Ucciso dai talebani il leader dell’Isis-K che pianificò l’attentato all’aeroporto di Kabul

I talebani hanno ucciso il leader dell’Isis-k, fazione dell’Isis attiva in Afghanistan, che ideò e pianificò l’attentato terroristico suicida all’aeroporto di Kabul del 26 agosto 2021. Talebani e Isis sono in guerra da tempo e spesso si scontrano, soprattutto da quando le forze armate americane hanno lasciato l’Afghanistan.

È ciò che riporta il New York Times, che attraverso diverse fonti ha dichiarato che l’Intelligence americana afferma senza dubbio che la mente dietro l’attacco all’aeroporto di Kabul è stata uccisa.

Uccisione del leader dell’Isis-k

Secondo l’Intelligence americana l’uccisione sarebbe avvenuta nei primi di aprile durante un’operazione dei talebani in Afghanistan. L’addetto stampa del Pentagono, il generale Patrick Ryder, ha voluto precisare che gli Stati Uniti non sono stati coinvolti, in alcun modo, in questa operazione.

Le autorità americane però, non hanno comunicato il nome del leader. Il portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale, John Kirby lo ha definito “solo” come: “La mente dell’orribile attacco” dichiarando in un comunicato:

Era un leader chiave dello Stato islamico che non sarà più in grado di pianificare o compiere attentati

Si ricorda che fra le vittime dell’attentato c’erano 13 militari americani.

Non sono stati forniti neanche i dettagli dell’operazione.  Infatti, non si conoscono le dinamiche del fatto, in particolare: se è stato ucciso in un attacco mirato o se è morto in uno scontro armato tra i due gruppi.

L’Amministrazione Biden sta chiamando le famiglie delle 13 vittime americane, uccise nell’attentato suicida a Kabul, per comunicare loro ciò che è avvenuto.

Non ci hanno dato il suo nome, non mi hanno riferito i dettagli dell’operazione

Ha dichiarato Darin Hoover, padre del marine Taylor Hoover, vittima dell’attentato. Molto amareggiato ha inoltre dichiarato che la morte dell’assassino di suo figlio porta poco conforto e che lui e sua moglie hanno trascorso l’ultimo anno e mezzo piangendo, pregando e chiedendo giustizia sottolineando la responsabilità dell’amministrazione Biden nella gestione del ritiro.

Ma cosa era accaduto nell’agosto del 2021?

Attentato Terroristico suicida del 26 agosto 2021

 

Immagine tratta da un video rilasciato dal Dipartimento della Difesa che mostra i marines statunitensi all’aeroporto di Kabul prima dell’attentato. Fonte: New York Times

Nell’attacco suicida compiuto il 26 agosto 2021 all’aeroporto di Kabul alle 17:50 ora locale, furono uccise più di 180 persone, fra cui : civili, militari statunitensi e membri dei talebani.

L’attentato avvenne dopo pochi giorni dalla riconquista del potere da parte dei Talebani in Afghanistan. Proprio per questo l’aeroporto era pieno di persone che cercavano di scappare dal paese dopo il ritiro delle forze armate americane. Stati Uniti e Regno Unito avevano cercato di avvertire i propri cittadini di stare lontano dall’aeroporto perché alto era il pericolo di attentati ma la disperazione, delusione e paura per quanto stava accadendo era troppa. L’attacco fu compiuto da un attentatore che si fece esplodere accanto a Abbey Gate, l’accesso dell’aeroporto del lato orientale. L’attentatore venne poi identificato: Abdul Rahman Al-Logari. L’atto venne subito rivendicato dall’Isis-K.

Qui il video con le immagini dei momenti successivi all’esplosione:

https://www.rainews.it/video/2023/04/casa-bianca-la-mente-dell-attacco-aeroporto-kabul-ucciso-dai-talebani-e0d11e75-ee57-4dd8-bf13-e179c6619c38.html

Critiche all’Amministrazione Biden

Molte sono le critiche mosse nei confronti dell’Amministrazione Biden a seguito del ritiro delle truppe americane. Nell’agosto del 2021, dopo tale decisione, il Presidente USA ha dichiarato:

 “La nostra missione in Afghanistan non è mai stata pensata per costruire una nazione“ rispondendo alle critiche sul ritiro delle forze armate americane dopo vent’anni in Afghanistan. Ha inoltre riconosciuto che l’Afghanistan è caduto “ più rapidamente del previsto” ma dichiara di non essersi pentito della sua scelta.

  “Sono profondamente rattristato da ciò che stiamo affrontando, ma non sono pentito della decisione. Io non posso e non chiederò ai nostri soldati di combattere una infinita guerra civile in un altro Paese”.

Ciò che è stato criticato non riguarda solo la decisione in quanto tale, affermando come siano stati sottovalutati tutti i rischi ad essa connessi ma anche la gestione e le modalità del ritiro.

Dopo pochi giorni da queste dichiarazioni si è verificato l’attentato all’aeroporto di Kabul.

A seguito del ritiro delle truppe americane tutto il mondo assiste ad una continua violazione, repressione, soppressione dei diritti umani. Le donne afgane, la popolazione afgana vive un incubo senza fine.

 

Marta Zanghì

Strage a Nashville, 28enne spara all’interno di una scuola elementare

Audrey Elizabeth Hale di anni 28, ex studente transgender, ha fatto irruzione nell’istituto elementare presbiteriano Covenant School uccidendo tre bambini e tre adulti. Hale aveva frequentato in passato tale scuola e, secondo le indagini, aveva pianificato nei dettagli il massacro. L’ennesima strage all’interno di una scuola che porta, ancora una volta, in alto il dibattito sul possesso delle armi negli Stati Uniti. La 129/a dall’inizio dell’anno, oltre una al giorno da gennaio.

Ricostruzione dei fatti

Lunedì, verso le 10 del mattino, l’ex studente dell’istituto Audrey Elizabeth Hale, irrompe all’interno di una scuola elementare cristiana; frantuma il vetro dell’entrata laterale e fa il suo ingresso. Ha con sé due armi d’assalto e una pistola, indossa gilet, pantaloni militari e un cappellino rosso, in base alle immagini fornite dalle telecamere di sicurezza. Con sè, anche le mappe dell’edificio. Un attacco di 14 minuti, poi la prima chiamata di soccorso alle 10:13 e la conclusione alle 10:27, con la morte di Hale ad opera della polizia. Le vittime sono tre bambini di 9 anni, un supplente, un amministratore della scuola e un custode.

 Penso che i genitori di Audrey siano scioccati come tutti noi nel vicinato. Non c’è nulla che mi avrebbe mai portato a pensare che sarebbe stato capace di un gesto simile o che la sua famiglia avesse accesso a una pistola.

Ha dichiarato un vicino di casa ad alcuni media americani.

Le indagini

Fonte: Rainews

La Polizia ha dichiarato che Hale non aveva precedenti penali e che l’attacco è frutto di premeditazione: ha studiato nei dettagli le piantine e le mappe della scuola. Il movente? Secondo gli inquirenti, il soggetto provava un forte risentimento nei confronti della scuola per essere stato costretto a frequentare una scuola cristiana dove probabilmente non si è mai sentito accettato identificandosi come transgender.  Dai primi accertamenti, le armi erano state ottenute legalmente, quanto meno due su tre. Hale è stata identificato per mezzo della sua auto posteggiata vicino alla scuola.

A seguito di una perquisizione è stato ritrovato un disegno minuzioso della mappa della scuola dove aveva segnato i punti “migliori” per entrare. Inoltre, sono stai trovati dettagli relativi ad un’altra possibile scuola dove forse si sarebbe recata se non fosse stata uccisa dagli agenti intervenuti sul luogo, oppure, un’altra ipotesi è che si tratterebbe di un bersaglio alternativo scartato perché la scuola attaccata aveva minori misure di sicurezza.

Qualcosa di brutto sta per accadere. Sentirai parlare di me quando sarò morto. Questo è un messaggio di addio. Ci vedremo in un’altra vita.

Queste sono le ultime parole di Hale ad una sua ex compagna di basket.

Le dichiarazioni del Presidente Biden

Il Presidente Biden è stato fortemente criticato per una battuta detta durante la sua prima apparizione pubblica a seguito della strage, all’inizio di un vertice sulle imprese femminili.

«Mi chiamo Joe Biden. Sono il marito della Dott.ssa Jill. Mangio il gelato Jeni’s con gocce di cioccolato. Sono sceso perché ho sentito che c’era il gelato con le gocce di cioccolato. A proposito, ne ho un frigorifero pieno al piano di sopra. Pensate che stia scherzando? Non è così». Ha affermato tra le risate del pubblico. Dichiarazioni ritenute inopportune in un momento come quello.

Il Presidente americano Joe Biden si è poi espresso su quanto accaduto.

È straziante, il peggior incubo di una famiglia. Dobbiamo fare di più contro la violenza di armi da fuoco. Sta facendo a pezzi le nostre comunità. Sta lacerando l’anima stessa della nazione. Dobbiamo fare di più per proteggere le scuole affinché non diventino prigioni.

Anche la First Lady ha invitato ad alzarsi e a stare in preghiera con Nashville.

Biden ha, inoltre, invitato il Congresso ad approvare il divieto di armi d’assalto e ordinato che vengano messe bandiere a mezz’asta alla Casa Bianca e in tutti gli edifici pubblici fino al 31 marzo in onore e memoria delle vittima della strage.

Di seguito il discorso del Presidente Biden:

Le armi d’assalto, come il fucile utilizzato da Hale, sono le armi più utilizzate nelle stragi di massa. I democratici quindi spingono per il divieto e per norme più stringenti, attente e puntuali sui controlli. I repubblicani, in gran parte contrari all’approvazione di una legislazione di controllo sulle armi, hanno puntato il dito contro la comunità Lgbtq+.

«Visto il numero crescente di trans e non binari che compiono sparatorie di massa, invece di parlare armi non sarebbe meglio parlare di questi lunatici che spingono la loro riaffermazione di genere sui nostri figli?» ha postato su Twitter il figlio di Donald Trump.

Anche Marjorie Taylor Greene si è espressa con lo stesso tono sulla strage.

Quanti ormoni come il testosterone prendeva la killer di Nashville? Tutti dovrebbero smetterla ora di prendersela con le armi. La donna che ha sparato a Nashville si identificava come un uomo. Quindi dovremmo ancora puntare il dito contro gli uomini bianchi?

La portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre, riportando il focus sulla questione, ha dichiarato:

Le scuole dovrebbero essere luoghi sicuri dove imparare e insegnare. Quando è troppo è troppo: il Congresso deve agire contro la violenza delle armi da fuoco. Quanti bimbi devono ancora morire prima di agire?.

 

Marta Zanghì

Donald Trump in arresto? A rischio le Presidenziali 2024

Sabato mattina, attraverso un post pubblicato sul social Truth, Donald Trump ha annunciato di essere stato incriminato dal Gran Giurì di Manhattan con accuse relative ad accordi finanziari presi con la pornostar Stormy Daniels, in seguito a rapporti intimi avvenuti tra i due.

Nel post di Trump si legge che: «Il primo candidato Repubblicano ed ex Presidente degli Stati Uniti d’America sarà arrestato martedì della prossima settimana. Protesta, riprenditi la nostra Nazione!»

Dal tono utilizzato si evince che Donald Trump voglia utilizzare il suo arresto per alimentare la narrazione secondo la quale sarebbe un martire delle élite; strategia di cui ha già fatto uso quando l‘FBI ha prelevato dei documenti riservati nella sua villa in Florida o quando è ha subìto la procedura di impeachment dal Congresso americano. Allo stesso tempo, il fatto che abbia spinto i suoi supporter «TO TAKE OUR NATION BACK», a riprendersi la nazione, sottolinea la volontà di ricordare gli eventi di Capitol Hill, quando ha convinto migliaia di persone che la democrazia americana fosse vittima di un colpo di stato, alimentando un’insurrezione nel cuore delle istituzioni politiche americane.

Chi è un Gran Giurì?

Il pubblico ministero americano istituisce tipicamente un Gran Giurì per determinare se sussistano abbastanza elementi per proseguire con un procedimento giudiziario. Egli deve, in termini legali, stabilire se vi sia una causa probabile per stabilire che sia stato commesso un reato. Nel fare ciò, detiene poteri investigativi: può citare persone in giudizio o consegnare la documentazione relativa al caso; egli può anche interrogare i testimoni, ai quali non è consentito avere avvocati presenti. In questo caso, il Gran giurì è Alvin Bragg.

La storia tra Trump e Stormy Daniels

Trump e Daniels si sono conosciuti durante un torneo di golf per celebrità in Nevada nel 2006, quando lui aveva 60 anni e lei 27. Dopo aver cenato e parlato, Daniels sostiene che abbiano passato la notte insieme (cosa smentita da Trump), poiché Trump le avrebbe garantito la partecipazione al programma The Apprentice, di cui era conduttore e produttore. Sempre secondo Daniels, i due si incontrarono altre volte senza intrattenere rapporti sessuali.

Daniels ha tentato più volte di vendere la sua storia ai giornali, soprattutto in virtù del fatto che lui le abbia promesso un’apparizione televisiva in cambio di un rapporto sessuale senza poi rispettare la “promessa”.

Con la decisione di candidarsi per la Casa Bianca, Trump cercò di tutelarsi da accuse del genere e lo fece attraverso David Pecker, suo amico e direttore del giornale di gossip National Enquirer. Pecker cominciò a pubblicare articoli che potessero migliorare la reputazione di Trump affossando, invece, storie potenzialmente dannose.

Micheal Cohen parla alla stampa sito: Il post Fotografo : Mary Altaffer

La falsificazione dei documenti aziendali

Nel 2016, subito dopo la pubblicazione da parte del Washington Post di un audio in cui Trump fa commenti molto volgari, Daniels tentò nuovamente di raccontare la sua storia, visto l’atmosfera a lei favorevole. In questo caso Pecker mise direttamente in collegamento l’avvocato di Trump (Cohen, responsabile per la risoluzione di problematiche del genere) e quello di Daniels (Davidson).

I due legali raggiunsero un accordo con Trump, che avrebbe pagato 130 mila dollari in cambio del silenzio di Daniels sul loro rapporto sessuale. Affinché il pagamento non risultasse nei rendiconti della Trump Organization, Cohen decise di effettuare il pagamento direttamente dal suo conto, come confessato durante una testimonianza del 2018. La Trump Organization decise di rimborsare Cohen, registrando il pagamento come consulenza legale.

La vicenda potrebbe portare conseguenze gravi per Trump, se la procura riuscisse a dimostrare che la falsificazione dei documenti aziendali avvenne per nascondere anche altri reati, come – per esempio – una violazione della legge che regola i finanziamenti alle campagne elettorali. In questo caso Trump rischierebbe fino a 4 anni di carcere.

Se giudicato colpevole, potrebbe ancora candidarsi per la presidenza?

Teoricamente, nessuna legge americana impedirebbe ad un candidato riconosciuto colpevole di un crimine di fare campagna elettorale e servire come Presidente. Tuttavia, l’arresto complicherebbe la sua campagna presidenziale: potrebbe avvicinare a Trump dei nuovi supporter in difesa del loro eroe sconfitto e contemporaneamente venir utilizzato dagli avversari politici per screditare la candidatura.

Giuseppe Calì

Wnba, Brittney Griner tornerà in campo dopo 10 mesi di prigionia

La cestista americana Brittney Griner tornerà a vestire la maglia dei Phoenix Mercury (squadra della WNBA, ovvero la più importante lega professionistica statunitense di basket femminile) già nel 2023, come annunciato dalla franchigia lo scorso martedì. Lo afferma la stessa Griner nel suo primo post Instagram dopo dieci mesi di prigionia in Russia, sottolineando la volontà di tornare il prima possibile in campo con la sua squadra. Desiderio esaudito: il 21 Maggio farà parte dei Phoenix Mercury nella prima partita della stagione contro i Chicago Sky.

Credo che nessuno di noi dimenticherà dove eravamo l’8 dicembre quando abbiamo sentito che BG stava tornando a casa o il 15 dicembre quando ha annunciato che intendeva non solo giocare a basket nel 2023, ma che sarebbe stato per il Mercury. E so che nessuno di noi dimenticherà mai come ci si sente a darle il bentornato sul pavimento di casa il 21 maggio.

Ha affermato il presidente delle Mercury Vince Kozar.

È un grande giorno per tutti noi annunciare che Brittney Griner ha ufficialmente firmato per suonare per i Mercury nel 2023. Ci mancava BG ogni giorno che se n’era andata e, mentre il basket non era la nostra preoccupazione principale, la sua presenza sul pavimento, nel nostro spogliatoio, intorno alla nostra organizzazione e all’interno della nostra comunità ci mancava molto.

Queste, invece, le parole del direttore generale Jim Pitman.

Chi è Brittney Griner

Brittney Griner ha 32 anni e si è affermata come una delle più forti giocatrici di basket di tutti i tempi. Prima scelta al draft (il sistema tramite il quale gli atleti dello sport americano approdano nello sport professionistico) del 2013, partecipa otto volte all’All-star game (la partita tra le stelle della Wnba che si svolge ogni anno); per due volte è stata la migliore realizzatrice della Wnba e per altrettante ottiene il premio come migliore difenditrice dell’anno.

È stata, inoltre, campionessa olimpica per due volte con la nazionale femminile di pallacanestro, nel 2016 a Rio de Janeiro e nel 2020 a Tokyo.

Griner ha raggiunto per due volte le finals Wnba con la sua squadra, vincendo il titolo nel 2014. La sua ultima apparizione sul più importante palcoscenico Wnba coincide con la sua ultima presenza sportiva prima della prigionia, nel 2021.

Brittney Griner in un tribunale di Mosca. Fonte: Il Post. Fotografo: Alexander Zemlianichenko

La carriera in Russia e l’arresto

La vicenda giudiziaria ha inizio nel febbraio del 2022, quando una volta atterrata all’aeroporto di Mosca-Šeremet’evo, dei cani antidroga annusano la presenza di narcotici nel bagaglio dell’atleta. La polizia rinviene nello zaino cartucce per un vaporizzatore che contenevano olio di hashish, sostanze illegali in Russia.

La cestista si trovava in Russia perché atleta dal 2015 dell’Ekaterinburg, squadra rappresentatrice della omonima città degli urali. Sono molte le giocatrici professioniste di basket americano che nei mesi invernali (quando non sono impegnate con la Wnba) decidono di legarsi professionalmente oltreoceano, attirate dagli stipendi che possono raggiungere il milione di euro (di gran lunga superiori agli standard Wnba).

Una vicenda dai sospetti fini politici

Secondo molti esperti statunitensi, l’arresto della Griner ha forti connotati politici ed è legato alle tensioni tra Russia ed i paesi occidentali dovute alla guerra in Ucraina.  Infatti, l’arresto è avvenuto una settimana prima dell’invasione russa del 24 febbraio scorso.

Da quel momento, la cestista è stata tenuta prigioniera per detenzione preventiva fino ad agosto, quando è stata condannata a 9 anni per contrabbando di droga. Nel novembre del 2022 è stata trasferita in una colonia penale russa, dove era costretta ai lavori forzati, fino alla sua liberazione avvenuta il 9 dicembre.

Sin dall’inizio, lo scambio di prigionieri rappresentava l’unica soluzione palese per porre fine alla detenzione. Dopo mesi di trattative, lo scambio avviene ad Abu Dhabi, con gli Stati Uniti che liberano Victor Bout, il trafficante di armi internazionali tristemente noto con lo pseudonimo di “Mercante della morte”. Ad annunciare l’operazione, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden.

Un lieto fine che è stato raggiunto anche per mezzo della grande attenzione mediatica creata dalla sua squadra, da sua moglie e dai giocatori Nba. Un esempio ne sono i giocatori dei Boston Celtics che hanno indossato una maglietta con su scritto “I AM BG” il 4 giugno 2022.

Giuseppe Calì

USA, dubbi amari e tensioni sui “palloni-spia” cinesi

USA e Cina hanno ravvivato le tensioni reciproche. Le insolite “escursioni” di due “palloni-spia” di provenienza asiatica sul territorio statunitense, e nelle sue prossimità, hanno schiuso dubbi piuttosto amari. Per quale motivo degli strumenti d’analisi bellica hanno sorvolato i cieli americani? Perché il loro passaggio è stato così manifesto e spudorato? Che tutto sia propedeutico alla valutazione di uno sconfinamento cinese verso Taiwan? Di seguito una panoramica delle vicende con i loro dettagli controversi.

USA, il percorso dei “palloni-spia”

Riporta le informazioni Rainews. Il Pentagono ha annunciato di aver notato un primo “pallone-spia” (pallone aerostatico) sorvolare gli Stati Uniti lo scorso martedì, e che da allora ne ha monitorato gli spostamenti. Il suddetto oggetto avrebbe percorso le isole Aleutine (in Alaska), il Canada e infine il Montana.

Dato che in quest’ultimo spazio il governo statunitense possiede alcune delle sue centrali nucleari e dato che lo strumento è apparso attrezzato per raccogliere informazioni di genere militare, la presenza è stata immediatamente indagata con sospetto dalla parte violata. Così anche il Presidente Joe Biden si è interessato direttamente della questione.

Un secondo “pallone-spia” è stato ravvisato un giorno più tardi nei cieli sudamericani. Di questo si è detto che non fosse diretto verso il territorio statunitense, ma solo in transito su quello latinoamericano.

Pallone-spia
Pallone-spia. Fonte: Corriere della sera

Le (dure) reazioni di Washington

Il Presidente, apprese le notizie, ha richiesto l’abbattimento dei due palloni con veemenza. A primo impatto, valutando pericolosa la mossa, la Difesa ha deciso di attendere: i detriti dei palloni avrebbero potuto danneggiare i civili a terra. Il primo pallone è stato quindi distrutto una volta giunto sulle vie dell’Oceano Atlantico e ora i sui resti sono sotto l’analisi di alcuni esperti; il secondo pallone scorrazza ancora integro.

Parallelamente, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha deciso di rinviare la sua visita in Cina, prevista per ieri. Blinken ha posto una peso sulla questione affermando che la priorità fosse «allontanare il pallone-spia dai cieli Usa». Successivamente ha comunque rassicurato di aver rimandato il bilaterale a un momento in cui vi sarebbero state «le condizioni per una visita».

Il messaggio dell’amministrazione Biden è stato perentorio: nessuno crede che la sonda cinese sia stata inviata in buona fede.

La difesa-offesa di Pechino

La Cina si è dapprincipio difesa facendo trapelare che il presunto «pallone spia» avvistato fosse in verità un «aeromobile civile» usato per «ricerche meteorologiche e scientifiche». A detta del ministero degli Esteri di Pechino, tale “aeromobile civile” sarebbe giunto nell’estremo occidente a causa di forti venti imprevisti. Per questo, il ministero ha subito dichiarato rammaricazione «per il suo ingresso involontario nello spazio aereo statunitense per cause di forza maggiore».

Dopo le (dure) reazioni di Washington, però, anche Pechino ha scelto di cambiare il registro del dialogo.

La Cina ha alzato i toni, esprimendo «la sua forte insoddisfazione e protesta contro l’abbattimento del suo dirigibile civile senza pilota». Poi aggiungendo, tramite una nota del ministero degli Esteri, che la parte americana avrebbe insistito «nell’usare la forza, ovviamente reagendo in modo eccessivo e violando gravemente la prassi internazionale» malgrado non ci fossero i requisiti di pericolo e l’affermato “uso civile del dirigibile.

Ora la Cina «salvaguarderà risolutamente diritti e interessi legittimi delle società interessate, riservandosi il diritto di effettuare ulteriori reazioni necessarie». Una sigla guerrigliera che apre a scoraggianti scenari.

Bandiera della Cina
Bandiera della Cina. Fonte: Cina in Italia

USA e Cina, gli elementi di contesa

Il principale tema di tensione tra USA e Cina è probabilmente la questione dell’isola di Taiwan.
Gli equilibri hanno subito un brutto colpo lo scorso agosto, con la visita di Nancy Pelosi all’isola, attraverso cui gli USA hanno confermato il sostegno all’idea d’indipendenza taiwanese.

La visita è stata giudicata da Pechino come «una grave violazione della sovranità e dell’integrità territoriale della Cina», e ha portato a crescenti tensioni militari nei pressi di Taiwan.

Altro motivo rilevante di disputa è il rapporto indefinito che la Cina ha con la Russia. La plurivocità di Pechino infastidisce notevolmente l’alleanza Nato.

A fronte di tutto ciò, si può pensare che la Cina voglia scandagliare l’arsenale USA per avere migliore contezza del suo potenziale militare, o che voglia punzecchiare la Federazione per cambiare, inasprendoli, i rapporti. Un passo falso di Biden potrebbe diventare un espediente azionante Jinping, e chissà se addirittura l’occasione per aggredire una regione ideologicamente contesa.

 

Gabriele Nostro

La morte dell’afroamericano Tyre Nichols, colpevoli 5 agenti di polizia

Il ventinovenne Tyre Nichols è l’ennesimo membro della comunità afroamericana a pagare con la propria vita gli effetti di una sconcertante cultura di disumanizzazione delle persone di colore che continua ad imperversare tra le forze dell’ordine in negli Stati Uniti. Dopo le innumerevoli battaglie civili sostenute, e a quasi 3 anni dall’omicidio di George Floyd, si apre così un nuovo capitolo nel dibattito su polizia e razzismo.
La triste novità è data dal fatto che il giovane padre afroamericano è stato picchiato a morte da una pattuglia composta da cinque agenti di polizia tutti di colore, accusati di omicidio di secondo grado dopo che la città ha rilasciato i filmati incriminanti del tragico episodio.

I membri della famiglia e diversi attivisti hanno tenuto una manifestazione per Tyre Nichols la scorsa settimana al National Civil Rights Museum di Memphis. Fonte: Nytimes.com

I video brutali dei 5 agenti

Tyre Nichols era stato fermato dai poliziotti per un controllo serale dopo avere commesso una violazione del codice stradale, morendo tre giorni dopo in ospedale, a causa degli “abusi fisici” che il capo della polizia di Memphis – una donna afroamericana – ha definito “atroci, sconsiderati e disumani”.

In effetti venerdì scorso, la città di Memphis ha pubblicato un video che mostra gli agenti prendere a pugni, calci e usare un manganello per picchiare il signor Nichols mentre questi li implora di fermarsi. Quasi un’ora di filmato che, compilato dalla polizia e dalle telecamere di strada, mostra parte di un ingorgo stradale, Nichols che fugge, l’inseguimento e infine gli agenti che lo picchiano. La polizia di Memphis ha detto in una sua dichiarazione iniziale che c’è stato uno “scontro” quando gli agenti di polizia hanno fermato l’auto in fuga di Nichols, e “un altro scontro” successivamente, quando lo hanno arrestato. Scontri che, secondo i risultati preliminari (rilasciati dagli avvocati della famiglia di Nichols) di un’autopsia indipendente, hanno provocato alla vittima “un’emorragia estesa causata da un duro pestaggio”.

Fonte: Gazzetta del Sud

L’assalto da parte di afroamericani – e non di agenti bianchi – contro un membro della loro stessa comunità è la “prova che questa violenza è qualcosa di più profondo e difficile da estirpare nella cultura della polizia”, hanno commentato i pastori di diverse chiese evangeliche afroamericane. E non può esistere alcun tipo di parentela immaginaria che possa restituire una benché minima umanità a dei carnefici addestrati a vedere le vite dei neri come completamente prive di valore.

Anche il presidente degli Stati Uniti Biden si è detto “indignato e profondamente addolorato nel vedere l’orribile video del pestaggio” e ha invitato il Congresso a votare la legge George Floyd sulla responsabilità delle forze di polizia, bloccata da mesi dai senatori repubblicani.

Il George Floyd Justice in Policing Act

La legge di riforma della polizia americana, ancora in esame al Congresso, prende il nome da George Floyd, l’uomo afroamericano ucciso da un agente di polizia il 25 maggio 2020. Questa legge cambierebbe in modo significativo l’attuale modello di polizia statunitense e si aprirebbe maggiormente verso le comunità etniche e il riconoscimento dei diritti civili: un progetto articolato di misure che si propone di contrastare quello che lo stesso presidente Biden ha condannato come “razzismo sistemico”, difficile da sradicare nella società americana, dove ancora prevalgono logiche di esclusione nei confronti delle comunità afroamericane, asiatiche, ispaniche e indo americane.

La seguente riforma è accompagnata da dibattiti di lunga data che coinvolgono profili di diritto penale e sociologia della sicurezza, per lo più incentrati sulla modifica della dottrina dell’immunità qualificata. Le norme sono quindi destinate a disciplinare specifiche rilevazioni sugli standard operativi dei controlli di polizia e a prevedere attività di inchiesta sistematiche condotte dai Prosecutor e dalla Divisione per i diritti civili del Dipartimento di Giustizia. Sono state inoltre predisposte linee guida sulle attività formative con meccanismi di consultazione con i rappresentanti dei movimenti dei diritti civili molto attivi e presenti nella società americana.

Sciolta l’unità speciale

I cinque agenti accusati facevano tutti parte dell’unità specializzata “Scorpion“, che il dipartimento di polizia di Memphis ha dichiarato di aver sciolto sabato, in seguito alle continue sollecitazioni della famiglia di Nichols e degli attivisti cittadini.

I cinque agenti coinvolti nel pestaggio. Fonte: Nytimes,com

L’unità, il cui nome intero è “Operazione sui crimini di strada per ripristinare la pace nei nostri quartieri”, era stata creata poco più di un anno fa per contrastare un’ondata di violenza in città (il tasso di omicidi era in aumento), ed era già molto disprezzata tra le comunità marginalizzate di Memphis anche prima della morte di Nichols.

In una dichiarazione di sabato il dipartimento di polizia ha detto: “mentre le azioni atroci di pochi gettano una nuvola di disonore sull’unità, è imperativo che noi, il dipartimento di polizia di Memphis, adottiamo misure proattive nel processo di guarigione per tutte le persone colpite”.

Diffondere video non basta

Quello che è successo a Nichols viene in questi giorni mostrato al mondo intero in un video destinato ad alimentare il dibattito sulla brutalità della polizia, scatenando polemiche e indignazione sull’ennesimo episodio di furia insensata. Ci si chiede se è davvero questo il modo di porre fine alla violenza razziale, attribuendo un ulteriore fardello di prove video alla comunità discriminata, condannata a subire l’umiliazione di vedere i propri momenti di morte trasmessi ad una società che, talmente abituata a vedere immagini violente, gli è quasi del tutto indifferente.

Dal 1980 ad oggi sono oltre 17.000 le morti causate “accidentalmente” dalla polizia: tra i numeri figurerà adesso anche quella di Tyre Nichols, il cui nome si affianca pure nelle pagine di storia della città di Memphis a quello di Larry Payne, un sedicenne ucciso per aver partecipato ad uno sciopero nel marzo del 1968, e di Martin Luther King, il più visibile leader del movimento per i diritti degli afroamericani e assassinato da un colpo di fucile di un criminale il 4 aprile dello stesso anno.

Perché riportare il semplice fatto di questi incidenti continua a non essere sufficiente per porre fine alle violenze? Perché tutti gli anni trascorsi a guardare tali filmati si sono dimostrati insufficienti a spingere i legislatori verso un’azione reale? È evidente che sono necessari cambiamenti nelle politiche e nelle procedure delle forze dell’ordine in modo che nessun altro debba sperimentare ciò che sta attraversando la famiglia di Nichols oggi.

Gaia Cautela

Cosa sta succedendo nello Yemen, un Paese dimenticato da tutti

Sullo sfondo del conflitto Russo-Ucraino, il concetto di guerra si è insinuato – dirompente come non accadeva da decenni – nell’immaginario comune. L’uomo realizza che la guerra è parte integrante della sua natura, deludendo ogni aspettativa sulla sua limitata localizzazione nel tempo e nello spazio.
Eppure, così come l’attuale guerra in Etiopia, in Tigray, quella yemenita è un tristissimo esempio del famoso adagio “Due pesi e due misure”: 7 lunghi anni di ostilità e scontri violenti nell’area mediorientale, territorio strategico per eccellenza incastonato tra l’Oman e l’Arabia Saudita, sono finiti nel dimenticatoio degli impotenti osservatori e volutamente ignorati dai potenti.

Lo Yemen protagonista di tre crisi nel mezzo di una guerra civile fuori controllo. Fonte: European Affairs Magazine

Dal 2015 in poi (anno ufficiale di inizio del conflitto) lo Yemen ha continuato ad essere un Paese privo di controllo, nonché teatro di un terribile scontro di interessi che vede contrapposti le milizie della minoranza sciita degli Houthi – governante il nord del paese – e l’esercito del legittimo governo in esilio.
Stiamo parlando di quella che l’ONU ha definito come la peggiore catastrofe umanitaria in corso, con oltre 380 mila vittime e 4 milioni di sfollati interni; dove oltre 20 milioni di persone (circa il 70% della popolazione) sopravvivono solamente grazie all’assistenza sanitaria di organizzazioni ed iniziative umanitarie, i cui fondi però non sono mai abbastanza. Ma la cosa più grave è che più della metà degli innocenti colpiti da tale flagello è rappresentata da bambini.

L’origine del conflitto

Lo Yemen è uno dei più antichi luoghi abitati del pianeta, una nazione dalla bellezza paesaggistica sfaccettata, con canyon, deserti, oasi, e lunghe coste incontaminate. Al posto dell’attuale origine semitica del nome odierno, gli antichi romani si riferivano alle regioni più meridionali della penisola arabica con il termine Arabia Felix (Arabia Felice), un’area ricca di spezie, incensi e snodo di scambi commerciali con Africa e India. Tuttavia, considerando quello che accade oggi in Yemen, il termine Felix è decisamente surreale e anacronistico.

Fonte: Documentazione.info

Il conflitto yemenita ha radici relativamente lontane, le quali diventano significativamente serie già a partire dai primi anni ’90, quando nella regione nord-occidentale del Paese, tra Sa’das e la capitale Sana’a, si andò formando un’organizzazione che in origine era più che altro una setta religiosa fondata dal clerico zaidita Hussein al-Houthi. In quanto zaidita sciita, Hussein era molto vicino ideologicamente e politicamente all’Iran e intesseva ottime relazioni con il leader supremo persiano, Ali Khamenei, così come anche l’altra realtà sciita in Medio Oriente, la libanese Hezbollah.

Il movimento di Hussein – inizialmente chiamato “la Gioventù Credente” – ha subito in seguito una radicalizzazione dovuta all’inasprirsi dei rapporti con il governo centrale, pertanto ora definendosi “Ansar Allah” (letteralmente i “partigiani di Dio”), altresì noti con il termine di Houthi. Nel 2014 il movimento ribelle degli Houthi prese il controllo della provincia settentrionale di Sa’ada e delle aree limitrofe, continuando ad attaccare e arrivando a prendere persino la capitale Sana’a, costringendo l’attuale presidente yemenita Hadi all’esilio.

Gruppo di Houthi ribelli. Fonte: The Defense Post

Si tratta quindi di una guerra indiretta tra i rivali regionali Arabia Saudita e Iran (che sostengono rispettivamente il governo riconosciuto e gli Houthi), ma anche la competizione nel fronte anti-houthi fra gruppi e milizie sostenute dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti (es. i secessionisti del Sud).

Chi è Hadi?

Abd Rabbih Mansour Hadi è un politico yemenita, entrato nell’esercito all’inizio degli anni ’70 e schieratosi inizialmente contro gli Houthi al fianco dello storico presidente Ali Abdallah Saleh, che per più di trent’anni era rimasto ai vertici di uno dei regimi più longevi della regione e alla guida di un Paese lacerato da guerre e carestia. Quest’ultimo ha scelto Hadi come vicepresidente dopo la guerra civile scoppiata nel 1994 a causa di un tentativo di golpe da parte di militari e politici di fede marxista, con l’obiettivo di realizzare la secessione del Sud e ricostituire un nuovo governo indipendente (come la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen del Sud del 1967).

Il presidente Hadi. Fonte: Agenzia Nova

Quando il 27 febbraio 2011 Saleh si dimise, Hadi si insediò formalmente alla presidenza della Repubblica, tentando in extremis un accordo con gli Houthi, per una condivisione del potere, concedendo loro una riforma istituzionale che gli avrebbe fatto acquisire un maggior peso politico e modificando l’assetto del paese in sei regioni federali. Gli Houthi, però, si dichiararono insoddisfatti delle proposte e, irritati dell’annunciata decisione governativa di un taglio ai sussidi, nel mese di gennaio 2015, guidati dal generale Abdul-Hafez al-Saqqaf, attuarono un colpo di stato, invocando le dimissioni di Hadi; a questo si aggiungeva la generale crisi economica e sociale del paese – già allora il più povero del mondo arabo – afflitto da gravissimi problemi come disoccupazione e inflazione alle stelle.

Hadi è da anni in esilio in Arabia Saudita e all’età di 77 anni, non godendo di buona salute, ai primi di aprile 2022, ha lasciato i poteri al Consiglio presidenziale, nella speranza di avviare una fase di transizione, accolta con favore da sauditi ed emiratini, che hanno annunciato nuovi aiuti finanziari per la ricostruzione.

Il vero motivo del coinvolgimento di Arabia Saudita

Emirati Arabi Uniti (EAU) e Arabia Saudita hanno, senza ombra di dubbio, contribuito in maniera decisiva alla frammentazione del Sud e del Nord del Paese, cooperando con alcuni alleati nella regione invasa per mantenere la legittimità del governo del presidente Hadi, l’unico riconosciuto a livello internazionale. Ma al di là della questione ufficiale, le vere motivazioni per l’intervento saudita in Yemen erano molte: l’Arabia condivide un confine di migliaia di chilometri con una nazione sull’orlo della guerra civile; una nazione dove chi rischiava di finire al potere era un clan sciita, alleato dell’Iran. E uno Yemen in mano agli Houthi avrebbe significato per i sauditi la rovina: isolamento totale, blocco dello stretto di Bab el-Mandeb oltre a quello di Hormuz e (punti strategici di traffico navale) e addio ai miliardi di barili esportati nel mondo. Niente export, niente petrodollari; niente soldi, niente potere. Ed ecco che l’incubo in versione Yemen – ma più esteso –sarebbe potuto diventare realtà dell’Arabia Saudita.

Il presidente Hadi con il principe saudita bin Salman. Fonte: la Repubblica

L’invio di armi USA e italiane

È intuibile che una guerra che va avanti da anni non potrebbe fare altrimenti senza il coinvolgimento di grandi protagonisti della scacchiera mondiale quali USA e Italia, vergognosamente responsabili dell’invio costante di armi. Chiaramente le denunce alle principali aziende produttrici di armi non sono mancate, ma ciò non decolpevolizza il governo italiano, che secondo l’Osservatorio dei Diritti nel primo semestre 2020 avrebbe inviato armi a sauditi ed emiratini (tra pistole e fucili semiautomatici) per un valore di 5,3 milioni di euro. Senza contare poi le bombe. A gennaio 2021 l’export è stato fortunatamente bloccato dal governo italiano. E ancora, Amnesty International nel 2018, titolava, riprendendo un articolo del Washington Post:

“Gli Stati Uniti non dovrebbero prendere parte ai crimini di guerra in Yemen”.

Il riferimento non era soltanto alla vendita di armi, ma anche all’invio di mercenari attraverso la compagnia militare privata Academi, un tempo nota come Blackwater.

Una pace più che necessaria

Di fronte a tali fatti, diviene quasi superfluo sottolineare l’esasperazione di una popolazione yemenita segnata da anni di sofferenze e privazioni: niente elettricità o acqua potabile, e quindi epidemia di colera; niente carburante per le auto e prezzi del cibo irraggiungibili per il cittadino comune, alcuni dei quali sono arrivati al punto – stando a quanto riportato da Al Jazeera da vendere letteralmente un rene al prezzo di 5-10,000$. Organi che poi sono rivenduti a clienti benestanti degli altri paesi del golfo a prezzi esorbitanti (anche 100,000$):

“La gente che ha un po’ di soldi tira avanti, ma gli altri non hanno nulla, quelli come me non riescono ad avere nemmeno il pane”, ha detto uno dei milioni yemeniti in stato di miseria.

I bambini, in Yemen, non possono andare a scuola. Fonte: Piccole Note

Pacificare l’area è dunque di fondamentale importanza. Anzitutto ristorerebbe parzialmente la sicurezza dei traffici nel mar Rosso: si pensi solo al rischio del formarsi di nuovi Foreign Fighters di matrice integralista, che approfittino del conflitto per dare vita a nuove cellule terroristiche. Inoltre, una possibile ragione a favore della pace – se mai ci fosse bisogno di sottolinearlo – potrebbe discendere dal raffreddamento delle relazioni tra gli stati del Golfo (sauditi e emiratini) dovuta alle guerre ucraina e siriana: le due monarchie assolute, infatti, non hanno voluto assolutamente aderire alle sanzioni contro la Russia e di aumentare la propria produzione di greggio per compensare le mancate forniture di Mosca. Ma forse il beneficio più grande, che la fine di questa guerra avrebbe, è uno in particolare: la fine di una catastrofe senza pari, dopo sette anni di una guerra che però viene raramente menzionata dai media nostrani.
Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia, commentando il conflitto in Yemen, ha parlato di “Una vergogna internazionale” aggiungendo che:

“Quello che continua a succedere in Yemen, nel silenzio dei grandi decisori internazionali, è una vergogna che intacca il senso di umanità”.

Gaia Cautela

5 canzoni di maggior successo per i 50 anni di Eminem

Oggi compie gli anni un gigante del rap americano, ossia Eminem (al secolo Marshall Bruce Mathers III). Conosciuto anche dietro lo pseudonimo di Slim Shady, nasce a Detroit il 17 ottobre del 1972.

Nel corso della sua vita ha collezionato una serie di riconoscimenti, uno fra questi il premio Global Icon in occasione degli MTV Europe Music Awards nel 2013. In parallelo alla sua attività come rapper, Eminem si è affermato anche come produttore di album hip hop, producendo artisti attraverso la propria etichetta discografica, la Shady Records, fondata con il suo manager Paul Rosenberg. Ripercorriamo la sua carriera attraverso cinque sue canzoni che più hanno segnato il panorama musicale!

1) Lose Yourself (2002)

Non si può non cominciare da quella che è considerata a tutti gli effetti, la canzone più iconica della carriera di Shady. Estratta come singolo da Music from and Inspired by the Motion Picture 8 Mile, è stata la colonna sonora del film 8 Mile, basato sulla sua vita personale. Per 12 settimane rimase al primo posto nella classifica singoli di Billboard ed è stato anche al primo posto di varie classifiche mondiali.

Il testo è chiaramente la rappresentazione del personaggio che incarna il rapper, Jimmy “Rabbit” Smith Jr.

Nella prima strofa viene riassunta per buona parte la trama del film, mentre nelle altre due vengono descritti avvenimenti non presenti poiché probabilmente è ciò che accade nella vita di Rabbit/ Eminem dopo la storia raccontata in 8 Mile.

La canzone è un incoraggiamento a non abbattersi di fronte alle difficoltà della vita, continuando a perseguire i propri sogni anche quando ci sembrano impossibili da realizzare.

2) My Name Is (1999)

“Hi kids! Do you like violence?”

Altro singolo iconico, probabilmente il più dirompente nella carriera del rapper di Detroit, contenuto nell’album The Slim Shady LP che arrivò a vendere oltre 18 milioni di copie in tutto il mondo. Nel brano, Eminem si presenta con la maschera del suo alter ego Slim Shady, sputando in rima un insieme di frasi politicamente scorrette e oscenità, tratto essenziale del personaggio che ha costruito nel tempo, elemento ricorrente tra l’altro nei primi dischi della sua carriera.

A causa del carattere fortemente esplicito dei testi originari, la versione ufficiale del brano ha subito forti rimaneggiamenti. Il brano ha permesso al rapper di ottenere il il primo Grammy Awards nel 2000, vincendo nella categoria di Best Rap Solo Performance.

3) Stan (2000)

Uno dei brani più interessanti e al tempo stesso controversi, Stan è estratto dall’album The Marshall Mathers LP in cui il rapper, attraverso l’occhio di un fan accanito (di nome Stan appunto), riflette sull’attaccamento morboso di quest’ultimo nei suoi confronti. La canzone vanta la collaborazione della cantante Dido, che fornisce un valore aggiunto. Inoltre, la base in sottofondo è tratta da un campionamento di una canzone della stessa Dido, ossia Thank You.

Lo storytelling di Stan rappresenta ciò che accade spesso a moltissimi fan di un qualsiasi artista che – prima della fama -abbia vissuto situazioni di difficoltà simili a quelle dei suoi seguaci. I fan rimangono talmente ossessionati da tale figura poiché lo vedono come una sorta di punto di riferimento, che li porta a cercare di somigliare al proprio idolo il più possibile, toccando purtroppo il limite del patologico.

Grandiosa anche l’interpretazione di Eminem, che rappa con una voce più “giovanile” e nasale le strofe di Stan, mentre l’ultima strofa (in cui interpreta se stesso) è eseguita in maniera più naturale.

4) Not Afraid (2010)

Certamente Eminem lo ricordiamo per le controversie scatenate da molte sue canzoni (Kim, Without Me, Kill You, White America e molte altre), ma nel corso della propria carriera il rapper si è evoluto verso forme più introspettive e moderate rispetto agli esordi. Not Afraid, contenuta nell’album Recovery, rappresenta una vera e propria presa di posizione rivolta all’affrontare con coraggio questioni delicate, tra cui la terapia per contrastare la tossicodipendenza, di cui Shady era vittima.

Tra i propositi che più si evincono, vi è la promessa di rimanere fedele alla sua professione musicale perché – come lo dice lo stesso rapper – è “sposato con il gioco”. Egli esprime questo sentimento non solo in termini di continuare a fare musica in generale, ma anche canzoni che siano un autentico riflesso di chi è come individuo.

Tutto ciò lo vediamo nel video musicale, dove predominano momenti in cui l’artista cerca di fuggire dal suo passato e sul finale, finalmente, la rivalsa espressa attraverso un frame in cui il rapper guarda tutta la città dall’alto, vittorioso.

5) Rap God (2013)

 “Why be a king when you can be a God?”

Concludiamo questa disamina con Rap God, tratto da The Marshall Mathers LP2. Forse è la canzone in cui il rapper dà pieno sfogo della sua tecnica eseguendo barre intrise di punchline, rime e una serie di parole concatenate tra loro. Infatti, il brano è entrato nel Guinness dei primati con il maggior numero di parole pronunciate, ovvero 1.560  in 6 minuti e 4 secondi, con una media di 4,28 parole al secondo. Vanta anche un extrabeat in cui Eminem rappa 97 parole in 15 secondi.  
Insomma, tra successi e controversie, non potevamo che concludere con questa canzone per celebrare tutto il mostruoso talento del rapper più iconico degli anni 2000. Buon compleanno, Rap God!
Federico Ferrara

Inchiesta su Capitol Hill, i testimoni: Trump tentò un golpe grazie ai gruppi di estrema destra

Nel gennaio 2022 negli Stati Uniti è stata aperta un’inchiesta parlamentare per indagare sui fatti del 6 gennaio 2021, quando migliaia di persone hanno fatto irruzione a Capitol Hill, sede del Congresso. Dal 9 giugno sono iniziate le audizioni pubbliche utili a presentare i risultati dell’inchiesta. Quanto emerso dalla stessa potrebbe stupire: se, dapprima, si pensava che l’assalto fosse opera di un gruppo di seguaci della teoria QAnon, adesso si fa sempre più concreto il possibile coinvolgimento dell’ex Presidente Donald Trump in un vero e proprio tentativo di ribaltare i risultati delle Presidenziali 2020.

il presidente della Commissione istituita ad hoc Bennie Thompson, deputato democratico, ha detto chiaramente che l’assedio è stato «il punto culminante di un tentato golpe» e che «Donald Trump ha istigato la folla a marciare verso il Campidoglio per sovvertire la democrazia americana».

Donald Trump incitò i suoi fan a marciare sul Capitol

L’ex Presidente avrebbe addirittura aggredito un agente alla guida della limousine presidenziale afferrando il volante per tentare di raggiungere i manifestanti. Questo è quanto emerge dalla testimonianza di Cassidy Hutchinson, testimone chiave che ha lavorato per l’ex capo dello staff Mark Meadows.

(Cassidy Hutchinson. Jacquelyn Martin via AP Photo)

A tal proposito, i Servizi Segreti hanno rilasciato una dichiarazione in cui hanno affermato di «aver cooperato pienamente con la Commissione e che continueranno a farlo». Per questo – continuano – «abbiamo intenzione di rispondere formalmente alle nuove informazioni rivelate durante l’audizione non appena potranno accoglierci».

Non finisce qui: Trump sapeva che c’erano persone armate e con giubbotti anti proiettili al comizio che aveva organizzato il 6 gennaio, poco prima di incitare la folla dei suoi fan a marciare sul Capitol. Inoltre, chiese di rimuovere i «fottuti metal detector» al suo raduno, affermando che i suoi fan non gli avrebbero fatto del male.

Un altro dato emerso dalle audizioni consiste nel fatto che Trump era a conoscenza della regolarità dello svolgimento delle elezioni, per cui era stato invitato a non parlare più di “brogli” e “frodi elettorali”. L’ex procuratore generale William Barr ha aggiunto che se «davvero Trump crede in quelle cose, allora è completamente fuori dalla realtà». Anche la figlia Ivanka Trump ha fatto sapere di essere d’accordo con Barr.

Minacce all’ex vice Mike Pence

Emerge dalle audizioni un altro dato: la vita dell’ex vicepresidente Mike Pence potrebbe essersi trovata in grave pericolo nel periodo successivo alle Presidenziali. Infatti, quando si è rifiutato di dare seguito al piano sull’interruzione della certificazione dei voti del collegio elettorale (e quindi di ostacolare la salita di Biden), Trump avrebbe scatenato la folla contro di lui attraverso vari tweet pubblicati sia mentre gli assalitori stavano marciando verso il Campidoglio, sia quando erano già dentro.

(Gage Skidmore via Flickr)Un documento riservato dell’FBI, in cui vengono riportate le parole di un informatore all’interno dei Proud Boys (una milizia di estrema destra fondata nel 2016), ha rivelato che «se ne avessero avuto l’opportunità, i membri del gruppo avrebbero ucciso Mike Pence». Non sorprende che diversi manifestanti abbiano intonato cori inneggianti all’impiccagione di Pence.

Intimidazioni anche contro i testimoni

Al termine delle testimonianze, Liz Cheney, membro repubblicano della Camera dei Rappresentanti, ha presentato possibili prove di intimidazione dei testimoni e ostruzione alla giustizia.

Il Presidente vuole che ti faccia sapere che sta pensando a te. Sa che sei leale.

Sarebbe uno dei messaggi ricevuti dai testimoni.

Un precedente antidemocratico?

Nonostante l’attacco a Capitol Hill sia sventato, negli Stati Uniti si continua a temere per il destino dell’assetto costituzionale. Anche alla luce degli ultimi eventi, tra cui l’overturning della RoevsWade e la conseguente abrogazione della tutela costituzionale del diritto all’aborto, si inizia a pensare (in realtà, già da prima) che questa broken democracy rischi veramente di vivere una deriva autoritaria. Soprattutto, i timori riguardano la possibilità che, in assenza di punizioni reali per i membri dell’Ufficio Presidenziale che hanno provato a coprire il tutto o vi hanno addirittura partecipato, si possa creare un precedente antidemocratico destinato a ripetersi in futuro.

Che l’ex Presidente adesso indagato non abbia imparato molto dalla vicenda, lo si nota anche dalle sue ferme intenzioni di ripresentarsi alle prossime Presidenziali.

Immagine in evidenza: Tyler Merbler via Wikimedia Commons.

Valeria Bonaccorso

Russia in “default tecnico”: il Paese non potrà pagare le sue obbligazioni, ma non per una mancanza di soldi

La Russia è in default, da oggi, lunedì 27 giugno. Uno schiaffo morale al Paese e il suo leader, Vladimir Putin, ma, stando alle parole degli esperti, si tratta di un fatto simbolico, più che di un vero e proprio problema, almeno per ora. È stato, per questo, definito “default tecnico”.

La Banca Centrale russa a Mosca (fonte: ANSA)

I precedenti

Un altro avvenimento analogo, nella storia della Russia, si è verificò nel 1918, per la prima volta, quando il governo sovietico si rifiutò di ripagare le somme accumulate dagli zar.

Un altro default, ma interno, si registrò nel 1998, quando il rublo andò in crisi e la Federazione russa dovette dichiararsi inadempiente verso il debito interno. All’epoca, annunciò una moratoria sul rimborso del debito contratto con gli investitori esteri.

Quello attuale era stato annunciato già ieri sera, domenica 26 giugno, in corrispondenza della fine dei 30 giorni scattati il 27 maggio, un “periodo di grazia”, entro cui la Russia avrebbe dovuto pagare due bond. Alcuni avvocati sostengono, però, che il Paese abbia tempo fino alla fine del giorno lavorativo successivo, quindi fino a stasera, per pagare.

Il suddetto mancato pagamento corrisponde a 100 milioni di dollari di interessi sulle due obbligazioni – una in dollari e l’altra in euro – in scadenza nel 2026 e nel 2036, i due bond di cui sopra. Sostanzialmente, la Russia risulta inadempiente nei confronti dei suoi creditori e degli investitori che detengono le sue obbligazioni internazionali.

 

 

Mosca sostiene di aver già i pagamenti per cui è stata dichiarata inadempiente

Il Cremlino ha rilasciato dichiarazioni che preannunciano una probabile complicazione di tale situazione:

«Le accuse di default della Russia sono illegittime, il pagamento in valuta estera è stato effettuato a maggio».

Il ministro delle Finanze russo, Anton Siluanov, negli scorsi giorni si era già espresso in merito: «Chiunque può dichiarare quello che vuole e può provare ad attaccare alla Russia qualsiasi etichetta. Ma chiunque capisca la situazione sa che non si tratta in alcun modo di un default».

Dunque, la Russia nega l’inadempienza nei pagamenti per cui è stato dichiarato il default. Prima, però, bisogna chiarire le modalità in cui questo è scattato: il default tecnico non è dovuto alla mancanza di denaro da parte del debitore (la Russia), ma alla chiusura dei canali di trasferimento da parte dei creditori internazionali.

Mosca sostiene di aver sempre effettuato tutti i pagamenti a cui doveva adempiere, anche se, negli ultimi tempi, in rubli anziché nelle valute previste dai contratti, proprio per l’impossibilità di farlo. Da qui a fine anno, sui circa 40 miliardi di titoli denominati in valuta estera, circa 1 o 2 miliardi di dollari di pagamenti.

I mercati non hanno ancora ricevuto alcuna dichiarazione ufficiale, sulla nuova condizione per la potenza russa, ma, non avendo gli investitori esteri ricevuto le somme spettanti entro la scadenza prestabilita, il default è comunque scattato, appunto, tecnicamente.

Ma a chi compete decretare ufficialmente il fallimento di un qualsiasi Stato sovrano? Di solito sono le agenzie di rating maggiori. Il caso russo è unico nel suo genere, poiché le agenzie sono state impossibilitate a intrattenere rapporti con il Paese, per via delle sanzioni impostegli per aver scatenato il conflitto con l’Ucraina.

 

Un default “artificiale”, architettato dall’Occidente

Prima di arrivare a tal punto, era stato proposto alla Russia di emettere debito nominato in dollari, ma essa si rifiutò. Proprio la decisione degli Stati Uniti, di non rinnovare, successivamente alla suddetta proposta, la “licenza speciale” per cui, fino alla fine di maggio e nonostante le sanzioni già applicate, era concesso alla Russia di continuare come sempre a pagare le obbligazioni verso gli investitori americani, è stato determinante per la dichiarazione di default.

La Russia si era difesa con l’utilizzo di conti correnti doppi e la richiesta di pagamenti in rubli, per i titoli di Stato. In ogni caso, il Paese sostiene, non essendovi una reale impossibilità a procedere come finora ai pagamenti, per la gran disponibilità di denaro che comunque affluisce nelle sue casse, che questo sia un default “artificiale”, architettato dall’Occidente e legato alle sanzioni da esso imposte.

Essendo uno scenario mai verificatosi prima, quantomeno non nelle stesse modalità, ancora non si sa cosa possa accadere dopo, quali possano essere i risvolti per l’economia russa.

Potrebbe accadere che gli obbligazionisti verso cui Mosca è inadempiente potrebbero unirsi e formulare una dichiarazione congiunta oppure, al contrario, attendere per monitorare l’evoluzione del conflitto in Ucraina.

Attualmente il Paese non può, inoltre, chiedere dei prestiti internazionali. Però, pare non ne abbia bisogno, considerati i ricchi introiti per il gas e il petrolio. Si può prendere ad esempio che il Centro per la ricerca sull’energia e l’aria pulita, “Crea”, stima che la Russia abbia ricavato 70 miliardi di euro dalla vendita di petrolio e gas, soltanto nei primi 100 giorni dall’inizio della guerra

Comunque, non si hanno certezze su ciò che accadrà, la situazione risulta senza precedenti sin dalle sue premesse anomale: il default russo, infatti, comporterebbe l’esclusione per il Paese dai mercati finanziari in seguito alla perdita di fiducia per i mancati pagamenti, ma la Russia, di fatto, è già stata tagliata fuori dai rapporti con i Paesi occidentali per gli effetti delle sanzioni per la guerra.

Alcuni, sostengono che si debba attendere che un tribunale si esprima ufficialmente, su richiesta degli investitori, visto che nessun’altra dichiarazione, neanche dalle agenzie internazionali di rating, è arrivata.

 

Rita Bonaccurso