Deadpool & Wolverine: il nuovo film sull’eroe “chiacchierone”

Se non fosse per alcune citazioni metafumettistiche e metafilmiche, “Deadpool & Wolverine” altro non sarebbe che una nuova “superhero fatigue” da aggiungere alla lista dei film-flop targati Marvel. – Voto UVM: 4/5

 

Deadpool & Wolverine è un film del 2024 co-prodotto, co-scritto e diretto da Shawn Levy. È il terzo dedicato al mercenario chiacchierone della Marvel (i primi due erano slegati da questo universo e realizzati dalla Fox, prima che venisse acquistata dalla Disney).

I protagonisti della pellicola sono Ryan Reynolds, anche co-sceneggiatore e co-produttore, e Hugh Jackman, rispettivamente nei panni di Deadpool e Wolverine.

Sinossi alla Deadpool, anzi, alla Wolverine…

Sono passati sei anni dagli eventi del secondo film e Wade Wilson ha abbandonato il ruolo di Deadpool per vivere una vita tranquilla. Ma un giorno, la Time Variance Authority (rimandiamo alla nostra recensione della serie su Loki!) rapisce Wade comunicandogli che la sua linea temporale è in pericolo e rischia la cancellazione.

Wade riprende i panni di Deadpool e viaggia tra le varie linee temporali alla ricerca del “giusto” Wolverine in grado di aiutarlo. Purtroppo (o per fortuna) si imbatte in un Wolverine diverso da quello che conosciamo noi.

Deadpool e Wolverine litigano. Fonte: Disney
Deadpool e Wolverine litigano. Fonte: Disney+

È davvero la fine dei supereroi? Lo dice il “merc with a mouth” 

Tuttavia, urge ricordare ai dirigenti Disney che non basta un solo film a risollevare le sorti di un Marvel Cinematic Universe ormai a pezzi. Dopo Avengers: Endgame, sono stati tanti i film che hanno ricevuto recensioni negative sia dalla critica che dal pubblico. Flop al botteghino, fan delusi, universi sempre più espansi e complicati: è davvero la fine dei supereroi?

Se non fosse per l’effetto nostalgia e per alcune citazioni metafumettistiche e metafilmiche (incluse le considerazioni ironiche del personaggio-Deadpool sulla scarsezza artistica dell’attore-Reynolds e i rimandi alla dolce metà di quest’ultimo: Blake Lively), Deadpool & Wolverine altro non sarebbe che una nuova “superhero fatigue” da aggiungere alla lista dei film-flop (o, in questo caso, semi-flop) targati Marvel.

Wolverine e Deadpool in azione
Wolverine e Deadpool in azione. Fonte: Disney+

Un film da guardare a cervello spento? Senti chi parla!

Deadpool & Wolverine è un film che, per certi aspetti, riprende lo stile di Spider-Man: No Way Home: trama fragile e piena di fan-service. Non aggiunge nuovi pezzi al grande puzzle della Marvel. E menomale! Più che un cineuniverso crossmediale ormai sembra aver preso la piega di uno di quei corsi d’aggiornamento in cui non puoi permetterti di saltare un appuntamento. (Per nostra fortuna Deadpool è nato a “casa Fox”).

Nonostante tutto, la Disney non snatura lo stile e le caratteristiche del personaggio-Deadpool, conservando anche quella sua autoconsapevolezza metanarrativa che lo porta a sfondare la cosiddetta quarta parete. Anzi, la Disney porta sul grande schermo un film violento, divertente, scurrile, satiresco. Insomma, vietato ai minori, e la cosa non dispiace affatto!

Deadpool e Wolverine
Deadpool e Wolverine con il nuovo arrivato: Dogpool. Fonte: Disney+

Ryan Reynolds e Hugh Jackman? Una coppia da “sballo”

Pur mantenendo invariato (o quasi) il carattere di Deadpool, l’aggiunta di Wolverine dona al film una nota malinconica. Non è il Logan che ha reso celebre Hugh Jackman. Questo nuovo Wolverine (che non si vergogna ad indossare la tuta degli X-Men!) ha un peso sulle spalle, e con questo non ci ha ancora fatto i conti.

Ryan Reynolds e Hugh Jackman funzionano bene insieme e la loro “diversità”, – caratteriale e professionale, – ha permesso l’osmosi ideale tra i due archi narrativi (perfettamente bilanciati tra loro).

Quello di Shawn Levy è sicuramente uno dei film dell’anno, ottimo per passare una serata spensierata al cinema!

 

Giorgio Maria Aloi

Taormina Film Fest 70: Finché notte non ci separi

Un film piacevole e divertente, romantico ma non troppo, esuberante al punto giusto. Voto UVM: 1/5

 

Entro, spacco, esco, ciao

Lei un osteopata, lui un agente immobiliare, Pilar Fogliati e Filippo Scicchettini sono Eleonora e Valerio, novelli sposi e novelli in crisi. La love suit, che poi è la stanza in cui passeranno la notte i due protagonisti e non solo, sarà il luogo in cui inizieranno i problemi e il luogo in cui finiranno, per poco! 

Commedia divertente che spezza il dramma dell’insicurezza e della gelosia grazie al cast, infatti presente nei panni di un tassista un po’ fuori di senno, romano ma juventino, è Francesco Pannofino; Lucia Ocone invece riveste il ruolo della classica madre impicciona rimasta affezionata all’ex fidanzata di suo figlio Valerio, Ester(Neva Leoni), mentre Giorgio Tirabassi è colui che verrà trascinato, proprio dalla moglie Lucia Ocone, in questa vicenda, tutta sotto gli occhi della Capitale.  

Eleonora, come tutti d’altronde, vorrebbe certezze, che forse poco prima di mettere la fede al dito credeva di avere, ma che subito sono state smontate da qualcosa che Valerio sembrava voler nascondere. Impulsiva e con la necessità di sapere istantaneamente la verità nient’altro che la verità, Eleonora dà il via a questa lunga notte, cercando risposte un po’ dappertutto, forse anche dal suo ex fidanzato (Claudio Colica), di cui Valerio è chiaramente geloso. 

Fonte: ScreenWEEK
Un frame del film.

Se tiri troppo la corda si spezza

Molti dei temi che vengono trattati sono difettosi per via di alcune lacune evidenti all’interno della pellicola, come lo stesso dramma dell’insicurezza e della gelosia, a prescindere dal fatto che entrambi i sentimenti siano giustificati da alcune azioni ambigue, il modo in cui ci si rapporta ad essi viene troppo sottovalutato e reso nella maniera più frivola.

Spezzare il dramma per rendere molto più fluente una storia come questa è giusto ma il troppo purtroppo stroppia, per cui trovare un equilibrio è sicuramente difficile ma l’esito del prodotto sarebbe molto più efficace e meditativo. 

Imprevisti: fate tre passi indietro (con tanti auguri)

Gli imprevisti banali e a volte poco chiari non danno giustizia a ciò su cui puntava la commedia, il disagio della gelosia e il parallelismo delle relazioni di oggi e di ieri. Il parere pubblico è importante e da questo non si sfugge, ma lo stile classico e fresco, aiutato anche dalla buona costruzione dei personaggi, ha portato comunque ad un risultato. 

Fonte: My Red Carpet
Un frame del film con Pilar Fogliati.

Ci vuole un fi..lo di concretezza

Una rom-com che nel complesso abbraccia il pubblico e fa sorridere, ottima la perfomance di Filippo Scicchettini e Pilar Fogliati, avvantaggiati dalla loro alchimia.

La pecca rimane il non aver dato la giusta importanza a un argomento in realtà così delicato e discusso che ha una sua dignità, la gelosia. Un velo di dramma avrebbe fatto la differenza, poiché anche se i personaggi non si dicono quasi mai “ti amo”, come dichiarava lo stesso regista Riccardo Antonaroli durante la conferenza stampa, paradossalmente il film ricade sul genere romantico.

Con l’avanzare delle dinamiche che si creano attorno a una Roma notturna di agosto, gli incontri e gli scontri dei personaggi, il filo motore della commedia perde di credibilità, e questo per via di alcuni vuoti del racconto che si sperava venissero colmati al termine della storia.

A prescindere dal genere di film, romantico, drammatico o qualsiasi esso sia, la funzionalità di questo avviene sì per la riuscita di un ottimo incastro di cast, sceneggiatura e produzione, ma soprattutto per la corretta e lineare struttura di un racconto.

Bello il dialogo tra padre e figlio (Filippo Scicchettini e Giorgio Tirabassi) verso la fine della pellicola, in cui emerge la cruda realtà di alcune coppie e del fatto che i rapporti molte volte durano ma per una semplice questione di abitudine o per essere più schietti, per inerzia. Il consiglio dettato dal padre è quello di inventare un sogno e di scoprirsi mano a mano dichiarando che:

“la vita è come la fede, aiuta”

 

Asia Origlia

Taormina Film Fest 70: L’invenzione di noi due

L’invenzione di noi due è l’analisi di un rapporto che può finire ma che, se preso in tempo, può essere salvato. – Voto UVM: 3/5

 

Il 16 luglio, durante la 70esima edizione del Taormina Film Fest, al Teatro Antico di Taormina è stato presentato in anteprima nazionale il secondo film del registra vicentino Corrado Ceron, L’invenzione di noi due, con protagonisti Lino Guanciale (Che Dio ci aiuti, L’allieva, La porta rossa, To Rome with Love) e Silvia D’Amico. Il lungometraggio uscirà nelle sale italiane il 18 luglio ed è tratto dall’omonimo romanzo di Matteo Bussola uscito nel 2020. Il film racconta l’amore tra due ragazzi che, innamoratisi nei banchi di scuola, si ritrovano, andando man mano più avanti col tempo, ad affrontare un tipo di relazione che oscilla tra la leggerezza e la spensieratezza dell’innamoramento e lo svanire di un qualcosa.

L'invenzione di noi due
L’invenzione di noi due. Produzione: Medusa Film.

L’invenzione di noi due: lo schema del film

I protagonisti di questa storia sono Milo (Lino Guanciale), un architetto che lavora come chef in un ristorante a causa delle difficoltà lavorative, e Nadia (Silvia D’Amico) che svolge diversi lavori, ma con il sogno di diventare scrittrice. I due si conoscono da bambini, in una Verona degli anni ’90. Allora ha inizio la loro corrispondenza: le lettere sono una colonna portante della loro relazione e di tutto il film.

L’invenzione di noi due, prodotto da Medusa Film, è stato cofirmato proprio da Matteo Bussola, insieme alla moglie Paola Barbato, e agli sceneggiatori Federico Fava e Valentina Zannella. Nel film troviamo anche Francesco Montanari (il Libanese in Romanzo Criminale – La serie) nel ruolo di Marco, fratello maggiore di Milo, e Paolo Rossi nel ruolo di un negoziante di modellini.

L’idea dell’amore

Quando un rapporto è ridotto sul lastrico, come quello di Milo e Nadia, tentare di ricostruirlo come fosse un edificio, per Milo sembra essere la scelta più giusta. Annullarsi come esseri umani, facendo di tutto per l’altro è il modo peggiore per cercare di costruire qualcosa di sano e duraturo, e questo è un po’ quello che viene narrato dai protagonisti di questa storia. Milo e Nadia si sono amati e odiati contemporaneamente per non essersi conosciuti davvero nel corso degli anni.

Il tempo è amico e nemico, cicatrizza le ferite ma prima le fa comparire. L’idea dell’amore secondo Milo, durante l’arco temporale che si sviluppa all’interno della pellicola, è completa la dedizione e dannazione per qualcosa che poco a poco è andato perduto. Pare spontaneo chiedersi cosa ci fosse di sbagliato o di inappropriato nel rapporto tra Milo e Nadia. Se si fa attenzione al finale e alle parole di quest’ultima la risposta è proprio davanti ai nostri occhi…

L’invenzione di noi due: perdersi per ritrovarsi

 Nel film Milo e Nadia passano dall’amarsi a stare insieme per inerzia, trasformando la loro relazione in un motivo di frustrazione per entrambi. L’invenzione di Milo sarà la goccia finale che porterà i due a fare quello che forse non hanno mai fatto realmente: dialogare.

La mancanza di comunicazione e il continuo fuggire di Nadia da conversazioni scomode fa esplodere qualcosa dentro Milo, persona pacata e quasi impacciata. Questo è anche un altro tassello problematico della relazione, la loro diversità che finisce per separarli. Lo scambio di lettere era stato un modo, divertente ed eccitante, di creare un ponte tra di loro. Ciononostante, l’insoddisfazione di due lavori diversi che portano loro solo malessere e frustrazione, causa l’allontanamento di Nadia e Milo e il conseguente deterioramento della coppia.

Ciò che attira maggiormente di L’invenzione di noi due è l’interpretazione realistica degli attori, accompagnata dall’analisi di un rapporto che può finire ma che, se preso in tempo, può essere salvato. Il finale incompleto lascia lo spettatore con un accenno di sorriso e porta alla riflessione su quale sia il vero linguaggio dell’amore.

“Capitano a volte incontri con persone a noi assolutamente estranee, per le quali proviamo interesse fin dal primo sguardo, all’improvviso, in maniera inaspettata, prima che una sola parola venga pronunciata.” – Fedor Dostoevskij

 

Asia Origlia
Rosanna Bonfiglio

Taormina Film Fest 70: Twisters

Twisters
Disaster movie che valorizza temi e rischi sottovalutati, legati ad eventi catastrofici come i tornado. Voto UVM: 5/5

 

Twisters è un sequel stand-alone e reboot di Twister uscito nel 1996 e diretto da Jan De Bont. Ritorna, dunque, in una nuova versione in cui la regia è a cura di Lee Isaac Chung, regista emergente ai film d’azione; egli è infatti noto per opere intimiste come Minari (2020), vincitore del Golden Globe per il miglior film straniero. La sceneggiatura è scritta da Mark L. Smith mentre la pellicola è prodotta da Patrick Crowley e dal premio Oscar Frank Marshall (Amblin Entertainment), quest’ultimo noto regista e produttore di successi come le saghe di Jurassic Park e Indiana Jones. Per quanto riguarda le riprese principali, sono state girate in Oklahoma e il primo trailer venne diffuso l’11 febbraio durante il Super Bowl LVIII; verrà proiettato nelle sale italiane il 17 luglio 2024.

Un cast completamente differente da quello originale

Uno dei personaggi principali è Glen Powell, visto di recente al cinema in Top Gun: Maverick (2022) e Tutti tranne te (2023). Al suo fianco, la candidata ai Golden Globe Daisy Edgar-Jones, divenuta nota grazie alla serie britannica Normal People (2020). Il resto del cast include Anthony Ramos, David Corenswet, Daryl McCormack (Isaiah Jesus nella serie tv Peaky Blinders), Kiernan Shipka (protagonista nella serie tv Le terrificanti avventure di Sabrina), Nik Dodani (Zahid Raja in Atypical) e Maura Tierney, vincitrice nel 2016 di un Golden Globe per la serie televisiva The Affair – Una relazione pericolosa.

La persistenza di una trama avvincente

Lee Isaac Chung con Twisters non ci delude; avvalora questo disaster movie intrecciando una storia d’amore ad un evento catastrofico e drammatico, adatto al clima estivo. Le tre parole chiave sono: instabilità, direzione del vento e umidità. Il film ruota, principalmente, attorno alla figura di una giovane donna, Kate Cooper (Daisy Edgar-Jones), ex cacciatrice di uragani segnata dall’incontro con un tornado dove perse la vita il suo fidanzato, Jeb (Daryl McCormack). Dopo 5 anni, si rifugerà in un ufficio di New York City ma farà ritorno nel settore, grazie alla spinta dell’amico Javi, per testare un avanzato sistema di tracciamento. Il suo rientro si incrocerà con Tyler (Glen Powell), il cosiddetto “domatore di tornado”, influencer noto per le sue imprese spericolate che insieme alla sua squadra non renderà facile la vita alla Storm Par. Ad entrambi verrà messa a dura prova la loro sopravvivenza nel capoluogo di Oklahoma City.

Ma non solo

Tyler: “Le paure non si affrontano; le paure si cavalcano”

Nella totalità della proiezione, dalla durata di 122 minuti, possiamo scorgere: avventura, azione, intensità, potenza drammatica, spirito di iniziativa e collaborazione ma soprattutto aiuto umanitario, nei confronti delle povere vittime di queste tempeste ambientali. Infatti, il film ci evidenzia la paura che rende consapevole il pubblico sulle conseguenze del rapporto incontrollato fra essere umano e natura. Nonostante questo, possiamo anche riscontrare la determinazione nel raggiungimento della sconfitta dei tornado, forte perturbazione atmosferica.

Tyler: Credevate di poter distruggere un tornado?!
Kate Cooper: Non avevamo speranze.
Tyler: Vuoi averne?

Non può mancare il sentimento d’amore

Addentrandoci nella trama di Twisters possiamo intravedere la nascita di un sentimento tra Kate e Tyler. Proprio come le tempeste, il loro inizio fu burrascoso e capriccioso per poi scorgere un cielo sereno tra i due. Nonostante la protagonista fosse scossa dalla perdita del suo precedente compagno, non può sottrarsi allo scatto della scintilla di desiderio con Tyler. Nella scena finale, Kate decide di tornare nella sua splendida New York City ma il segno del destino vuole che, a causa di forti venti, verrà previsto un ritardo sul volo. Ed ecco che, nel momento di questa annunciazione, spunta dietro di se proprio Tyler, pronto a coronare il loro trionfo d’amore, insieme.

 

Stefy Saffioti

La Neve in Fondo al Mare, tra neuropsichiatria e infanzia

La Neve in Fondo al Mare è un romanzo che tratta temi attuali da un punto di vista originale. – Voto UVM: 4/5

 

Il nuovo libro di Matteo Bussola, fumettista e scrittore veronese, già autore di numerosi fortunati libri di narrativa che hanno scalato le classifiche negli anni, è ora sugli scaffali delle librerie, pronto per essere letto da ragazzi e lettori più maturi.

Trama, temi, personaggi di La Neve in Fondo al Mare

La storia è narrata dalla voce ed attraverso il punto di vista di Caetano, il padre dell’adolescente Tommy. I due si trovano in un reparto ospedaliero di neuropsichiatria infantile, perché Tommy soffre di anoressia nervosa. A questa situazione fa riferimento uno dei temi fondamentali del libro: Il rapporto genitori-figli, il quale è trattato attraverso pochi ma interessantissimi personaggi, di cui ne vediamo alcuni.

Abbiamo Franco, il “padre manager”, uomo sulla mezza età che incarna le idee ed il modo di esprimersi dell’italiano medio delle vecchie generazioni. In apparenza estremamente superficiale, schietto, ed insensibile nei confronti della figlia Marika, autolesionista. Eppure, sarà attraverso la sua voce che l’autore ci regala una delle immagini più belle ed efficaci del libro…

 

-Scoprire la profondità della tristezza di un figlio, a neanche sedici anni, è come trovare qualcosa in un posto in cui non te lo saresti mai aspettato. In cui proprio non dovrebbe esserci. (Franco)

-Che vuoi dire? (Caetano)

-Tipo, non so. Come trovare la neve in fondo al mare.

Insieme a Franco e Caetano (unici padri nel reparto) troviamo Amelia, che dà tutta sé stessa per aiutare la figlia Eva, sofferente di bulimia. Poi ancora Giulia in compagnia del figlio Giacomo, giovanissima star del web in declino, che non riesce a tornare alla “vita normale” dopo la fine del lockdown.

È proprio il lockdown un altro elemento fondamentale della vicenda: I dolori dei ragazzi sembrano tutti legati alla quarantena. Ed è così che Matteo Bussola (l’autore) tratta i drammi dell’isolamento spostando l’attenzione su una fascia della popolazione spesso ignorata dai media. sugli adolescenti. Sull’impatto che mesi e mesi di restrizioni abbiano avuto su ragazzi e ragazze in un’età così fragile, “a cui il virus fa il solletico”, ma che si trovano costretti a “salvare gli adulti. I figli che devono salvare i genitori.”

Oltre quanto detto, i temi trattati sono attualissimi (la vicenda stessa ha luogo nel presente) e innumerevoli, condensati in appena centottanta pagine.  Si viene a formare un romanzo breve ma intenso e reso scorrevole dal linguaggio elegante dell’autore.

 

La neve in fondo al mare
Il nuovo libro di Matteo Bussola già in cima alle classifiche. Fonte: Instagram @matteo.bussola

Lingua, stile del romanzo e struttura di La Neve in Fondo al Mare

Il racconto è strutturato in un intreccio: Gli eventi del presente vengono alternati ad episodi dell’infanzia di Tommy, il tutto, come detto, sempre dal punto di vista del padre, che costituisce la voce narrante del romanzo.

La sintassi è semplice, generalmente formata da periodi brevi, tenuti insieme da legami paratattici o di giustapposizione. Solo raramente, nelle parti del testo in cui lo stile vuole essere più ricercato, la sintassi si fa più distesa e complessa, ma sempre senza appesantire troppo la lettura.

Sono frequenti invece i dialoghi, attraverso i quali l’autore caratterizza e fa esprimere i personaggi.

Così parla per esempio Franco:

“Ormai una diagnosi non la si nega a nessuno, per questo hanno tutte le malattie del mondo. E se non imparano a leggere sono dislessici, e se non sanno le tabelline hanno la cosa, là, come si chiama, la discalcolosi.”

Sempre attraverso i dialoghi si riproduce il gergo giovanile, che l’autore riesce bene a rappresentare attraverso i prestiti dall’inglese (cringe, skippo, follower) e le espressioni tipiche dei giovani di oggi (“non so, fra”, “un botto di like”).

“Ma la roba buffa non è tanto la mia, perciò di norma, se ci capito su, skippo. Niente di personale” (Tommy)

Infine, Matteo Bussola arricchisce la sua prosa con diversi elementi poetici. In particolare, il testo è ricco di similitudini, di cui si è già dato un esempio sopra “[…] come trovare la neve in fondo al mare”, espressione che, tra l’altro, dà il titolo al romanzo.

 

 

Francesco Malavenda

Nietzsche e Lou: passione umana troppo umana

Dal paradosso di Zenone fino alla critica kantiana, dal mistero della caverna di Platone fino al Velo di Maya e anche più in là nel tempo: la filosofia ha incantato e meravigliato il cuore dell’uomo.

I filosofi nella loro genialità e follia non furono esenti dalle passioni dei comuni mortali, in particolare alla grande e potente forza motrice che move il sole e l’altre stelle, come disse Dante.

Uno dei tanti a cadere sotto il pesante fardello dell’amore fu il demistificatore per eccellenza, il padre di molti dei più noti concetti filosofici ed esistenziali, della volontà di potenza, dell’eterno ritorno dell’uguale, del superuomo: Friedrich Nietzsche. 

Ecco la storia di come un incontro cambiò radicalmente la sua vita e influenzò il suo lavoro.

To Rome with love

A Roma, nel 1882, su richiesta dell’amico Paul Ree, Nietzsche lo raggiunse per conoscere lei, la femme fatale di cui tanto aveva sentito parlare, Louise Von Salomè, scrittrice, psicologa e filosofa russa, definita una delle più grandi intellettuali dell’900 e ricordata per essere la donna che ha fatto perdere la testa a uomini illustri del calibro di Freud e Rilke, oltre che dello stesso Ree e Nietzsche.

Tra il 23 e 24 aprile, in piazza San Pietro, Nietzsche si trovò davanti alla giovanissima Lou Salomè, alla quale rivolgerà da subito queste parole:

 Cadendo da quali stelle ci siamo venuti incontro fin quaggiù?

Il filosofo della solitudine, l’autore dell’annuncio della morte di Dio, crollerà di fronte al fascino della brillante psicoanalista e non riuscirà a smettere di pensarla:

Quando sono completamente solo, spesso, molto spesso, pronuncio il Suo nome […]. Si dice che non sia mai stato così sereno nella mia vita come ora.

Successivamente, Nietzsche chiese alla bella Salomè per ben tre volte di sposarlo, trovando sempre un netto rifiuto da parte sua, che provava per lui un’attrazione meramente intellettuale e non fisica.

 

Nietzsche. Fonte: https://www.unidformazione.com/nietzsche-5-elementi-filosofia/

Un Nietzsche troppo umano

In seguito al suo rifiuto, venne invitata a far parte della comunità intellettuale già avviata con Ree, che prenderà il nome di “trinità”, ma il progetto è destinato a fallire e Nietzsche, distrutto e deluso per il rifiuto di Lou, si ritirò a Rapallo, dove scrisse la prima parte del Così parlò Zarathustra.

E quanto pesante è diventato anche il dovere di un amico, che adesso ancora giunge a me. Io volevo vivere solo. Ma poi il dolce uccello, Lou, è volato sulla mia strada, e io credetti che fosse un’aquila. E allora volli avere l’aquila intorno a me. Venga su, io soffro troppo per averla fatta soffrire. Lo sopporteremo meglio insieme.

Katharina Lorenz e Alexander Scheer (Friedrich Nietzsche) nel biopic “Lou von Salomé”. Fonte: iodonna.it

Molti tutt’ora arrivano a sostenere che, senza il cuore spezzato del filosofo, noi oggi non avremmo avuto il Così parlò Zarathustra e che sia la stessa Lou il superuomo a cui Nietzsche s’ispiro nella stesura del suo personaggio; e allora che la tragedia personale di Nietzsche, che segna un altro passo verso il crollo mentale avvenuto nel 1889, diventa, al contrario, una forza creatrice il cui prodotto è una delle pietre miliari del pensiero umano.

Nel 1894, mentre il filosofo si trovò in pieno declino della sua sanità fisica e mentale, fu la stessa Lou Salomè a scrivere la più accurata delle biografie di Nietzsche, risultando una tra le poche persone ad aver colto il genio e compreso lo spirito che si celava dietro quell’uomo tanto tormentato, regalandoci una visione umana troppo umana dell’uomo che l’amò sino alla follia.

 

Gaetano Aspa

UniVersoMe News: Nominata la nuova Coordinatrice

Giorno 5 luglio, alla presenza della magnifica Rettrice Giovanna Spatari, del Prorettore Vicario Giuseppe Giordano, del Direttore Generale Francesco Bonanno e del Direttore Responsabile di UVM Antonio Tavilla, è stata nominata la nuova e prima coordinatrice UniVersoMe, Giulia Cavallaro

Giulia Cavallaro, studentessa di Lettere, prende il posto dell’uscente coordinatore Gianluca Carbone, alla guida del progetto per il biennio 2024/2026.   

La coordinatrice verrà coadiuvata dal nuovo direttivo, votato ed eletto lo scorso 7 giugno, che è composto da: Domenico Leonello – Unit Radio, Sandi Russo – Unit Informatica, Marco Castiglia – Unit fotografia, grafica e creativa, Gaetano Aspa – Unit Giornale. 

La Rettrice, a margine dell’incontro, ha confermato il suo interesse per la testa e ha ricordato l’importanza della presenza di UVM all’interno dell’Ateneo, quale risorsa da coltivare e chiedendo che possa diventare sempre più riferimento per tutti gli studenti. Inoltre, ha dato la piena disponibilità a una collaborazione sinergica con tutto il progetto.

Le neo coordinatrice Giulia Cavallaro:

Spero che possano essere due anni di una redazione in sinergia e di nuovi progetti. Il primo obiettivo sarà sicuramente la ripartenza completa, ad ottobre, ma non smetteremo di lavorare in questi mesi estivi! Sono onorata di rivestire questo ruolo, ma ringrazio in primis il team del direttivo, senza cui non potrei fare nulla.

 

 

 

 

 

Taobuk 2024: un gala tra identità e arte

Anche quest’anno il Taobuk ha regalato al pubblico grandi emozioni. Tra ospiti di spessore del calibro di Marina Abramovic, Paolo Sorrentino, Ferzan Ozpetek, Alessandro Baricco e tanti altri, il festival si è incentrato quest’anno su un nuovo tema: L’Identità.

Una magica serata alla ricerca dell’Identità

L’identità al centro delle manifestazioni artistiche di questi grandi ospiti si è manifestata anche nel magico, suggestivo e spettacolare contesto della Serata di Gala del Taobuk (momento più atteso del festival), tenutosi il 22 giugno.

La serata è stata presentata dal conduttore Massimiliano Ossini e Antonella Ferrara, ideatrice del festival. Qui l’identità è stata presentata in svariate forme: dalla danza con le coreografie strepitose del gruppo Momix, ideato dal coreografo Momes Pendleton e della prima ballerina del Teatro alla Scala Nicoletta Manni, alla musica con la magnetica esibizione di Noemi.

Ogni grande artista presente han espresso il proprio concetto di identità e dove la ritrovano nel proprio mondo, aprendoci così una finestra nel loro spirito più profondo.

Coreografia svolta da una delle ballerine del corpo di ballo dei Momix
Coreografia svolta da una delle ballerine del corpo di ballo dei Momix

A tu per tu con i Giganti

Da Jon Fosse a Kasia Smutniak, da Sorrentino a Baricco, le più grandi personalità presenti al festival hanno ricevuto un prestigioso premio alla carriera e si sono raccontati, affrontando temi importanti e sotto certi aspetti delicati.

Come nel caso di Jonathan Safran Foer che ha trattato lo spinoso tema della guerra tra Israele e Palestina, oppure come Ferzan Ozpetek che ha centrato il focus sulla sua identità omosessuale e in generale su questo tema  ancora oggi fin troppo delicato. C’è stato poi chi ha mostrato per l’occasione il lato più profondo della propria identità, come ad esempio Jon Fosse, che ha raccontato la sua conversione religiosa o come Paolo Sorrentino che ha dichiarato come trova se stesso all’interno della sua filmografia, soprattutto nel suo ultimo film E’ stata la mano di Dio e in quello che uscirà prossimamente nelle sale, Parthenope.

L’apice è raggiunto con un affascinante racconto di Marina Abramovic sulla sua brillante ed eccentrica vita performativa, basata sul rapporto tra arte e corpo.

Il tutto accompagnato dalle melodie dell’orchestra sinfonica del Teatro Massimo Bellini di Catania e dal dolce ricordo di una delle personalità più importanti di questo festival, ovvero Franco di Mare.

Il Teatro Antico: il ritorno alla nostra identità

Tra i grandi artisti presenti a questa grande serata di Gala, vi è stato anche lo scrittore Alessandro Baricco, che nel presentare il suo spettacolo del 23 giugno, rappresentato proprio al Teatro Antico, tratto dagli scritti dello storiografo Tucidide, Atene contro Melo, ci ha donato a tutti una delle più grandi riflessioni sull’identità di tutta la serata, legata prettamente alle nostre origini. Egli ha infatti dichiarato che:

il Teatro Antico di Taormina continua a vivere grazie alle sue rappresentazioni e al suo pubblico. Ed è proprio lì, alle origini della nostra Storia che risiede la nostra identità collettiva.

Su queste parole il Gala giunge al suo gran finale.

Antonella Ferrara conversa con Marina Abramovic
Antonella Ferrara conversa con Marina Abramovic

Taobuk: dove emozione e cultura si sposano

Anche quest’anno il Taobuk ha immerso il suo pubblico in un vortice di grandi emozioni e di grande cultura, donando l’opportunità di camminare tra i giganti e ascoltare le parole dei maestri.

Anche stavolta l’attesissima serata di Gala ha rappresentato il punto più alto di questo festival dove l’arte e la bellezza regnano, e che non vediamo l’ora di rincontrare il prossimo anno.

 

Marco Castiglia

Rosanna Bonfiglio

 

House of the Dragon, le promesse della nuova stagione 

La serie promette bene anche se con qualche difetto gestionale. – Voto UVM: 4/5

 

 

Dopo una lunga attesa, House of the Dragon, il prequel della HBO che ha riattratto i fan del Mondo del Ghiaccio e del Fuoco ritorna e porta calorose promesse nella sua nuova stagione.

George R. R. Martin, prof. di storia all’università di Westeros

Ma facciamo una piccola digressione sull’origine della serie. House of the Dragon è basata su due volumi (dei quali per ora uno già concluso e pubblicato, chiamato Fuoco e Sangue) di George R.R. Martin, sulla storia della casata Targaryen e del loro lungo regno sul continente occidentale, Westeros. È molto particolare lo stile con cui Martin decide di raccontare la storia della dinastia, in quanto non si tratta più di romanzo ma di cronaca vera e propria, come quella che studiamo nei libri di storia. In modo geniale, Martin si immedesima nei panni di un maestro della Cittadella. Questo “maestro”, sfruttando il punto di vista di tre persone di tre classi sociali diverse del regno, cerca di risalire alla versione più verosimile dei fatti. 

La certezza storica non è più sui libri

Essendo un personaggio interno all’universo ma esterno ai racconti, il Martin maestro non è un narratore onnisciente, diversamente come negli altri romanzi come Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco lasciando volutamente molti dubbi ai lettori, i quali ora dovranno basarsi sulla serie tv per avere conferme sulla versione ufficiale della storia.  

House of the Drgon
La corona di re Viserys Targaryen. Fonte: HBO

Come ci siamo lasciati nella scorsa stagione di House of the Dragon

La serie tv inizia non dalle prime pagine del “resoconto storico”, un peccato per alcuni lettori, bensì da circa metà libro, incentrandosi su la Danza dei Draghi: una guerra tra fratelli, anzi fratellastri, per il trono. Alla morte dell’attuale re Viserys, volendo ostacolare l’ascesa del suo erede diretto e ufficiale Rhaenyra, sua figlia, le casate vicine utilizzano le ultime parole deliranti del re, fraintese, per nominare come nuovo erede il figlio maschio ottenuto dal secondo matrimonio con Alicent Hightower (il re era rimasto vedovo e Rhaenyra orfana). Dopo una serie di screzi della famiglia reale, scatta il primo assassinio: uno dei figli di Alicent, il secondogenito maschio del re, Aemond, uccide il secondogenito di Rhaenyra, che in preda al dolore dichiara guerra. 

Nel pieno della guerra con la nuova stagione

E da qui inizia la seconda stagione; inizia la Danza dei Draghi. Sarà una danza davvero sanguinolenta e piena di scene memorabili (soprattutto grandi battaglie con draghi, ovviamente), che possono essere ricreate fedelmente grazie al libro fino ad un certo punto. Poichè si, non c’è spazio per l’immaginazione degli sceneggiatori riguardo la cronaca e le battaglie, ma ne rimane molto per la caratterizzazione dei personaggi. Martin non si sofferma troppo sulla costruzione dei personaggi, non di tutti, come fa di solito nei romanzi.

House of the Dragon
Alicent e Rhaenyra, protagoniste della nuova stagione di House of the Dragon. Fonte: Instagram @houseofthedragonhbo

Fotografia e Regia, il fiore all’occhiello della serie

Già dai trailer della nuova stagione, come in tutti gli episodi di quella passata, salta all’occhio una cura particolare alla creazione estetica dell’ambientazione e delle scene. Sono stati realizzati degli scatti meravigliosi, sia al fine di ricreare al meglio alcuni avvenimenti del racconto sia per riempire gli episodi di scene. La CGI sembra sfondare ad oltranza il suo stesso limite, con ogni stagione che passa, e il futuro, con la terza stagione annunciata e un altro spin-off in progettazione, promette bene.

Poteva essere gestito meglio?

Gli sceneggiatori sono costretti ad allungare di molto le vicende; è qui infatti la critica che gli spettatori hanno mosso al primo episodio della nuova stagione; hanno notato una mediocre gestione delle scene, come nel finale. Personaggi di House of the Dragon, come Helaena e Alicent che nel libro sono posizionati in posti precisi o compiono azioni precise, nell’episodio divergono dal libro, a causa di alcuni tratti caratteriali che hanno acquistato nella serie.

Le promesse della nuova stagione di House of the Dragon

Promette di essere una buona serie fantasy con tanto potenziale anche dal punto di vista introspettivo. Staremo a vedere come sarà gestita la narrazione nei prossimi episodi della nuova stagione sperando che possa essere migliorata, sapendo (almeno per chi ha letto il libro) che ci aspettano davvero dei colpi di scena emozionanti per quanto riguarda questa grande Danza.

Valar Morghulis,

Giovanni Calabrò

Egon Schiele: tormento e malinconia

Egon Schiele è stato uno dei protagonisti dell’Espressionismo austriaco, noto per il suo stile grafico e la distorsione delle figure, sfidando le norme di bellezza. 

Una vita breve, vissuta in totale libertà di pensiero e di creatività, al contempo dura e sprezzante, ma piena di arte e d’amore. Finito per essere considerato anticonvenzionale, eroico, eretico ed erotico, forse un genio pazzo o visionario, chi lo sa…  

Allora vediamo insieme un po’ la folle vita e l’arte di Egon Schiele. 

Devo risvegliare la mia vita… Gerti

Egon Schiele nasce nel 1890 a Tulln an der Donau (in Austria) e ben presto, la sua infanzia viene offuscata dal progredire della malattia mentale del padre, morto di sifilide.  Questa esperienza traumatica segna profondamente tutta la sua pittura, dandogli un’immagine del mondo tetra e malinconica, oltre che segnare in modo indelebile anche il suo rapporto con le donne. 

Ho pianto spesso in autunno, con gli occhi socchiusi.
E nell’estate magnifica, poi, ho sorriso e riso,
dipingendomi d’estate il bianco dell’inverno.

Schiele inizia a dipingere autoritratti e frequenta l’Accademia di belle arti di Vienna nel 1906, dove però i metodi conservatori lo deludono. Cerca quindi ispirazione altrove, nella sua desolazione,  trovandola nei caffè artistici di Vienna e in figure come Gustav Klimt, il quale lo influenza profondamente e lo introduce a ricchi mecenati.

Questo supporto gli permette di esporre le sue opere già nel 1908. Il suo stile espressionista si consolida rapidamente, caratterizzato dalla rappresentazione aggressiva della fisicità e della sessualità. Schiele mostra subito una passione per le figure femminili, soprattutto infantili. Le sue modelle preferite sono donne cui era unito da un profondo legame personale. In gioventù e nei primi anni di attività artistica è soprattutto la sorella Gerti ad assumere questo ruolo; in lei Egon osserva nell’adolescenza lo sbocciare di un corpo di donna che gli si mostra semplicemente senza veli.

Egon Schiele
Egon Schiele, Autoritratto con alchechengi, 1912, olio su tavola, 39,8 x 32,2 cm, Vienna, Leopold Museum. Fonte: finestresullarte.info

 

In opere come quelle esposte alla Kunstschau del 1909, Schiele mostra già la sua tendenza a raffigurare il corpo umano in modo distorto ed emotivamente carico. Utilizza una linea tagliente per esprimere angoscia e distorsione fisica e morale, con colori autonomi e non naturalistici.

Amo la morte e amo l’amore… Wally

Nel 1911, Egon Schiele incontra la diciassettenne Wally Neuzil, con la quale intreccia una relazione sentimentale e che diventa modella per alcune delle sue opere migliori.

Arde, brucia, si diffonde dopo la battaglia, – spasimo cardiaco.
Pesare – follemente animato da eccitata lussuria.

In cerca di ispirazione, Schiele e Wally decidono di lasciare Vienna e si stabiliscono inizialmente nella piccola città boema di Krumau, città natale della madre di Schiele. Tuttavia, gli abitanti del posto disapprovano il loro stile di vita, essendo i due non sposati, e li costringono a partire. Si trasferiscono allora a Neulengbach, un paesino vicino a Vienna.

Nel 1912, Schiele viene accusato da un certo Von Mosig, ufficiale della marina in pensione, di aver sedotto sua figlia Tatjana Georgette Anna, non ancora quattordicenne. Schiele viene così incarcerato per un breve periodo con l’accusa di aver traviato la minorenne, di aver avuto rapporti con lei e di averla rapita. Alla fine del processo, viene ritenuto colpevole soltanto di aver esibito opere considerate pornografiche.

Egon Schiele
Egon Schiele, La morte e la fanciulla, 1915, olio su tela, 150×180 cm, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere. Fonte: wikipedia.it

 

Dopo questa esperienza, Schiele ritorna a Vienna. Grazie all’aiuto del suo amico Klimt, riesce a ottenere diverse commissioni, tornando alla ribalta sulla scena artistica austriaca e partecipando a molte mostre internazionali. Le sue opere del periodo, in gran parte autoritratti e ritratti, presentano figure nude in pose insolite, spesso caricaturali, che richiamano la morte e l’erotismo. Il suo disegno è caratterizzato da un tratto netto, energico e sicuro, talvolta persino violento. Queste opere cercano di provocare lo spettatore, suscitando un certo malessere.

Esisto perché anche io amo… Edith

Nel 1914, Edith Harms, figlia di un fabbro, diventa la terza e ultima importante modella nella vita di Egon Schiele.

Per diventare sua moglie, Edith pone come condizione di essere l’unica musa ispiratrice di Schiele, esigendo la fine del suo rapporto con Wally Neuzil. Schiele accetta e lascia Wally, che morirà successivamente al fronte come crocerossina.

Il matrimonio con Edith porta a Schiele una serenità che si riflette nei suoi dipinti, caratterizzati da una forza composta, influenzati anche dalle opere monumentali di Ferdinand Hodler.

Nel 1914, mentre la sua fama artistica cresce, scoppia la prima guerra mondiale, segnando la fine di un’epoca e il crollo dell’impero asburgico. Nel 1915, Schiele è chiamato alle armi, ma grazie a superiori comprensivi e amanti dell’arte, può continuare a dipingere. In questo periodo realizza ritratti di ufficiali russi e disegni di interni, mostrando una trasformazione nella sua concezione artistica verso una rappresentazione più naturalistica.

Venne la ragazza, trovai il suo viso,
il suo inconscio, le sue mani da lavoratrice;
tutto di lei ho amato.

Nel 1918, Schiele viene trasferito definitivamente al museo militare di Vienna. Questo anno segna un cambiamento di stile che gli porta fama e riconoscimenti, inclusa la partecipazione di successo alla quarantanovesima mostra della Secessione viennese.

Nell’autunno del 1918, l’epidemia di influenza spagnola, che uccide più di venti milioni di persone in Europa, raggiunge Vienna. Edith, incinta di sei mesi, contrae la malattia e muore il 28 ottobre. Durante la sua agonia, Schiele la ritrae più volte. Anche Egon viene contagiato e muore tre giorni dopo, il 31 ottobre, all’età di 28 anni.

“L’arte non può essere moderna. L’arte è eternità”

Schiele traspone su tela, quelli  che sono i meandri della sua mente, caricandoli di un’estrema tensione erotica esistenziale e psicologica, usata come mezzo per diffondere un messaggio di critica sociale contro la falsità borghese.

Egli rivendica l’importanza della esperienza interiore e delle sue manifestazioni più o meno violente. Scava nei propri personaggi per metterne a nudo la loro anima, sonda nelle figure angosciate prive di riferimento storico e contesto sociale le “pulsioni represse” di freudiana matrice.

Quindi, l’arte di Schiele ci consente di perderci nell’infinito esistenziale e ritrovarci a tu per tu con il senso della vita, che sfugge a ogni ordine e si ferma nel magma emozionale di una macchia di colore.

Gaetano Aspa

 

Le citazioni sono tratte dal libro Io eterno fanciullo di Egon Schiele