Tragedia sul set di ‘’Rust’’: Alec Baldwin spara ed uccide una donna. Nuovi dettagli sull’incidente

Giovedì 21 ottobre, Santa Fe, New Mexico: si consuma la tragedia sul set del film western ‘’Rust’’ – nel bel mezzo di prove con una pistola scenica – che ha visto coinvolto l’attore americano Alec Baldwin in un incidente fatale, costato la vita alla direttrice della fotografia del film e alcune ferite al regista.

Fonte: Sky TG24

Sono già passati diversi giorni dal tragico evento, ma dopo una prima ricostruzione della polizia locale – che suggerisce l’ipotesi di un mero incidente – nelle ultime ore, sono giunte nuove informazioni, che potrebbero dare un risvolto all’inchiesta. Dietro la tragedia si nasconderebbe, infatti, una catena di errori e tensioni, oltre al passato controverso di un membro della troupe.

Sospese le riprese del film (che sarebbero dovute terminare a novembre) almeno fino alla fine delle indagini.

Una prima ricostruzione della tragedia

Secondo le prime ricostruzioni, l’incidente è avvenuto verso le due del pomeriggio al Bonanza Creek Ranch, durante le riprese di alcune scene del film western “Rust”, di cui Baldwin è protagonista e co-produttore, insieme al regista Joel Souza.

Baldwin si stava esercitando prima di un ciak ad estrarre un’arma dalla fondina, quando, inaspettatamente, parte il colpo di un vero proiettile, mentre la pistola veniva puntata sulla telecamera. Nelle immediate vicinanze si trovavano la direttrice della fotografia 42enne Halyna Hutchins e Joel Souza, appena dietro di lei.

La direttrice della fotografia Halyna Hutchins e Joel Souza. Fonte: Ck12 Giornale

Il regista, rimasto ferito alla spalla dal colpo di pistola, è stato portato in ospedale e dimesso quella sera stessa. Tuttavia, non c’è stato niente da fare per Halyna Hutchins, ferita gravemente al petto e morta poco dopo in ospedale.

Souza ha raccontato di aver sentito “come il rumore di una frusta” e quindi “un forte colpo”, secondo quanto riportato da Reuters. Continua poi dicendo di ricordare la Hutchins cominciare alamentarsi di un dolore al petto e allo stomaco, oltre a dire di non sentire più le sue gambe.

Baldwin rammaricato e le dinamiche del colpo d’arma

“È stato un incidente, è stato un incidente”, alcune immagini del quotidiano locale mostrano un Baldwin sotto shock e in lacrime sul ciglio della strada all’uscita dell’ufficio dello sceriffo, poco dopo l’accaduto.
L’attore 68enne si era recato spontaneamente dalla polizia per rispondere a domande e fornire chiarimenti:

“Il mio cuore è spezzato – scrive l’attore sui social – Non ho parole per esprimere il mio shock e la mia tristezza per il tragico incidente che ha tolto la vita a Halyna Hutchins, moglie, madre e nostra collega profondamente ammirata”.

Alec Baldwin interrogato dopo la tragedia. Fonte: Tag43

Baldwin non era a conoscenza del fatto di stare utilizzando un’arma caricata con proiettili veri, nessuno è stato infatti accusato o arrestato fino a questo momento, anche se la polizia ha ritenuto necessarie indagini più approfondite sui fatti.

Baldwin avrebbe utilizzato un’arma che gli era stata consegnata dall’assistente alla regia David Halls, il quale aveva urlato ‘’cold gun’’ (letteralmente ‘’pistola fredda’’, termine molto utilizzato nel gergo cinematografico) per segnalare che la pistola potesse essere maneggiata in modo sicuro essendo scarica. Ma poco dopo l’incidente avrebbe rivelato tutto il contrario.

Accuse di negligenza contro l’aiuto regista

La società di produzione non si capacita di come un’arma che doveva essere caricata a salve (le cartucce a salve contengono polvere da sparo che produce una fiammata ma il proiettile vero è sostituito da cera o ovatta) abbia potuto uccidere.

Ci sono ancora diversi elementi da chiarire sull’incidente, come il tipo di proiettile contenuto nella pistola, chi l’avesse caricata e chi avesse le responsabilità di verificarne le condizioni. L’indagine è dunque ora concentrata sui proiettili partititi e, soprattutto, su chi avesse maneggiato l’arma prima dello sparo. Si devono inoltre verificare le responsabilità di David Halls, specie dopo quanto emerso da alcune testimonianze raccolte nei giorni scorsi sul suo passato cinematografico.

L’assistente alla regia, che ha, per ultimo, maneggiato la pistola prima dello sparo per mano di Baldwin sarebbe già stato due volte oggetto di reclami in passato, per via di gravi negligenze nel rispetto dei protocolli di sicurezza sull’uso di armi ed esplosivi. Lo racconta a CNN una pirotecnica e addetta agli oggetti di scena che nel 2019 aveva lavorato con lui in una serie di film horror, Into the Dark.

Altre ipotesi di responsabilità 

La responsabile armi, Hannah Gutierrez-Reed. Fonte: Corriere

Per molti la responsabilità risale direttamente alla società di produzione, accusata di assumere «persone non pienamente qualificate per un lavoro complicato e pericoloso» come quello del capo armaiolo «in una produzione che deve contenere molte scene di combattimento con armi da fuoco», ha scritto con rabbia Serge Svetnoy, riferendosi alla presunta inesperienza di Hannah Gutierrez-Reed, un’armaiola cinematografica di soli 24 anni. Era lei ad aver preparato la rivoltella e ad averla messa su un carrello con altre due armi.

Secondo una fonte citata dal sito ‘’The Wrap’’, la pistola era stata fra l’altro usata poche ore prima da alcuni membri della troupe con munizioni vere per fare “plinking“, termine utilizzato per indicare l’atto di sparare a lattine di birra o altri bersagli con pallottole vere.

16 ottobre, protocolli di sicurezza e proteste

Nelle ultime ore, è stato anche reso noto che sul set si era già verificato almeno un altro incidente con le armi, avvenuto il 16 ottobre scorso: la controfigura di Baldwin avrebbe sparato accidentalmente due colpi di pistola che gli avevano detto essere scarica, mentre che diversi membri della troupe, tra cui Hutchins, si trovavano all’interno di un edificio usato per le riprese. Questi avevano poi immediatamente presentato un reclamo al responsabile della sicurezza sul set, che però in quel momento non era presente.

Per questo e per via delle pessime condizioni di lavoro durante le riprese, diversi membri della troupe hanno deciso di licenziarsi poche ore prima della morte di Hutchins.

Il dramma di Santa Fe ha rilanciato un dibattito sulla sicurezza delle troupe e l’uso delle armi sui set tanto che una petizione sul sito change.org ha già raccolto più di 27.000 firme richiedendo il divieto delle armi da fuoco durante le riprese, al giorno d’oggi non più necessarie.

Fonte: Corriere

Gaia Cautela

Processo Floyd: condannato a 22 anni e mezzo di carcere l’ex agente Chauvin. Biden: «Sentenza appropriata»

Condannato a 22 anni e mezzo di carcere Derek Chauvin, l’ex agente di polizia 45enne ritenuto responsabile dell’uccisione dell’afroamericano George Floyd, durante l’arresto, il 25 maggio del 2020 , a Minneapolis, in Minnesota. L’avvenimento provocò l’esplosione su scala globale del movimento antirazzista “Black Lives Matter’’.

Fonte: Huffington Post

La decisione è arrivata dopo che lo scorso 20 aprile, Chauvin era stato ritenuto colpevole dalla giuria popolare per tutti e tre i capi di accusa: «omicidio di 2° grado», cioè colposo, ma con il presupposto di un’aggressione o un assalto contro la persona; «omicidio di 3° grado», per condotta pericolosa e negligente; «omicidio preterintenzionale». Il giudice aveva allora annunciato 8 settimane di attesa per stabilire la pena.

La sentenza del giudice

«Sono solidale con il dolore della famiglia Floyd, ma la mia decisione non si basa sulle emozioni e non intende mandare un messaggio di tipo politico»,

precisa il giudice Peter Cahill in un’insolita premessa alla lettura della sentenza e spiegando inoltre che alla decisione è allegato un memorandum di 22 pagine con le motivazioni.

L’ex agente Derek Chavin. Fonte: Il Fatto Quotidiano

Cahill ha richiamato le linee guida del codice penale del Minnesota, per le quali sono previsti tra i 12 e i 15 anni di reclusione per l’omicidio di secondo grado, il reato più grave (le pene non sono cumulabili). Il magistrato ha poi aggiunto il carico di quattro aggravanti, tra le quali l’«abuso dell’autorità», arrivando al risultato finale di 22 anni e 6 mesi.

La sentenza del giudice della Contea di Hennepin ha incontrato la delusione dei parenti di Floyd e del mondo dell’attivismo per i diritti, in quanto l’accusa aveva chiesto 30 anni di carcere per Derek Chauvin.
Il pubblico ministero Matthew Frank spiega perché:

«Non è stato uno sparo momentaneo, un pugno in faccia. Sono stati 9 minuti di crudeltà verso un uomo che era impotente e stava solo implorando per la sua vita».

Gli interventi della famiglia Floyd e dell’imputato

Durante l’udienza di ieri non è mancato lo spazio agli interventi delle parti, prima che venisse comunicata la sentenza: sono stati ascoltati i cari di Floyd e lo stesso imputato Chauvin, che con voce tremante e palesemente scosso ha espresso le condoglianze alla famiglia Floyd.

Questo il commento rilasciato dalla sorella di George, Bridgett Floyd:

«La sentenza emessa oggi nei confronti dell’ufficiale di polizia di Minneapolis che ha ucciso mio fratello George Floyd mostra che le questioni relative alla brutalità della polizia vengono finalmente prese sul serio. Tuttavia, abbiamo una lunga strada da percorrere e molti cambiamenti da apportare prima che i neri si sentano finalmente trattati in modo equo e umano dalle forze dell’ordine in questo Paese».

Bridgett Floyd. Fonte: Audacy

Non ha avuto «nessun riguardo per la vita umana, per la vita di mia fratello», ha detto, invece, il fratello, Philonise Floyd, chiedendo al giudice di assicurarsi che Chauvin non possa uscire dal carcere prima di aver scontato tutta la sua pena.

Ma il momento più toccante è stato senz’altro quando Gianna, la figlia di 7 anni di George Floyd, è intervenuta tramite collegamento video con l’aula del tribunale: «Gli direi che mi manca e che gli voglio bene». A chi le chiedeva cosa farebbe se potesse vedere di nuovo suo padre ha risposto: «Voglio giocare con lui».

Il commento di Biden

Mentre stava parlando con i giornalisti alla Casa Bianca – in attesa dell’incontro con il presidente dell’Afghanistan – anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha espresso la sua opinione in merito alla condanna dell’ex poliziotto, dichiarando che «la sentenza sembra appropriata», pur comunque aggiungendo di non conoscere tutti i dettagli.

Un mondo unito in protesta

L’ingiustizia razziale è un problema mondiale (e non solo americano) che esiste da tempo, cosicché l’uccisione di Floyd ha rappresentato un solo sintomo di un problema più grande che sottende alle morti di tanti altri neri, dei quali gli ultimi minuti di vita non sono stati però ripresi da un video, a differenza di Floyd: dai 164 neri uccisi dalla polizia statunitense nei primi otto mesi del 2020 all’omicidio dell’infermiera di 26 anni Breonna Taylor, uccisa in casa il 13 marzo 2020 con un colpo d’arma da fuoco.

Fonte: Il Post

Nel Regno Unito le proteste hanno dilagato in tutto il Paese, con manifestazioni che hanno innalzato cartelli con i nomi di Joy Gardner, Sean Rigg o Mark Duggan, tutte vittime di razzismo. In Francia il movimento per la giustizia razziale trova espressione nel volto di Assa Traoré, il cui fratello è morto in circostanze simili a quelle di Floyd.

Vedere riconosciuta l’esistenza del razzismo e la possibilità di esprimere liberamente il proprio sostegno alla protesta – senza preoccuparsi di conseguenze quali la perdita di lavoro o la manipolazione – sono fonte di profondo sollievo per i neri: agli US Open di settembre la tennista nera giapponese Naomi Osaka ha indossato mascherine con stampati i nomi delle vittime della polizia. E come lei, tante altre celebrità si sono unite alle voci della protesta quali l’attore di Star Wars John Boyega e il quarterback di football americano Colin Kaepernick.
Ma la strada per lo smantellamento delle strutture oppressive e per il raggiungimento di una società scevra di ingiustizie e pregiudizi è ancora molto lunga.

Atteso il processo degli altri tre poliziotti coinvolti

La sentenza per Chauvin non chiuderà il caso Floyd, mancando ancora da processare gli altri tre ex agenti – Thomas Lane, J. Alexander Kueng e Tou Thao, incriminati per la morte di Floyd con l’accusa di averne facilitato l’omicidio. Lane e Kueng avevano infatti aiutato Chauvin a tenere Floyd a terra, mentre Thao aveva assistito senza far nulla per fermarli. Il loro processo dovrebbe iniziare ad agosto.

Gaia Cautela

Summit Usa-Russia: segni di disgelo. Ecco l’esito dell’incontro tra Biden e Putin

Dal vertice di Ginevra si sono mostrati segni di disgelo fra Usa e Russia. Sono state concordate le consultazioni sulla cyber security e si è dato avvio ad una dichiarazione congiunta, volta a garantire una stabilità nucleare per escludere l’esordio di una guerra atomica.

Stretta di mano tra Putin e Biden –Fonte:ilfattoquotidiano.it

La scorsa serata si è concluso l’incontro tra il Presidente americano Joe Biden e il Presidente russo Vladimir Putin, presso Villa La Grange, a Ginevra (Svizzera). Il vertice è finito in poco tempo, dopo quasi tre ore, rispetto alle previsioni della Casa Bianca. Al termine del colloquio, nonostante i toni siano stati cordiali, i due leader non si sono presentati alle conferenze stampa insieme, indicando così la permanenza, comunque, di tensioni elevate.

Esito dell’incontro

L’incontro è stato avviato nella consapevolezza dei rapporti minimi che viggono dai tempi della Guerra Fredda e, nonostante le questioni accumulate nel tempo abbiano inciso sulle relazioni tra Russia e Usa, il summit fra i due Presidenti ha avuto un “discreto successo”, vedendo anche la partecipazione dei rispettivi capi della diplomazia Antony Blinken e Sergei Lavrov.

Concluso il faccia a faccia tra Biden e Putin –Fonte:avvenire.it

I leader hanno trovato un punto di accordo sul tema del ritorno dei rispettivi ambasciatori e sulle consultazioni contro i cyber attacchi, pattuendo una linea di dialogo anche sulla questione della stabilità nucleare e fissando un possibile compromesso sullo scambio di prigionieri.

Sul caso dell’Ucraina, il capo del Cremlino auspica, altresì, che Kiev rispetti gli accordi di Minsk, ossia l’osservazione di quel protocollo stipulato per porre fine alla guerra dell’Ucraina orientale, raggiunto il 5 settembre del 2014 dai rappresentanti di Ucraina, Russia, Repubblica Popolare di Doneck (DNR), e Repubblica Popolare di Lugansk (LNR). Invece le due Potenze restano su due fronti discordi riguardo le tematiche dei diritti umani.

Le successive conferenze stampa hanno alimentato un moderato ottimismo, dato dal riconoscimento di una “responsabilità comune globale” e dell’esigenza di dialogare, anche quando non si trovano punti d’accordo.

La conferenza stampa di Vladimir Putin

Summit Usa-Russia –Fonte:rsi.ch

Il primo a rilasciare dichiarazioni ai giornalisti è stato Putin, confermando l’esito positivo del summit definendolo “costruttivo”:

“ha avuto luogo su una base di principi. Su molte posizioni le nostre valutazioni divergono. Ma credo che entrambe le parti cerchino un terreno fertile per trovare soluzioni comuni”

Il leader russo oltre ad annunciare il risultato concreto dell’incontro, ha affermato un eventuale adesione alla NATO e l’effettivo ritorno alle proprie ambasciate del russo Anatoly Antonov (nell’ambasciata di Washington) e dello statunitense John Sullivan (in quella di Mosca), i quali erano stati richiamati dopo le tensioni e le espulsioni dei mesi precedenti.

Il caso, che però ha ricevuto più attenzione, è stato quello dell’attacco al Colonial Pipeline, uno dei più grandi oleodotti degli Stati Uniti, che secondo i loro funzionari ha subito un attacco informatico il 7 maggio scorso, causando l’interruzione della sua attività che rifornisce circa metà della costa orientale del Paese, tra cui le città come Atlanta, Washington e New York. Si ritiene che il Colonial Pipeline e altre aziende siano state vittime degli attacchi “ransomware”, un tipo di malware (programma in grado di apportare danni ad un sistema infromatico) che limita l’accesso del dispositivo che infetta, richiedendo un riscatto da pagare per rimuovere la limitazione.

Nonostante gli esperti affermino che l’azione provenga dalla Russia, Putin ha negato l’origine della responsabilità del suo Governo, sostenendo invece una collaborazione con gli Stati Uniti sulle consultazioni sulla sicurezza informatica. Nonostante ciò Biden ha consegnato una lista delle 16 infrastrutture critiche che devono essere escluse da qualsiasi forma di aggressione informatica.

Si è poi parlato, della tematica calda dei diritti umani citando il leader dell’opposizione, Alexei Navalny, tenuto in prigionia per ragioni irrisorie, che se dovesse perdere la vita, secondo quanto espresso dal Capo della Casa Bianca, le “conseguenze sarebbero devastanti”. Il Presidente del Cremlino ha paragonato la sua politica contro gli oppositori come gli arresti avvenuti durante l’attacco al Congresso degli Stati Uniti dello scorso 6 gennaio. Paragone, che per Joe Biden, è risultato alquanto “ridicolo” poiché, come ha ricordato il leader democratico, Navalny e i suoi sostenitori lottavano per le elezioni libere in Russia, mentre i rivoltosi del Campidoglio avevano come obiettivo quello di ribaltare il risultato delle elezioni libere negli Stati Uniti.

Le dichiarazioni di Joe Biden

I rapporti USA-Russia devono essere stabili –Fonte:bluewin.ch

Dopo la conferenza stampa di Putin, è stata avviata quella diBiden sostenendo in poco più di mezz’ora che l’incontro è stato effettuato per evitare la presenza di errori ed incomprensioni future tra le due Nazioni. Il proposito su cui si fondava il colloquio si poneva come scopo l’identificazione di alcune aree di lavoro su cui ambe due i Paesi avrebbero potuto intervenire. Si sarebbero creati così rapporti tra Usa e Russia stabili, con l’onere di fondarsi sulla difesa dei valori democratici.

Si è poi parlato del potenziale rilascio dei due ex marine statunitensi, attualmente detenuti in Russia, tra cui risulta esserci Paul Whelan accusato di spionaggio e costretto 16 anni di prigionia, per il ritrovamento di una chiavetta USB contenete informazioni riservate. Sebbene l’ex marine si sia dichiarato non colpevole e affermi di essere stato vittima di una trappola, il tribunale russo lo ha condannato senza la produzione alcuna prova. Perciò per l’ambasciatore americano Sullivan, tale atto è da dichiararsi come una “beffa della giustizia” che lede gravemente i diritti umani.

Al fine di evitare i rischi di instabilità  si è a lungo discusso, secondo quanto riportato dal Presidente americano, dei passi essenziali per evitare il conflitto. È stato così concordata l’apertura di un dialogo e la creazione di un gruppo di esperti diplomatici al fine di cooperare per la realizzazione di una sicurezza strategica.

Giovanna Sgarlata

 

La Francia propone la risoluzione del conflitto in Palestina. Preoccupa l’esitazione USA

Il conflitto israeolo-palestinese non accenna a placarsi. Dopo nove giorni di scontri tra l’esercito israeliano e Hamas, il fervore con cui le notizie provenienti dal medioriente sono state recepite dall’opinione pubblica non ha mancato di stimolare le potenze occidentali. Ultima misura, in ordine di tempo, a emergere è stata quella presentata al tavolo delle Nazioni Unite dalla Francia e concordata con Egitto e Giordania. La proposta è arrivata al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e punta a un cessate il fuoco in Palestina.

La risoluzione

Emmanuel Macron, insieme ad Egitto e Giordania, si appella all’Onu per cessare le violenze in Medioriente. Fonte: Huffingpost.

La proposta di tregua giunge in seguito all’ incontro fra il presidente francese Emmanuel Macron, l’egiziano Abdel Fatah Al-Sisi e, collegato in videoconferenza, il re Abdallah II di Giordania. Durante il meeting è emerso che

“i tre Paesi concordano su tre elementi: i lanci di razzi devono cessare, è giunto il momento di un cessate il fuoco e il Consiglio di sicurezza Onu deve prendere in mano la questione“.

L’Eliseo ha inoltre reso noti i motivi dell’accordo con i due paesi arabi: “Sono protagonisti influenti nei luoghi santi per la Giordania e su Gaza per gli egiziani”.

L’Egitto ha proposto “attraverso canali privati” un cessate il fuoco tra Israele e Hamas a partire dalle 6 di mattina (ora locale) di giovedì prossimo. Hamas avrebbe risposto favorevolmente mentre Israele, al contrario, non avrebbe manifestato alcun segno di resa.
La notizia, riportata dalla tv israeliana di Canale 12, è stata tuttavia prontamente smentita sul Times of Israel dal membro della leadership di Hamas, Izzat al-Rishq, che ha dichiarato:

“Non è vero ciò che alcuni media nemici hanno riferito, ovvero che Hamas abbia concordato ad un cessate il fuoco per giovedì. Nessun accordo o uno specifico calendario per questo è stato raggiunto” continua poi “Pur sottolineando che gli sforzi e i contatti dei mediatori sono seri e continui, le richieste della nostra gente sono chiare e ben note”.

L’ambiguità della posizione statunitense

La Cina fa sapere che sostiene senz’altro la proposta. Gli Stati Uniti hanno bloccato per otto giorni una dichiarazione sul conflitto e hanno giustificato il loro silenzio attraverso l’ambasciatrice americana Linda Thomas Greenfield: Non siamo stati in silenzio. Il nostro obiettivo è stato e continuerà ad essere quello di un intenso impegno diplomatico per porre fine a questa violenza”. Il presidente Joe Biden “ha espresso il sostegno per un cessate il fuoco”.

L’ambasciatrice americana ribadisce l’impegno nella risoluzione del conflitto ma gli Usa finora hanno bloccato dichiarazioni che secondo Washington potrebbero ostacolare o nuocere alla sua “diplomazia intensa ma discreta”. Fonte: ABC News.

Il sostegno di Biden, tuttavia, giunge dopo ben quattro telefonate al premier israeliano Benjamin Netanyahu nel corso delle quali ha ribadito più volte che Israele abbia il pieno diritto di difendersi contro “gli indiscriminati attacchi di razzi” di Hamas.

Una mossa, quella di Biden, che ha confuso la comunità internazionale e non ha mancato di apparire come un’attività diplomatica molto blanda. Dallo stesso Partito Democratico aumentano gli appelli rivolti al presidente per una presa di posizione più forte e netta per fermare Israele. Malgrado la gravità della situazione pare per il momento che la questione non rientri tra le priorità dell’agenda presidenziale .

La guerra continua

Nonostante gli appelli, aumentano le vittime in rapporto a nuovi attacchi perpetrati questa notte. Secondo quanto riferito dal portavoce dell’esercito israeliano Hidai Zilberman, i caccia dello Stato ebraico hanno sganciato 122 bombe in 25 minuti su circa 40 obiettivi sotterranei. L’attacco ha comportato la distruzione di oltre 12 chilometri di tunnel e numerosi depositi di armi e un centro di comando. Zilberman ha poi dichiarato: “Almeno 10 membri dei gruppi terroristici di Hamas e della Jihad islamica palestinese sono stati uccisi“. Ad essere preso di mira il quartiere Rimal, sobborgo residenziale di Gaza City, dove vivono “molti leader di Hamas”.

Razzi nello scontro tra Gaza e Israele. Fonte: AGI.

Le vittime complessive a Gaza, dall’inizio delle ostilità, sono ora 213, tra cui 61 bambini e 36 donne.
Questa mattina, invece, il lancio di razzi diretti verso un capannone agricolo israeliano, vicino alla linea di demarcazione, ha ucciso due operai thailandesi e ferito altre due persone. Ora il totale delle vittime in Israele è di 12 persone: 10 (tra cui 2 bambini) sotto i razzi e altre 2 per motivi collegati ai lanci.

Alessia Vaccarella

Strage a Kabul, più di 68 morti tra giovani studentesse liceali e residenti

Fonte: Il Post

Sabato pomeriggio tre esplosioni ravvicinate in un quartiere occidentale di Kabul, capitale dell’Afghanistan, hanno causato la morte di almeno 60 persone e centinaia di feriti, seppure il bilancio ufficiale delle vittime non sia stato ancora confermato. Si tratterebbe soprattutto di giovani studentesse corse fuori in preda al panico dal liceo Sayed Ul Shuhada che frequentavano. 

Nemmeno la natura delle esplosioni è stata ancora chiarita, anche se l’attacco – il più sanguinoso dell’ultimo anno – sembrerebbe in qualche modo collegato al ritiro delle ultime truppe americane nel Paese, ordinato diversi mesi fa dall’ex presidente statunitense Donald Trump. L’azione non è stata per il momento rivendicata.

Le dinamiche dell’attentato

A detta di Al Jazeera (rete televisiva satellitare con sede in Qatar) l’attacco è avvenuto alle 17:30 ora locale, proprio nel momento in cui le studentesse lasciavano le loro aule della scuola superiore, situata nel distretto di Dasht-e-Barchi. La scuola prevede tre diverse fasce orarie per maschi e femmine e la seconda delle quali, quella in cui è avvenuto l’attacco, era riservata alle ragazze.

L’obiettivo e l’orario non sono stati frutto di una scelta casuale, bensì meditata e finalizzata a massimizzare il numero di vittime. Le giovani ragazze si apprestavano infatti ad uscire da scuola, mentre i residenti erano in strada a fare acquisti per la festa musulmana di Eid al-Fitr, che segnerà la fine del mese di digiuno del Ramadan la settimana prossima. Considerato l’accaduto, il presidente afghano Ashraf Ghani ha parlato di «crimine contro l’umanità e i principi islamici» e ha ordinato alle forze di sicurezza di “rispondere” con forza.

La stima più recente citata dall’agenzia di stampa britannica Reuters attesta che siano morte almeno 68 persone, e che altre 165 siano rimaste ferite a causa delle esplosioni. Tuttavia, bisogna specificare che le cifre sono state fornite informalmente dai funzionari afghani ai giornali internazionali, senza ancora alcuna ufficialità. Il portavoce del ministero degli Interni afghano Tariq Arian ha inoltre avvertito che il tragico numero delle vittime potrebbe aumentare ulteriormente.

Su Twitter, la denuncia dell’attivista afghana Wazhma Frogh: «I nostri bambini non meritano tutto questo. Nessun bambino lo merita, questo è terrorismo internazionale».

https://twitter.com/FroghWazhma/status/1391059454129577987

L’accusa del presidente afghano ai Talebani

Secondo la versione più accreditata dai media locali, a causare le esplosioni sarebbe stata un’autobomba a cui sono seguiti due ordigni rudimentali. Un portavoce dei Talebani (gruppo islamista ramificato in Afghanistan) di nome Zabihullah Mujahid ha negato il coinvolgimento nella strage del gruppo, sostenendo che un simile massacro di civili può essere solamente opera del Daesh:

«i circoli sinistri che, per conto dello Stato Islamico, operano sotto le ali e la copertura dei servizi di intelligence dell’amministrazione di Kabul»,

hanno accusato i Talebani in un comunicato, prendendo le distanze dalla strage.

Autobomba esplosa a Kabul. Fonte: Avvenire

Ma il presidente afghano non si lascia convincere da tali argomentazioni e continua ad accusare – senza fornire però alcuna prova – i Talebani dell’escalation di violenza che sta attraversando il Paese in questo momento:

«hanno dimostrato ancora una volta che non solo non sono disposti a porre fine alla crisi attuale con mezzi pacifici, ma complicano la situazione per sabotare le opportunità di pace», ha detto.

Diversi analisti ritengono plausibile l’accusa, dal momento che la zona in cui sono avvenute le esplosioni è abitata per la maggior parte dagli Hazara, musulmani di minoranza sciita con i quali i Talebani non sono mai stati in buoni rapporti e che, pertanto, sono stati più volte presi di mira dallo stesso gruppo politico-terrorista. L’ultima volta lo scorso ottobre, quando in un’altra scuola ci furono ben 24 morti e 57 feriti. E ancora un anno fa, sempre nello stesso quartiere, fu attaccato un ospedale di maternità: allora morirono 16 persone, tra cui due neonati, neo mamme e ostetriche.

La ripresa degli attacchi dopo gli accordi

Si continua a combattere in Afghanistan, dove da mesi avvengono quotidianamente violenze e azioni collegate agli scontri tra forze governative e il gruppo estremamente radicale dei Talebani.

Gli attacchi sono ripresi dopo che, all’inizio del 2020, gli Stati Uniti avevano finalmente trovato un accordo – dopo faticosi negoziati – con il gruppo di fondamentalisti islamici, che prevedeva che gli americani lasciassero il Paese entro il 2021. Quanto ai Talebani, invece, essi si sarebbero dovuti impegnare a prendere le distanze da Al Qaeda, uno dei più noti gruppi terroristici al mondo e loro alleati, e a condurre trattative di pace col governo centrale afghano.

Gruppo di Talebani in Afghanistan. Fonte: Notizie Geopolitiche

Se inizialmente i Talebani avevano rispettato l’accordo avviando le trattative con il governo, negli ultimi mesi hanno ripreso gli attacchi nei confronti di quest’ultimo. Probabilmente complice il progressivo ritiro delle truppe dell’esercito statunitense stabilito dall’ex presidente americano Donald Trump.

A sostegno di tale ipotesi le parole del New York Times:

«Oggi, in molti – compresi i talebani, secondo i funzionari governativi afghani – ritengono che il frettoloso ritiro americano sia il segnale che gli Stati Uniti se ne andranno a prescindere dalle violenze compiute dagli estremisti».

Un Paese in allerta massima

 I livelli di violenza sono già aumentati considerevolmente – specialmente nell’ultima settimana – per via della scadenza della data concordata lo scorso febbraio a Doha dai Talebani con gli Usa perché le truppe straniere lasciassero l’Afghanistan: dal primo maggio Kabul e tutto l’Afghanistan sono infatti in massima allerta.

La data del ritiro è stata consapevolmente posticipata dall’amministrazione Biden all’11 settembre prossimo, quando saranno trascorsi ben due decenni dagli attacchi jihadisti alle Torri Gemelle, innescati poco dopo l’invasione americana dell’Afghanistan che portò al rovescio del regime talebano.

Fonte: AGI

Solamente nelle ultime 48 ore sono morti almeno 250 Talebani e altri 106 sono rimasti feriti durante i combattimenti con le truppe afghane in nove delle 34 province del Paese. In Afghanistan non si registrava un numero tanto alto di estremisti morti in così poche ore da due anni, a dimostrazione di come – nonostante i vari tentativi di far avanzare i colloqui di pace ormai da tempo in stallo – è in corso una diffusa intensificazione del conflitto nel Paese.

Gaia Cautela

India: boom di contagi. Usa e Ue istituiscono un piano di aiuti. Speranza firma l’ordinanza sullo stop agli arrivi dall’India

Acuta drammaticità nel continente asiatico. L’India diventa l’epicentro della pandemia, spaventano i numeri dei contagi e delle morti. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea inviano dispositivi salva vita.

Variante indiana –Fonte:bresciatoday.it

Durante le ultime settimane l’India è stata investita da un’incisiva aggressione di una nuova variante del coronavirus, che sembra più trasmissibile e pericolosa rispetto a quelle già note in circolazione. A rendere la situazione più critica risulta essere la totale perdita di controllo del contenimento della stessa, che ha portato le autorità locali a dover provvedere all’eliminazione dei corpi degli infetti lasciati per strada attraverso l’incenerimento dei cadaveri. Il Paese asiatico raggiunge così il quarto amaro record consecutivo per contagi giornalieri.

La variante indiana

Variante indiana con doppia mutazione –Fonte:agi.it

Già nota da diversi mesi, la variante indiana consiste in una tripla mutazione, ossia la fusione di tre diversi ceppi del Covid-19, che unendosi hanno dato vita ad un “doppio mutante” noto come B.1.617, la cui diffusione si ritiene essere partita dagli Stati come il Maharashtra, Delhi e il Bengala occidentale.

Inizialmente questa non ha destato particolari preoccupazioni degli esperti, ma a far capovolgere la situazione è stato il grave allarme dell’improvviso boom epidemiologico nel Paese subcontinentale. Si è registrato così il più elevato numero di morti giornalieri mai raggiunto pari a 2.767. Sebbene si tema che le cifre reali dei defunti siano ben più alte, la media statistica del Paese stima che nella capitale New Delhi avvenga un decesso ogni 4 minuti.

Covid-19, inviati respiratori in India –Fonte:bluewin.ch

Per quanto gli scienziati non abbiano ancora dati certi riguardo la contagiosità della nuova variante e della sua abilità di causare sintomi più o meno gravi, risulta accorato l’appello di massima allerta.

Il collasso della sanità

New Delhi diventa così teatro di ospedali i cui corridoi sono occupati da letti e barelle, le famiglie implorano la richiesta di assistenza ai loro cari e molti cittadini periscono sulla soglia della struttura sanitaria.

La variante indiana del Covid –Fonte:panorama.it

L’ambasciatore italiano nella capitale, Vincenzo De Luca sostiene che

“Il Paese sta vivendo un’impennata rapidissima. Le curve dei contagi sono schizzate all’insù prima nelle aree urbane e ora stanno crescendo anche in quelle rurali, mentre il sistema sanitario fatica a far fronte alla sfida della domanda di ricoveri e farmaci: l’India sta affrontando una fase di massima allerta e ha bisogno di una risposta e di una cooperazione globale”

Ciò ha contribuito a prorogare di una settimana il lookdown nella capitale, mentre si attendono gli aiuti promessi dalle Nazioni del globo. Risulta altresì chiaro come l’accorato invito abbia destato molta preoccupazione, dando il via ad una corsa di aiuti nel Paese, affinché la situazione fuori controllo possa rimarginarsi.

Aiuti internazionali: USA e UE

La mobilitazione degli Stati Uniti è avvenuta a seguito di un colloquio telefonico tra il Consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, Jack Sullivan, con la controparte di New Delhi.

“Gli Stati Uniti sono profondamente preoccupati per la grave epidemia di Covid in India. Stiamo lavorando 24 ore su 24 per distribuire più rifornimenti e supporto ai nostri amici e partner in India mentre combattono coraggiosamente questa pandemia.”

L’America è pronta a spedire in India alcune materie prime necessarie per la produzione del Covishield, la versione indiana del vaccino AstraZeneca. L’esportazione di tali sostanze, secondo quanto riportato dal New York Times, riflette la decisione presa dall’amministrazione Biden che avrebbe abrogato il divieto di trasferimento di quegli elementi necessari per la creazione del farmaco. Altresì il Paese a stelle e strisce spedirà gli strumenti essenziali di prevenzione per gli operatori sanitari, come tute protettive e invierà le forniture di ossigeno fondamentali da adoperare nella terapia dei pazienti più gravi.

In India parte l’Oxygen Express –Fonte: it.finance.yahoo.com

Alla stregua delle decisione prese, la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen, secondo quanto espresso dall’Agence France-Presse (AFP), ha riferito che l’Unione Europea sta rassembrando tutte le risorse per rispondere prontamente alla richiesta di assistenza, attraverso un innovativo sistema di protezione civile dell’Ue. Si crea così un meccanismo che permette ai 27 Paesi membri dell’Unione di sincronizzarsi per intervenire in caso di emergenza. Secondo quanto riportato dal Commissario Ue per gli Aiuti umanitari Janez Lenarcic, tale coordinazione è già stata avviata dalle Nazioni coinvolte nell’accordo, per contributi di ossigeno e farmaci.

La risposta italiana alla variante

L’arrivo nella scorsa serata all’aeroporto di Fiumicino di un volo proveniente da Nuova Delhi, desta preoccupazione. I 214 passeggeri sono stati destinati a test e quarantena presso le strutture predisposte dalla cittadella militare della Cecchignola e nel Covid hotel di Roma.

Covid: arrivo volo dall’India –Fonte:ansa.it

L’appello promosso dal Presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti, è volto a sollecitare l’attivazione di misure che fermino le partenze dal subcontinente indiano, invitando gli Stati membri alla realizzazione di iniziative che coordinino gli arrivi su tutto il territorio europeo. Il ministro della Salute Roberto Speranza, a seguito dell’impennata dei contagi prodotta dalla divulgazione della variante indiana, ha firmato una nuova ordinanza che indice il divieto di ingresso in Italia per coloro che hanno soggiornato nel Paese subcontinentale e nel Bangladesh negli ultimi 14 giorni.

Variante indiana, Speranza blocca l’ingresso in Italia –Fonte:corriere.it

Il documento prevede che i residenti in Italia potranno rientrare con tampone in partenza e all’arrivo e con obbligo di quarantena. Chiunque sia stato in India nelle ultime due settimane e si trovi già nel nostro Paese è tenuto a sottoporsi a tampone contattando i dipartimenti di prevenzione.

Tali restrizioni rimarranno attive fino al 12 maggio e sono volte ad irrigidire le misure di controllo, impedendo che il record negativo registrato in India possa ripetersi anche in Italia. Nonostante gli scienziati stiano lavorando ininterrottamente per studiare la “neonata variante”, Speranza ribadisce altresì la necessità di tenere alta la guardia fin quando non si avranno risposte più certe.

Giovanna Sgarlata

Navalny rischia di morire in prigione. Ecco cosa sta succedendo all’oppositore numero uno di Putin

“Alexei Navalny sta morendo. Nelle sue condizioni, è questione di giorni”. Questo è ciò che ha scritto, sabato, su Facebook, la portavoce di Navalny, l’oppositore numero uno del presidente russo Vladimir Putin. Navalny è rinchiuso in una prigione di Prokov, 100 chilomentri ad est di Mosca, per scontare una pena di due anni e mezzo, con l’accusa di appropriazione indebita. Già il motivo e il modo in cui è avvenuta la carcerazione ha suscitato grossi sconvolgimenti in tutta la Russia, ne abbiamo parlato qui.

Navalny, in prigione dal 17 gennaio dopo esser sopravvissuto a un avvelenamento (fonte: ANSA)

In cella dal 17 gennaio, dal 31 marzo aveva iniziato lo sciopero della fame. Era ritornato dalla Germania, dopo esser stato messo in salvo dall’avvelenamento di cui è stato vittima. Mosca si è sempre dichiarata estranea ai fatti, nonostante le numerose accuse.

La figlia di Navalny, Daria, ha lanciato un accorato appello su Twitter: “Consentite a un medico di visitare mio padre”. La ventenne studia all’università di Stanford in California ed è seriamente preoccupata per le condizioni del padre su cui non vi sono chiare notizie.

Infatti, un gruppo di quattro medici – fra cui quello personale di Navalny, Anastasia Vasilyeva, e un cardiologo – hanno reso noto che il 44enne rischia un arresto cardiaco in qualunque momento e, perciò, chiedono di potergli far visita in carcere. Si tratterrebbe di un’insufficienza renale.

Secondo alcune testimonianze, Navalny, avrebbe rifiutato l’intervento dei medici messi a disposizione dal centro detentivo – i quali potrebbero anche decidere di ricorrere all’alimentazione forzata – perché intenzionato ad esser visitato solo da medici di sua fiducia. Ciò sarebbe consentito dalla legge (la 323 del 2011, articolo 26) che consente di chiedere il consulto di specialisti del servizio medico nazionale, ma solo nel caso in cui non sia disponibile un clinico qualificato nel penitenziario oppure che la situazione renda un particolare intervento urgente. Per Navalny è necessario che a visitarlo siano solo medici ritenuti “neutrali”.

(fonte: ilfattoquotidiano.it)

 

Navalny non sarebbe malato?

Il diplomatico Andrej Kelin, il quale si trova a Londra, ha rilasciato un’intervista alla Bbc, nella quale ha affermato che Navalny “si comporta come un hooligan: oggi gli fa male una gamba, domani un braccio. Tenta di violare tutte le regole per farsi pubblicità”. Per il diplomatico russo si tratterebbe di una farsa, poiché il detenuto sarebbe stato anche visitato in ospedale. “Non morirà in prigione” ha aggiunto, nonostante ciò che è stato riferito da i suoi medici.

Putin (fonte: ilfattoquotidiano.it)

Poi, vi è anche la controversa esistenza di due video, messi in rete in questi giorni “Izvestia” e “Ren tv”. In uno si può vedere un detenuto, che, secondo i giornalisti, dovrebbe esser proprio Navalny, nella grande camerata dove si trova normalmente. Quest’ultimo viene ripreso dall’agente di sorveglianza con una camera ad infrarossi, mentre dorme tranquillamente. Tutto ciò sarebbe utile per negare che Navalny venga svegliato ripetutamente durante la notte mentre viene effettuato il giro d’ispezione. Nel secondo filmato, un uomo – che non si riesce a vedere in faccia – viene mostrato in una camera di quello che sarebbe il centro medico, mentre esegue senza sforzo delle flessioni. Con questo video, dunque, si vorrebbe smentire che il detenuto stia soffrendo per aggravate condizioni di salute.

In ogni caso è doveroso ricordare e sottolineare che Izvestia e Ren tv sono due media certamente non ostili a Putin. Perciò il contenuto dei due video potrebbe esser di dubbia veridicità.

 

L’intervento di Usa e Ue

“Abbiamo comunicato al governo russo che quello che succede a Navalny mentre le autorità russe lo hanno in custodia è loro responsabilità, e verranno considerate responsabili dalla comunità internazionale.” ha detto ieri Andrew Sullivan, il consigliere per la Sicurezza Nazionale di Biden.

Il presidente americano avrebbe fatto riferire a Mosca che, qualora Navalny morisse, ci sarebbero delle conseguenze per la Russia di cui ancora niente è stato rivelato.

Biden si era già espresso pubblicamente all’inizio della vicenda, proclamando l’adozione di provvedimenti contro sette dirigenti russi molto vicini al presidente Putin, congelando i loro beni negli Stati Uniti e vietando ai cittadini americani di fare affari con loro.

“È totalmente ingiusto. Totalmente inappropriato” – ha detto Biden alla stampa – “sulla base del fatto che è stato avvelenato e poi ha fatto lo sciopero della fame”.

Insomma, la questione di Navalny ha riacceso le tensioni, che affondano le radici in un passato lontano, tra Usa e Russia.

L’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, prima della videoconferenza informale dei ministri degli Esteri, ha rivelato di aver ricevuto una lettera dallo staff di Navalny e di essere molto preoccupato. Una preoccupazione che accomuna tutta l’Unione Europea. Borrell aveva richiesto, a nome dell’Ue, di concedere le cure necessarie al detenuto, senza poi venir ascoltato dalle autorità russe, che verranno ritenute responsabile anche dall’Europa in caso di ulteriori peggioramenti della situazione. Ora, l’Ue chiede l’immediata liberazione dell’oppositore russo.

L’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell (fonte: ilpost.it)

Ieri, dalla struttura penitenziaria era arrivata la comunicazione del trasferimento di Navalny presso il reparto ospedaliero della colonia penale IK-3 del Servizio Penitenziario Federale russo (FSIN), nella regione di Vladimir, specializzato nell’osservazione medica dei detenuti. Qui i medici hanno rassicurato sull’inizio di una terapia a base di vitamine e su un costante controllo delle condizioni del paziente.

Su Twitter, Ivan Zhdanov, direttore del Fondo Anti-Corruzione, ha scritto che questa del trasferimento presso la struttura ospedaliera è solo una falsa buona notizia, ricordando che presso questa struttura vengono mandati solo pazienti molto gravi. Perciò, la smentita sull’aggravarsi delle condizioni di Navalny sarebbe un tentativo di sedare la tensione.

 

Riprenderanno le proteste

Intanto, per il 21 aprile, i sostenitori di Navalny stanno organizzando delle proteste in tutta la Russia. Inoltre, un gruppo di circa 70 artisti, scrittori e attori, fra cui i premi Nobel per la Letteratura Svetlana Alexievitch e Salman Rushdie, hanno fatto pubblicare un appello a Putin, affinché vengano concesse tutte le cure necessarie a Navalny.

Tra i firmatari persino la famosissima scrittrice di Harry Potter, J. K. Rowling e l’attore Jude Law, tutti pronti a sfruttare la propria popolarità per far chiarezza sulla vicenda, chiarezza che sin dagli inizi è venuta meno. Ciò ha fatto crescere sempre più il sospetto e la preoccupazione che, in uno dei più potenti Paesi del mondo, si stia consumando un’enorme ingiustizia ai danni della democrazia.

 

Rita Bonaccurso

Gli USA rientrano nell’Accordo di Parigi. Cos’è e perchè pochi Paesi lo stanno rispettando

(fonte: teleambiente.it)

Da venerdì gli Stati Uniti fanno nuovamente parte dell’Accordo di Parigi, un trattato internazionale nato nel 2015 a salvaguardia dell’ambiente e con l’intento di contrastare i cambiamenti climatici.

“Un appello per la sopravvivenza giunge dal nostro stesso pianeta, un appello che non potrebbe essere più disperato e più chiaro di adesso.”

Ha affermato l’attuale presidente durante il proprio discorso d’insediamento.

La notizia, anche se ufficializzata solo alcuni giorni fa, è stata annunciata da tempo in quanto rappresenta uno degli obiettivi primari del presidente neo-eletto Joe Biden. Anche tale provvedimento, tra gli altri, appartiene ad una linea di discontinuità rispetto all’amministrazione Trump, che dall’Accordo di Parigi aveva deciso di ritirarsi nel 2017.

Accordo di Parigi, ecco cosa prevede

Firmato da 195 paesi in tutto il mondo e sottoscritto da 190 (compresa l’UE), l’Accordo di Parigi nasce nel 2015 per limitare le emissioni di gas serra e l’aumento della temperatura terrestre entro i +1.5 gradi. A ciò si aggiunga anche l’obiettivo, per ciascun membro, di versare un contributo in denaro all’anno per aiutare i paesi più poveri a sviluppare fonti di energia meno inquinanti.

Limitare l’aumento di temperatura rappresenta un primo passo verso la neutralità climatica, ossia verso un impatto climatico di ciascun paese pari a zero. Particolare attenzione è riservata alle emissioni di carbonio: al momento, USA e Cina sono i due stati che detengono i record di emissioni e per tale ragione sarebbe fondamentale la loro attiva partecipazione all’Accordo.

L’obiettivo più vicino è quello di arrivare a produrre, nel 2030, 56 miliardi di tonnellate di anidride carbonica anziché gli attuali 69 miliardi. Una meta che, si nota bene, può essere raggiunta solo tramite il rispetto degli accordi internazionali.

(fonte: limesonline.com)

L’abbandono degli USA e le sue conseguenze

Eppure, nel 2017, il presidente Donald Trump ha deciso di abbandonare l’Accordo. Non essendo vincolante, ciò non crea particolari problemi, però si tratta di un risultato raggiungibile circa in 4 anni. Ecco perché l’uscita dal trattato è stata ufficializzata solo a novembre 2020, al termine dell’amministrazione precedente.

Le reazioni alla notizia sono state negative, poichè furono proprio gli USA, durante l’amministrazione Obama, a rendere possibile la realizzazione dell’Accordo. Dalla decisione dell’ex presidente Trump, invece, è derivata la possibilità di gestire le proprie emissioni indipendentemente dal trattato.

L’effetto più importante era quello di dare più spazio alle emissioni statunitensi, con un conseguente ribasso del prezzo del proprio carbonio ed un rialzo di quello degli altri paesi. Il simbolico rientro nel trattato si accompagna adesso alla pretesa degli altri membri di un’azione seria e mirata da parte degli USA, che miri a riparare ai tanti anni d’inerzia.

Quali paesi rispettano davvero l’Accordo?

Sebbene il caso degli Stati Uniti abbia fatto, ai tempi, scalpore, bisogna ricordare tuttavia che molti dei paesi aderenti al trattato non lo stanno rispettando. Recente è la constatazione che la Cina, paese col primato di emissioni, non rispetta il trattato invocando la clausola – per molti inappropriata al suo caso – del paese in via di sviluppo. Quest’ultima contempla delle imposizioni più lievi rispetto agli altri paesi. Nel 2019, la Cina ha infatti emesso circa il 29,3% di tonnellate di CO2 al mondo.

Un caso altrettanto recente è quello della Francia, multata per il simbolico valore di 1 euro dopo aver perso un processo intentato dalle ONG ambientaliste contro lo stesso Stato francese. Secondo l’accusa, il progetto di legge sul clima non permetterebbe di raggiungere l’obiettivo di una riduzione di almeno il 40% delle emissioni nel 2030 in rapporto al 1990.

(fonte: valuechina.net)

Il movimento ambientalista Fridays For Future ha denunciato che, di tutti i paesi appartenenti al G20 (Italia compresa), nessuno stia effettivamente rispettando l’Accordo di Parigi. Un rapporto delle Nazioni Unite del 2018 ha evidenziato i problemi della linea seguita dal G20, la quale non permetterà di rispettare le promesse del trattato previste entro il 2030. Dai tempi di Parigi, le emissioni dei paesi del G20 non avevano fatto altro che rimanere in stallo per poi aumentare nel 2017.

Bene, invece, Marocco e Gambia che mirano rispettivamente a convertire il 52% della produzione di energia entro il 2030 ed a ridurre le emissioni del 55% entro il 2025.

Valeria Bonaccorso

Trump assolto dal secondo impeachment. Scoppia la polemica e la frattura repubblicana

Trump dopo la sua assoluzione con la copia di un giornale americano e il titolo “assolto” (fonte: ansa.it)

 

Accusato e assolto, di nuovo. Donald Trump entra nella storia, anche se per una triste motivazione: è stato l’unico, nella storia degli Stati Uniti, ad esser accusato due volte per impeachment e, soprattutto, ad esser stato processato in qualità di presidente non più in carica.

Il processo lampo, durato solo 5 giorni, si è concluso il 13 febbraio.

Nel febbraio del 2020, invece, durante il primo dei due processi, era stato assolto dopo l’accusa di aver ricattato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, nel tentativo di ottenere materiale imbarazzante sull’attuale presidente, Joe Biden.

Una dei manifestanti a favore di Trump, durante l’assalto al Congresso (ansa.it)

Le concitate fasi del processo durato solo pochi giorni

Il Senato ha assolto l’ex presidente, nel secondo processo d’impeachment. Per Trump “è finita la caccia alle streghe”. Ma ovviamente non tutti la pensano così.

L’accusa sosteneva l’influenza di Trump per l’assalto al Congresso del 6 gennaio. Nelle ore immediatamente prima del voto, i Democratici hanno cercato di reclutare testimoni per sostenere la tesi, tra cui la deputata repubblicana Jaime Herrera Butler.

Questa aveva dichiarato di aver parlato con il leader repubblicano della Camera, Kevin McCarty, il quale avrebbe sentito l’ex presidente al telefono durante l’assalto a Capitol Hill, il quale non avrebbe condannato i responsabili.

In risposta, gli avvocati di Trump hanno fatto una forte resistenza e hanno minacciato di aggiungere centinaia di testimoni, tra cui la speaker della Camera Nancy Pelosi, causando l’allungamento di diverse settimane del processo, ipotesi che ha sempre preoccupato Joe Biden.

Nancy Pelosi, speaker della Camera (fonte: usnews.com)

Così democratici hanno fatto un passo indietro, chiedendo che venisse accettata solo la dichiarazione scritta della deputata Herrera.

I sette sì repubblicani per la condanna

Necessari 67 voti per la condanna, corrispondenti ai 2/3 dei 100 senatori giudicanti. Alla fine i “soli” 57 sì, di cui 50 democratici e 7 repubblicani, non sono bastati. Quest’ultimi appartengono all’ala moderata del partito: Mitt Romney, Susan Collins, Lisa Murkowski, Ben Sasse, Patrick Toomey, Bill Cassidy e Richard Burr.

Solo sette, dunque, i membri del partito del tycoon che hanno accolto l’appello dell’accusa: “Ci sono momenti che trascendono l’appartenenza politica e che chiedono di mettere da parte i partiti” aveva detto uno dei manager dell’accusa, Joe Neguse.

43, invece, gli altri repubblicani a favore dell’assoluzione, che hanno impedito, dunque, il raggiungimento del quorum. Fino all’ultimo, non era sicuro quanti di loro avrebbero votato a favore della condanna, unendosi ai dem.

La polemica

Il leader dei senatori repubblicani, Mitch McConnell, dopo aver votato a favore dell’assoluzione, ha comunque continuato a definire Trump “praticamente, moralmente responsabile” per l’attacco a Capitol Hill.

Questo ha spiegato le sue azioni – viste le critiche per il suo iniziale sostegno all’accusa, prima del processo – sostenendo che il Senato non può essere considerato “un tribunale morale”, in potere di condannare l’ex presidente per le sue responsabilità nelle vicende del 6 gennaio, che dovrebbero essere altre le sedi giudicanti, magari in ambito penale.

“Il presidente Trump – ha detto – è ancora responsabile per tutto ciò che fece mentre si trovava in carica. Non si è lasciato dietro nulla.”.

McConnell (fonte: pbs.org)

Ha sostenuto l’incostituzionalità dell’impeachment contro un presidente già decaduto, ritenendo questo solo “principalmente uno strumento per la sua rimozione” e che, dunque, il Senato non avrebbe giurisdizione. Ha sottolineato che “la Costituzione stabilisce chiaramente che i delitti di un presidente commessi nel corso del suo mandato possono essere perseguiti dopo che lascia la Casa Bianca”, intendendo quindi esservi possibilità che le inchieste in corso possano proseguire in altre sedi.

Per i democratici, invece, questo equivarrebbe a dire che Trump sia libero dall’essere per le azioni durante le ultime settimane del suo mandato.

Sembra che condannare Trump, dunque, ai repubblicanii quali hanno abbracciato tutti la linea di McConnellabbia fatto paura. Avrebbe significato mettersi contro suoi potenti sostenitori, oltre che esporsi a “vendette” pericolose per l’esito delle prossime elezioni del Midterm, previste per il prossimo anno. Hanno scelto la via della prudenza, per aspettare che la figura dell’ex presidente diventi in modo naturale sempre meno capace di muovere le fila del partito e per evitare ripercussioni in un momento delicato per la preparazione agli impegni del 2022.

In effetti, sono già iniziate delle vere e proprie purghe nel Grand Old Party, contro, innanzitutto, i repubblicani unitisi ai dem nel processo. Cassidy – uno dei sette – il quale aveva twittato di aver votato per la condanna “perché la nostra Costituzione e il nostro Paese sono più importanti di qualsiasi persona”, è stato oggetto di una mozione di censura da parte della commissione esecutiva del partito repubblicano della Louisiana: “Condanniamo nei termini più duri il suo voto. Fortunatamente menti più lucide hanno prevalso e Trump è stato assolto”, ha reso noto la commissione.

 

Il futuro, le prime dichiarazioni di Trump e i commenti di Biden

Trump potrebbe riprendere il controllo dei repubblicani nel 2024, qualora non vi fossero novità in campo giudiziario. Il partito, invece, rischia un crollo interno.

Una frattura è stata già, in realtà, aperta da una piccola fronda parlamentare e personalità di spicco come l’ex ambasciatrice dell’Onu nominata da Trump, Nikki Haley, che ha già voltato le spalle a quest’ultimo.

Trump, intanto, dopo l’assoluzione, ha diffuso un comunicato stampa in cui ha attaccato i Dem per avere portato avanti quello che, a suo dire, è stato un processo politico. Ha poi concluso dichiarando di esser pronto a tornare in campo:

“Il nostro storico, patriottico e meraviglioso movimento Make America Great Again (rendere l’America di nuovo grande, ndr) è solo all’inizio.”.

“La democrazia è fragile” ha detto, invece, il presidente eletto Biden, ricordando gli avvenimenti dell’assalto al Palazzo del Congresso e commentando il voto al Senato.

“Anche se il voto finale non ha portato a una condanna la sostanza dell’accusa non è in discussione” ha aggiunto. “Questo triste capitolo della nostra storia ci ha ricordato che la democrazia è fragile. Che deve essere sempre difesa. Che dobbiamo essere sempre vigili.”.

 

 

Rita Bonaccurso

Silicon Valley: come la pandemia sta cambiando la culla della tecnologia. Hp e Tesla verso il Texas

Quartier generale di Google. Fonte: https://www.viaggi-usa.it/silicon-valley-california/

La Silicon Valley californiana, culla della tecnologia per eccellenza, si è negli ultimi mesi collocata al centro di un dibattito molto noto e altrettanto antico tra gli esperti di industria tecnologica negli Stati Uniti, circa il suo futuro: riuscirà a rendere la minaccia della pandemia una sfida stimolante? Non sarebbe infatti la prima volta che la regione più innovativa al mondo esce rafforzata da una crisi. Ciononostante, tra gli osservatori c’è chi ritiene che stiamo assistendo al preludio della sua fine.

A consolidare simili previsioni sarebbe un fenomeno di più lungo periodo, riguardante l’inizio di una preoccupante migrazione di note aziende e grandi imprenditori (tra cui Elon Musk) dal polo tecnologico verso il Texas, che sta da tempo emergendo come allettante alternativa.

Il valore della prossimità fisica messo a rischio dalla pandemia

È certamente diffusa la consapevolezza di come l’economia mondiale sia stata messa in ginocchio da un nemico invisibile universalmente riconosciuto sotto il nome di Covid-19 e la Silicon Valley – sede di numerose start-up (imprese emergenti) e società internazionali specializzate in tecnologia – non è rimasta esente da ciò.

La pandemia ha portato con sé la necessità di una riorganizzazione del lavoro, svuotando gli uffici e privilegiando il lavoro dei dipendenti da casa e questo, a detta dei più pessimisti, si traduce in una messa in discussione del modello innovativo propriamente caratteristico di tali aziende. Le preoccupazioni nascono dall’idea che la prossimità fisica tra persone con un certo tipo di conoscenza ed esperienza (imprenditori, programmatori e investitori) rappresenti un valore aggiuntivo in termini di innovazione e produttività, che rischierebbero altrimenti di venir meno.

Politica e opinione pubblica in accordo sulla limitazione della libertà imprenditoriale

Come evidenzia un articolo del ‘’Post’’ risalente a due giorni fa, dall’ultimo studio trimestrale delle società di consulenze NVCA Venture Monitor e PitchBook è stato rilevato un leggero calo nel tasso di investimento del venture capital, vale a dire una forma di investimento ad alto rischio in start-up potenzialmente di successo. Pare inoltre che il modello di sviluppo della Silicon Valley sia minacciato anche sul fronte della politica da Stati Uniti ed Europa, che si mostrano sempre più decisi a ridurre quella grande libertà imprenditoriale che nel ventesimo secolo ha consentito la fortuna della Silicon Valley. Si sta ad esempio pensando ad un’eventuale eliminazione o riscrittura della Sezione 230 del Communications Decency Act, una legge americana che esenta i proprietari dei siti web dalla responsabilità editoriale:

“Nessun fornitore o utente di un servizio informatico interattivo dovrà essere trattato come l’editore o il responsabile di qualunque tipo di informazione pubblicata da un altro soggetto”, recita il testo. 

L’opinione pubblica nei confronti dell’industria tecnologica è altrettanto severa e ritiene che essa abbia <<troppo potere>>.

Dove si trova la Silicon Valley e perché è così famosa?

Silicon Valley è il soprannome che viene geograficamente attribuito alla parte meridionale della regione della baia di San Francisco, in California. L’espressione veniva inizialmente usata per le sole contee di San Mateo e Santa Clara ma, in seguito all’espansione dell’industria in tutta la regione, ha finito oggi con il ricomprendere un’area ben più ampia, città di San Francisco inclusa.

Geografia della Silicon Valley. Fonte: Expedition Earth

Essa deve principalmente la sua fama ai garage, veri e propri rifugi per giovani studenti-ingegneri dalle cui menti scaturirono brillanti idee, le stesse che in poco tempo sarebbero divenute il punto di partenza di tecnologie di cui oggi non sapremmo fare a meno. È in questo modo che nascono infatti le più importanti multinazionali high-tech del pianeta, come Apple e Google. Non deve quindi sorprendere se quest’area della California è continuamente protagonista di film e libri, oltre che meta ambita da imprenditori, come pure da turisti semplicemente curiosi, provenienti da tutto il mondo.

I motivi dei trasferimenti: da Packard a Musk

La pandemia da coronavirus, insieme con i devastanti incendi che ogni anno martoriano la California, stanno contribuendo al peggioramento della qualità di vita californiana e alla conseguente perdita di fascino della Silicon Valley. Non è un caso, quindi, se giganti del settore tecnologico quali Oracle e Hewlett Packard Enterprise hanno di recente lasciato la California per spostare in Texas, più precisamente ad Austin, le loro sedi principali. Ad incidere sulle scelte dei big dell’industria tecnologica il minor costo della vita e politiche fiscali più favorevoli, ragion per cui è possibile supporre che il cambiamento in atto sia stato semplicemente accelerato – e non causato primariamente – dal massiccio uso dello smart working, che rende sempre meno necessarie mastodontiche sedi fisiche.

Anche Elon Musk, il CEO (amministratore delegato) di Tesla e uno degli esponenti più importanti del settore tecnologico americano, si è da poche settimane trasferito nel grande stato meridionale degli Stati Uniti, annunciandolo durante una conferenza organizzata dal quotidiano internazionale ‘’Wall Street Journal’’ , tenutasi lo scorso 9 dicembre.

Elon Musk. Fonte: ilsole24ore.com

Le previsioni negative potrebbero essere azzardate

Malgrado tutto ciò, è bene tenere presente che autorevoli aziende come Google e Apple sono ben radicate nella Silicon Valley con i loro enormi campus e non hanno alcuna intenzione di trasferirsi; così come il presunto fallimento della regione potrebbe essere frutto di un’esagerazione, che non tiene in alcun modo conto della cultura positiva del fallimento come esperienza educativa di un territorio che per ben due volte – nel 2000 e nel 2008 – è riuscito a superare i propri limiti in tempi di crisi. 

Gaia Cautela