USA: approvata in Senato la proposta di legge sulla sicurezza delle armi da fuoco

Il Senato degli Stati Uniti ha dato l’ok alla legge bipartisan che imporrà restrizioni sulla vendita e sul possesso di armi da fuoco per aumentare la sicurezza della nazione.

Il passaggio al Senato e i motivi della richiesta della legge

Dopo decenni di attesa per l’approvazione di una legge significativa sulla sicurezza delle armi da fuoco, martedì è stato approvato il disegno di legge per introdurre alcune restrizioni sulla loro vendita e possesso. 65 sono stati i voti a favore e 33 quelli contrari. La Camera dei rappresentanti non dovrebbe avere problemi ad approvarla. Anche se il presidente Biden, così come i democratici, avrebbe voluto una legge più restrittiva, la Bipartisan potrebbe rappresentare, una volta definitivamente approvata, un grande passo avanti per la sicurezza degli USA.

La proposta di legge, che si chiama “Bipartisan Safer Communities Act”, è stata presentata a seguito di due principali stragi avvenute nel mese di maggio: la prima, la strage di Buffalo, in cui sono stati uccisi dieci afroamericani da parte di un 18enne. La seconda, in Texas, in cui un altro 18enne ha ucciso 19 bambini e due insegnanti in una scuola elementare.

Joe Biden (Fonte: armimagazine.it)

Cosa prevede la proposta di legge

La proposta di legge prevede maggiori controlli per gli acquirenti di età inferiore ai 21 anni, ai quali saranno accertati eventuali precedenti penali e condizioni di salute mentale; 2 miliardi di dollari per i programmi di sicurezza scolastica e 11 miliardi di dollari di finanziamenti per la salute mentale.

Inoltre, il testo contiene finanziamenti per incentivare gli Stati a implementare leggi a “bandiera rossa” per confiscare temporaneamente le armi possedute da persone considerate una minaccia.

La proposta di legge prevede anche un ampliamento del divieto d’acquisto (già in atto) di armi per i condannati per abusi domestici, includendo anche chi ha o ha avuto recentemente una relazione romantica con la vittima. In tal modo, oltre i conviventi o sposati, anche i fidanzati saranno privati dell’acquisto di armi da fuoco.

Oltre ciò, aumenteranno le sanzioni per chi acquista armi per rivenderle illecitamente a chi non ha i requisiti per farlo.

(Fonte: lavocedibolzano.it)

Le posizioni in proposito

I gruppi di attivisti per l’aumento dei controlli sulle armi sono a favore di questa proposta che aspettavano da anni. Chi si esprime a sfavore è la National Rifle Association (NRA), la potentissima organizzazione americana delle armi da fuoco.

Anche Democratici e Repubblicani hanno espresso il proprio parere sulla questione. Infatti, il Leader della Maggioranza (democratica) in Senato, Chuck Schumer, ha dichiarato:

“Stasera il Senato degli Stati Uniti sta facendo qualcosa che molti credevano impossibile anche solo poche settimane fa: stiamo approvando la prima legge significativa sulla sicurezza delle armi da fuoco in quasi 30 anni”.

Mentre il Leader della Minoranza (repubblicana) in Senato, Mitch McConnell, si è così espresso:

“La legge renderà l’America più sicura senza rendere il nostro Paese un po’ meno libero”.

Eleonora Bonarrigo

Presunti incontri segreti tra vertici Ue, Usa e Uk per giungere alla soluzione del conflitto in Ucraina

Sul conflitto Russia-Ucraina alleggia lo spettro delle ultime stime, secondo le quali esso potrebbe protrarsi ancora dai due ai sei mesi. Secondo quanto rivelato dall’emittente televisiva americana Cnn, nelle ultime settimane, si sarebbero svolti diversi incontri segretissimi tra vertici Ue, Usa e Uk, per trovare il modo di mettere la parola fine alla guerra che sta sconvolgendo l’Ucraina e, indirettamente, il resto del mondo.

Il conflitto tra Russia e Ucraina potrebbe protrarsi per altri 2-6 mesi (fonte: ANSA)

Non si sa molto, non sono neanche chiare le modalità a cui si starebbe pensando per arrivare al cessate il fuoco, per portare l’Ucraina a trattare con la Russia. Kiev, però, non sarebbe stata direttamente coinvolta nelle presunte riunioni, nonostante gli Stati Uniti avessero promesso di “non decidere nulla sull’Ucraina senza l’Ucraina”.

Tra le questioni discusse, sarebbe finito sul tavolo anche il piano in quattro punti proposto dall’Italia il mese scorso. Il contenuto di questo documento era stato reso noto dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, al segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.

 

Il contenuto del documento italiano

Il suddetto documento è stato redatto dalla Farnesina e propone un percorso verso il cessate il fuoco, tramite quattro tappe. Di Maio lo aveva fatto avere al segretario dell’Onu, il 18 maggio, a New York, inoltre, anche ai diplomatici dei ministeri degli Esteri del G7 e del Quint (Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia).

Il ministro Di Maio e il segretario Onu (fonte: ANSA)

Ad ideare la proposta è stata la Farnesina, in collaborazione e con la supervisione di Palazzo Chigi, in seguito all’incontro tra il premier Mario Draghi e il presidente statunitense Joe Biden. Il presidente del consiglio italiano aveva, in quell’occasione, ribadito che l’Italia vorrebbe formare un tavolo euroatlantico per discutere delle eventuali opzioni per la guerra.

Il secondo fine sarebbe quello di portarvi, poi, l’Ucraina, lasciandole il ruolo principale nelle trattative. Dunque, ancora una volta, il dialogo tra le nazioni in guerra è ritenuto essere potenzialmente l’unico strumento utile per arrivare davvero alla fine del conflitto.

Il percorso delineato si dovrebbe svolgere sotto la supervisione di un “Gruppo internazionale di Facilitazione”. Le quattro fasi si articolerebbero in: il cessate il fuoco, la neutralità dell’Ucraina, concordare delle decisioni sulle questioni territoriali di Donbass e altre zone come la Crimea, trovare un nuovo accordo multilaterale sulla pace e la sicurezza nel continente Europeo.

Alla prima tappa si potrebbe arrivare tramite dei meccanismi di supervisione e con la smilitarizzazione della linea del fronte. Successivamente – per la realizzazione della seconda tappal’Ucraina dovrebbe dichiarare la sua neutralità a livello internazionale e, modificando il suo status, potrebbe, inoltre, conquistare una condizione che le permetterebbe di poter divenire un membro dell’Unione Europea.

La terza tappa comporterebbe ancor più difficoltà: arrivare a una soluzione che pongano fine alle controversie sui confini tra i due Stati, che vengano poi riconosciuti a livello internazionale, prevedrebbe un grande sforzo e decisioni su vari aspetti, tra cui quella su quale tipo di sovranità instaurare in queste aree. Qualora si arrivasse a tal punto, bisognerebbe anche capire cosa fare in ambito culturale, come regolare i diritti in materia di conservazione del patrimonio storico-culturale.

Il quarto e ultimo punto consisterebbe nel riorganizzare gli equilibri internazionali, elaborando un nuovo accordo multilaterale sulla pace. nel dopoguerra, si dovrebbe arrivare al ritiro delle truppe russe dai territori occupati durante il conflitto, per poi pensare di ritirare le sanzioni adottate contro la Russia.

La pace dovrebbe poi essere costruita su solide basi, prendendo misure come il disarmo e il controllo degli armamenti, per prevenire qualsiasi possibilità di conflitto.

Due esponenti statunitensi avrebbero, però, dichiarato alla stessa Cnn che gli Stati Uniti non sarebbero d’accordo con il piano proposto dall’Italia, nonostante negli scorsi giorni l’ambasciatrice americana, Linda Thomas Greenfield, aveva detto all’Onu che la proposta italiana potrebbe essere davvero una delle pochissime strade percorribili per porre fine alla guerra.

 

La questione del grano e della sicurezza alimentare

A New York, il ministro Di Maio aveva anche riportato l’attenzione sulla problematica del grano. Il tema della sicurezza alimentare era stato affrontato pure dai Paesi del G7, considerando l’iniziativa della Banca Mondiale di stanziare altri 12 miliardi di dollari per prevenire ulteriori disastri. Di Maio ha sottolineato la necessità di “costruire insieme un corridoio sicuro per provare a portare via il grano dal Paese e permettere quindi ai produttori ucraini di esportarlo e riportarlo sul mercato”.

I prezzi del grano hanno subito un rialzo a causa del conflitto, che potrebbe raggiungere picchi più alti di un ulteriore 20%, entro la fine dell’anno. Così, si verificherebbe una perdita d’acquisto sostanziale che colpirebbe anche gli italiani.

«L’Ue con i suoi progetti di cooperazione allo sviluppo ha una grande responsabilità anche perché saremo i Paesi che direttamente subiranno gli effetti di questa insicurezza alimentare».

 

L’intervista di Putin a un’emittente tv russa

Intanto, Putin ha parlato ai microfoni dell’emittente tv pubblica Rossiya 24, affrontando anche il tema delle esportazioni di grano dall’Ucraina. Il presidente russo si è detto pronto a garantire il passaggio tramite anche i porti occupati dalle sue truppe.

«I porti del Mar d’Azov, Berdyansk, Mariupol, sono sotto il nostro controllo. Siamo pronti a garantire un’esportazione senza problemi, anche del grano ucraino, attraverso questi porti – ha dichiarato il leader russo – Stiamo finendo i lavori di sminamento”, ha aggiunto, “il lavoro è in fase di completamento, creeremo la logistica necessaria, lo faremo».

Putin ha assicurato di non voler impedire l’export di grano ucraino, aggiungendo che la crisi alimentare non sia direttamente imputabile alla Russia, accusando anche per questo l’Occidente. Per il presidente, le notizie di un blocco all’esportazioni di grano dall’Ucraina, sarebbe un’invenzione dell’Occidente per coprire gli sbagli fatti proprio dai Paesi occidentali.

Inoltre, ha detto di aver invitato Kiev a rimuovere le mine poste nel territorio ora sotto il controllo russo, per rendere sicure le esportazioni del grano, aggiungendo che di tale situazione la Russia non ne approfitterebbe per sferrare attacchi dal mare.

In ogni caso, al di là delle dichiarazioni fatte dalla Russia e della questione della veridicità degli incontri tra vertici europei, statunitensi e britannici, ciò che più conta è che i protagonisti politici siano d’accordo nel tentare di trovare la via per la pace più corta.

 

 

Rita Bonaccurso

 

Negli USA si continua a morire di armi. Sale il numero delle stragi, uccisi 19 bambini in Texas

Nell’arco di dieci giorni, più di trenta persone hanno perso la vita a causa di tre diverse stragi verificatesi tra lo Stato di New York, il Texas e la California. La prima, il 14 maggio, consumatasi a Buffalo per ragioni razziali; la seconda, in una Chiesa presbiteriana di Irvine nei confronti di alcuni fedeli di origini taiwanesi.

Alcune ore fa, nella città di Uvalde, Texas, un 18enne armato ha fatto irruzione nella Robb Elementary School, uccidendo diciannove bambini e due adulti. L’istituto ospita circa 750 bambini, di cui il 90% di origine ispanica. Mancavano appena due giorni alle vacanze estive. L’uomo, identificato come Salvador Ramos, è stato in seguito ucciso dalla polizia, ma prima di procedere alla carneficina aveva sparato a sua nonna, che è sopravvissuta. Nonostante le prime ricostruzioni, rimane ancora oscuro il movente dell’attentato.

Un Presidente Biden visibilmente scosso ha commentato l’accaduto chiedendo una stretta sulla lobby delle armi, su cui ricadrebbe la colpa di aver bloccato gli iter legislativi delle leggi di sicurezza più severe in fatto di armi, come la cosiddetta H.R.8.

La proposta di legge che giace al Congresso

La H.R.8 (Bipartisan Background Checks of 2021) è un disegno di legge, già passato alla Camera ed in attesa che si esprimi il Senato, che stabilisce nuovi requisiti per il controllo dei precedenti per i trasferimenti di armi da fuoco tra privati (cioè individui privi di licenza). In particolare, vieta il trasferimento di armi da fuoco tra privati a meno che un commerciante di armi, un produttore o un importatore autorizzato non prenda prima possesso dell’arma da fuoco per condurre un controllo dei precedenti.

L’allenatore dei Golden State Warriors Steve Kerr si è espresso a favore dell’approvazione della legge, commentando quanto accaduto negli ultimi giorni: «Sono stanco di venire qui a fare le condoglianze alle famiglie devastate, ne ho abbastanza. Quando faremo qualcosa?»

Quello dell’ostruzionismo della lobby delle armi è un problema molto conosciuto in America, la cui economia si basa in parte anche sul commercio e sul trasferimento delle stesse. La scrittrice e giornalista del The New Yorker Bess Kalb in diversi tweet ha citato alcune delle voci della politica statunitense che hanno espresso cordoglio per le vittime, con… L’ammontare dei finanziamenti da ciascuno ottenuti da parte dell’NRA, la National Rifle Association.

Il problema delle leggi più permissive nel Texas

Quella di martedì è la strage più grave verificatasi sin dal 2012, anno dell’attentato alla scuola elementare Sandy Hook, nel Connecticut, dove persero la vita venti bambini sei adulti. Tipicamente, l’esplodere di queste tragedie come eventi di cronaca riporta l’attenzione del pubblico al dibattito sulle armi, di cui la maggioranza degli americani contrari ne chiede il contenimento, più che l’abolizione. Un dibattito sempre e comunque limitato dalle forze Repubblicane, che hanno sempre promosso il possesso d’armi come strumento di difesa personale e di combattimento al tasso di criminalità.

Lo scorso anno, il governatore texano Greg Abbot ha firmato sette disegni di legge sulla diminuzione delle restrizioni al possesso di armi da parte dei cittadini texani, tra cui il rinomato “trasporto costituzionale”, la H.B 1927 che, a partire da settembre, consente ai texani dai 21 anni in su di portare armi anche senza il rilascio di una licenza statale, a condizione che non siano esclusi dal possesso di un’arma da fuoco da un’altra legge federale o statale. In precedenza, la licenza statale richiedeva, ai fini del rilascio, una formazione, un esame di competenza e un controllo sui precedenti.

(Il governatore Greg Abbot / fonte: flickr.com – Gage Skidmore)

I sostenitori della legge sostengono che «la H.B. 1927 mira a ridurre le barriere al libero esercizio del diritto costituzionale dei texani di portare armi e difendere la propria vita e proprietà».

Gli oppositori (circa il 60% nei sondaggi), tra cui vari sindacati di polizia ed istruttori di armi, affermano che la legge aumenterebbe la violenza armata e i conflitti nei luoghi pubblici ed, inoltre, renderebbe più difficile per la polizia identificare i sospetti dai passanti durante una scena del crimine attiva.

Valeria Bonaccorso

Un patto tra la Cina e le Isole Salomone preoccupa gli Stati che si affacciano sul Pacifico

Negli ultimi anni tra Pechino e Honiara vi è stato un avvicinamento consolidatosi ora dalla scelta delle Isole Salomone di stabilire relazioni diplomatiche ufficiali con la Cina, interrompendo quelle con Taiwan. Il governo delle Isole Salomone ha più volte smentito, ma, martedì 19 aprile, è stato siglato un patto con la Cina, che verrà ratificato nel mese di maggio. L’accordo prevede la creazione di una base cinese nel piccolo Stato per motivi di sicurezza.

I ministri degli Esteri cinese e delle Isole Salomone (fonte: zazoom.it)

Molti abitanti delle isole contrari all’avvicinamento a Pechino

Alla fine del 2021, negozi di proprietà cinese a Honiara, la capitale delle Isole, erano stati vandalizzati e bruciati, mentre cresceva già concretamente l’influenza cinese e un conseguente malcontento tra la popolazione locale.

Lo scorso novembre vi sono state anche delle vere e proprie rivolte, durate tre giorni, che coinvolsero circa 800mila abitanti, contrari all’avvicinamento alla Cina: oltre alla rabbia nei confronti del governo dovuta alle difficoltà economiche aggravate dalla pandemia, vi è la storica rivalità tra gli abitanti dell’isola più popolosa del Paese, Malaita, e quelli di Guadalcanal, dove si trova la capitale amministrativa.

Viste le tensioni, il governo locale chiese successivamente aiuto all’Australia, ma anche a Fiji, Papua Nuova Guinea e Nuova Zelanda, le quali schierarono delle forze di pace. Poi, però, il mese scorso, è trapelata la notizia di una bozza dell’accordo ora raggiunto, a distanza di soli quattro mesi dalle sommosse.

Dunque, molti cittadini sono stati sin dall’inizio contrari alla scelta del primo ministro di stringere legami più stretti con Pechino, dopo aver bruscamente interrotto le relazioni di lunga data con Taiwan. Sembra, così, una scelta non condivisa da molti e più basata su un interesse specifico della capitale Honiara.

Prima di tale firma, la Cina ha combattuto diplomaticamente contro l’opposizione dell’Australia, distante 1500 km dall’arcipelago, e degli Usa. Canberra e Washington avevano provato a ostacolare l’accordo, ma senza successo. La preoccupazione nella scena internazionale scaturisce per la conseguente militarizzazione di un’area per molto tempo innocua al livello delle rivalità mondiali.

Più che un accordo per la sicurezza?

«I ministri degli esteri della Cina e delle Isole Salomone hanno recentemente firmato un accordo quadro sulla cooperazione in materia di sicurezza» ha dichiarato martedì scorso un diplomatico cinese, Wang Wenbin, alla stampa.

Ha definito questa che è stata siglata “una normale cooperazione tra due Paesi sovrani e indipendenti“, aggiungendo che l’accordo sosterrà la “stabilità a lungo termine” delle Isole Salomone.

Il diplomatico cinese Wang Wenbin (fonte: globaltimes.cn)

Le Isole non sono nuove, effettivamente, a momenti di instabilità, avuti in diverse occasioni, per motivi socio-economici e migratori, avuti soprattutto tra il 1998 ed il 2000. A un certo punto, è stato necessario richiedere la presenza di una Missione di Assistenza Regionale (Ramsi), che fu guidata proprio dall’Australia, per ben sedici anni, tra il 2003 ed il 2019.

Però, pare inevitabile notare che l’interesse della Cina sull’arcipelago vada ben oltre che la semplice assistenza nel raggiungimento di una sicurezza e stabilità interna maggiori. Proprio successivamente ai rapporti tra Taiwan e Isole Salomone, la Cina ha iniziato a potenziare i rapporti economici con quest’ultime, aumentando investimenti e coinvolgendole nei progetti legati alla Nuova Via della Seta.

Da alcune analisi, è evidente il dominio cinese ormai sostanzioso in tutti i settori dell’economia delle Isole e della crescente influenza anche sul governo. Inoltre, la Cina reputa indispensabili questi investimenti per dare uno scossone alla propria ripresa dalla pandemia da Covid.

La preoccupazione degli altri Stati

Non deve sorprendere il forte impegno a dissuadere Honiara a formalizzare il patto con Pechino. Esiste, infatti, un’alleanza strategica informale tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti, detta “Quad” nata con lo scopo di arginare l’espansionismo cinese nella regione dell’Asia-Pacifico.

Nelle ultime settimane, l’Australia e gli Stati Uniti avevano infatti intensificato gli sforzi diplomatici per dissuadere le Isole Salomone dall’avvicinarsi alla Cina:

«Crediamo che la firma di un tale accordo rischierebbe di aumentare la destabilizzazione nelle Isole Salomone e di creare un precedente preoccupante per tutta la regione delle isole del Pacifico» ha detto lunedì scorso il diplomatico statunitense Ned Price.

L’amministrazione Biden e il governo australiano avevano anche provato a far qualcosa mobilitando figure politiche e diplomatiche di spicco, senza che ciò abbia portato a risultati. Si era unito al malcontento il primo ministro neozelandese, Jacinda Ardern, che aveva affermato non essere necessario un accordo per la sicurezza delle Isole Salomone, dichiarandosi quindi preoccupata per la conseguente militarizzazione del Pacifico che ne deriva.

Gli Stati Uniti, a febbraio, avevano annunciato la riapertura di un’ambasciata nelle Isole Salomone dopo ventinove anni di non rapporti.

Ora, come ribadito dal consigliere per la sicurezza Jake Sullivan, gli Usa faranno molta attenzione erisponderanno di conseguenza” a un eventuale installazione permanente di una presenza militare “de facto” cinese nelle Isole. Questa la linea che vuole intraprendere la Casa Bianca, resa nota dopo che una delegazione statunitense si è recata nell’arcipelago del Pacifico, per incontrarne il primo ministro.

Già nel 2018, la stampa australiana aveva rivelato a un possibile interesse della Cina a costruire una base militare nelle Isole Vanuato, situate a 1500 miglia dalla costa nord-orientale dell’Australia, in un’area a lungo ritenuta immune alle rivalità tra grandi potenze, anche se la notizia poi non ebbe immediatamente seguito.

Bisogna, inoltre, ricordare un dettaglio assolutamente non trascurabile: la Cina si oppone a qualsiasi riconoscimento dell’identità indipendente di Taiwan, ritenendola parte del proprio territorio. Ora dovrebbe risultare più chiaro il motivo della preoccupazione per questo patto. La “guerra diplomatica” per la supremazia nel Pacifico è già in atto e prevede mosse e contromosse da parte dei contendenti.

 

 

Rita Bonaccurso

Possibile svolta negli Stati Uniti per il caso QAnon: scoperta l’identità dei fondatori

Paul Furber, cinquantacinquenne sudafricano sviluppatore di software e Ron Watkins, trentacinquenne dell’Arizona e imprenditore informatico: sembrano esserci loro dietro la misteriosa figura di mister “Q”, leader della setta complottista e negazionista QAnon. Si è arrivati a questa conclusione grazie a due modalità di indagine diverse e separate: una condotta dalla startup svizzera OrphaAnalytics, l’altra da linguisti computazionali francesi. Entrambi concordano – con un range di probabilità che va dal 93% al 99% – che dietro alle attività di mister “Q” si celi una doppia figura.

Manifestazione legata al movimento QAnon. Fonte: wired.it

QAnon: movimento politico o setta complottista?

Nel 2017, quando un utente col nome di Mister “Q” pubblicò il suo primo post su 4chan – noto sito internet di discussione libera parallelo ai social più usati – si faceva molta fatica a prenderlo sul serio. Le sue affermazioni apparivano talmente tanto estreme e surreali che l’idea di un movimento basato su di esse risultava insensata. La sensazione che si trattasse di una corrente degna di nota si iniziò a percepire durante il periodo elettorale negli Stati Uniti nel 2020. In breve, la setta QAnon vedeva – e vede ancora – in Donald Trump l’unica figura in grado di sconfiggere il male che alberga nella società attuale. Il “nemico” da abbattere per il movimento QAnon ha un nome: Cabal. Tale appellativo, usato spesso dai membri della setta, indica un insieme di personaggi – politici e non – che governano il mondo contemporaneo. Secondo i membri della QAnon, le attività preferite della Cabal sarebbero la pedofilia e il rapimento di bambini al fine di ottenere una “miracolosa sostanza” che permetterebbe l’eterna giovinezza: l’adenocromo. Inutile sottolineare che si tratta di teorie complottiste e senza nessuna evidenza scientifica alla base.

Fotomontaggio di Trump versione arcangelo da parte di un membro di QAnon. Fonte: open.online

Dalle teorie complottiste alle manifestazioni politiche: l’evoluzioni di QAnon

Dopo la vittoria di Biden alle elezioni non si può dimenticare la manifestazione di protesta da parte dei sostenitori di Trump, sfociata poi nell’attacco a Capitol Hill. Una delle figure chiave in quella circostanza fu lo Sciamano, fiero sostenitore e seguace del movimento QAnon. La manifestazione no-vax in Canada, nota come “Freedom Convoy“, è stata organizzata da James Bauder: uomo molto vicino alla setta. Basterebbero questi due esempi per capire come ormai non si tratti più di una serie di casi isolati, confinati nel loro piccolo angolo di mondo virtuale, bensì di un vero e proprio movimento politico estremo che gode di una discreta visibilità e di molto potere sulle masse.

È questo il motivo per cui la cattura dei loro leader assumerebbe un’enorme rilevanza.

Lo Sciamano dell’attacco a Capitol Hill. Fonte: occhionotizie.it

Indagine diversa, stessi risultati

Le autorità americane dopo i vari avvenimenti si erano mobilitate ed indagando avevano ristretto il campo a 13 nomi di possibili leader della setta. Da lì l’indagine è passata nelle mani di due team di ricerca distinti che hanno operato in maniera metodologicamente diversa. L’OrphaAnalytics ha prediletto l’analisi dettagliata dei post di mister “Q” cercando di trovare delle similitudini e delle congruenze con i post dei 13 sospettati; i linguisti computazionali francesi hanno invece addestrato un sistema basato su un’intelligenza artificiale atto a riconoscere i tratti in comune. L’identità dei risultati delle due ricerche dà ancor più credito all’indagine che a questo punto rappresenta un grande passo avanti nella lotta a QAnon.

I 2 possibili mister “Q”. Fonte: open.online

QAnon: ennesima dimostrazione del potere dei media

Tutto è partito con un post su una pagina web semi-sconosciuta ed è arrivato a diventare un vero e proprio movimento politico deviante seguito da migliaia di persone; in grado persino di condizionare gli individui e convincerli a scendere in piazza per ideali a dir poco estremi e surreali. Il caso QAnon non è altro che l’ulteriore dimostrazione del potere dei media che, se usati in maniera errata o a scopi violenti rappresentano una minaccia. Ma fino a che punto un semplice strumento di comunicazione può essere considerato una minaccia? Anche un martello nelle mani di un individuo violento diventa un’arma mortale, ma la colpa non è sicuramente dello strumento, bensì dell’individuo che lo usa.

Francesco Pullella

 

Crisi Ucraina: continua la tensione nel Donbass. Nella notte, colloquio Macron-Putin

La crisi che oppone il Cremlino all’occidente sembra propendere sempre più verso lo scoppio della guerra. Nonostante gli sforzi diplomatici di Macron nelle vesti di paciere, gli Usa lasciano intendere che l’invasione dell’Ucraina non sia più imminente, ma praticamente già avviata. Tuttavia, una luce fioca alla fine del tunnel lascia aperto lo spiraglio della risoluzione diplomatica della crisi che da settimane tiene il mondo con il fiato sospeso.

Gli sforzi di Macron 

Gli sforzi dell’inquilino dell’Eliseo sembrano generare i primi frutti: dopo due telefonate al presidente Putin, l’ultima nella notte appena trascorsa, quest’ultimo sembra aver accettato di partecipare ad un vertice con Joe Biden. Per il momento, nulla è ancora, però, deciso, i due presidenti hanno “accettato il principio” di incontrarsi in un summit.

Tuttavia, nelle scorse ore, il Cremlino ha definito prematura l’organizzazione di un vertice Biden-Putin sull’Ucraina, pur lasciando aperta la possibilità di un incontro tra i leader qualora lo “riterranno opportuno“. Al momento, vi è chiara comprensione sulla necessità di continuare il “dialogo a livello di ministri”. Macron ha, però, sottolineato che il verticesi potrà tenere solo se la Russia non invaderà l’Ucraina“.

Per la preparazione bisognerà attendere questo giovedì, giorno in cui è in programma l’incontro tra il segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken, e il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov. La priorità per la Francia è ristabilire il cessate il fuoco nell’Ucraina orientale, teatro di un conflitto tra l’esercito ucraino e le milizie filorusse.

“Ogni giorno che passa senza guerra è un giorno guadagnato per la pace”

Civili ucraini durante un addestramento militare in una foresta di Kiev (foto Getty, fonte: fanpage.it)

La tensione nel Donbass 

La situazione nella regione del Donbass, controllata dai separatisti filorussi, “è estremamente tesa” e “non c’è alcun segnale di allentamento di queste tensioni“, ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov.

I separatisti accusano le forze di Kiev di avere ucciso due civili, i primi dalla ripresa dei combattimenti nella regione. I civili, secondo le fonti dei ribelli, sarebbero morti in un bombardamento di artiglieria nel villaggio di Pionerskoye, nell’autoproclamata Repubblica di Lugansk, a sette chilometri dal confine russo.

Civili di Donetsk, nel Donbass, diretti nella regione russa di Rostov

Ogni incidente come questo rischia di portare a “conseguenze irreparabili“, continua il portavoce del Cremlino Peskov. Come riporta Repubblica, continuano le evacuazioni nel Donbass. Al momento, circa 61.000 tra donne, anziani e bambini provenienti dall’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, sono arrivati in treno nella città sud-occidentale di Voronezh, in Russia.

La profezia di Boris Johnson 

Il primo ministro britannico Boris Johnson, al momento al centro del party-gate durante il primo lockdown, come riporta la Bbc, in merito alla crisi Ucraina-Russia si è espresso con una profezia catastrofica:

“Il piano della Russia di invadere l’Ucraina porterebbe al più grande conflitto in Europa dalla seconda guerra mondiale.”

Secondo il primo ministro, le prove suggeriscono che “il piano è già iniziato“, ha dichiarato Johnson ai margini della Conferenza sulla sicurezza a Monaco. Basandosi sui dati fornisti dagli 007 britannici e statunitensi, secondo il Premier inglese, Putin addirittura avrebbe già dato il via libera al piano di invasione dell’Ucraina da mettere in atto a un suo ordine. Sempre secondo Johnson, le truppe russe, oltre a entrare in Ucraina da est, attraverso il Donbass, avrebbero pianificato un’invasione attraverso l’alleata Bielorussia e la parte centrale del Paese, con l’obiettivo di arrivare persino alla capitale Kiev.

La lista

Gli Usa sostengono che la Russia abbia una “lista neracontenente l’elenco di persone da uccidere o deportare in caso di invasione dell’Ucraina. L’agenzia stampa Afp sostiene che gli Stati Uniti siano sinceramente preoccupati della conseguenza catastrofica “per i diritti umani che si verificherebbe in caso di attacco all’Ucraina“. Washington sostiene di avere informazioni affidabili, che indicano che le forze russe stanno stilando liste di ucraini da assassinare o inviare in campi dopo un’occupazione militare, ma il Cremlino tramite il proprio portavoce ha definito l’ accusa “menzogna assoluta“.

 

 

Elidia Trifirò 

Crisi Russia-Ucraina: espulso il viceambasciatore americano da Mosca, tensioni fortissime nel Donbass

Le speranze del mondo intero convergono verso una “de-escalationnella crisi Russia-Ucraina. Dei precedenti sviluppi ne abbiamo parlato qui. Ora, passiamo agli ultimi aggiornamenti, i quali sembrano suggerire tutt’altro che passi in avanti, verso una pacifica risoluzione della questione.

Vecchia foto di un incontro tra Biden e Putin, alcuni mesi fa (fonte: startmag.it)

Una mappa con gli obiettivi sensibili in Ucraina

Come gli Stati Uniti continuano a ritenere vicina un’invasione dell’Ucraina, la Russia non crede che gli Usa vogliano aiutare solo a ristabilire l’equilibrio geopolitico. Dopo la smentita della presunta data del 16 febbraio per un attacco, ipotizzata dai primi, l’allarme resta alto per i prossimi giorni.

Dall’Estonia, peraltro, arriva una notizia clamorosa: ci sarebbe una cartina che segnalerebbe i punti sensibili puntati dal presidente russo Vladimir Putin in Ucraina. A dichiararlo il ministero degli Esteri estone, su Twitter: “Sono gli obiettivi individuati dall’intelligence russa che, se neutralizzati, possono interferire con il comando, il recupero e l’approvvigionamento delle forze armate ucraine e l’approvvigionamento energetico dell’Ucraina”.

 

La lettera di Mosca in risposta a Washington e le accuse

Continua, intanto, la corsa della diplomazia: il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha proposto al ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, un ulteriore vertice Usa-Russia.

Mosca, negli ultimi giorni, ha risposto a Washington con una lettera di undici pagine alle pretese degli Usa: il ritiro dei militari statunitensi dall’Europa orientale e dal Baltico e il non avanzamento della Nato a Est, sono per la Russia necessarie per dei passi indietro da parte sua. Quest’ultima si è detta pronta al dialogo con l’Occidente e a una cooperazione con gli Stati Uniti per realizzare “una nuova equazione di sicurezza“. Però, ha anche sottolineato che, dall’altra parte, la Nato stia da tempo ignorando la necessità di mantenere l’area cuscinetto costituita dall’Ucraina, così come gli Stati Uniti, ma anche che l’Ucraina in sette anni non abbia rispettato gli accordi di Minsk.

«È stata ignorata – accusa Mosca – la natura del pacchetto delle proposte russe, da cui sono stati estrapolati deliberatamente argomenti convenienti che, a loro volta, sono stati distorti per creare vantaggi agli Stati Uniti e ai loro alleati.».

 

 

Il ritiro delle truppe russe: gli Usa non ci credono e ricordano a Mosca il rischio di sanzioni

Il 15 febbraio, il presidente russo ha incontrato, presso il Cremlino, il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Quest’ultimo ha dimostrato una grande apertura al dialogo e ha dichiarato che la sicurezza dell’Europa “non può essere costruita contro la Russia ma in cooperazione con la Russia”. Il leader russo si è detto contento di questa apertura, ma ha ribadito che la Russia non crede che l’Ucraina rinuncerà effettivamente al suo ingresso nella Nato.

Finalmente, in seguito all’incontro, Putin ha dichiarato chiaramente di aver autorizzato l’inizio del ritiro delle truppe dal confine, assicurando di non volere la guerra. Eppure, la Nato ha espresso ancora dubbi su una reale de-escalation.

Putin ha voluto dare un segnale di distensione con il ritiro, pur insistendo nelle sue richieste. Anche da parte sua la diffidenza è tanta. Gli Usa non hanno dichiarato chiaramente di non voler entrare a Kiev.

Dalla Casa Bianca sono poi giunte voci di una forte diffidenza al riguardo, secondo le quali la ritirata non sarebbe avvenuta, anzi, che sarebbe stato predisposto lo schieramento di altri 7mila militari russi e la costruzione di un ponte galleggiante in Bielorussia, a 6-7 km dalla frontiera ucraina. Il ponte, successivamente smantellato, non è ancora chiaro se sia stato costruito dalla Russia o dai suoi alleati nella regione.

Immagini satellitari del ponte, poi smantellato, come dimostrano successive acquisizioni (tg24.sky.it)

Il presidente americano Joe Biden continua a dirsi pronto a qualsiasi eventualità, anche ad a ricevere cyber-attacchi. Con tono duro ha avvertito chiaramente la Russia delle sanzioni che verrebbero applicate contro di essa, in caso di invasione dello Stato confinante:

«Se la Russia attacca l’Ucraina, sarà una guerra frutto di scelta. Le sanzioni sono pronte».

 

Espulsione del viceambasciatore americano da Mosca

Nella giornata di ieri, 17 febbraio, la via diplomatica si è fatta più difficilmente percorribile. La Russia ha espulso il viceambasciatore americano a Mosca, Bart Gorman.

Questo ha spinto ancor di più Biden verso la convinzione di un attacco imminente e ha aggiunto altre dichiarazioni forti: la Russia starebbe cercando un alibi falso per giustificare l’invasione dell’Ucraina, potrebbe stare architettando persino “un’operazione sotto falsa bandiera” (“false flag“). Blinken sostiene che potrebbe inventare attacchi terroristici, inscenare attacchi con droni contro i civili o attacchi con armi chimiche – ma anche compierli veramente – rivelare false fosse comuni, nonché convocare teatralmente riunioni di emergenza per rispondere a operazioni sotto falsa bandiera e poi cominciare l’attacco contro obiettivi già identificati e mappati.

 

La grave situazione in Donbass potrebbe divenire il casus belli

Cartina del Donbass (fonte: Wikipedia)

A sostegno delle accuse, gli americani avevano fatto circolare anche un documento all’Onu in cui la Russia rievocacrimini di guerra” e un “genocidiocontro la popolazione russofona del Donbass. In questa regione ormai indipendente, sul confine russo-ucraino, ieri, è stato condotto un attacco ad un asilo, da parte dei separatisti filo-russi. Ferite due maestre, ma nessuna vittima e nessun bambino colpito. Poi intorno alle 10.25 di mattina, durante il bombardamento del villaggio di Vrubivka, un colpo è stato sparato nel cortile di un liceo.

L’asilo colpito durante le tensioni con i ribelli filo-russi (fonte: www.cbsnews.com)

Nelle ultime ventiquattro ore, ci sarebbero state sessanta di violazioni al cessate il fuoco da entrambe le parti. Si credeva che quello potesse essere la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso. La regione, in passato, fu teatro dello scontro tra russi e nazisti durante la Seconda guerra mondiale, poi zona sempre sotto controllo da parte di Kiev per le tensioni createsi da quando essa si è dichiarata, nel 2014, unilateralmente indipendente dall’Ucraina, e i separatisti costituirono la Repubblica Popolare di Doneck e la Repubblica Popolare di Lugansk.

 

Tutti, compresa l’Italia, lavorano a un incontro tra Putin e Zelensky

Nelle suddette undici pagine, Mosca, oltre a dimostrarsi aperta alla collaborazione, ha rimarcato anche la sua fermezza in un vero e proprio aut aut:

«In assenza della disponibilità da parte americana a concordare garanzie giuridicamente vincolanti della nostra sicurezza, la Russia sarà costretta a rispondere, anche attuando misure di natura tecnico-militare.».

La prossima settimana si svolgerà in Europa un altro vertice. Prenderà parte anche il premier italiano Mario Draghi, che di ritorno dal Belgio, ieri ha dichiarato con preoccupazione: “Per il momento episodi di de escalation sul terreno non si sono visti”.

«L’obiettivo – ha detto il presidente del Consiglio- è ora far sedere al tavolo il presidente russo Vladimir Putin e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. L’Italia sta facendo il possibile per sostenere questa direzione».

L’Italia ci tiene al sostegno della diplomazia. Non solo la classe politica, nelle persone di Draghi e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ma anche i cittadini sono molto preoccupati. La Comunità di Sant’Egidio ha persino promosso delle manifestazioni in strada, a Roma, contro la possibilità della guerra, poiché in tal caso, a rimetterci, come sempre durante le guerre, è soprattutto la gente comune.

Corteo manifestazione promossa dalla Comunità di Sant’Egidio. Striscioni “No war” (Fonte: rainews.it)

 

Rita Bonaccurso

Maneskin: dalla strada fino al tetto del mondo

Dopo un’annata di record e premi, ieri sera alla prima serata di Sanremo 2022 hanno fatto ritorno i Maneskin, aprendo il Festival con il loro stile, infiammando il palco di quell’Ariston che ha dato il via alla loro ascesa. “I pischelli de Roma” sono tornati con la loro grinta, il loro anticonformismo e la voglia di rompere gli schemi, esibendosi sulle note di Zitti e Buoni e Coraline, emozionandoci e rendendoci fieri di essere italiani. 

I Maneskin trionfanti a Sanremo 2021. Fonte: dilei

Bohemian Rhapsody con la sua favola bhoeme ci aveva incantato; come dimenticarsi poi di Brown Sugar, Purple Rain, Dream on, All You Need Is Love? Sono tutte canzoni che hanno fatto la storia e creato leggende. Chi non vorrebbe tornare indietro nel tempo e partecipare a un concerto di Jimi Hendrix, Elvis, Bee Gees,Led Zeppelin, Pink Floyd o partecipare al festival di Woodstock, il primo grande raduno rock della storia? 

Il rock aveva raggiunto il proprio apice tra colori psichedelici e rivolte a suon di chitarra. La trasgressione era la prima regola per infrangere l’ordinario. Ma signori e signore, vi sbagliate se credete che il rock è morto, perché non lo è. Piuttosto in Italia, negli ultimi anni, è stato poco considerato. Abbiamo band come Lacuna Coil,  Afterhours e tanti altri, gruppi che hanno avuto successo anche al di fuori del nostro Paese.

Ma solo un gruppo italiano finora è riuscito a raggiungere la fama mondiale e si tratta dei Maneskin, che con la loro grinta giovanile sono arrivati sul tetto del mondo.

I Maneskin in un’illustrazione di @rdmdesign. Fonte: Instagram

Ma da dove inizia la loro storia? I Maneskin sono una rock band fondata nel 2015, il cui nome in danese vuol dire “chiaro di luna”. Come ogni artista che si rispetti, il gruppo romano comincia a esibirsi  per le strade della città eterna, dilettando i passanti con la propria musica (chissà quanti hanno avuto l’onore di vedere i quattro ragazzi, quando ancora erano dei “normali” adolescenti!). Dopo qualche anno, decidono di partecipare ai provini dell’undicesima edizione di X-Factor (2017), superando le selezioni e classificandosi al secondo posto (niente vittoria per questa volta!). Da lì in poi per il gruppo inizierà la propria scalata. La band, infatti, dopo pochi mesi apparirà in televisione e nelle radio. 

Da Sanremo all’ Eurovision

 Sono la band del momento: da Sanremo fino agli Stati Uniti, la loro musica sta raggiungendo un sacco di record. Dopo la vittoria al 71° Festival della Canzone Italiana col brano Zitti e Buoni, i Maneskin sembrano non fermarsi arrivando primi in tutte le classifiche. Il successo planetario arriva però con l’ Eurovision, dove si aggiudicano il primo posto. Da lì in poi per la band romana inizierà il “sogno rock”.

I Maneskin trionfanti all’Eurovision Song Contest 2021. Fonte: metalskunk.com

Il sogno italiano” in America

Damiano e i suoi compagni finora hanno venduto più di due milioni di singoli: un successo eccezionale che li ha portati negli Stati Uniti come special guest al concerto dei Rolling Stones, dando loro l’onore di stare accanto a delle leggende. Ma non è finita mica qui!

La band è stata ospite di show americani come The Ellen De Generes Shows, Saturday Night Live e nel “salotto” più famoso degli States ( Jimmy Fallon infatti li ha voluti al suo talk-show). I Maneskin si sono candidati agli American Music Award 2021, dove si sono esibiti sulle note di Beggin– conquistando la prima posizione nella classifica US Rock Airplay e rimanendo al primo posto per 10 settimane. Hanno portato a casa sei dischi di diamante, centotrentatre dischi di platino, trentaquattro dischi d’oro, 4 miliardi e 300 milioni di streaming. E per ultimo, ma non meno importante, è stata annunciata la loro partecipazione al Coachella: saranno la prima band rock italiana a suonare al famoso festival californiano.

 

I Maneskin assieme a Mick Jagger. Fonte: Cosmopolitan

I Maneskin vanno riconosciuti non solo per la loro musica e il loro talento, ma anche per come espongono la loro arte. Infatti i ragazzi nei loro show portano ciò che in Italia pochi osano, l’essere alternativi con la provocazione, ma sempre rispettando il prossimo. Un po’ come fece la mitica Loredana Bertè, che nel lontano 1986 si presentò al festival di Sanremo con col pancione finto , esibendosi con la sua grinta da rockettara. Molti la giudicarono per l’errore commesso, ma per lei fu una sorta di performance a favore dei diritti delle donne. La stessa cosa vale per i Maneskin, che con il loro stile provocano il pubblico, andando ad abbattere le barriere di un tradizionalismo che l’Italia si porta ancora dietro. 

“E farà male il dubbio di non essere nessuno, sarai qualcuno se resterai diverso dagli altri”

                                                                                                     Alessia Orsa

Rivolta in Kazakistan: adesso è repressione a guida del Cremlino. Ecco cosa sta succedendo in Asia centrale

Fonte: it.notizie.yahoo.com

Le prime due settimane di gennaio iniziano con una forte tensione in Asia centrale: una protesta del gas, cominciata il giorno di Capodanno in Kazakistan, si è rapidamente trasformata in una rivolta – tutt’ora in corso – contro l’oligarchia al potere, effetto di una più ampia lotta tra fazioni dell’élite del Paese.

Nel giro di pochi giorni le manifestazioni sono dilagate in tutto il Kazakistan, provocando un preoccupante numero di morti, feriti e arresti, e mettendo in difficoltà il regime di Kassym-Jomart Tokayev, che grazie all’aiuto militare della Russia è riuscito a reprimere gran parte delle rivolte.

Dura la reazione da parte degli Stati Uniti, mentre l’Ue si mostra neutrale con l’invito alla responsabilità delle parti. Il tutto nell’incertezza di eventi accompagnati dal blackout nazionale di Internet.

Proteste in tutto il Paese

L’aumento delle tariffe del gas – e in particolare del Gpl – annunciato nei giorni precedenti dal presidente Tokayev si è presentato come il casus belli perfetto di una rivolta che, a dire il vero, era nell’aria già da un po’ di tempo a causa dell’insofferenza nei confronti di un intero sistema fondato e guidato per un trentennio dall’ex presidente Nursultan Nazarbayev.

Nazarbayev si era dimesso nel 2019, ma da allora ha comunque continuato – fino a prima della rivolta – ad esercitare un forte controllo sul Paese in quanto presidente del Consiglio di sicurezza e “Leader della nazione”.

Le prime proteste hanno avuto inizio nel Mangystau, principale provincia petrolifera affacciata sul Mar Caspio, seguita da Almaty (cuore economico del Paese) ed estesesi poi a macchia d’olio in tutto il territorio kazako.
Stando ai bollettini più recenti, le vittime ufficiali sfiorerebbero quota 200, migliaia di manifestanti sarebbero stati incarcerati e, secondo la televisione di stato, uccisi 16 poliziotti e altri 1.300 sono rimasti feriti.

Fonte: euronews

Internet assente

È impossibile dire con precisione quale sia il bilancio delle violenze anche a causa di un blocco quasi generale di internet e della rete dei telefoni cellulari iniziato il 4 gennaio, che ha improvvisamente riportato il Kazakistan ai primi anni ’90.

Ciò sarebbe dovuto al provider Internet Kazakhtelecom che ha disabilitato l’accesso alla rete in tutto il paese e alle interruzioni dei maggiori operatori di telefonia mobile Kcell, Beeline e Tele2. I siti di notizie locali non sono disponibili.

Fonte: newsmeter.in

Si tratta di un’interruzione accertata anche dal servizio britannico NetBlocks, che monitora lo stato della rete in tutto il mondo, il quale sostiene che le interruzioni a livello della rete non possono essere aggirate, nemmeno con l’aiuto di un software speciale o di una VPN:

«Il Kazakhstan sta attualmente vivendo un blackout di Internet a livello nazionale dopo una giornata di interruzioni di internet mobile» e altre «restrizioni parziali», ha affermato l’ong, annunciando che questo «potrebbe limitare gravemente la copertura delle proteste antigovernative che si stanno intensificando», ha denunciato qualche giorno fa il gruppo di monitoraggio su Twitter.

È certo che questo accaduto porta con sé delle conseguenze che dipenderanno soprattutto dalla durata del blackout, ancora non del tutto chiara.

La missione in Kazakistan

Al momento la situazione nei maggiori centri urbani sembra essere relativamente più calma, chiara conseguenza dell’intervento di 2.500 militari provenienti da un’alleanza di Paesi guidati dalla Russia.

È la prima volta che la “Collective Security Treaty Organization” (CSTO), nella sua storia, autorizza l’invio di truppe nei territori di un Paese membro: di fronte al precipitare della crisi, al presidente Tokayev non è rimasto che proclamare lo stato d’emergenza su tutto il territorio nazionale e ricorrere all’aiuto di Putin per fermare le agitazioni.

Così, in un comunicato, il governo kazako ha scritto che varie «infrastrutture strategiche» ora sono sotto il controllo della forza militare inviata dalla Russia, la quale ha in particolare contribuito a riprendere il controllo dell’aeroporto di Almaty, occupato fino ad allora dai rivoltosi.
Il comunicato di un altro collaboratore del presidente ha per giunta criticato i media occidentali per aver dato «la falsa impressione che il governo kazako abbia colpito manifestanti pacifici».

Fonte: geopolitica.info

Lotta tra fazioni politiche

Intanto che la repressione infuria in Kazakistan, lo scorso sabato il governo kazako ha annunciato l’arresto di Karim Massimov, ex primo ministro e leader del Comitato per la sicurezza nazionale.
Accusato di tradimento e di aver fomentato le rivolte, Massimov era una delle persone più potenti del Kazakistan e stretto alleato dell’ex presidente Nursultan Nazarbayev.

Anche Nazarbayev, come già detto, pur avendo lasciato la presidenza manteneva il controllo informale sugli apparati di sicurezza del paese. Eppure, è stato costretto a dimettersi da ogni incarico pubblico al momento dello scoppio delle rivolte, e lo stesso è avvenuto con altri suoi importanti alleati politici.
Ciò ha spinto molti analisti a pensare che dietro alle rivolte ci sia stata una più ampia lotta per il potere tra la fazione politica fedele a Tokayev e quella fedele a Nazarbayev.

La dottrina Putin

A condurre ora il gioco del Paese (dove la minoranza russa è consistente) è quindi il Cremlino, che ha imposto un’interpretazione forzata dell’articolo 4 del Trattato di cooperazione sulla sicurezza, secondo cui un’aggressione militare giustifica l’intervento di forze congiunte, e riadattando le norme alle circostanze di una serie di rivolte qualificate come aggressione di bande terroristiche formatesi all’estero:

«La dottrina Putin è ormai consolidata nella tolleranza zero nei confronti di tutte quelle che una volta erano state chiamate rivoluzioni colorate, che hanno interessato appunto diverse repubbliche ex sovietiche rette dalla caduta del Muro da ex funzionari del Partito comunista: Georgia, Ucraina, Kirghizistan, Azerbaijan, Bielorussia. Putin non tollera più nel suo tentativo di ricostruire la grande Russia sovietica alcun tipo di richiesta di democratizzazione che possa allontanare questi Stati dalla sfera di influenza di Mosca», ha spiegato il sociologo Massimo Introvigne.

Le posizioni di Usa e Ue

L’occidente intanto segue dall’esterno la vicenda restando vigile sui fatti, specialmente gli Stati Uniti, il cui portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha detto che essi “sorvegliano” per verificare eventuali abusi dei diritti umani da parte delle truppe russe in Kazakistan:

«Gli Stati Uniti e il mondo intero monitorano tutte le eventuali violazioni dei diritti umani e sorvegliano anche eventuali azioni che possano gettare le basi per una presa di controllo delle istituzioni del Kazakistan».

Fonte: middleeastmonitor.com

Mentre l’Unione europea mantiene una posizione neutrale, come si evince in una nota del portavoce dell’Alto rappresentante Ue per la Politica estera, Josep Borrell:

«Invitiamo tutti gli interessati ad agire con responsabilità e moderazione e ad astenersi da azioni che potrebbero portare a un’ulteriore escalation di violenza».

L’Europa, insomma, sta seguendo da vicino gli sviluppi, precisando che:

«Il Kazakistan è un partner importante per l’Unione europea e contiamo sul fatto che mantenga i suoi impegni, tra cui la libertà di stampa e l’accesso alle informazioni online e offline».

Gaia Cautela

Il Nicaragua cessa i rapporti con Taiwan e si avvicina sempre di più alla Cina

Giovedì il ministro degli Esteri del Nicaragua, Denis Moncada Colindres, ha annunciato l’interruzione dei rapporti diplomatici con Taiwan e l’avvio di relazioni ufficiali con la Cina. Tre ore dopo, il Consiglio di Stato cinese ha dichiarato che i due Paesi hanno firmato a Tientsin un comunicato univoco sulla ripresa dei loro rapporti diplomatici.

Il Paese centramericano ha rilasciato un breve comunicato in cui ha citato la politica di Pechino conosciuta come “Una Cina, due sistemi“:

Il governo della Repubblica di Nicaragua oggi romperà le proprie relazioni internazionali con Taiwan e cesserà ogni contatto o relazione ufficiale. Il governo della Repubblica Popolare Cinese è l’unico governo legittimo che rappresenta l’intera Cina e Taiwan è parte inalienabile del territorio cinese.

Taiwan, isola indipendente ma rivendicata dalla Cina come parte integrante del suo territorio, si è espressa con «dolore e rammarico» nei confronti della decisione, affermando che Ortega ha tradito l’amicizia tra le popolazioni di Taiwan e Nicaragua. I due paesi, infatti, durante la Guerra Fredda, erano uniti dalle convinzioni anti-comuniste dei loro Stati autoritari monopartitici, guidati rispettivamente da Chiang Kai-shek e dalla famiglia Somoza.

L’ambasciatore cinese per le Nazioni Unite, Zhang Jun, ha affermato in un tweet che «il principio “Una Cina, due sistemi” è stato ampiamente accettato dalla comunità internazionale e non può essere messo in discussione».

Foto dell’incontro tra l’ambasciatore cinese e nicaraguense, fonte: aljazeera.com

Taiwan e il difficile percorso verso l’indipendenza

I rapporti estremamente tesi tra la Cina e Taiwan risalgono al 1949, quando a Taiwan si rifugiò il governo nazionalista cinese sconfitto dall’insurrezione comunista guidata da Mao Zedong dopo una lunga guerra civile. Da allora e fino al 1987 Taiwan si era trovata sotto legge marziale ed era stata guidata dal Kuomintang, partito formato da esuli cinesi. La Cina rimase dunque per lungo tempo divisa in due: un governo alleato e riconosciuto dall’Occidente relegato sull’isola di Taiwan, e il governo del Partito comunista a guidare tutto il resto del paese.

Le cose cambiarono a partire dagli anni Settanta quando il governo comunista di Pechino iniziò ad essere riconosciuto da più Stati. Ciò comportò un sempre minore riconoscimento a Taiwan con l’espulsione da organizzazioni internazionali. Tra queste anche l’ONU, di cui non fa più parte dal 1971. Ogni richiesta avanzata finora dal governo taiwanese di essere riammesso nell’organizzazione è stata bloccata dall’opposizione della Cina che, in sede di Consiglio di Sicurezza, detiene il potere di veto in quanto membro permanente del Consiglio.

Dopo un breve periodo come membro dell’Assemblea Mondiale della Sanità (AMS), organo legislativo dell’OMS, durante il quale al governo di Taiwan era salito un governo meno ostile alla Cina, Taiwan è stata completamente tagliata fuori dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Con l’esplosione della crisi pandemica da coronavirus, molte richieste da vari Stati (come Giappone, Canada, Nuova Zelanda) sono state avanzate per permettere al Paese di far parte quanto meno dell’AMS, incontrando sempre e comunque il rifiuto della Cina, che ha definito i tentativi di Taiwan di parteciparvi un «complotto politico».

Le recenti mosse di Xi Jinping

Alcuni mesi fa, il presidente cinese Xi Jinping è tornato a parlare di «riunificazione» con Taiwan nonostante qualche tempo prima avesse detto di voler «distruggere completamente» ogni tentativo di indipendenza dell’isola. Inoltre, le azioni bellicose della Cina nei confronti di Taiwan si sono fatte più intense e provocatorie, a tal punto che pare che da circa un anno gli Stati Uniti stiano addestrando l’esercito di Taiwan per resistere a un eventuale attacco. Un’eventualità che secondo il ministro della Difesa taiwanese potrebbe verificarsi entro il 2025.

Xi ha detto di puntare a instaurare a Taiwan il principio “una Cina, due sistemi”, su cui si basa anche il complicato rapporto tra Cina e Hong Kong.

Il presidente nicaraguense Daniel Ortega, fonte: reuters.com

Il gesto del Nicaragua come provocazione agli USA

Fonti attendibili taiwanesi hanno comunicato a Reuters che la tempistica dell’interruzione delle relazioni diplomatiche sarebbe stata provocatoria, in quanto giunta durante la partecipazione della stessa Taiwan al Summit per la Democrazia dell’amministrazione Biden. Interpellati sul caso, gli Stati Uniti hanno affermato che «la decisione non riflette le vere intenzioni del popolo del Nicaragua per via della “farsa” messa in atto alle elezioni del 7 novembre, tenutesi  in seguito alla pesante repressione di ogni realistica concorrenza ed incarcerazione degli opponenti politici».

Il Nicaragua si trova infatti da 14 anni sotto il regime autoritario del Presidente Daniel Ortega e del suo vice Rosario Murillo. I due sono stati protagonisti di una lunga e sanguinosa storia politica e non sono poche le accuse di voler trasformare il Paese in uno Stato di polizia con lo scopo di imporvi un controllo dinastico.

Fino ad alcuni anni fa, i paesi che riconoscevano Taiwan come stato indipendente e legittimo erano 21 ma con la recente presa di posizione nicaraguense il numero è, ad oggi, calato a 14 (13 più il Vaticano).

Valeria Bonaccorso