L’incontro tra Kim Jong-Un e Donald Trump: il summit Usa-Corea

“L’intero mondo sta guardando a questo incontro”, ha dichiarato Kim. Nella città-Stato asiatica è arrivato anche il presidente degli Usa che ha voluto sottolineare l’importanza del momento definendola “una occasione storica, che forse non si ripeterà”.

Prima dell’arrivo dei due leader, il primo ministro di Singapore ha confermato anche la cifra stanziata dalla città per ospitare lo storico vertice, che si aggira intorno ai venti milioni di dollari di Singapore (12,7 milioni di euro). “Ospitare il summit ci dà visibilità”, ha dichiarato oggi il premier di Singapore prima dell’incontro con Kim.

Quando le due parti ci hanno chiesto di ospitare il summit, non potevamo dire di no. Dovevamo farci avanti. Siamo in grado di farlo, abbiamo speso molte risorse, ma possiamo fare un buon lavoro“, ha detto Lee, confermando la cifra dei venti milioni di dollari di Singapore. “Siamo pronti a pagare ed e’ il nostro contributo a uno sforzo internazionale che è nel nostro profondo interesse“.

Singapore è letteralmente blindata per il primo incontro ufficiale tra un presidente Usa e il leader di Nord Corea dopo la Guerra degli Anni Cinquanta.

L’obiettivo dichiarato del presidente Trump è quello di arrivare a una denuclearizzazione della Corea del Nord, per azzerare la potenziale minaccia che questa rappresenta per gli Stati Uniti, con le sue testate a lungo raggio.

Mentre si prepara la fitta e misteriosa agenda politica dei due leader, dal Vaticano arriva l’appello di Papa Francesco per la pace tra le Coree. «Prego affinché i colloqui fra Stati Uniti e Corea del Nord che avranno luogo nei prossimi giorni a Singapore possano contribuire allo sviluppo di un percorso positivo che assicuri un futuro di pace per la penisola coreana e per il mondo intero», ha detto durante l’Angelus Papa Bergoglio che ha poi aggiunto in chiusura, «Desidero far giungere all’amato popolo coreano il mio pensiero nell’amicizia e nella preghiera».

Mentre i preparativi per la sicurezza si intensificano, in alcune zone della città pronte per accogliere i due leader in modo pittoresco,  si posizionano mazzi di fiori in cannoni di epoca coloniale sull’isola di Sentosa, ex fortezza militare.

Francesca Grasso

LOS ANGELES: wild dream city

 

Una guida per visitare in 7 giorni la grande metropoli californiana capitale della musica rock, del surf, della giovinezza e dei sogni di celluloide

 

Molti italiani non amano particolarmente Los Angeles. Il suo tessuto urbano ha mille facce ed è un coacervo di entità inconciliabili: dalle ville di lusso sparpagliate come castelli sulle colline di Beverly alla massiccia presenza di homeless un po’ ovunque.

In effetti più che una singola città L.A è un conglomerato composto da molti quartieri, o meglio ancora, distretti a sé stanti. Dorothy Parker ha definito Los Angeles: “72 sobborghi in cerca di una città”. Il prolema è che se siamo abituati, perché viviamo in uno stato che detiene uno dei più alti numeri di siti patrimonio UNESCO, a toccare la storia con mano e a porci in relazione materiale ed epidermica con il monumentum, a Los Angeles questo non funzionerà. Tra le architetture più “antiche” c’è un edificio a Downtown del 1818, Avilla Adobe, sorto nei pressi dell’insediemento di fine ‘700.

Parlando del fascino di Los Angeles lo scrittore e giornalista, Mario Fortunato, in un articolo sull’Espresso ha scritto:

Invece di trovare la vera America, a Los Angeles trovai l’Europa. Non so se vera o falsa, ma di sicuro abbagliante e in definitiva ignota, come un’immagine allo specchio (…) La sua stessa idea di lusso ed eleganza sembra facilmente riproducibile, e di essa si scorge, a ben guardare, l’assoluta fragilità. Non sarà un caso che l’industria primaria del luogo sia l’industria dell’apparenza, cioè il cinema. (…) Gli studios inseguono un’idea astratta del mondo. Visitandoli, ho provato la stessa sensazione avuta camminando nel centro di Noto, in Sicilia, o in certe piazze umbre: la sensazione di muovermi in uno spazio squisitamente mentale. (…) ciò che viene cercato, inseguito e indovinato è uno spazio creato dalla mente: un’esperienza del tutto immateriale”.

Dopo la fondazione, per opera dei missionari francescani spagnoli, il nome per esteso era El Pueblo de Nuestra Señora la Reina de los Ángeles del Rio de la Porciúncula de Asís (Il villaggio di santa Maria degli Angeli della Porziuncola di Assisi). E’ curioso notare come una città nata sotto il segno del Poverello di Assisi sia una delle prime economie al mondo, nonché stella polare dell’effimero e del lusso.

In questo articolo proveremo a tracciare un programma di viaggio per visitare L.A, in una settimana o poco più, spostandoci nei luoghi di interesse con la metro, con Uber oppure Lyft, evitando di cedere all’attrattiva di salire su un pullman per turisti, cogliendo il più possibile le suggestioni e le impressioni che offre l’immensa e radiosa wild city affacciata sull’oceano Pacifico. 

1)      Hollywood

Per un visitatore che arriva a Los Angeles per la prima volta la tappa iniziale sarà con molta probabilità Hollywood Boulevard. Il distretto di Hollywood, divenuto centro dell’industria cinematografica americana a partire almeno dagli anni ’20 del secolo scorso, è sede dei più importanti teatri dove vengono proposte attualmente le prime di molti film. All’interno dei suoi studios (come la Paramount e l’Universal) nacque il cinema classico hollywoodiano, corrispondente all’età d’oro del cinema statunitense. La strada che attraversa Hollywood da est ad ovest tra La Brea Avenue e Gower Street è la famosa Walk of fame. Lungo questo tratto, animato da uomini mascherati da personaggi dei film, si trovano incastonate nel pavimento oltre 2400 stelle con i nomi delle personalità più rilevanti del mondo del cinema, della musica e della tv. Passeggiando si incontrano tempi del cinema come l’Egyptian e El capital (attualmente di proprietà della Walt Disney Company). Non manca, naturalmente, nelle vicinanze, il museo delle cere, l’Hollywood Wax, in concorrenza, pochi metri più avanti, con la versione hollywoodiana di Madame Tussauds. Più interessante è sicuramente l’Hollywood Museum che contiene, disposta su diversi piani, una collezione di vestiti di scena, oggetti usati sui set e vecchie macchine da presa. Tra questi cimeli si possono trovare gli occhiali di Harry Potter, i costumi di Baywatch, gli indumenti di Marilyn Monroe, l’auto di Batman, gli abiti del primo Pianeta della scimmie e di Star Trek, la ricostruzione della sala trucco delle vip anni ’40-’50 e molto altro. Tappa da non perdere è ovviamente il Dolby Theatre situato all’interno del complesso Hollywood & Highland Center. Nel teatro si svolge ogni anno la cerimonia di assegnazione degli Oscar. E’ possibile entrare in visita grazie ai tour che si tengono ogni mezz’ora. Nella piazza centrare del complesso, che ricorda l’ambientazione babilonese del film muto 1916, Intollerance, è collocato il portale attraverso il quale è visibile la scritta Hollywood sulle colline attorno alla città. Procedendo  lungo la stessa strada non si potrà non sostare al Grauman’s Chinese Theatre, fastoso teatro in stile orientale, di fronte al quale è disposta nella pavimentazione una cospicua raccolta di impronte di mani e piedi delle star. Attrazione non meno rinomata è il Roosevelt Hotel, reso famoso da uno scatto di Marilyn Monroe sul trampolino della piscina. Gli amanti della musica non potranno invece fare a meno di osservare all’esterno uno dei eccezionali luoghi simbolo dell’industria musicale, il palazzo sede della Capitol Records, una torre di 13 piani costruita imitando la forma di una pila di dischi come quelle dei juke box anni ‘50. L’hollywood Boulevard riserva inoltre una scoperta sorprendente. Infatti l’Hard rock cafe contiene una quantità di relique musicali da fare girare la testa: dalla chitarra di Carl Wilson dei Beach Boys, alla giacca di Cass Elliot dei Mamas&Papas, dagli autografi originali dei testi del cantante dei Doors, un rullante di Ringo Starr, la chitarra di Iggy Pop, la batteria dei Metallica, il vestito di Snoopy Dog, il cappelo di Michael Jackson fino ai pantaloni di Jim Morrison (che leggenda vuole non avesse mai lavato per anni).  La vicina Sunset Boulevard è un’altra mecca per gli appassionati. Tra le luminose e folgoranti insegne, che danno il meglio nelle ore notturne, in cui sfrecciano auto di lusso, si trovano librerie dedicate al mondo del cinema e del teatro e negozi dove è possibile trovare tutto il meglio (o quasi) della strumentazione musicale. Di fronte al Guitar Center si può osservare una riproduzione simile alle impronte del Chinese theatre, dedicata però a gruppi e musicisti. I locali storici del rock Roxy Theatre e Whisky a Go Go sono nella stessa strada. Chi ama spulciare dischi, vinili e dvd non potrà fare a meno di passare qualche ora da Amoeba, gigantesco store che ospita chicche musicali e album, generalmente, a buon prezzo. A proposito di shopping, consiglio di fermarsi a dare un’occhiata al Larry Edmunds Bookshop, negozio specializzato sul cinema dove è possibile trovare libri, poster e persino una copia della sceneggiatura del proprio film preferito.

2)      West Hollywood

Il quartiere di West Hollywood è il luogo ideale per passeggiare in mezzo ai caffè, ai ristoranti e ai negozi di abbigliamento, fermandosi a fare un aperitivo nella centrale Sunset Plaza che nel suo profilo architettonico ricorda una città europea come Montecarlo. Le sue villette eleganti, abitate da gente benestante, sono un assaggio delle ville regali di Beverly Hills. Nei paraggi si può camminare lungo i viali di Melrose Avenue, resa celebre dal telefim, dove ci si può anche fermare a curiosare in mezzo a negozi di tutti i tipi. Nella stessa strada è possibile fare una visita agli studios della Paramount Pictures. Chi insegue le tracce della storia della musica potrà invece fare rotta verso l’Alta Ciniega Motel e entrare e scattare qualche foto, per 20 dollari, nella camera dove il leader dei Doors, Jim Morrison, ha alloggiato per alcuni anni. Nei paraggi si trova inoltre il Pacific Design Center, un grande edificio che ospita, tra le altre cose, una sezione del Museum of Contemporary Art.

3)      Beverly Hills

Insieme a Bel Air, Los Feliz e la zona di Mulholland Drive, il quartiere è famoso per essere l’area di Los Angeles preferita dalle celebrità. La sua strada principale è Rodeo Dr, viale colmo di boutique e vetrine griffate. Nei suoi paraggi si trovano le ville a schiera abitate da famiglie altolocate e personaggi del mondo dello spettacolo. Concessionari Ferrari, negozi di alta moda e ristoranti di lusso sono di casa da queste parti. Oltre a una passeggiata nella zona si può fare un salto al Paley Center for Media, museo dedicato alla radiofonia e alla TV.

4)     Santa Monica Mountains

Per godere una delle viste più belle e mozzafiato sulla città di Los Angeles, l’ideale è andare sulle colline che sovrastano Hollywood al tramonto o nelle ore notturne. Qui, specialmente nei pressi di Mulholland Drive (se siete a caccia di star ne troverete molte da queste parti), e nei dintorni del Griffth Park, si respira finalmente un’aria immersa nel verde. Oltre alle stelle del cinema e della musica, il luogo è una tappa da non perdere per raggiungere un altro tipo di stelle, quelle del cielo, grazie ai telescopi del Griffth Observatory. Il maestoso edificio regala una visuale eccezionale dall’alto sulla città di Los Angeles. Al suo interno si trovano un planetario e alcune interessanti installazioni. Sulla collina, in una zona non troppo distante (ma le distante a L.A, anche quelle brevi, prevedono il ricorso a Uber!) ci sono gli Universal Studios. Chi ha intenzione di visitarli dovrà prevedere di spendere almeno mezza giornata per avere una panoramica sui set e le maggiori attrazioni. Gli appassionati della camminata tra la natura potranno invece raggiungere a piedi l’Hollywood Sign.

5)      Exposition Park

Le famiglie, i bambini, ma anche gli appassionati di astronomia e scienze naturali, potranno prevedere una tappa di mezza giornata a Exposition Park. Sede dei giochi olimpici del 1984, nell’area trovano posto numerosi musei. Se avete un po’ di tempo a disposizione vale la pena visitare soprattutto il California Science Center, dove oltre alle stelle marine, le navicelle spaziali e gli animali esotici, si trova una sala che conserva lo Space Shuttle della NASA, famoso per le sue missioni intorno alla terra.

6)      Downtown

Los Angeles non è soltanto palme e costruzioni basse, il suo nucleo storico anzi si trova proprio qui a Downtown, all’ombra di enormi grattacieli. La zona è molto estesa ed è a sua volta suddivisibile in vari quartieri, raggiungibile grazie alle fermate della metro. Può essere ripartita in almeno 4 aree: Chinatown, abitata da circa 15.000 asiatici,  Little Tokio, disseminata da vari musei e grattacieli (dove si possono trovare anche dei meravigliosi giardini zen), un’area che corrisponde grosso modo al centro storico in cui trovano posto l’Union Station (la principale stazione ferroviaria di Los Angeles), El Pueblo de Los Angeles, quartiere dove sono presenti palazzi storici della città, City Hall, edificio di 27 piani a forma piramidale, sede del municipio, la Cattedrale (costruita nel 2002), i futuristici edifici del Music Center e della Walt Disney concert Hall e, infine, la strada di Broadway, principale arteria del centro storico. L’ultima area, quella della finanza, ha il fulcro a California Plaza, che si raggiunge attraverso una pittoresca funicolare costruita nel 1901. Nel quartiere si trova la Los Angeles Central Library, il Westin Bonaventura Hotel, l’albergo più famoso della città, un grattacielo lussuoso con ascensori a vista, utilizzato per le riprese di numerosi film. Attrazioni imperdibili sono il MOCA (museo di arte contemporanea) che contiene opere di Mark Rothko e Andy Warhol e una  visita al 70 esimo piano del U.S Bank dove si può ammirare una vista a perdita d’occhio.

7)      Venice Beach e Santa Monica

La costa di Los Angeles meriterebbe una trattazione più dettagliata. Il litorale della metropoli californiana è  un susseguirsi di piccole città e borghi: da Pacific Palisades, Malibu, Marina del Rey, fino a South Bay e Long Beach. Non è possibile, in una vacanza di pochi giorni, farsi un’idea completa del suo immenso lungo mare. Si può scegliere di dormire qualche notte solo in alcune delle località. Per fare una capatina a Malibu, nelle sue belle spiagge limitrofe alle ville delle celebrità e poi una sosta a Huntington beach o Surfrider per osservare i surfisti che cavalcano le onde, una passeggiata tra le imbarcazioni del porto di Marina del Rey o una visita alla Queen Mary di Long Beach e all’ acquario, nella stessa giornata, servirebbe il teletrasporto! Una soluzione può essere quella di andare a cogliere i colori, gli eccessi e le stranezze  di Venice Beach, tratto carico di good vibration. Chiunque passeggi o noleggi una bicicletta in questo tratto di mare, in un pomeriggio di sole, non potrà fare a meno di sorridere. L’Ocean front walk è il regno degli artisti di strada, dei ragazzi sugli skate e sui rollebrade, della vita da spiaggia della California. Se poi le batterie sono ancora cariche si può decidere di camminare fino a Santa Monica e lì vedere il famoso molo con la ruota panoramica piena di luci e il tratto dove finisce la route66. 

   

Writer e Ph:  Eulalia Cambria

Thanks to Saverio Paiella

Stati Uniti, sparatoria a Santa Fe

Ancora tanta violenza nelle città, ma la situazione non cambia

L’ennesima sparatoria è avvenuta a Santa Fe, in Texas e, come molte altre volte a sparare è stato uno studente, questa volta un ragazzo di 17 anni.

Fin da inizio anno negli Stati uniti si sono verificati molteplici episodi nei paraggi o all’interno di aree scolastiche. In totale, secondo i dati di Everytown for Gun Safety, le armi da fuoco sono state usate già almeno 22 volte, tra cui anche due casi di suicidio.

L’ultimo caso riportato è avvenuto il 19 maggio; colpi di arma da fuoco sono stati sparati all’interno di una scuola superiore, un ragazzo armato avrebbe fatto irruzione nell’edificio e avrebbe aperto il fuoco. Secondo i media locali, gli spari sarebbero iniziati cinque minuti dopo un’esercitazione anti sparatoria.

Nel giro di pochi minuti numerose ambulanze ed elicotteri hanno prestato soccorso; mentre le forze di polizia hanno circondato l’edificio e hanno perquisito gli alunni che erano riusciti a salvarsi scappando.

A rendere ancora più sconcertante il massacro è stata la scoperta nella scuola e nel campus di vari ordigni esplosivi artigianali, tra cui tubi bomba.

Le ripetute tragedie hanno suscitato reazioni contrastanti dividendo in due il popolo americano. Da una parte ci sono i cittadini che chiedono leggi più severe sulla vendita e sulla proprietà delle armi da fuoco, mentre altri, sollecitano la presenza di più guardie armate nelle scuole, o si battono per rendere più facile per gli insegnanti poter portare con sé un’arma.

Indipendentemente dalle idee del popolo americano, secondo gli esperti, i pericoli che bambini e adolescenti corrono per via delle armi, oggi sempre più vendute anche ai giovani, rimangono elevati.Anche il presidente Trump ha espresso le sue idee attraverso dei tweet  promettendo di trovare una soluzione.

Una situazione affine sta avvenendo nel nostro Paese, a Napoli.

Si sa, i luoghi comuni su Napoli sono tanti e non mancano battute sulla legalità cittadina.

Dalla famosa sparatoria di novembre ai baretti, l’amministrazione comunale ha messo in campo sei ordinanze per rendere vivibili e tranquille le notti napoletane avendo come obiettivi la legalità nelle strade evitando ai cittadini la paura di girare dopo una certa ora.

Ordinanze di buone intenzioni ma che all’atto pratico non vengono rispettate.

                                                                                                                   Francesca Grasso

 

L’ influenza dell’OPEC sull’economia mondiale

E’ ormai evidente agli occhi di tutti come la nostra società, da oltre mezzo secolo a questa parte, sia diventata prevalentemente consumista. Lo si vede fondamentalmente da questo forte attaccamento al denaro, questa famigerata arma che adesso può tranquillamente far acquisire un enorme potere a tutti coloro che ne hanno in grandi quantità permettendogli di prendere le redini di una vasta porzione societaria e strutturarla a proprio piacimento. Riassumendo la forma è abbastanza semplice, denaro uguale potere, il potere di manipolare a proprio piacimento tutto ciò di cui ci si può interessare.

Ne può essere un forte esempio l’OPEC ( Organization of the Petroleum Exporting Countries ), una potente organizzazione creatasi negli anni 60 dai maggiori paesi produttori ed esportatori al mondo di petrolio. Ad oggi questa organizzazione conta 13 paesi membri fra i quali troviamo alcuni fra gli esponenti più ricchi e potenti sotto il punto di vista delle risorse come l’Arabia Saudita, l’Iran, l’Iraq, la Libia, il Venezuela, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e il Kuwait. Tutti questi sono dei paesi molto ricchi sotto il punto di vista del business petrolifero, ma la loro storia non è sempre stata proporzionata.

Come prima specificato l’OPEC nasceva negli anni 60 con lo scopo prevalentemente di creare dei veri e propri cartelli economici in grado di poter, innanzi tutto, coordinare l’azione di produzione ed esportazione di petrolio di tutti questi paesi membro, e in secondo luogo di andare a creare un modello di mercato che ruotasse intorno al buisiness del petrolio al fine di farlo diventare il punto di riferimento su scala mondiale. La situazione e il ruolo dell’OPEC cambiò invece in maniera repentina a partire già dagli anni 70, in particolar modo dal 1973, l’anno caratterizzato dalla guerra nel Kippur. Durante questo conflitto quest’organizzazione si schierò fortemente contro lo stato di Israele e soprattutto contro tutti quegli altri stati che lo avrebbero sostenuto nel conflitto come il Portogallo, gli USA e il Sud Africa. La reazione fu durissima, l’OPEC introdusse contro questi sostenitori un embargo che fece alzare drasticamente il prezzo al barile del petrolio fino ad arrivare nel 1975 dove il prezzo di quest’ultimo salì alle stelle toccando una cifra pari ai 9$ al barile causando un forte shock petrolifero che fece tremare ai tempi l’economia di tutti quei paesi. In epoca più recente la politica economica attuata dall’OPEC continua ad essere si soddisfacente ma in quest’ultimo periodo si è inserita all’interno del mercato uno spietato concorrente rappresentato dagli USA che già negli ultimi 10 anni sta fortemente primeggiando all’interno di questo tipo di mercato.

Davide Di Perna

11.22.63: ritorno al passato con J.J. Abrams e Stephen King

A novembre saranno trascorsi oltre cinquanta anni da quella mattina del ’63 a Dallas quando John Fitzgerald Kennedy venne assassinato da alcuni colpi sparati con un fucile fabbricato in Italia.

Uno spartiacque che ha innescato un inaspettato cambio di rotta dopo il quale si è fatto strada l’interrogativo su come sarebbero andate le cose se Lee Harvey Oswald – secondo la ricostruzione ufficiale – non fosse riuscito a portare a termine il suo disegno criminale facendo fuoco dalle finestre al sesto piano della Texas Book School Depository.

Il corteo che accompagnava Kennedy e la moglie Jackie avrebbe proseguito indisturbato nel suo bagno di folla e la tappa sarebbe stata registrata come un evento uguale ad altri nella campagna di consensi del presidente americano. Il fratello Bobby si sarebbe salvato? L’inasprimento della guerra del Vietnam che ha sottratto la vita a migliaia di esseri umani non ci sarebbe stato? E in che modo sarebbe sfociate le tensioni con la Russia? Non siamo in grado di rispondere, ma è certo che determinati turbamenti temporali possono provocare una catena di eventi che per molto tempo condizioneranno il corso della storia. 11.22.63 parla di questo. In parte. La vicenda ha al centro il Maine, da cui ha mosso i primi passi lo stesso Stephen King, e la vita di un insegnante di lettere, Jake Epping (James Franco).

Tra i corsi diurni e quelli alla scuola serale frequentati da Harry, bidello del liceo di Lisbon Falls, reduce dal trucolento stermino della sua famiglia per mano del padre nei primi anni ’60, e la tavola calda di Al Templeton, rinomata per i “Fatburger” venduti a un prezzo di pochi cent., Jake Epping conduce una normale esistenza. Un giorno nota qualcosa di strano in Al: l’amico si è ammalato improvvisamente, mentre un attimo prima era in ottima forma. Jake scopre allora che nella dispensa del ristorante c’è un varco temporale che porta sempre nello stesso luogo e nello stesso istante: il 21 ottobre del 1960. Non importa quanto a lungo si resta dall’altra parte, al ritorno nel presente saranno trascorsi sempre soltanto due minuti. Nessuno nel passato sembra accorgersene, eccetto l’uomo con una tessera gialla. Epping asseconda le volontà di Al e accetta di assumere un’identità nuova calandosi nei panni di Jake Amberson e varcando il portale dello scantinato per seguire le tracce dell’ex marine Lee Oswald attraverso i suoi spostamenti e fare luce sui suoi possibili contatti con la CIA, servendosi di un fascicolo che raccoglie ritagli di giornale dell’epoca, con il proposito di sventare l’assassinio di Kennedy. Ma il passato farà di tutto per non essere cambiato.

La miniserie del 2016, in 8 puntate, non è solo l’ennesimo contraltare filmico di una vasta letteratura di fantascienza incentrata sui viaggi del tempo, ma un attraversamento piuttosto convincente di un’america nel periodo di punta dell’esplosione del rock’n roll, pervasa dal cambiamento dei costumi del dopoguerra e divisa dai problemi razziali. Accanto agli abiti eleganti e i maglioni dai colori tenui, le automobili scintillanti e i registratori a bobina, si colgono le atmosfere della musica ai tempi del trionfo del vinile con una colonna sonora che spazia dai successi di Bobby Vinton (nel trailer), Sam Cooke e le Shirelles.

Anche se il libro è stato pubblicato nel 2011, l’intenzione di scrivere un romanzo dedicato all’omicidio del 35° presidente degli Stati Uniti è una pulce all’orecchio che ha ossessionato Stephen King fin dagli anni ’70. Inizialmente il progetto di trasferire la trama in un film sarebbe stato affidato alla regia di Jonathan Demme, successivamente il pilot venne girato da Kevin Macdonald.

James Franco, che invece originariamente sperava di trovarsi nelle vesti del produttore, sorpassato in questo da J.J Abrams che si assicurò per primo i diritti del libro, ha ottenuto poi il ruolo di attore protagonista. Inutile fermarsi a elencare le differenze rispetto al libro (a partire dalla data in cui il portale conduce nel passato, che, nel romanzo, è il 1958), né, in questa sede, indagare sulle fonti che una ricostruzione sull’assassinio di Kennedy ha privilegiato, senza anticipare altro, la serie è anche, in fin dei conti, la vittoria di un amore assoluto che neanche i paradossi temporali riescono a interrompere.

 

Eulalia Cambria

Femminismo non è una cattiva parola

Ho una maglietta che dice “Femminismo non è una cattiva parola”. 
C’è stato un momento della mia vita in cui però l’ho pensato e come me, credo qualche altra ragazza. I ragazzi che incontravo, gli amici, anche qualche amica, quando mi apostrofavano “sei una femminista: è ovvio che dici così” “si seccherà perché è una femminista convinta” mi avevano gettata nello sconforto, quasi convincendomi di essere nel torto.
Non c’era cattiveria in loro, ma il dubbio si era fatto strada nella mia mente. Fortunatamente il periodo adolescenziale è durato pochissimo, i pensieri per me innaturali sono lontani e io sono felice delle convinzioni che si sono imposte e soprattutto di quelle nuove.

Le parole sono potenti, il bisogno umano di definire le cose fisiche e non è impellente, e le parole vengono utilizzare con accezioni differenti, nel caso di “femminista” intesa come “la donna arrabbiata”.
Abbiamo superato il periodo in cui per femminista era intesa una donna che rivendicava la parità fra i sessi e l’emancipazione della donna. Oggi l’ambito è molto più ampio, mantenerci radicati ad una definizione con il mondo che cambia quotidianamente è illusorio.
Io credo che questo sia il momento più bello per essere un/una femminista.
Siamo collegati da una necessità di cambiamento nella visione sociale dell’essere umano femminile e non solo.
Oggi si tratta di vederci come esseri umani e di essere trattati con la stessa dignità.

Il movimento “Women’s march” in USA ha avuto un fortissimo impatto mediatico e politico. Le donne in USA oggi si stanno presentando, in numeri mai visti, per le elezioni politiche che vanno dai seggi locali a quelli del senato.
Qui in Italia il movimento “Non una di meno” ha prodotto “Abbiamo un piano. Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere.” .
Laura Boldrini ha riempito la Camera di donne giorno 25 novembre per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Questi non devono essere eventi sporadici nel nostro paese, le Camere dovrebbero avere una percentuale maggiore di donne sedute. Donne competenti si intende, come d’altronde deve essere per gli uomini.
Rendermi conto che solo 12 anni fa è stato varato il dlgs. confluito poi nel Codice delle pari opportunità uomo donna mi ha infastidito e scoraggiata ma il cambiamento sta soffiando anche qui.

 

Quando ad ottobre 2017 si è scatenata la bufera Weinstein, ero scettica sull’effetto mediatico che avrebbe avuto in Italia ma subito è stato rimpiazzato da una forte rabbia per il modo in cui Asia Argento è stata trattata ed apostrofata.
Perché Asia Argento è una donna come tante, per alcuni indicata come fortunata sotto l’aspetto economico-sociale, ma è una donna in primis che ha subito quello che molte, moltissime altre italiane subiscono quotidianamente.
Mi ha fatto arrabbiare il fatto che alcune donne l’abbiano criticata e le sue colleghe non l’abbiano sostenuta come è successo invece con Rose McGowan, Annabella Sciorra, Rosanna Arquette (la lista è veramente lunga).
E se gli italiani storcono il naso perché si tratta di questioni “contaminate” dagli stranieri, ci sono le testimonianze di diverse donne che lavoravano per “Non è la Rai”  che a 16/17 anni si sono ritrovate sbattute contro una porta, usate come regalo per figli di politici, le agenzie che le prostituivano (perché questo facevano). Sapere che dietro certi ingegni c’erano alcune volte altre donne sdegna e irrita.
E coloro che si rifiutavano vedevano troncate le proprie carriere “hai ancora il rossetto? Non ti vedremo più cara.”.
Le donne dello spettacolo oggi sono i portavoce più potenti insieme ai politici.
In Italia è necessario che il dialogo sia quotidiano e forte, siamo un paese che ha memoria corta.
Asia Argento ha rotto il “glass ceiling” del silenzio in Italia una volta per tutte.

 

https://www.youtube.com/watch?v=VtUWs6muGzg

 

Io sono nata in una famiglia che non ha mai limitato le mie azioni perché femmina ma soprattutto sono cresciuta con una tribù di amiche che mi hanno sempre spalleggiato, se non fosse stato per loro alcune volte non avrei nemmeno provato esperienze.
Sono la mia forza e la mia continua sfida e rappresentano tutto quello che i legami fra donne significano.

Sono una privilegiata in questo paese e in questa città, me ne sono resa conto da troppo poco e questo mi fa arrabbiare ancora di più, per non essermi “svegliata” prima.
Il tempo per questa sonnolenza è scaduto.
Fin da piccole siamo abituate a far finta di non sentire i commenti e i fischi, di fare attenzione la sera tornando a casa, arriva poi l’età in cui bisogna far fronte alle avances fastidiose sul luogo di lavoro da parte dei capi e colleghi. Dal clima scolastico si viene catapultate in questo.
Certo gli abusi sessuali sono ben diversi da quelle che sono avances, ciò non toglie che alcune situazioni siano sgradevoli.
Un mondo al quale ci siamo abituate non vuol dire che sia giusto.

L’altro giorno con un’amica discutevamo del fatto che un ragazzo avesse detto ad un’altra amica, riferendosi al suo abbigliamento che , parafrasando, “si era vestita apposta per far avvicinare i maschi”.
Le ragazze si vestono in primis per sé e anche se il fine fosse altro ciò non giustifica l’altro genere ad arrogarsi il diritto di essere fastidioso ed insistente quando si mostra il disinteresse. Non ho mai visto in vita mia una ragazza insistere nei confronti di un ragazzo o dirgli che si era sistemato per attirare “le femmine”.
Sono sicura di non essere l’unica ragazza che quando mette una maglietta un po’ più scollata nota gli sguardi altrui, anche l’atteggiamento. Mi ha portato ad un istintivo senso di pudore che con difficoltà abbandono.
L’abbigliamento è espressione di sé, non un’autorizzazione per gli altri ad agire liberamente.

Noi ragazze non abbiamo la stessa libertà di espressione nel definire i nostri desideri e voglie per il nostro piacere come i ragazzi. Ragazzi abbastanza lungimiranti, si rifiutano di sentirmi parlare di certi argomenti, che sono invece centro di conversazione fra loro dello stesso sesso. Se ne parla solo dal loro punto di vista ed esigenze. È un limite per entrambi per differenti motivi.

L’anno scorso ho scoperto Alba De Céspedes e la sua corrispondenza con Natalia Ginzburg sul “pozzo” in cui le donne cascano. Dialogo di qualche decennio fa che mai come oggi mi sembra attuale:

“pensavo che gli uomini lo avrebbero letto distrattamente, o con la loro vena di ironia, senza intuire l’accorata disperazione e il disperato vigore che è nelle tue parole, e avrebbero avuto una ragione di più per non capire le donne e spingerle ancora più spesso nel pozzo. Ma poi ho pensato che gli uomini dovrebbero infine tentare di capire tutti i problemi delle donne; come noi, da soli, siamo sempre disposte a tentare di capire i loro. […] del resto – tu non lo dici, ma certo lo pensi – sono sempre gli uomini a spingerci nel pozzo; magari senza volerlo.
Ti è mai accaduto di cadere nel pozzo a causa di una donna? Escludi naturalmente le donne che potrebbero farci soffrire a causa di un uomo, e vedrai che, se vuoi essere sincera, devi rispondere di no. Le donne possono farci cadere nell’ira, nella cattiveria, nell’invidia, ma non potranno mai farci cadere nel pozzo.
Anzi, poiché quando siamo nel pozzo noi accogliamo tutta la sofferenza umana che è fatta , prevalentemente, dalla sofferenza delle donne, siamo benevole con loro, comprensive, affettuose.
Ogni donna è pronta ad accogliere e consolare un’altra donna che è caduta nel pozzo: anche se è una nemica […] uomini a spingerci nel pozzo. I figli pure sono uomini, e i fratelli, i padri; ed essi tutti con le loro parole, e più ancora con i loro silenzi, ci incoraggiano a cadere nel pozzo smemorante ove loro non possono raggiungerci e noi possiamo esser sole con noi stesse”

Ero totalmente ignorante di questa scrittrice italo-cubana e della sua vita incredibile. La persona che me l’ha fatta scoprire l’ha conosciuta grazie al corso di studi in Lettere e filosofia.
Perché in Italia il sistema scolastico non ci fa studiare queste fini penne e menti? Alle due citate possiamo aggiungere Goliarda Sapienza, Sibilla Aleramo e Giovanna Cecchi d’Amico, sceneggiatrice di moltissimi film (Il gattopardo, Ladri di biciclette, Bellissima, Rocco e i suoi fratelli giusto per nominarne un paio).
La scuola è il luogo dove ci formiamo culturalmente , è il luogo che avrà più influenza sulle nostre persone oltre la famiglia. È il luogo in cui si creano anche i legami di amicizia che ci si porterà dietro accomunando persone affini.
È qui che la conoscenza del pensiero femminile dovrebbe avere accesso, non solo all’università.
Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé” notava proprio questa mancanza, con la storia inventata della sorella di Shakespeare.
È la cultura a fare la differenza nella percezione dell’altro.

Siamo il paese in cui la presidente della camera è una donna, di Emma Bonino, Concita De Gregorio, Dacia Maraini, Susanna Camusso ed Emma Mercegaglia, personalità notevoli nei diversi campi di espressione.
Ma siamo anche il paese di Lucia Annibali, Gessica Notaro, Serafina Strano, Sara Dipietrantonio e delle 84 donne uccise in 9 mesi, 8.480 denunce stalking, 3mila violenze sessuali nel 2017.

Il femminismo è solidarietà, accoglienza e supporto.
Gli slogan sono utili, per la chiarezza del messaggio, e le persone che si fanno portavoce ancora di più perché infondono coraggio.
Non siamo tutte Malala ma siamo donne e abbiamo il diritto di dire la nostra e fare il possibile. Anche gli uomini.
Si tratta della nostra crescita come popolo, “ci colpiamo noi mamme” mi ha detto una signora tempo fa. In parte, ci colpiamo noi figli se con il nostro intelletto e volontà non cambiamo questa condizione.
Il cambiamento non sarà immediato si agisce sempre per il futuro.
In questo flusso di parole spero troviate almeno una verità, affermazione a voi vicina che instilli in voi il desiderio del cambiamento e far comune questa battaglia.
Dialogo per raccogliere più opinioni possibili e conseguente azione per non scadere nella ostentazione di buoni propositi.

The Times They Are a-Changin’ non sono gli anni ’60, ma sono tempi di rivoluzione.

 

Arianna De Arcangelis

Je suis Charlie

Charlie Gard.  Ha solo 10 mesi, ma tutto il mondo già lo conosce, tutti i mezzi di comunicazione ed i social networks, non hanno fatto altro che parlare di lui in questi giorni. Perché?

Perché la vita di questo bimbo, nella sua particolarissima forma, è segno di contraddizione per la società del nostro tempo che, pronta a legittimare anche i desideri più improbabili, priva della propria libertà chiunque non dovesse essere allineato con i “trend” del pensiero forte.

Chris Gard e Connie Yates, genitori del piccolo Charlie, hanno solo chiesto la vita, mentre medici e corti d’appello sentenziano morte. Morte per soffocamento ( sono filantropi, loro!) dal momento che “staccando la spina”,  Charlie non sarà più in grado di respirare autonomamente. E’ una malattia rara la sua, deplezione del DNA mitocondriale (16.ooo base paires che vengono, normalmente, tradotte in proteine funzionali, fondamentali per consentire all’organulo di adempiere alla sua funzione), si contano solo altri 16 casi del genere in tutto il mondo.

E’ senz’altro una situazione complessa ed estremamente delicata, però una cosa risulta incomprensibile: anche se  il bimbo non può essere portato negli Stati Uniti per tentare una cura sperimentale bocciata dai medici del Great Ormond Street Hospital di Londra, perché deve essere ucciso attraverso la rimozione del respiratore?

I genitori, infatti, fin dal primo giorno insistono nel dire che il bambino non soffre («se fosse così saremmo i primi a lasciarlo andare»). E che Charlie possa continuare a vivere è dimostrato proprio dal fatto che, da aprile a oggi, cioè da quando è iniziata la causa giudiziaria, il suo stato di salute non è peggiorato.

Di questo, i medici non sanno bene che rispondere. La decisione di staccare la spina è stata presa, dicono, “nel migliore interesse del bambino”, ma non è facile comprendere come la vita possa non essere nell’interesse di Charlie. E rimane, ancora, il nodo cruciale: secondo gli stessi operatori sanitari  “Non è possibile sapere se Charlie provi dolore o meno. Nessuno può esserne certo”. Quindi, non si può stabilire se ci sia o no accanimento terapeutico.

Però mi chiedo, quale medico e quale giudice può arrogarsi il diritto di porre fine alla vita di un bambino sulla base di qualcosa che non sa?

Poiché ammettono di essere nel dubbio, i dottori dovrebbero assisterlo fino alla fine e fare un passo indietro davanti a una vita che, per quanto fragile e sofferente, c’è.

L’emergenza di Charlie è l’emergenza di ogni uomo, perché la sua malattia coinvolge la fase vita in cui l’uomo è più debole e indifeso e ha bisogno di accoglienza, ancora di più se affetto da una malattia genetica o malformativa. Alla sua sofferenza non si è data una risposta concreta, si è negata la base minima della pietà umana decretando che se sofferenti non vale la pena vivere.

Concludo prendendo in prestito le parole di un pediatra e genetista francese (nonché scopritore della trisomia 21, più nota come “Sindrome di Down ed altre malattie cromosomiche), vissuto nel secolo scorso, Jérôme Lejeune:

«Se si volesse eliminare il paziente per sradicare il male, si avrebbe la negazione della medicina. Ma difendere ogni paziente, prendersi cura di ogni uomo, implica che ciascuno di noi debba essere considerato unico e insostituibile».

Dobbiamo servirci della medicina in modo etico per salvare vite, altrimenti essa rischia di diventare mero tecnicismo applicato, ma non al servizio dell’uomo. Charlie forse non può guarire, ma non per questo dev’essere ucciso da una scienza che si illude di essere onnipotente.

Ivana Bringheli

“Obama out but save Obamacare”

o-obama-facebookPoche ore fa a Chicago di fronte a circa 20.000 persone,  Barack Obama ha tenuto il suo ultimo discorso pubblico in qualità di Presidente degli Stati Uniti d’America prima di cedere definitivamente la scrivania della sala ovale al suo successore Donald Trump.

Inevitabilmente questa notte è calato il sipario su una delle pagine più belle della storia occidentale, infatti Obama divenuto il primo presidente Afroamericano degli Stati Uniti è riuscito ad incentrare l’attenzione del dibattito politico-istituzionale su temi che fino ad allora erano stati relegati ai margini dai suoi predecessori.

Proprio la sua spinta riformista ci permette di etichettarlo come uno dei politici più liberal, insieme all’ex vicepresidente e premio nobel Al Gore.

Ma nonostante il clima di incertezza generale causato dalla rocambolesca elezioni del tycoon Trump, cosa rimarrà alle nuove generazioni dell’operato dell’ormai ex Presidente?

Sicuramente una pietra miliare dell’amministrazione Obama è rappresentata dal “Patient Protection and Affordable Care Act” ovvero la riforma sanitaria, che tramite mezzo stampa venne rinominata “Obamacare”. La suddetta riforma ha permeato la sua linea politica fin dal quando nel lontano 1997 venne eletto come membro del Senato per il 13° distretto dell’Illinois.

Entrata in vigore il 25 marzo 2010, la suddetta riforma diede la possibilità a circa 31 milioni di cittadini di poter usufruire di una copertura sanitaria totalmente gratuita. Infatti questo rivoluzionario atto legislativo rappresenta una netta cesura rispetto al sistema delle lobby assicurative sanitarie che da sempre risultano essere un elemento discriminate all’interno del welfare state  Americano.

Eppure nonostante essa rappresenti uno dei provvedimenti legislativi più importanti dell’ultimo decennio, a tutt’oggi l’Obamacare rischia di poter essere cancellata con un colpo di spugna. Infatti la maggioranza Repubblicana, che storicamente rappresenta gli interessi delle lobby assicurative ha più volte aspramente criticato la linea politica dell’amministrazione della Casa Bianca in merito, poiché essi ritengono che i trasferimenti monetari derivanti dall’assistenza sanitaria pesino eccessivamente sulla spesa pubblica.

Anche durante questa campagna elettorale, il candidato Donald Trump ha affermato più volte che la soluzione più congeniale in un’ottica costi/benefici sarebbe quella di sviluppare un sistema di assistenza sanitaria che sia a totale carico del datore di lavoro di ciascun cittadino. Ovviamente la suddetta manovra andrebbe ad escludere totalmente coloro i quali non risultano al momento occupati o non godono di un reddito fisso.

Tuttavia non sono solo le forze politiche a minacciare l’efficacia della riforma, infatti a seguito di un ricorso presentato alla Corte Suprema da parte di un ex reduce di guerra 7,3 milioni di persone rischiano di poter perdere la loro copertura sanitaria. La natura del ricorso risiede nella concezione di stato federale e dell’autonomia di cui gode ciascuno stato nel poter regolamentare il proprio mercato interno.

E’ palese che la vita dell’ Obamacare risulti essere appesa ad un filo sottile che lega le pressioni politiche con l’iter giudiziario. Ciononostante al netto delle valutazioni degli esperti del settore, siamo sicuri che l’America sia pronta a fare un passo indietro sui diritti civili, negando così un diritto garantito dall’ articolo 25 della dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo?

Simone Coletta

L’ascesa di Trump e l’ombra del populismo mondiale

Chi mi conosce sa della mia passione per la politica e in particolare del mio grande interesse per quella anglosassone ed americana. Nazioni che fino ad oggi hanno sempre combattuto per gli ideali di partito, i quali erano nettamente differenziati.
L’evoluzione storico politico degli USA nell’ultimo decennio è palese anche agli “atei” di politica, dalla presidenza Bush a quella Obama le differenze sono enormi.
A questo punto mi si direbbe “Ma com’è possibile che siano passati a Trump dopo l’amministrazione Obama?”. Vi rispondo che l’America era e rimane un paese contraddittorio, dove da un lato, i diritti LGBT e delle adozioni sono estesi come in nessun altro paese, e dall’altro un ragazzo di 16 anni può comprare con più facilità una pistola che un pacchetto di sigarette.

Premetto dicendo che ero una sostenitrice di Bernie Sanders e in questo mio flusso di coscienza cercherò di essere il più razionale possibile.

E’ da 18 mesi che seguo attentamente queste elezioni, con i suoi discorsi bellissimi (Michelle Obama si è dimostrata una delle migliori oratrici dei nostri tempi, superiore anche al marito, a mio modesto parere) e grandi mancanze di rispetto per l’avversario e il popolo americano.
Entrambi i candidati non hanno fatto che attaccarsi, o meglio, uno attaccava nel 95% dei casi, l’altra parava e cercava di parlare del programma.
La sconfitta di Hillary Rodham Clinton ci arriva come un pugno dritto in faccia. In buona parte del mondo ci si auspicava una sua vittoria, anzi, si era certi. Siamo stati tutti offuscati dalla speranza che il popolo americano seguisse il buonsenso piuttosto che la vendetta.
Sì, credo che ci si è voluti tutti coprire in parte gli occhi sul movimento che sta segnando il mondo e ha avuto la meglio anche in USA. Si è così mossi da un desiderio di cambiamento radicale che si preferisce scegliere una persona totalmente fuori dal contesto politico piuttosto che una preparata e di lunga esperienza.
E’ un movimento globale, guardiamoci attorno in Europa: la LePen in Francia, i movimenti nazi in Germania, la Slovenia sono solo quelli più sentiti. Non dimentichiamoci la Brexit.
Lo si può chiamare populismo, come fanno in tanti, ma credo che vada ancora più in profondità come movimento, è una insoddisfazione del mondo che abbiamo costruito unita all’egoismo ed indifferenza. Alcuni l’hanno definita “crisi del modello democratico”.
La sconfitta della Clinton è figlia di un sentimento simile , un voto “contro” il sistema, contro il continuum della politica di Obama, contro una persona dell’establishment politico storico degli USA.
C’è una caratteristica genetica degli americani: non perdonano chi mente. Non hanno perdonato Hillary né per questo né per essere stata sempre una donna fuori dal comune.

L'abbraccio tra Barack Obama e Hillary Clinton, candidata ufficialmente dal partito Democratico alla presidenza sul palco della convention del partito a Philadelphia, 27 luglio 2016 (AP Photo/Carolyn Kaster)
L’abbraccio tra Barack Obama e Hillary Clinton, candidata ufficialmente dal partito Democratico alla presidenza sul palco della convention del partito a Philadelphia, 27 luglio 2016
(AP Photo/Carolyn Kaster)

Perché questo è la Clinton, una donna cresciuta nel pieno del movimento femminista, indipendente nelle scelte e concreta nell’agire. La sua esperienza politica risale alla commissione di inchiesta del Watergate in cui era l’unica donna, insomma possiamo dire che la “cosa comune” è il suo pane quotidiano da sempre.
E’ vero in politica estera è stata spietata, probabilmente lo sarebbe stata anche nel caso in cui avesse vinto.
Molto meglio una donna così che un uomo che di politica conosce ben poco (vorrei segnalarvi il secondo dibattito tv di ottobre dove la Clinton ha dovuto ricordare a Trump che il presidente degli Stati Uniti ha il potere di veto) ed è stato appoggiato pubblicamente dalla maggioranza dei dittatori che ci sono ora al mondo.
Il fenomeno Trump avrebbe dovuto mettere tutti sull’attenti già da molto prima, il limite doveva essere la sua vittoria schiacciante come candidato repubblicano. L’episodio di “grab by the pussy”. La quantità di donne che lo hanno appoggiato nonostante il suo sessismo. Nessun candidato della storia sarebbe sopravvissuto agli scandali che hanno travolto Trump durante questa corsa alla Casa Bianca: insulti ai genitori di un soldato morto per la patria, l’evasione fiscale.
L’appeal di Donald è che parla alla pancia, alla metà dell’elettorato statunitense: scarsa educazione, età media e bianchi. Mettici insieme coloro che provano risentimento nei confronti della Clinton e il gioco è fatto.
Tutti gli elementi con i quali, fino ad ora, si erano analizzate le candidature da anni a questa parte si sono dimostrati inutili ed inesatti.

L’America, nel bene e nel male, aveva l’opportunità di eleggere una persona iper qualificata, che chiunque avrebbe invidiato. Un personaggio storico (perché questo sarà Hillary negli anni a venire) di quelli una volta ogni cent’anni.

Le conseguenze di questa elezione si fa sentire dalla prima mattina con la borsa asiatica che perde il 5,37%. L’economista e premio Nobel Paul Kraugman scrive sul NYT che non ci sarà mai un recupero dell’economia dopo questa elezione.

Per concludere cosa si palesa davanti a noi come conseguenza di queste votazioni? Che la popolazione è stata mossa dal rancore, soprattutto i bianchi degli stati centrali, che hanno fatto la vera differenza. L’Ohio storico swing state è stato addirittura un “flip state” cioè c’è stata una schiacciante vittoria di Trump.

Oggi è il 9 novembre, esattamente 27 anni fa un muro veniva abbattuto e ciò segnava un momento storico per l’Europa, dimostrando che la voglia di unità popolare era più forte di tutto.
La Clinton ha usato come slogan della sua campagna “Stronger together” , Trump nel suo discorso dopo la vittoria ha affermato che sarà il presidente di tutti (scelta astuta, ma la gente non ha memoria breve soprattutto per le offese) e ha aperto alla collaborazione internazionale con qualunque nazione.
Il mio auspicio, perché sono una instancabile speranzosa, è che creerà un governo misto, improbabile visto il personaggio che è il suo Vice (uno che vuole curare gli omosessuali con l’elettroshock, insomma torniamo all’USA degli anni 50/60) ma ci spererò fino al 20 gennaio.
Speriamo anche che la profezia dei Simpsons non si avveri (http://video.repubblica.it/dossier/elezioni-usa-2016/elezioni-usa-quando-i-simpson-predissero-nel-2000-l-elezione-di-trump/258567/258860 )

Da tutta questa storia ho riflettuto anche sulla nostra situazione nazionale, e mi sono quasi rinfrancata della presenza di Matteo Renzi in Italia.
Il mio auspicio è di non fare errori simili il 4 dicembre perché la differenza fra leader che parlano alla “pancia del popolo” è veramente labile e le conseguenze sono disastrose.
Accettiamo l’andamento della storia e guardiamo avanti. Oggi siamo tutti uniti da un unico sentimento di timore per il futuro ma la bellissima caratteristica dell’umanità è la capacità di rialzarsi dai momenti bui e porre un rimedio agli errori.

Con l’auspicio di non essere sembrata saccente.

Buona giornata a tutti.

Arianna De Arcangelis