Si va verso le elezioni presidenziali USA: ecco le modalità, i candidati e le previsioni

Le 59esime elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America si terranno il 3 novembre 2020.
Ma quali saranno le modalità? Chi sono i candidati? E quali sono gli sviluppi recenti?

Come voteranno gli americani: la legge elettorale

Si tratta di elezioni “indirette”.
Significa che il 3 novembre i cittadini voteranno quelli che sono definiti “grandi elettori”, i quali formeranno poi il Collegio Elettorale.
Ogni Stato votando, con la sua legge elettorale e in base alla sua grandezza, contribuirà alla formazione del Collegio Elettorale: 538 membri in tutto.
Sarà poi il Collegio ad eleggere presidente e vice presidente, il 14 dicembre 2020.

Ogni membro del Collegio Elettorale è legato alla lista di un candidato presidente, quindi è molto improbabile che dopo voti per un diverso candidato presidente.

I protagonisti

Donald Trump, attuale e 45esimo presidente USA

Trump ha iniziato la sua campagna elettorale meno di un mese dopo l’assunzione della carica, cioè già nel 2017.
Tuttavia nell’ultimo periodo le controversie sono aumentate.
Il presidente ha infatti alle spalle il processo di impeachment, di cui è stata presentata una richiesta formale il 12 luglio 2017.
Diventa così il terzo presidente ad essere messo sotto accusa, dopo Johnson e Clinton.
L’accusa riguardava il tentativo di Trump di ostacolare le indagini per il caso Russiagate (interferenza russa nelle elezioni del 2016).

In questi ultimi giorni invece c’è un’aria fortemente critica nei confronti del presidente: il modo in cui ha gestito l’emergenza Coronavirus e le proteste dei movimenti Black Lives Matter hanno fatto discutere parecchio.

Anche gli stessi esponenti dell’ala repubblicana sembrano incerti.
Recentemente Colin Powell (ex segretario di Stato di George W. Bush, quindi repubblicano) ha dichiarato: “Non ho votato per lui allora” e “non posso certamente sostenerlo quest’anno”.

Chiaramente, queste controversie non sono da considerarsi come l’unica prospettiva, che lo da per spacciato.
C’è ancora molto tempo perchè Trump ribalti la situazione in suo favore, organizzando un’efficace strategia comunicativa, come spesso in passato ha dimostrato di saper fare.

Così potrebbe essere interpretato il suo recente Tweet a proposito dei lavori di costruzione del muro lungo il confine con il Messico.

 

Joe Biden, il candidato per i Democratici

Ex vicepresidente di Barack Obama (dal 2009 al 2017), è stato soprannominato da Trump “Sleepy Joe”.
È un democratico moderato ed ha un programma progressista. Di seguito, sinteticamente, i punti principali:

  • Sanità: ripartire dall’Obamacare, riforma sanitaria attuata da Obama e da sempre contrastata da Trump. Questa prevede l’aumento del numero di persone tutelate dal sistema sanitario che secondo l’attuale presidente, invece, costerebbero troppi agli americani.
  • Economia: investimenti in infrastrutture per far crescere il numero di posti di lavoro per la classe media.
  • Armi: ha intenzione di attuare provvedimenti per adottare misure stringenti sull’uso di armi da fuoco.
  • Immigrazione: Biden ritiene l’immigrazione una risorsa per il paese. Vuole cancellare il Travel Ban (legge che vieta l’ingresso in USA ai cittadini provenienti da Paesi a maggioranza musulmana).

La dichiarazione del rapper Kanye West

Recentemente il rapper Kanye West ha dichiarato, in un tweet, di volersi candidare per le elezioni 2020.
Tuttavia il suo staff non ha ancora ufficializzato l’annuncio.

In ogni caso, tale dichiarazione ha suscitato diverse perplessità.
Il rapper era sempre stato un forte sostenitore di Trump, quindi non è ancora chiaro il motivo della sua mossa.

Angela Cucinotta

Uccisione Soleimani: l’Iran emette un mandato d’arresto per Trump e alcuni americani

È stato annunciato ieri, dal procuratore capo di Teheran, il mandato d’arresto internazionale per “omicidio e terrorismo” nei confronti del presidente americano Trump e di un’altra trentina di persone, tra militari e civili.
La motivazione è l’uccisione dell’influente generale iraniano Qassem Soleimani, lo scorso gennaio.

Il generale era una figura di spicco, capo infatti delle milizie al-Quds dei Guardiani della Rivoluzione, la forza d’élite dell’esercito della Repubblica islamica.

Ma cosa è accaduto lo scorso gennaio?

Il 3 gennaio 2020 un attacco drone statunitense ha ucciso il generale sull’aeroporto internazionale di Baghdad, in Iraq.
Tuttavia, per comprendere questa azione è necessario che si ricordi anche il contesto precedente.

In Iraq, tempo prima, era stato ucciso un contractor americano (che è un soldato professionista con contratto per svolgere attività militari) a causa del lancio di alcuni razzi.

Il presidente Trump, in risposta, aveva richiesto quindi un raid contro la milizia irachena coinvolta nell’attacco, e fortemente legata all’Iran.

Al raid americano gli iracheni, probabilmente spinti dall’Iran, reagiscono assaltando l’ambasciata USA a Baghdad creando diverse proteste violente. È il 31 dicembre 2019.

Assalto ambasciata USA a Baghdad, ilsussidiario.net

La risposta americana alle immagini delle violenze dei manifestanti alle strutture dell’ambasciata è repentina: il 3 gennaio 2020, Trump ordina l’attacco aereo che ucciderà il generale Soleimani.

L’Iran aveva promesso di vendicarsi e adesso è stato emesso il mandato d’arresto.
Teheran, la capitale dell’Iran, ha chiesto l’emissione di una “red notice” all’Interpol.
Questo sistema prevede che venga inviata una richiesta alle forze di polizia mondiali di localizzare e mettere in fermo una persona.
Tuttavia, già ieri, è stato dichiarata la volontà di non prendere in considerazione una richiesta del genere.
L’organizzazione infatti non può compiere atti di natura politica, o che influenzino le relazioni politiche tra le nazioni.

Anche se ufficialmente il mandato d’arresto non verrà formalizzato, l’Iran ha voluto compiere un’azione di grande impatto che risuona in tutti i media internazionali.

Un’altra vendetta l’Iran l’aveva compiuta all’inizio di questo giugno.
Il 9 giugno infatti è stata dichiarata la condanna a morte di Mahmoud Mousavi Majd. L’uomo, un cittadino iraniano, è stato dichiarato colpevole di spionaggio.
L’accusa è quella di aver lavorato per conto della Cia e del Mossad, agenzie di intelligence rispettivamente americana e israeliana.
Tra le informazioni fornite ci sarebbe anche la localizzazione del generale Soleimani. Il portavoce della magistratura iraniana, Gholamhossein Esmaili, ne aveva annunciato l’imminente impiccagione.

Sul mandato d’arresto gli esperti suggeriscono si tratti di una mossa propagandistica, tipica della narrazione iraniana sulla volontà di non voler essere da meno nelle dimostrazioni di forza con gli Stati Uniti.

Anche per questo motivo i media statunitensi e il presidente Trump al momento non stanno riservando particolari attenzioni all’emissione di questo mandato d’arresto.
Tuttavia non sono esclusi nuovi sviluppi, perchè il confornto Iran-USA di certo non finisce qui.

Angela Cucinotta

Usa, ultime stime Coronavirus: probabili 23 milioni di contagiati

Gli Stati Uniti affermano di star riaprendo in sicurezza e in maniera responsabile, nonostante un’impennata dei casi in alcune aree del sud del Paese.

Lo ha detto il vicepresidente americano Mike Pence, quasi un messaggio inviato a Bruxelles e all’Europa nelle ore in cui la commissione UE sta decidendo se riaprire i propri confini ai turisti americani.

Per Pence l’aumento dei casi è proporzionale al numero elevato di test condotti, tesi condivisa da Donald Trump, smentita solo in parte dagli esperti, perché le stime allarmanti di queste ore dove sarebbero in realtà 10 volte maggiori i contagi negli Usa si basano sui campioni di sangue raccolti su scala nazionale, provette che rivelano la presenza di anticorpi, come spiegato dal Cdc.

Anthony Fauci, il virologo a capo della task force organizzata della Casa Bianca, ha espresso grande preoccupazione per quello che è diventato “un grave problema”, così ha definito il boom di contagi in alcuni Stati.

Le parole arrivano, stridenti, subito dopo la tentata rassicurazione sulla situazione.

“Indossate la mascherina per non diffondere il virus”, ha ribadito con vigore l’epidemiologo Fauci, affinchè venga contrastata la diffusione del Covid.

Tutte alte sfere della Casa Bianca hanno espresso la ferma volontà che il Paese riapra e che l’economia riparta, ma tutto ruota attorno alla grave e destabilizzante possibilità che si possa propagare il virus in modo inconsapevole.

In un suo tweet Donald Trump ha fatto riferimento al tasso di mortalità come “uno dei più bassi del mondo”, richiamando il dato dei decessi da Covid in netto calo.
Il cinguettio è stato poi concluso col solito spirito provocatorio:

 La nostra economia sta ripartendo e non sarà chiusa di nuovo.

Il comunicato social di Donald Trump suona come un monito a quegli stati Usa che, travolti da un’ondata di contagi stanno cominciando a frenare sul ritorno alla normalità.

Le parole del capo della White House sono apparse subito in contrasto con le stime promulgate dal direttore del Centers for Disease Control and Prevention: per ogni caso di Coronavirus accertato ci sarebbero almeno altre dieci persone infette, questo l’allarme lanciato da Robert Redfiled, massima autorità federale in materia di salute pubblica.

Anthony Fauci, il massimo esperto ingaggiato come consulente medico gestionale dal governo americano, ha ammesso che dal punto di vista strategico qualcosa non sta funzionando.

Timore confermato del resto dai numeri usciti questo week-end che ha fatto registrare 400 mila nuovi casi e 2.500 vittime.

Le autorità sanitarie stanno dunque vagliando un nuovo approccio, quello dei “pooltesting”: fare i test su più persone contemporaneamente per individuare più rapidamente i casi di contagio e procedere con il conseguente ed immediato isolamento.

La task force guidata dal VP Mike Pence starebbe lavorando all’abolizione dell’ObamaCare, la riforma sanitaria di Barack Obama ritenuta incostituzionale, con l’amministrazione Trump che ha chiesto alla Corte Suprema americana di cancellarla. Un colpo basso con finalità elettorale, che significherebbe privare dell’assicurazione sanitaria milioni di americani in piena pandemia, quello che è stato definito come un vero e proprio “atto di incomprensibile crudeltà”.

La situazione si fa sempre più drammatica in Florida e Texas, dove sono scoppiati un boom di 9000 nuovi contagi ed oltre 16 mila casi in tre giorni nella zona texana; rimane invece critico il contesto newyorkese, con la metropoli letteralmente in ginocchio.

L’America, apparentemente grande e invincibile, soffre e combatte un nemico invisibile ed un Presidente che pare essere più interessato alle elezioni che alla salute del suo paese.

Antonio Mulone

Il comizio di Trump è flop. Sospetto sistema di boicottaggio partito da TikTok

A Tulsa, in Oklahoma, doveva andare in scena il ritorno in pompa-magna del Presidente Trump ai comizi, con 1 milione di persone registrate (secondo il suo staff). Ma se ne sono presentate molto meno, anche per l’ingegnosa trovata di alcuni utenti di TikTok

Tenendo fede al suo stile, il Presidente degli Stati Uniti ce l’aveva messa tutta per fare del suo ritorno in campo un momento di tensione: oltre alle parole incendiarie e provocatorie delle scorse settimane sulle manifestazioni contro il razzismo, c’era stata la scelta della data per il primo comizio dall’inizio della crisi coronavirus, e cioè il 19 giugno, che era parso uno sfregio al movimento Black Lives Matter e agli afroamericani, poichè proprio il “Juneteenth” – ovvero il giorno che commemora la liberazione degli schiavi dopo la Guerra civile – e proprio a Tulsa, nel 1921 una folla di suprematisti bianchi avevano massacrato dozzine di neri nel quartiere di Greenwood.

Troppe le polemiche, alle quali il presidente col ciuffo bizzarro c’ha da sempre abituato, che hanno fatto sì che l’evento venisse spostato al 20, il giorno seguente.

Brad Parscale, il manager della campagna di Donald Trump, aveva annunciato raggiante che per la convention di Tulsa erano arrivate un milione di prenotazioni virtuali, sebbene i contagi fossero in aumento sensibile in tutto lo stato ed ai partecipanti non fosse richiesto né il distanziamento fisico né le mascherine.

Sembrava la serata perfetta per l’inizio della riscossa trumpiana dopo mesi durissimi. E invece Trump non è neanche riuscito a riempire l’arena indoor da 19mila posti: la parte superiore delle tribune era completamente vuota. Un flop, ammesso anche dai repubblicani, che l’ha costretto ad annullare il discorso programmato su un grande palco allestito all’esterno, predisposto per i 40 mila partecipanti che non ce l’avrebbero dovuta fare a entrare.

L’episodio ha del sorprendente se lo si considera alla luce del fatto che l’Oklahoma è uno degli stati americani più conservatori e, dunque, un territorio chiave in vista delle elezioni di novembre.

Fattore scatenante dell’accaduto sarebbero giovanissimi utenti di TikTok –la piattaforma social più in voga al momento tra la generazione 2.0- che avrebbero fatto incetta di prenotazioni gratuite per l’evento, scegliendo poi di non presentarsi sabotando l’attesissimo comizio.

Un’azione boicottatrice, nei confronti di colui che viene appellato proprio sulle piattaforme social come “incitatore all’odio”, coordinata da adolescenti che a colpi di like avrebbe ridotto i 100mila partecipanti attesi al Bank of Oklahoma Center a poco di meno di un quinto, per la gioia dei giornali anti-Trump entusiasti per questo scacco matto al re.

L’unica cosa certa è che molti utenti di TikTok, nei giorni antecedenti al comizio di Tulsa, hanno iniziato a pubblicare video in cui confessavano con toni beffardi di essersi iscritti all’evento, invitando altri follower a fare altrettanto. Post simili su Instagram e Twitter hanno registrato migliaia di like e di condivisioni. All’indomani dello scherzo, mentre questi messaggi sobillatori sono spariti per non lasciare traccia, diverse testate hanno riferito di adolescenti che si sarebbero uniti a quest’azione di trolling.

C’è però un fatto da precisare su quanto successo a Tulsa: i biglietti prenotati dagli utenti, essendo gratuiti e illimitati, non hanno di fatto impedito a nessuno di entrare fisicamente nell’arena, in quanto rappresentano soltanto un sistema di monitoraggio che le campagne usano per tastare i flussi delle folle che potrebbero partecipare all’evento.

Dallo staff di Trump hanno fatto sapere di aver già scremato le prenotazioni da quelle giudicate false, eppure qualcosa è andato storto.

Un presunto ruolo decisivo nella campagna di disturbo l’avrebbero giocato anche gli ascoltatori del pop sudcoreano: una vera forza sui social network coinvolta anch’essa nel blitz virtuale a favore della giustizia sociale contro Trump.

All’inizio del mese, ad esempio, i fan del K-pop avevano fatto proprie le battaglie antirazziste, attraverso meme e slogan.
È vero anche che per ora i dati certi sull’efficacia di questa azione collettiva non esistono, ma di certo un qualche impatto c’è stato.

Uno dei primi video di TikTok che invitava a prenotare i biglietti per il comizio e lasciare Trump “in piedi da solo sul palco” è stato realizzato dalla Alexandria Ocasio-Cortez, deputata dei Democratici:

“Ti sei appena beccato una sberla dagli adolescenti su TikTok”, ha twittato al presidente..

Lo staff del presidente ha scaricato la colpa sui media, rei di aver spaventato i suoi supporter con i rischi di contagio, che peraltro erano reali, ed inoltre sui dimostranti accusati infondatamente di aver impedito l’accesso ai sostenitori politici.

I repubblicani trumpiani comunque respingono categoricamente l’ipotesi di una rivolta a colpi di Tik Tok. Parscale, ha evidenziato che i troll di sinistra “non sanno di cosa stanno parlando o come funzionano i nostri comizi”, perché in realtà ogni partecipante sarebbe stato contattato sul suo numero di cellulare dopo un’accurata cernita di iscrizioni e che il vero deterrente che avrebbe causato la mancata partecipazione di massa, come ha sostenuto Tim Murtaugh – il portavoce della campagna di Trump – sarebbe stato il timore di proteste violente.

La dinamica della vicenda dunque non è ancora chiara, ma l’unico dato certo è che: TikTok 1 – Donald Trump 0.

Antonio Mulone

Non solo il caso Floyd. La police brutality e il sistema che protegge gli omicidi razziali in USA

In America la polizia usa metodi brutali: il caso di George Floyd soffocato con un ginocchio sul collo

L’America è il paese con il più alto tasso di carcerazioni al mondo, è anche possibile riscontrare tendenze estremamente repressive da parte delle forze dell’ordine statunitense, che vengono chiamate police brutality. La State Police[1] si è macchiata di innumerevoli casi di violenza, sia fisica che psicologica. La maggior parte della violenza è riservata alle comunità afroamericane e ispaniche della nazione. Una società ancora profondamente divisa a causa della discriminazione razziale e a pagarne le conseguenze sono le minoranze etniche. Negli USA le discriminazioni tra “neri” e “bianchi” è accentuata proprio dai comportamenti repressivi tenuti dalle forze dell’ordine. Sfruttano la loro posizione di potere – supportati dalla Constitution of the United States[2] che progressivamente rilascia sempre più libertà di agire alla Polizia – ha fatto insorgere dei veri e propri casi mediatici. Il governo Americano ha sempre portato avanti la scelta politica bipartisan[3] contro la repressione della criminalità. Il fenomeno è, oramai da anni, diventato un problema sociale. Il corporatismo e la mancanza di accountability [4] per gli agenti che commettono illegalità ha permesso il dilagarsi delle pratiche di violenza. La dimensione del fenomeno è preoccupante, secondo Fatal Encounters, nel 2018 la polizia statunitense ha ucciso 1810 persone. Ma la cosa che lascia più sconcerto è che nella maggior parte dei casi non vengono fatte delle indagini, ma si traducono in brevi sospensioni o in condanne per i poliziotti. Il rapporto annuale, intitolato “Crime in the United States”, presenta la voce “justifiable homicides[5] che indica tutti gli omicidi commessi dagli agenti per “legittima difesa”. In contrapposizione a questa politica omertosa sono nati i siti come FE, che svolgono un’analisi accurata delle vittime per mano della polizia di stato, dove i casi vengono suddivisi per razza (distinzione che non viene svolta nei rapporti ufficiali) e i dati sono: 649 bianchi e 1.040 fanno parte delle minoranze etniche e 630 di origini ignote. Da quanto appena letto, si può evincere che il sistema protegge queste tendenze omicide.

Il caso della polizia di Minneapolis

 Per quel che riguarda caso Floyd, secondo la ricostruzione svolta dai testimoni, gli agenti sono arrivati sul posto dopo essere stati avvisati della presenza di un uomo che sembrava sotto effetti di stupefacenti. L’uomo ha opposto resistenza e i poliziotti, cercando di ammanettarlo, lo hanno bloccato premendo sul collo con il ginocchio. Nel video fatto dai passanti, si sente l’uomo per terra dire Per favore, non riesco a respirare. Quando arriva l’ambulanza è troppo tardi, Floyd George muore poche ore dopo in ospedale. Medaria Arradondo, il capo della polizia di Minneapolis ha affermato: «Abbiamo chiaramente messo in atto pratiche che servono a mettere in custodia una persona.» aggiungendo che chiarire cos’è successo e come sono state applicate le pratiche «è parte dell’indagine completa che faremo». Lo stesso Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha commentato la vicenda dicendo «sarà fatta giustizia!» e chiedendo al Dipartimento di Giustizia e all’FBI di venire a capo dell’indagine il prima possibile.

Manifestazioni e scontri dopo la morte di Floyd

Alla notizia della morte dell’uomo, migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere giustizia. Oramai da due giorni continuano le proteste, la maggior parte dei manifestanti si ritrova davanti al commissariato di polizia dove lavoravano i 4 agenti licenziati e indagati per la morte di Floyd George. La manifestazione però fin da subito è diventata violenta, con lanci di oggetti, saccheggi e roghi. La polizia ha riposto con l’uso dei lacrimogeni autorizzati dal capo della polizia. Il governatore Tim Walz su twitter ha commentato dicendo «La situazione è estremamente pericolosa, per tutti i residenti è consigliabile lasciare la zona».Le proteste sono state svolte anche a Los Angeles dal movimento Black Lives Mattermovimento attivista internazionale, originato all’interno della comunità afroamericana, impegnato nella lotta contro il razzismo – che ha bloccato il traffico sull’autostrada 101. Quando una pattuglia di polizia è arrivata sul posto è stata circondata ed è stato frantumato un vetro della vettura. La stessa cosa è avvenuta con un’altra volante, dove però un uomo è rimasto ferito nello scontro ed è stato portato via in barella.

Non è un caso isolato

Il caso dell’uomo afroamericano si aggiunge ad una lunga lista di violenze praticate dagli agenti.  Il primo caso mediatico è stato quello di Micheal Brown, un ragazzo di colore ucciso a colpi di pistola, anche se disarmato. Un’altra vittima è Eric Garner, morto in circostante molte simili a Floyd, appunto per soffocamento nel 2014, per un presunto contrabbando di sigarette.

Paola Caravelli

https://www.repubblica.it/esteri/2020/05/28/news/afroamericano_ucciso_secondo_giorno_di_proteste_a_minneapolis_trump_faremo_giustizia_-257798271/ (28/05/2020)

https://www.nessunotocchicaino.it/notizia/usa-nel-2018-la-polizia-ha-ucciso-1810-persone-40300138 (28/05/2020)

https://lospiegone.com/2019/12/13/la-police-brutality-negli-stati-uniti/ (28/05/2020)

https://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/video-shock-dagli-usa-fermato-da-agenti-muore-soffocato_18752415-202002a.shtml (28/05/2020)

 

[1]  Corpi di polizia nei vari stati federali degli Stati Uniti d’America.

[2] Costituzione degli Stati Uniti d’America.

[3]  Linguaggio della politica per indicare una scelta, una posizione o un’opinione che accomuna due schieramenti contrapposti.

[4] La responsabilità, da parte degli amministratori che impiegano risorse finanziarie pubbliche, di rendicontarne l’uso sia sul piano della regolarità dei conti sia su quello dell’efficacia della gestione.

[5] Omicidi giustificati.

Il Coronavirus blocca Hollywood: tante le uscite in sala rinviate

Quelli che stiamo vivendo sono giorni surreali, infiniti, sospesi nel vuoto.

L’emergenza pandemica che investito l’intero globo ha prodotto delle conseguenze concrete anche sul mondo della settima arte e delle dimensioni professionali che vi ruotano attorno.

Produzioni in stand-by, riprese interrotte, set “smontati”, serie tv sospese, uscite nelle sale rinviate e non solo.

Qui vi proponiamo una rapida – ma intensa  – carrellata di ciò che ci aspetta una volta rientrata l’emergenza sanitaria!

NO TIME TO DIE

Fonte: ItaliaSera

Il titolo del venticinquesimo lungometraggio dedicato alle gesta di James Bond, beffardo ed attuale quanto mai, era indubbiamente tra le pellicole più attese.
Il film diretto da Cary Fukunaga, inizialmente previsto per aprile, è stato posticipato al 12 novembre 2020. Considerando l’imminenza del suo arrivo in sala, con Daniel Craig & Co. in rampa di lancio, lo spostamento degli eventi marketing e della campagna pubblicitaria creata attorno all’ultimo capitolo di 007 non sarà affatto indolore per le casse della Universal.
Questo slittamento potrebbe costare tra i 30 e i 50 milioni, basti pensare ai 5 milioni di dollari investiti nel Super Bowl di febbraio.

FAST & FURIOUS 9

Fonte: Comicus

Come insegna il buon vecchio Dominic Toretto: la famiglia prima di tutto. Del resto si sa: la famiglia va protetta, a qualsiasi costo.
Questa volta, però, Vin Diesel ha dovuto inserire la retromarcia.
La star americana, inizialmente, aveva rassicurato i fan della fortunata saga Fast & Furious, garantendo loro l’uscita regolare del nono attesissimo capitolo.
L’attore aveva anche rimarcato l’importanza del cinema come fonte di svago e di leggerezza in un momento delicato ed incerto come questo.
Purtroppo per i fan del cinema rombo e motori così non è stato, anche l’uscita di Fast & Furious è stato rimandato al 2 aprile 2021.

A QUIET PLACE 2

Fonte: Ansa

La prima pellicola è stata una delle sorprese del 2018.
Un dramma familiare che rende la narrazione tesa ed estremamente coinvolgente, ambientato in uno scenario post-apocalittico ispirato, visivamente potente e soprattutto credibile.
Il sequel, che era previsto per Aprile 2020, è la naturale conseguenza di un successo acclamato.
A Quiet Place 2 slitta a data da destinarsi, ad annunciarlo è stato Krasinski regista-attore-sceneggiatore con attraverso il suo account Instagram: “Le persone sostengono che il nostro film vada visto tutti insieme in sala. Ebbene, a causa delle mutevoli circostanze di ciò che sta succedendo in questo momento intorno a noi, questo non è chiaramente il momento giusto per una cosa del genere. Anche se eravamo estremamente entusiasti di farvi vedere il film al più presto, aspetteremo a distribuirlo, in modo che tutti possiamo vederlo insieme”.

BLACK WIDOW

Fonte: SkyNews

Anche un colosso come la Disney ha dovuto deporre le armi davanti al nemico invisibile coronavirus.
Dopo aver resistito sino all’ultimo, anche Black Widow viene travolto da questo ineluttabile effetto domino.
Il cinecomic dedicato ad esplorare le “ombre” affascinanti di Vedova Nera, interpretata dalla magnifica Scarlett Johannson quest’anno candidata a due premi Oscar, era previsto nelle sale italiane per il 30 aprile, ma è stato spostato a data da destinarsi.
Dunque anche i fan dei fumetti Marvel dovranno arrendersi all’idea di pazientare per vedere in sala il primo adattamento cinematografico sulla Vedova Nera.

AVATAR

Fonte: TgCom24

La produzione dei tre attesissimi sequel di Avatar, le cui riprese erano in corso in Nuova Zelanda, è stata “rinviata fino a nuovo avviso”.
Il cast e la troupe della saga creata e diretta da James Cameron sono tornati a Los Angeles.
La previsione, sebbene molto ottimistica, è quella di tornare negli studi di Wellington entro la fine dell’anno.
Pare quindi che il coronavirus abbia messo in ginocchio anche i “giganti blu” di Pandora, chissà ancora per quanto tempo.

MATRIX 4

Fonte: Ciak!

Anche la quarta pellicola dell’ormai storico “The Matrix” ha dovuto chiudere i battenti della produzione.
Conclusesi le riprese in quel di San Francisco, il progetto si è letteralmente arenato a Berlino, dove l’intera troupe si trova bloccata.
Non è ancora stata comunicata una data di uscita nelle sale dell’ultimo entusiasmante atto che vede di nuovo insieme Keanu Reeves e Carrie-Anne Smith.
Un po’ di pazienza, Neo sta per tornare nel cyber-spazio.

THE BATMAN

Fonte: Movieplayer

Le riprese del nuovo lungometraggio sull’ultimissima versione del celebre uomo-pipistrello della DC, già fermatesi per due settimane, sono state ulteriormente arrestate per ovvi motivi di sicurezza.
Il regista Matt Reeves ha confermato sul suo profilo Twitter la proroga dello stop: “Ci siamo fermati finché non sarà sicuro per tutti noi riprendere le riprese. Tutti sono al sicuro per il momento, grazie per averlo chiesto, e state al sicuro anche voi”.
The Batman aveva attirato i riflettori di Hollywood su di sè, soprattutto per la presenza di Robert Pattinson, ritenuto perfetto persino dall’ex Batman Ben Affleck.

Ai cinefili è chiesta in questo momento un po’ di pazienza.

Tutto è stato sospeso, nulla cancellato Il prossimi mesi saranno pregni di buon cinema, abbiate fiducia.

Antonio Mulone

Allo SCIPOG seminario su “Globalizzazione, pluralismo culturale, post-democrazia”

Lunedì 29 Aprile 2019. Ore 9.00. Messina. Aula Buccisano – via Malpighi, 3. Il Dipartimento di Scienze politiche e giuridiche dell’Università di Messina, in collaborazione con l’Associazione italiana di Sociologia e l’associazione Alumnime ha organizzato un seminario di studi sul tema “Globalizzazione, pluralismo culturale, post-democrazia”.

Dopo i saluti istituzionali del professor Giovanni Moschella, pro-rettore vicario, e del professor Mario Calogero, direttore del Dipartimento promotore, si sono alternati gli interventi dei seguenti relatori: professoressa Lidia Lo Schiavo, Università degli studi di Messina; professor Roberto Serpieri, Università Federico II – Napoli; professoressa Vittoria Calabrò, Università degli studi di Messina; professor Daniele Fazio, Università di Messina e di Alleanza Cattolica; professor Dario Caroniti, Università degli studi di Messina; professor Salvo Torre, Università degli studi di Catania;

I temi principalmente trattati e sviluppati sono stati: la Globalizzazione, la società, le culture – come indicato dal titolo – e particolare enfasi è stata posta sull’analisi della post-democrazia. Con questo termine polemico si intende un’evoluzione in atto nel corso del XXI secolo che sta avvenendo in molte democrazie, dove vige un sistema politico che pur essendo regolato da istituzioni e dalle norme democratiche, viene di fatto governato e pilotato da grandi lobby, come ad esempio le multinazionali e i mass media. Secondo questa teoria politica, le democrazie tradizionali rischierebbero di perdere parte dei loro caratteri costituenti a favore di nuove forme di esercizio del potere, prevalentemente oligarchiche.

Si son toccate pure le corde dell’inclusione e dell’esclusione sociale e della globalizzazione culturale, vale a dire la diffusione mondiale di un certo tipo di cultura, prevalentemente quella degli U.S.A., e della conseguente “colonizzazione” a dispetto di quella dei paesi più poveri che non riescono ad imporsi. I colossi dell’economia mondiale, cioè i paesi più ricchi e sviluppati come Europa, U.S.A. e Giappone, acquistando quasi tutto il controllo delle telecomunicazioni, hanno privatizzato anche quelle statali. Questo processo permette loro di rafforzarsi e di inglobare nella propria struttura le reti di telecomunicazione di interi paesi. Si sta quindi formando un oligopolio a livello mondiale in cui le maggiori società competono nell’offrire servizi avanzati a una clientela qualificata. Lo scopo di queste società non è, però, quello di collegare ogni villaggio dell’Asia, Africa o America Latina, ma quello di trarre del profitto: quindi si rivolgono solo a quella minoranza di popolazione in grado di pagare i loro servizi. Infine, è stata sollevala la questione della globalizzazione nel magistero sociale della Chiesa Cattolica e delle forme di oppressione delle minoranze religiose.

I lavori dell’intero seminario sono stati moderati dal professor Giuseppe Bottaro dell’Università degli studi di Messina.

Gabriella Parasiliti Collazzo

Racconti e Poesie dal Midwest USA – KENT HARUF

Giovedì 11 aprile 2019. Messina. Via Giuseppe Garibaldi, 56. Libreria La Gilda dei Narratori. Un’immersione nelle atmosfere del Midwest statunitense. Partendo dai romanzi senza tempo di Kent Haruf, uno dei più grandi scrittori americani degli ultimi quarant’anni, ci si è immersi in questo affascinante mondo letterario grazie agli interventi di Roberta D’Amico ed Ignazio Lax, che hanno raccontato le storie e le gesta degli uomini e dei libri di questa Letteratura.

L’evento è stato reso ancora più suggestivo dal tappeto musicale e dalle letture poetiche a cura del collettivo “Altera“: Antonio Fede, Massimiliano Fede, Mariaconcetta Bombaci.

Pubblico attento per la narrazione di Vincoli. Una storia semplice ma intensa, come in tutti i romanzi di Haruf, che attraversa quasi un secolo di vita e traccia anche un bel quadro della conquista americana dell’ovest. A differenza degli altri romanzi, in questo c’è anche un piacevole risvolto noir che tiene incollati fino alla fine. Un viaggio nella storia di una famiglia delle pianure americane, narrata dalla voce della loro vicina, Sanders Roscoe. Un romanzo corale e travolgente, intenso e poetico, con cui Haruf inizia il suo viaggio nell’America rurale, teatro delle sofferenze e metafora della tenacia dello spirito umano, anticipando tutti gli elementi che rendono unica la sua poetica. Uno stile descrittivo e sublime caratterizza i personaggi. Si è in grado si percepire su di sé l’odore dei campi e di sudore dei protagonisti. Un romanzo duro ed estremamente vero, dà una perfetta idea della mentalità del luogo all’inizio del ‘900.

Non Resta che leggerlo.

Gabriella Parasiliti Collazzo

The propaganda game: chi sono le vittime del gioco?

The propaganda game è un documentario del 2015 prodotto da Álvaro Longoria. Il tema, abbastanza scottante, è lo svolgimento della vita nella società nordocoreana; la sua economia, la sua gente e le sue istituzioni. Per comprendere però appieno il senso di questo approfondimento è necessario contestualizzare la nazione in questione: attualmente si tratta di uno stato totalitario socialista guidato dal leader Kim Jong-Un. Il paese si trova in continua tensione con l’occidente e in particolar modo con gli Stati Uniti e il motivo di questo difficile rapporto è dovuto al conflitto verificatosi tra il 1950 e il 1953, in piena Guerra fredda.

La Corea del Nord, comunista, aveva infatti provato ad invadere quella del Sud, alleato degli Stati Uniti. Questo giugno è però stato compiuto un grande passo in termini di relazioni internazionali. A dimostrarlo è infatti il summit, seguito da accordo, dei leader di entrambe le nazioni. Se confrontata con la realtà descritta nel documentario questa è un’importante svolta storica.

Nella pellicola viene dimostrato come la società nordcoreana costruisca se stessa in antitesi con quella americana-occidentale. Ma non si tratta solo di questo. Entrambi i “blocchi” giocano una strategica partita in cui la pedina migliore è costituita dall’immagine mediatica. Ed è nell’uso di questa che si scende in un altrettanto gioco d’astuzia e retorica.

Come viene delineato nel lavoro di Longoria, la Corea del Nord si presenta agli occhi del documentarista (e dell’occidente di conseguenza) in un determinato modo, con testimonianze e discorsi mirati ad affondare la strategia dell’altro. Dall’altro lato l’occidente e i suoi messaggi mediatici tendono a dipingere una società che conoscono poco (perchè chiusa ai rapporti con l’estero) secondo l’interpretazione che i “buoni” della storia si trovino da questa parte. Entrambe le fazioni si attaccano a vicenda su aspetti che potrebbero essere davvero negativi o sbagliati, ma senza aver verificato che le cose stiano realmente così. È evidente quindi che le fila di questa battaglia siano tirate da prospettive etnocentriste e nazionaliste. A guidarci nella scoperta di questa nazione sconosciuta troviamo l’unico straniero presente sul luogo: Alejandro Cao de Benós, spagnolo naturalizzato nordcoreano. Questi, insieme alle più disparate figure e personalità, risponderà a tutti i quesiti posti da Longoria argomentando e motivando ogni risposta al fine di proporre un’immagine diversa da quella che ogni giorno i nostri media ci danno. Ogni aspetto preso in considerazione è infatti analizzato fin nei minimi dettagli, seppur in ordine non lineare nel montaggio delle scene.

Il motivo per cui è facile considerare quest’opera come prondamente innovativa è per la sua totale imparzialità: la regia non esprime un’opinione personale e non suggerisce per chi dovremmo essere simpatizzanti, al contrario fa un’analisi oggettiva di tutti i meccanismi e gli interessi in gioco. Come prodotto mediatico fa proprio il contrario di ciò che normalmente i media fanno in situazioni del genere, anzi la sua natura denuncia implicitamente queste pratiche.

Il caso Corea del Nord-Usa è soltanto un esempio dell’ormai dilagante fenomeno della “post-verità”, atteggiamento in cui è considerata come parte più rilevante di una notizia quella che suscita emozioni, non i fatti oggettivi. Questo è solo un tassello della guerra postmoderna, caratterizzata da una frenetica caccia all’informazione e da attacchi mediatici; per quanto riguarda il caso qui analizzato potremmo dire che la guerra armata con gli Stati Uniti si è fermata al 38°parallelo della penisola coreana per continuare sulla via della nuova guerra mediatica.

Qual è dunque la soluzione per non diventare vittime di questo gioco?

Leggere la realtà con il coraggio di andare oltre le apparenze, anche se scomodo, è un buon inizio. Lo è anche informarsi consapevolmente, calandosi nei panni di entrambe le parti. Ma risolutiva è sicuramente la sempre attuale e mai banale massima socratica “conosci te stesso”, la quale ci insegna a prenderci cura di noi e a imparare “l’arte di non essere eccessivamente governati”.

                                                                                                                            Angela Cucinotta

Comincia il conflitto economico. La vendetta del made in USA e la Cina bullizzata

È guerra commerciale tra Cina e Usa. Un botta e risposta, attacco e contrattacco, iniziato proprio oggi, nelle prime ore del 6 luglio 2018. Una data che sembra solo l’inizio di un escalation al rialzo. Tra import ed export, i colossi industriali mondiali hanno alzato un muro di dazi ed il gioco delle parti avrebbe affidato a occidente la parte del cattivo, il “bullo”, e ad est la vittima bullizzata.

O meglio sarebbe stata la Cina stessa a volersi prendere questo ruolo, non scevra di colpe. In maniera del tutto insolita ma non priva di significato, Pechino ha infatti rinunciato a «sparare il primo colpo», non ha voluto far scattare i dazi alla sua mezzanotte, dove il fuso orario avrebbe dato alla Cina la possibilità di muoversi per prima; il governo ha ordinato di aspettare fino a mezzogiorno ora locale, la mezzanotte di Washington (le 6 del mattino in Europa). Una mossa che starebbe a dimostrare la riluttanza di Xi Jinping a impegnarsi in un conflitto commerciale.

Proprio al contrario di Donald Trump, che questa guerra sembra volerla con tutte le sue forze, convinto di poter piegare la Cina, senza però – siamo abituati ai paradossi del tycoon- compromettere «la grande relazione personale» che lega i due colossi dell’economia mondiale.

Washington, accusa la Cina di furto di know-how americano (ed europeo) in preparazione del suo piano Made in China 2025 per la supremazia tecnologica soprattutto per quanto riguarda l’hi-tech.

«La situazione dell’interscambio tra i nostri due Paesi non è più sostenibile. Gli Stati Uniti non possono più tollerare il furto di tecnologia e proprietà intellettuali da parte della Cina», ha detto Trump.

Dazi del 25% su 818 prodotti cinesi – meno dei 1300 annunciati – per un controvalore di 34 miliardi di dollari. Dai veicoli elettrici ai torni industriali impiegati dalle fabbriche negli Stati Uniti. Sono graziati gli smartphone, per non danneggiare la Apple, che conta sulle catene di montaggio cinesi per assemblare i suoi gadget.

Il contrattacco è arrivato, poi, dalla Cina che ha già preparato una lista di altri 700 prodotti per colpire proprio quella fetta di repubblicani che stanno con Donald: campo agricolo-alimentare, automobilistico e del petrolio grezzo,

Il presidente americano, non curante delle dichiarazioni della Repubblica Popolare, avverte che nel mirino ci sono già altri 300 miliardi di beni da colpire, l’intero export di beni e servizi da parte della Cina verso gli Stati Uniti.

Il Ministero del Commercio di Pechino ha definito l’atteggiamento americano un vero e proprio «Bullismo economico» che può mettere a rischio la catena industriale globalizzata e la ripresa mondiale.

Intanto, alla stampa cinese è stato ordinato di tenere bassi i toni: in una velina ministeriale si specifica che «Bisogna prepararsi a un conflitto prolungato»: non si dovranno rilanciare gli attacchi verbali di Trump, non far scadere il confronto nella volgarità su Twitter e bisognerà riprendere le dichiarazioni rassicuranti delle autorità di Pechino per sostenere la Borsa.

Un conflitto dell’interscambio che molti prospettano come lungo e “di trincea”. L’amministratore delegato della Dell, la nota multinazionale americana dei computer e sistemi informatici, ha già parlato di «MAD», Mutual assured destruction.

Sì, quella stessa distruzione assicurata di cui si parlava negli anni della Guerra Fredda.

Che a questo punto potremmo dire che non si sia mai conclusa.

Martina Galletta