato anche dalla nonna Connie, o “nonnina” come è solito chiamarla Sheldon. Contrariamente alla figlia è una donna irresponsabile e ciò porta alla nascita di molti conflitti con Mary. Ma quando si tratta del suo nipote preferito, è disposta a mettersi in gioco, dando del filo da torcere a chiunque.

Ultimo, ma non per importanza, è il padre George, interpretato da Lance Barber. Personaggio che trasmette l’idea classica di padre-allenatore che non desidera altro che il figlio giochi nella propria squadra di football. Viene mostrato un rapporto controverso con una percettibile sensazione di imbarazzo, ma nonostante ciò non mancano le dimostrazioni di affetto reciproco, evidenti soprattutto nell’incoraggiamento del padre verso i successi accademici di Sheldon.

Il piccolo Sheldon: perché guardarlo?

A sinistra Iain Armitage a destra Jim Parsons, entrambi interpreti del ruolo di Sheldon Cooper. Fonte: serietivu.com

Iain Armitage nella sua interpretazione riesce a mostrare benissimo i tratti distintivi dello Sheldon adulto di Jim Parsons, compresa la sua faccia inespressiva.

La serie molto apprezzata dal pubblico, in grado di essere vista anche da chi disconosce il mondo di ‘Big Bang’, è leggera, fluida e divertente ma non lascia fuori i problemi sociali e relazionali tipici di quegli anni. In conclusione, è un’ottima serie che vale la pena guardare. Detto ciò, Sheldon vi aspetta su Netflix!

Bazinga! a tutti.

Giada D’Arrigo

Miti e magia delle isole Eolie nell’incontro con l’antropologa Marilena Maffei

Sì è svolto giorno 12 aprile al Dicam l’incontro con l’antropologa Macrina Marilena Maffei, autrice dell’opera La maga e il velo. Incantesimi, riti e poteri del mondo magico eoliano, frutto della ricerca ventennale della studiosa sul fenomeno del magismo nelle isole Eolie. L’incontro ha visto la partecipazione attiva di studenti, dottorandi e cultori della materia, nonché del direttore del dipartimento di civiltà antiche e moderne Giuseppe Giordano, del professore Mario Bolognari e dell’antropologo Sergio Todesco che hanno aperto l’evento con dei brevi saluti.

Locandina dell'evento
Locandina dell’evento. Fonte: unime.it

A Mauro Geraci,  ordinario di Antropologia Culturale è spettato invece l’onore di introdurre l’intervento dell’autrice, di cui ha tracciato un profilo biografico alquanto interessante.

Laureatasi a Roma nel 1978 con una tesi sugli elementi fiabistici in Basilicata, sua terra d’origine, Maffei non è una studiosa inquadrata nei ranghi dell’ambiente accademico, bensì una ricercatrice che tocca con mano il suo ambito di interesse. Lo dimostra il suo approccio che documenta in maniera rigorosa le testimonianze dirette di un mondo contadino che ancora permea la modernità e a cui nelle sue opere è dedicato ampio spazio.

Nell’incontro con gli studenti del Dicam le dissertazioni astratte hanno lasciato il posto alla voce reale degli abitanti delle Eolie: i documenti sonori raccolti dalla studiosa durante il suo periodo di ricerca hanno intervallato più volte il racconto della studiosa su un mondo apparentemente arcaico e lontano. Un mondo che però, contrariamente a quello che siamo portati a credere, esercita ancora una forza di suggestione così potente negli abitanti delle isole che a un certo punto non è più possibile tracciare un confine netto tra mito e realtà talmente il primo permea la seconda e la asservisce ai suoi motivi.

Il professor Mauro Geraci accanto all’autrice Marilena Maffei. © Angelica Rocca

L’autrice, che prende la parola dopo il professor Geraci, ci parla di “figure fantastiche, oniriche, che raggiungono la densità del reale.” E sono proprio quelle che secondo i racconti popolari, abitano le Eolie, locus amoenus in cui terra e cielo si toccano, ma allo stesso tempo realtà costantemente minata dai terremoti, dai vulcani e fino a non molti anni fa dalla fame e dalla miseria.

Eolie e magia: il libro di Maffei unisce due mondi meravigliosi ed enigmatici che la studiosa ha avuto modo di conoscere tramite quei “cunti” della tradizione che ha portato alle orecchie e all’attenzione degli studenti in un incontro vivace e partecipato. 

Porte per l’aldilà, serpi chiomate e streghe volanti: i miti delle Eolie 

Il percorso tracciato dall’intervento di Maffei parte da un’immagine potente nelle credenze eoliane: il tópos del fuoco e del vulcano come porta per l’al di là. A conferma di questa tradizione che affonda le radici nell’antichità, la studiosa cita tra gli altri Jacques Le Goff che racconta nella sua opera famosa “La nascita del Purgatorio” di un crociato che tornando da Gerusalemme volle far tappa nelle Eolie convinto che qui si trovasse l’accesso agli Inferi. Ma immagine certamente più bizzarra e anche questa trais d’union tra mondo dei vivi e mondo dei defunti è quella della “serpe con i capelli”, caratteristica proprio dell’immaginario eoliano e concepita come reincarnazione di qualche “animicedda”.

Una credenza che trova riscontro anche in altre località meridionali ( basti pensare alla vicina Calabria dove anche qui si raccomanda di non uccidere i serpenti), ma che qui assume una forma particolare e insolita. Perché nelle Eolie queste anime imprigionate nei serpenti avrebbero addirittura capelli umani ( e qualche volta anche volto e mani)? Maffei risponde a questo legittimo interrogativo affermando che il contesto eoliano è talmente fragile e precario che qui la credenza nel mito non basta: diventa necessario allora avere prove, certezze concrete, conferme visibili di quanto si tramanda oralmente.

© Angelica Rocca

La discussione entra nel vivo quando ci avviciniamo a un altro personaggio degno delle migliori opere fantasy: quello della strega eoliana. Quali sono le sue peculiarità rispetto ad altre streghe o “befane” che popolano le leggende del Bel Paese? In realtà qui alla strega, non è associato alcun potere malefico, carattere diabolico o tratto mostruoso.

Nei racconti dei pescatori che hanno avuto la “fortuna” di avvistarle, emergono invece figure femminili bellissime, il più delle volte nude, le cosiddette “majare”, accomunate tutte da una caratteristica: la capacità di volare, ora per cielo grazie ad un unguento speciale, ora per mare su delle imbarcazioni.

Ed è proprio qui che la realtà storica delle isole, quella che viene spesso taciuta e rinnegata, trova uno sbocco nel mito di queste donne libere che volando sfidavano le regole di una società rigidamente patriarcale. Nelle Eolie erano proprio le donne ad andare per mare e a conoscere l’arte della pesca e della navigazione, mentre agli uomini era lasciato il lavoro dei campi. Questa consuetudine è taciuta dalla storiografia ufficiale e dalla tradizione popolare, ma si ritrova eco persino in qualche novella del Decameron ed è stata riportata alla luce proprio da Maffei che si è battuta tanto per farla riconoscere.

Oggi nel 2022 arriva finalmente una “grande vittoria per l’antropologia”: Clara Rametta, una sindaca di Salina, ha deciso di finanziare una statua dedicata alle donne che andavano per mare. Donne prostrate dalla fame e dalla miseria, ma capaci con la loro libertà di incutere timore negli uomini e per questo trasfigurate in streghe. Da qui il potere esorcizzante del mito, la sua capacità di farsi valvola di sfogo delle paure e delle speranze inconsce di un popolo che lo custodisce e lo tramanda ai posteri. Un potere così forte che continua ad affascinare e a incuriosire.

L’opera dell’autrice.© Angelica Rocca

Non sono mancate, al termine della giornata, le domande all’autrice sulla magia e il suo desiderio di dominare la realtà. Perché cosa fa un mago se non cercare di piegare la natura al suo volere? E cosa distingue a questo punto l’incantesimo dall’esperimento, la formula chimica da quella magica se entrambe si basano su un rapporto “causa-effetto” tra i fenomeni naturali? La magia con i suoi miti si può quindi definire la “sorella bastarda” della scienza. Conoscerla ( che non significa praticarla!) può aiutare a capire tanto anche della nostra contemporaneità.

Angelica Rocca

The French Dispatch: la dedica cinematografica al giornalismo

Pellicola vivace, leggera ed originale, in stile Anderson – Voto UVM: 5/5

 

Il cinema talvolta può divenire l’arma perfetta per portare sul grande schermo, e quindi davanti agli occhi di tutti, anche altre forme d’arte e d’espressione. Questo è proprio il caso di The French Dispatch of Liberty, Kansas Evening Sun, scritto e diretto da Wes Anderson (Grand Budapest hotel).

La pellicola è dedicata al giornale Newyorker ed a molti dei suoi cronisti, ai quali, in alcuni casi, Anderson si è ispirato per plasmare i suoi personaggi: in particolare la figura fulcro del film, il direttore Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray), è una trasposizione del fondatore del Newyorker, Harold Ross.

Questo film, così originale e tutto in stile pienamente Anderson è stato, insieme a Ultima notte a Soho, il grande escluso di quest’anno, in quanto non candidato in nessuna categoria degli Academy Awards.

It began as a holiday…

Da subito ci viene presentato lo schema del film. Esso comprende: un necrologio, una guida per i viaggi e tre dei migliori articoli tratti dal The French Dispatch. Questa edizione speciale, l’ultima, è fatta in onore del direttore Arthur Howitzer Jr., morto improvvisamente d’infarto. Quest’ultimo, trasferitosi per una vacanza da universitario ad Ennui, in Francia, aprì una propria sezione del giornale del padre dedicata ad arte, cucina, cultura locale e politica, riunendo la sua amata squadra di reporter tra cui Herbsaint Salzerac (Owen Wilson), J.K.L. Beresen (Tilda Swinton) Lucinda Krementz (Frances Mcdormand) e Roebuck Wright (Jeffrey Wright).

Il primo articolo riportato dopo le notizie su Ennui è Il capolavoro di cemento. Appartenente alla sezione “Arte”, narra le vicende del tormentato artista Moses Rosenthaler (Benicio del Toro), condannato a 50 anni di reclusione in una prigione-manicomio. Qui il mercante d’arte Julien Cadazio (Adrien Brody) scoprirà la sua arte, rendendolo famoso.

Il secondo articolo, Revisioni di un manifesto, presenta tutta una stagione di rivolte studentesche capitanate dai giovani Zeffirelli (Timothée Chalamet) e Juliette (Lyna Khoudri). Zeffirelli entra direttamente in contatto con Krementz (Frances McDormand), la reporter del The French Dispatch, la quale revisionando il suo manifesto, sarà coinvolta, pur cercando di mantenere la neutralità del cronista.

Il terzo ed ultimo articolo, La sala da pranzo del commissario di polizia, descrive la cena del reporter Roebuck Wright (Jeffrey Wright) dal commissario di polizia, preparata da un noto chef, il tenente Nescaffier (Stephen Park). Durante la cena, però, il figlio del commissario viene rapito e l’inviato del giornale si vedrà coinvolto nell’operazione di liberazione del bambino.

Un cast stellato

The French Dispatch è caratterizzato da un vasto cast corale, formato da alcuni degli attori più quotati del momento, tra cui anche svariati premi Oscar o candidati all’Academy, come Frances Mcdormand, Benicio del Toro, Adrien Brody e Saoirse Ronan. In più, è presente il cameo di tre grandi stelle del cinema hollywoodiano: Christoph Waltz, Willem Dafoe e Edward Norton, nel secondo e nel terzo racconto.

Il cast al festival di Cannes. Fonte: laRepubblica.it

Tecniche e peculiarità

Più che la bravura degli attori, più che la trama, in The French Dispatch quello che spicca veramente è proprio l’originalità con cui è stato realizzato. In particolare, vengono utilizzate ed alternate diverse tecniche cinematografiche. Un chiaro esempio si ritrova già nella scelta dei colori: alla pellicola prevalentemente in bianco e nero, si alternano delle scene cruciali, che si tratti di flashbacks o altro, con i classici colori brillanti andersoniani.

Inoltre, è anche molto curiosa la struttura stessa del film. Il tutto si presenta con un filo logico legato dalla singola edizione del giornale. In poche parole, è come se lo spettatore stesse sfogliando il The French Dispatch!

Da notare è anche la scelta del sottofondo musicale. La musica molto spesso influisce su come il film viene percepito in totale dallo spettatore, ed in questo caso bisogna sicuramente applaudire la bravura del compositore due volte Premio Oscar, Alexandre Desplat.

Due scene del film in bianco e nero ed a colori

Una cosa bisogna proprio dirla: Wes Anderson non smentisce mai il suo stile, e porta sul grande schermo una certa vivacità unica nel suo genere. Ma questa volta c’è anche di più: una dedica al Newyorker, e forse un po’ a tutti i giornalisti.

Mi sono dilungata troppo, ma direi che posso seguire il consiglio chiave dello stesso Arthur Howitzer Jr., ovvero…

“Just try to make it sound like you wrote it that way on purpose”

Ilaria Denaro

Peaky Blinders 6 è davvero l’ultimo atto di Thomas Shelby?

Un finale di serie dai ritmi un po’ lenti ma che permette di completare l’identità di tutti i personaggi di Peaky Blinders – Voto UVM 4/5

 

 

“Ero arrabbiato con il mio amico:
glielo dissi, e la rabbia finì.
Ero arrabbiato con il nemico:
non ne parlai, e la rabbia crebbe.”

È con questi versi, tratti da “L’albero del veleno” di William Blake, che ha inizio un nuovo capitolo di vita per Thomas Shelby (Cillian Murphy). Siamo nel 1933 e il proibizionismo viene abrogato dopo quattordici anni dalla sua attuazione. Tommy è ormai un uomo diverso. Ha abbandonato il whisky – che prima utilizzava per proteggersi dal dolore e dal freddo – ritenendolo ora colpevole dei moti rumorosi dentro la sua testa.
Per la prima volta nella sua vita si mette in dubbio, cercando di far pace con tutti i fantasmi del passato.

Tommy Shelby – Fonte: Caryn Mandabach Productions Ltd, © Matt Squire

Thomas Shelby: Dio, diavolo o comune mortale?

“È vero, io non sono Dio. Non ancora.”

Per quasi cinque stagioni, abbiamo osservato il delirio di onnipotenza di un giovane Tommy in continua ascesa, pronto a qualsiasi cosa pur di ottenere il tanto bramato potere. Da sempre per lui, ogni catastrofe è stata un’opportunità per ricominciare. Ma in questa stagione c’è qualcosa di diverso. Tommy, ormai visto da tutti – in particolar modo da Michael (suo nipote) – come il diavolo in persona, diventa vulnerabile. In seguito a una serie di traumi, cerca la redenzione dei suoi peccati e prova ad essere un uomo migliore, per sé e per chi gli sta attorno.

“Non sono il diavolo…ma solo un comune uomo mortale.”

Solo nel finale di stagione Tommy ritrova la fede, in Dio, e soprattutto in sé stesso come figura quasi immortale.

 Un obbligato ritorno alle radici per i Peaky Blinders

Dopo che il regista della serie Steven Knight, ha cercato in ogni modo di convincere tutti sulla veridicità degli eventi soprannaturali, il finale di quest’ultima stagione ha finalmente confermato che ogni maledizione e ogni previsione sul futuro erano reali.

Le visioni che hanno accompagnato “il capo della famiglia Shelby” per tutto questo tempo non sono state semplicemente il risultato del suo disturbo da stress post-traumatico. I fantasmi in Peaky Blinders esistono e sono sempre esistiti.

“Ma tu devi seguire le voci che senti, dargli ascolto, devi fare ciò che dicono.” (Il fantasma di Grace a Tommy)

Thomas e il fantasma di Grace. Fonte: Caryn Mandabach Productions Ltd

Se in passato è stato il fantasma di Grace (Annabelle Wallis), la defunta moglie, a guidare Tommy, sostenendolo quando nessuno lo ascoltava, in questa stagione sarà la zia Polly ad apparire in sogno sia a lui che al figlio Michael (Finn Cole).

Non dobbiamo infatti scordarci che la famiglia Shelby è di origine irlandese-rom. Thomas e i suoi fratelli hanno sangue rom da parte di entrambi i genitori, mentre Polly Gray (Helen McCrory) è la figlia della “principessa gitana”. Sarà proprio in assenza di quest’ultima che Thomas, sarà costretto a fare i conti con quella tradizione che ormai per troppo tempo aveva rinnegato.

Peaky Blinders: il mondo tra le due guerre

Fin dalla prima stagione, la serie ha esplorato l’impatto devastante della Grande Guerra sui personaggi. Accanto alle lotte contro nemici sempre pronti a minacciare la loro posizione di potere, Tommy e il fratello Arthur (Paul Anderson) combattono un’altra guerra contro i loro demoni interiori. Tentano di superare i traumi della guerra utilizzando alcolici e oppiacei come meccanismo di difesa per rimanere a galla.

Siamo nel 1933 e, con la nomina di Adolf Hitler a cancelliere, comincia l’ascesa del nazismo. Sarà proprio sulle note della struggente Blackbird che assisteremo a una scena di violenza nei confronti di Ada Shelby (Sophie Rundle), sorella di Tommy e vedova del comunista Freddie Thorne (Iddo Goldberg), colpevole di essere la madre di una bambina nera e di un figlio per metà ebreo, oltre che lei stessa una zingara. Le immagini ci mostrano come il fascismo bussi ormai anche alle porte dell’Inghilterra. “Merito” di Oswald Mosley (Sam Claflin), fondatore nel 1932 dell’Unione Britannica dei Fascisti, formazione politica di estrema destra, vicina al Partito Nazionale Fascista di Benito Mussolini.

Da una parte, dunque, vedremo le conseguenze di quanto iniziato da Oswald Mosley nella quinta stagione, dall’altra approfondiremo il viaggio interiore dei fratelli Shelby, ancora fortemente provati dalla Prima Guerra Mondiale.

“Stop al fascismo” in Peaky Blinders. Fonte: Caryn Mandabach Productions Ltd

…è davvero tutto finito?

L’ultima stagione della serie, che ha già debuttato nel Regno Unito su BBC One il 27 febbraio, arriverà in Italia sulla piattaforma Netflix il 10 giugno 2022. Inoltre, il regista che ha già confermato le riprese di un film, previste per il 2023, sembra non aver ancora intenzione di abbandonare l’universo dei “fo***ti Peaky Blinders”!

“Vedremo ancora la Gran Bretagna tra le due guerre. Scopriremo come il primo conflitto non sia stato d’insegnamento e come sia semplice ricadere negli stessi errori. Vedremo anche la fine dell’Impero: entreremo nella Seconda Guerra Mondiale e mostreremo quanto sia stata devastante. Ho rivisitato la storia che racconteremo, e andremo anche oltre la fine del conflitto. Voglio andare avanti, voglio vedere come procederanno le vicende narrate.” (Steven Knight)

 

Domenico Leonello